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Autore: Elphie94    11/10/2016    4 recensioni
«Devo essere pazza per seguirti. Secondo te lo sono?» gli chiesi con voce appena udibile oltre il flusso inondante dei miei pensieri.
Si voltò verso di me – nel buio, i suoi occhi erano come stelle sulla distanza.
«Mia cara, tu sei sana di mente quanto me.»

Meg è la figlia di Madame Giry, la migliore amica di Christine Daaé, un'anonima ballerina di fila. Quando il giornalista Gaston Leroux la rintraccia trent'anni dopo gli strani accadimenti dell'Opera Garnier, lei - vedova di un barone, senza figli - gli racconta la sua versione, in cui è finalmente protagonista. Insieme a un uomo che era diverso da tutti gli altri...
[Correntemente in fase di revisione.]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Erik/Il fantasma
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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xxviii.

il gioco del trono

 

 

 

Raggi di sole mi bagnarono il viso come rivoli d'acqua. Socchiusi gli occhi, sbattendo le palpebre. La luce filtrava dalla piccola finestra ad oblò accanto alla brandina. Mi rigirai e urtai un corpo duro.

«Oh.»

Erik dormiva placidamente al mio fianco, le lunghe gambe intrecciate e le mani sul petto. Il sole sanguinava sulla sua maschera, tracciando scie aranciate nella penombra del cantuccio che mi era stato destinato sulla nave del Sole Nero – così Darya mi aveva detto che si chiamava la compagnia mercenaria di suo marito.

Per un attimo, mi chiesi cosa diavolo ci facesse sulla mia brandina, poi rammentai.

Mi morsi un labbro, sentendo sulla lingua il sapore dell'acqua marina con cui mi ero lavata la sera prima. Il dolce canto di Erik mi aveva cullato, quella notte. Stargli così vicino era intossicante.

Con una vaga esitazione, gli scostai una ciocca di capelli neri dalla fronte. Lui stirò le labbra e mugolò qualcosa d'incomprensibile, aprendo con lentezza i suoi occhi dorati. Alla luce del sole, erano come incandescenti.

«Mmm.»

«Buongiorno.» Tentai un lieve sorriso.

«Buongiorno a te.» Lui si puntellò sui gomiti e si sollevò per guardarmi più da vicino. Cercava sul mio viso i segni dell'ennesima notte insonne, ma non ne trovò. Questo sembrò rassicurarlo.

«Come ti senti?» mi chiese con delicatezza.

«Meglio. Ho rimuginato un po', stanotte. Ho preso una risoluzione.»

«Davvero? E quale?»

«Lo vedrai. Hai dormito bene anche senza bara?»

«Divertente.»

Forse si accorse solo in quel momento che eravamo troppo vicini, perché arrossì – era evidente dallo spiacevole porpora sul collo e le orecchie – e arretrò. Potevo vedere ogni scaglia d'oro nei suoi occhi… Assomigliavano davvero a quelli di un gatto, ma erano di un color miele intenso, più scuro vicino all'iride.

«Come sta la ferita?»

Lui si grattò nel punto in cui avrebbe dovuto avere il naso. «Brucia solo un po'. Quel dottore da strapazzo dice che lascerà una cicatrice.» Distorse le labbra in una smorfia sarcastica. «Come se ci fosse bisogno di dirmelo.»

«Devi farti curare bene. Anche Monsieur Nadir è dello stesso parere.»

Lui annuì, sconfitto e anche alquanto stupito dalla nostra preoccupazione nei suoi confronti. «Come vuoi.»

«Per fortuna non si è infettata.»

«Un rischio scansato a malapena.»

Sospirai. «Avresti potuto rimetterci quella tua brutta pellaccia.»

«Lo so.»

Lui mi guardò con quei suoi occhi indecifrabili, e io sprofondai in un oceano dorato, anche solo per qualche istante. Non aveva paura di morire, no: lui aveva desiderato la morte, fino a poco tempo prima. E ora cosa restava della sua risoluzione?

Non avrei sopportato anche la sua perdita, lo sapevo come certi pensieri oscuri si annidano nell'antro del cuore e lì vi fanno rifugio; certi sussurri segreti nella conchiglia delle orecchie.

Vivi, Erik. Almeno per me. Ma questo non glielo dissi mai.

Sentimmo bussare alla porta e sobbalzammo. Erik si affrettò a scendere dalla brandina, quasi impaziente di allontanarsi da me.

«Meg, sei sveglia?» disse la voce familiare di Darya fuori della porta.

«Sì.»

Lei entrò senza indugio, e rimase di sasso nel vedere che non ero sola.

«Oh. Salve. Erik, giusto? Così mi pareva di aver inteso» fece, mentre il suo sguardo cristallino sfrecciava da lui a me in una domanda muta.

«Avete inteso bene, Madame» lui chinò il capo in un gesto lieve, in segno di rispetto. Si passò una mano tra i capelli, chiaramente imbarazzato dal silenzio che seguì a quelle parole. «Devo parlare col daroga.» Si dileguò oltre la porta, non senza prima aver rivolto a entrambe un educato cenno di saluto, che io ricambiai. Darya lo guardò andarsene con un'espressione perplessa sul bel volto scuro.

«Non immaginavo che dormiste insieme.» Mi guardò stranita, come a chiedersi che gusti avessi in materia di uomini.

«Cosa? Oh, no. No no no no no. Lui… abbiamo solo parlato un po', stanotte. Nessuno dei due riusciva a dormire. Siamo…» corrugai la fronte, in cerca della parola giusta, «… amici. Una sorta.»

«Ah, certo. Scusa se ti sono sembrata indiscreta.»

«Figurati.»

Darya continuò a guardare nella direzione in cui se n'era andato Erik.

«In Persia si narra ancora la leggenda dell'Angelo della Morte» disse in tono pensoso. «Rapido ed efferato, era. Sapeva essere spietato e misericordioso come solo un angelo può essere.» Posò su di me i suoi trasparenti occhi grigi. «Si dice che avesse una voce bellissima, anche se solo la famiglia reale l'aveva udito cantare. Non era un dono che lui offriva alle orecchie di tutti. É vero?»

Annuii lentamente. «Ha una voce… incantevole. Beh, a dir poco.»

«Mi piacerebbe sentire questa tanto decantata voce d'angelo» disse Darya, incrociando le braccia al petto.

Scrollai le spalle. «Magari riesco a convincerlo a cantare una serenata davanti a tutto l'equipaggio.»

Lei sorrise. «Sarebbe uno spettacolo da non perdere.»

«Oh, sicuro.»

«Potrei scommettere con Amir sulla possibilità che tu riesca a convincerlo sul serio.»

«Non ci sperare tanto» risposi con una smorfia. «Sa essere molto ostinato.»

«Voce d'angelo… e volto di demone. Questo tuo Erik è davvero un uomo singolare.»

«Non sai quanto, in effetti.»

Ella mi squadrò con curiosità, come a chiedersi cosa condividessi con un individuo del genere, tanto da permettergli di dormire al mio fianco. Il bello è che non le avrei saputo rispondere.

Col senno di poi, posso dire che l'amicizia che condividevamo era strana quanto lui era diverso da chiunque altro, di una diversità che era impressa sulla sua pelle come un crisma, una maledizione, e che non la lasciava più.

Ero forse maledetta anch'io? Non quanto lui, ma ci sono persone con la tragedia nel sangue, ed entrambi eravamo composti della stessa sostanza. Non so se avessimo un'anima, ma se così era, allora le nostre avevano un'affinità di sangue.

«Ho pensato molto a quanto mi hai detto ieri. Sulla scelta che ognuno di noi, donna o uomo che sia, deve compiere.»

Darya corrugò la fronte, attenta alle mie parole. «E…?»

Rovistai nel mio fardello, che tenevo in un mucchio di stracci dimenticati sul pavimento del mio cantuccio. Nascosta tra i miei vecchi abiti ormai rovinati dalle intemperie, c'era una daga affilata, appartenuta a Senza Nome. «Questa l'ho rubata all'uomo che ho ucciso» dissi con finta noncuranza, ma un brivido mi trapassò le piaghe delle dita ancora fasciate.

«Sarebbe stato più semplice con una pistola. Tutto è più semplice con una pistola.»

«A quello ci arriverò, ma dopo. Prima…» scagliai un'occhiata alla spada che Darya teneva appesa alla cintura, al fodero di pelle lucida, «… voglio un assaggio di quella.»

Darya distorse le labbra in un sorriso che avrebbe potuto apparire simile a un ghigno al riverbero aranciato del sole mattutino. «Vuoi imparare come si usa a dovere questo giocattolino? Attenta, potresti tagliarti.»

«Non mi taglierò» ribattei, decisa. «E poi, quanto difficile potrà essere? Li infilzi con la punta, ed è fatta.»

«Già. Quanto difficile potrà mai essere?» replicò Darya, riecheggiando le mie parole in un sogghigno che alle mie orecchie apparve quasi malinconico.

«Perché non chiedi al tuo amico daroga di aiutarti?»

«Non credo approverebbe. Tu, d'altra parte…»

«Perché vuoi imparare?»

«L'hai detto tu stessa. Tutti scelgono che arma usare nella propria vita, e io ho scelto la mia. Non voglio più sentirmi un peso per nessuno. Se verremo attaccati, voglio essere in grado di difendermi come tutti gli altri.»

Darya emise un lieve sospiro. «Capisco. Ma in un mese e mezzo circa, dubito che riuscirai a raggiungere un livello tale di esperienza da sentirti davvero al sicuro…»

«Non importa. Spada, pistola… qualsiasi arma, io imparerò ad usarla. E allora non sarò più un topolino in fuga.» Voglio essere una fiera, pensai quasi con disperazione. E la vendetta sarà mia.

«C'è altro che dovresti dirmi?»

Era una domanda retorica. Mi morsi un labbro.

«Non ne ho solo bisogno per difendermi.»

«L'avevo immaginato.» Darya trasse un altro sospiro, che parve un soffio di musica in quel silenzio di piombo. Si udiva però il rassicurante sciabordio delle onde sulla carena della nave, che vi scivolava sopra con agio.

«Allora, mi aiuterai?»

Mi rivolgevo a lei con naturalezza e spontaneità, malgrado la conoscessi da poco. Ma quella era la mia natura, diretta e inflessibile, pertanto avrebbe dovuto abituarsi. Avevo percepito in lei una simile tempra: non sarebbe stato difficile convincerla.

«Chiedere aiuto mina al tuo orgoglio, non è vero?» sorrise lei. «Ti capisco. Anche per me era così, alla tua età.» Mi parlava come se fosse assai più esperta di me – cosa probabilmente vera, anche se non poteva avere che una decina d'anni in più della sottoscritta.

Estrasse la spada dal fodero con un gesto aggraziato e me la puntò contro come per avvertirmi. «Non sarà facile.»

«Mi impegnerò.»

«Io imparai da sola, quando ero ben più giovane di te, sebbene alle femmine sia proibito portarsi dietro un giocattolino simile. Amir mi aiutò in seguito a raffinare la mia arte, ma ci volle disciplina.»

«Sono abituata alla disciplina» ribattei io. «Prima, a Parigi, ero una ballerina all'Opera Garnier.» Mi sembravano fossero trascorsi secoli da allora.

«Oh, buono a sapersi. Scoprirai che la scherma è una sorta di danza. Letale, ma comunque una danza.» Il suo sorriso si affilò. «Eri una brava ballerina?»

«Me la cavavo piuttosto bene, sì.»

«Allora dovrai trovare dentro di te la stessa forza se non vuoi mollare su questa strada impervia. Ne sei capace?»

Annuii con risolutezza. Lei mi rivolse l'ennesimo sorriso, bianchissimo nella penombra della mia cabina.

«Va bene. Vieni di sopra a fare colazione e poi ne riparliamo.»

Con la medesima grazia con cui l'aveva estratta, ripose la spada nel fodero di cuoio lucido e se ne andò a passi felini, misurati. Se l'arte della scherma le aveva infuso tanta eleganza nei movimenti, mi chiesi perché la danza non avesse fatto lo stesso con me nei miei lunghi anni di sofferti esercizi.

Sospirai e indossai anch'io la daga alla cintura. Ero molto diffidente riguardo gli uomini dell'equipaggio – uomini che non conoscevo, di cui non mi fidavo e che non parlavano neanche la mia lingua. Salii sopraccoperta e la trovai affollata di gente che s'ingozzava di pane, liquore (già a quest'ora del mattino?) e tè. Beh, erano pirati e mercenari, cosa mi aspettavo che facessero? Tutti gozzovigliavano con più o meno allegria, occhieggiando di tanto in tanto Erik, che se ne stava appoggiato alla murata di prua col comandante. Parlavano fluentemente persiano, tanto che quando mi avvicinai non fu possibile per me comprendere i loro mormorii.

«Stanno parlando di guerra. Tutte cose che una fanciulla dovrebbe ignorare.» Monsieur Nadir mi offrì una pagnotta di pane e marmellata e una tazza di tè caldo, che bevvi avidamente prima di rispondere. «Mi interessa eccome, invece. Sono impelagata da capo a piedi in questa faccenda.» Feci una smorfia, addentando un morso di pane dolce e continuando a parlare con la bocca piena in un modo che mi avrebbe fatto guadagnare una rimbrottata da mia madre. Ma l'hanno uccisa. Non è qui con me, non lo sarà mai. Inghiottii questo pensiero doloroso insieme alla colazione. «Loro mi hanno strappato alle braccia di mia madre, alla mia vecchia vita. Sono intenzionata a ripagarli con la stessa moneta.»

«Meg…»

«Non preoccupatevi, Monsieur» dissi, mentre le molliche mi rimanevano attaccate al labbro inferiore e al mento – mi affrettai a ripulirmi con una manica. «So badare a me stessa.»

«Se avete bisogno di una mano amica, sapete dove trovarmi» mi rispose lui con fare paterno, rassicurante. La sua presenza era certamente un balsamo – così gentile e placido – nella tormenta che era la mia vita. Lanciai un'occhiata di sbieco ad Erik, che aveva abbandonato la sua conversazione con Amir, il quale ora parlava animatamente con la moglie, di nuovo in persiano. Era sempre appoggiato alla murata e si teneva lontano dagli altri, che a loro volta sembravano ben felici di stargli alla larga. La sua nomea tra quella gente non era quel che si dice positiva.

Quel giorno il vento era favorevole, e la brezza mi scompigliava i capelli sulla fronte. Avrei voluto avere una forcina perché non mi cadessero sugli occhi. Forse avrei potuto chiedere a Darya – non vedevo altra donna a bordo, il che mi mise un po' sull'attenti. Non mi sfuggivano gli sguardi lascivi degli uomini dell'equipaggio, ma sapevo che non avrei ricevuto delle avances sgradite per via di Erik. Ero un'ospite di riguardo, lì a bordo. Nessuno mi avrebbe fatto del male, anche se non trovavo giusto che non ci provassero per timore di Erik, invece che per rispetto verso la sottoscritta. Ma parlare a quegli uomini di rispetto era come rivolgersi a un muro.

E se ci provano, io li sbudello. O perlomeno, avrei imparato a farlo molto presto.

 

 

Il mese e mezzo di viaggio trascorse con più rapidità di quanto mi aspettassi. Conobbi Jasper, un mozzo orfano preso in custodia da Amir e Darya e che poteva avere all'incirca dodici anni. Anche se non conosceva una parola di francese, gli mostrai come lucidare al meglio il ponte della nave, ed egli in cambio corruppe Caspar, il cuoco, affinché mi regalasse i pezzetti di carne più morbidi, il pesce più tenero, la zuppa di cipolle più saporita. Secondo lui, avevo bisogno di ingrassare. In cambio, io gli insegnai un po' della mia lingua, con l'aiuto di Monsieur Nadir, che ci servì da interprete. Mi divertii ad imparare qualche parola di persiano, ma era difficile, poiché possedeva un alfabeto totalmente diverso dalla mia lingua occidentale. Quello scambio di culture fu un passatempo utile, anche se mai quanto le mie “lezioni di danza” – così le avevo denominate a degli stupiti Erik e Nadir.

Darya ed io usavamo dei bastoni, che aveva preso chissà dove. La mia prima lezione fu un totale disastro, perché mi sfidò a colpirla almeno una volta, ma io non vi riuscii. Alla fine, ero sudaticcia e senza fiato. Jasper – con l'equipaggio che gli urlava di tornare al suo lavoro da mozzo – mi sosteneva tifando il mio nome, porgendomi un bicchiere d'acqua e una pezzuola con cui detergermi la fronte imperlata di sudore. Io lo ringraziavo con un mercì di cui lui da poco aveva cominciato a comprendere il significato e tornavo alle mie lezioni di danza. Niente di più diverso dalle mie vere lezioni di balletto all'Opera Garnier, ma era provvista la stessa disciplina.

Un deux trois… Un deux trois… La danza della morte è appena cominciata.

«Devi essere rapida come un felino, e altrettanto calma. Non hai grande forza nelle braccia, ma nelle gambe… i tuoi polpacci sono solidi e rifiniti. Ovvio, sei una ballerina. Usa tutto questo a tuo vantaggio. Il tuo nemico ti sottovaluterà sempre, perché sei una donna, e così esile. Sfrutta il suo pregiudizio, fallo diventare un tuo punto di forza.»

Annuivo, gli occhi scintillanti sotto la fronte corrugata e sudaticcia. Ogni volta che sbagliavo e lasciavo cadere il mio bastone a terra, o colpivo il pavimento della nave con il didietro dolorante, sentivo le rauche risate dei membri dell'equipaggio, che borbottavano qualche commento tra i denti. Io mi massaggiavo le cosce e lanciavo loro un'occhiata di sfida, ma quelli non si acquietavano finché Darya, in quanto vice–capitano della nave, non gridava loro di smetterla di bighellonare e mettersi invece a lavoro.

«Cosa stanno dicendo?» le chiesi, imbronciata.

«Meglio che tu non lo sappia» rispose Darya, altrettanto contrita.

«Loro ti rispettano.»

La donna rise amaramente. «Alcuni di loro, la maggior parte, sì – mi hanno vista combattere insieme ad Amir in tutti questi anni. Sono leali al loro capitano, e di conseguenza a me. Ad altri non sono mai piaciuta, ma non dicono nulla.»

«Perché temono che tuo marito possa avere qualcosa da ridire in proposito?»

Lei rise ancora. «Non solo. Sanno che sarei in grado di sventrarli in poche mosse. Sono un'ottima spadaccina, più brava di molti di loro messi assieme, e questo a parecchi non va giù.»

«Che una donna possa vincerli in un duello?»

«Esatto. Ho dovuto far mangiare la polvere a molti, prima che potessero accettare una femmina a bordo. Dicevano che avrei portato sfortuna all'equipaggio.»

«Che stupidaggine.» Ridacchiamo insieme, poi lei mi picchiò gaiamente su una spalla. «Adesso dicono lo stesso di te, capisci.»

«Forse, se fossi più graziosa, non si lamenterebbero tanto» dissi con sarcasmo. Che vermi.

«Forse. Ma tu sei graziosa, e coraggiosa. Piaci a non pochi, qui a bordo.» Lanciò un'occhiata oltre la mia spalla, ed io seguii il suo sguardo. Si posò su Erik che, seduto in un angolo remoto della tolda, era intento a leggere un libro persiano dalla copertina usurata dal tempo che Amir gli aveva prestato (anche se quest'ultimo non mi sembrava propriamente tipo da libri. Quando glielo avevo fatto notare, il capitano era scoppiato in quella sua caratteristica risata rauca. «Giovane impertinente» aveva risposto, scompigliandomi i capelli. Io mi ero irrigidita, scoccandogli un'occhiata dura: «Che cavolo di risposta sarebbe?»)

Guardai Darya, poi Erik, e infine capii. Quasi mi strozzai inghiottendo un fiotto di saliva.

«Cosa?»

«Oh, niente. Assolutamente nulla di importante» rispose lei con finta noncuranza, ridacchiando.

«Certo, stavi solo insinuando.»

«Io non insinuavo niente.»

«Come no.»

Ricominciammo con le nostre lezioni di danza, anche se io non riuscivo a togliermi dalla testa l'idea che ad Erik potessi piacere. In che senso?, mi chiesi, anche se non ero ingenua e avevo capito benissimo dove voleva andare a parare Darya. La cosa sembrava divertirla non poco, invece io la trovavo terrorizzante. Era molto sveglia: che si fosse accorta del particolare affetto che Erik provava nei miei confronti? Beh, è normale che sia così, con tutto quel che abbiamo passato insieme… Siamo amici – una sorta. Come lui e Monsieur Nadir.

Beh, non proprio, disse un'altra voce nella mia testa. A Monsieur Nadir non canta la ninna nanna quando nessuno dei due riesce a dormire. Mi morsi la lingua. Ero la cosa più vicina a un'amica che Erik avesse mai avuto: non volevo rovinare tutto in quella maniera.

«Ahia!» Una bastonata sulla spalla mi fece perdere l'equilibrio, e caddi nuovamente. Darya scosse il capo. «Concentrati, madamigella. In battaglia saresti già morta una dozzina di volte.»

Annuii, massaggiandomi la spalla. «Ricominciamo.»

E così facemmo.

 

 

«Destra, sinistra. Destra, sinistra, sinistra, destra, destra, sinistra…»

«Ahia!»

Balzai all'indietro, ma non fu sufficiente: il bastone mi colpì sui polsi e io arretrai, mugolando di dolore come un micio arrabbiato. Dardeggiai contro Darya un'occhiata furibonda.

«Avevi detto sinistra.»

«Sì, ma ti ho colpito a destra. E tu non hai schivato il colpo. Questo significa che stavi combattendo con le orecchie, non con gli occhi.»

«E questo cosa vorrebbe dire?» Mi massaggiai i polsi doloranti, osservando la macchia violacea che si stava espandendo a vista d'occhio su quello destro. Da quando avevo cominciato le lezioni di danza ero piena di lividi, se non si contavano quelli che mi portavo dietro dalla mia prigionia ad opera dei sicari della Khanum.

«Fidati della tua vista, Meg, dei tuoi sensi. Devi guardare con gli occhi, non con la mente. Tu ci ragioni troppo sopra, sulle cose.»

«Che strano. Mia madre mi diceva sempre il contrario.»

«Tua madre?» Darya aveva colto il tono incrinato della mia voce quando avevo nominato il mio defunto genitore.

«L'hanno uccisa.» Guardai a terra, serrando le dita a pugno, dimentica del dolore ai polsi e di ogni altro livido che mi pulsava sotto la pelle. «Un sicario dello Shah l'ha fatta fuori. Erik ha fatto fuori lui, prima che si sbarazzasse anche di me. Ma è stata la Khanum a dare l'ordine di uccidere chiunque avesse un qualche legame con Erik e Monsieur Nadir. La Khanum e lo Shah. Ed io…»

«Tu vuoi vendicarti.» Darya incrociò le braccia, posando per un attimo il bastone a terra. Io feci lo stesso. «Sai che significa, puntare alla vita della Khanum e dello Shah di Persia?»

«Sì, lo so, è una follia, ma… è l'unica cosa che mi fa andare avanti. Ho così tanta rabbia dentro di me… Mi pulsa dentro come un cuore malato. Fa male, ovunque

«Se Ezzat e Roshak vinceranno questa guerra, avrai la possibilità di vedere realizzati i tuoi sogni: la Khanum e lo Shah ai ceppi.»

«Sì, ma sarò io a tagliare loro la testa?»

Lei sospirò. «Meg…»

«Perché ti fidi tanto di questa Ezzat e di suo figlio?»

«Il popolo è dalla loro parte. E dovresti chiamarla Maestà. Capirai quando la conoscerai.»

Ammiccai, inebetita. «Io la conoscerò? E come?» Non mi sembrava verosimile: come avrei potuto presentarmi dinanzi a un membro della famiglia reale? Ero un nessuno, una ragazza–nulla.

«Erik conosce Sua Maestà molto bene. Molto tempo fa, come ben sai, risiedeva alla corte di Persia. Il vecchio Shah ebbe due figlie femmine, Ezzat e Assiye. Alla prima doveva spettare il trono, ma il padre considerava troppo ambizioso e rivoluzionario il marito della figlia – un consigliere di corte trasferitosi dopo il matrimonio a Teheran – e così egli consegnò il trono alla figlia minore e prediletta. Assiye cospirò in segreto per avvelenare il marito e da allora, fin quando il figlio Naser non ebbe raggiunto l'età adatta, regnò come regina madre sul Paese.»

«Voleva il potere.»

«Più di ogni altra cosa, sì. Il potere corrompe i cuori di molti, piccola mia, e il cuore della sultana era già nero. Avrai saputo qualcosa delle “ore rosa di Mazenderan”.»

«Sì, Erik e il daroga mi hanno raccontato abbastanza al riguardo.»

«E allora non abbiamo altro da dirci. Vedrai con i tuoi stessi occhi.»

Annuii, sebbene ancora turbata e meditabonda.

 

 

«Come vanno le tue lezioni di danza?» mi chiese il capitano Amir con una luce irrisoria negli occhi scuri. L'equipaggio si riposava in quella sera di primavera, quando la luna si celava tra le nubi grigiastre del cielo d'inchiostro. Avevamo trascorso dei giorni particolarmente difficili superando lo stretto di Gibilterra, col mare in tempesta. Noi ospiti eravamo rimasti sottocoperta per tutto il tempo, mentre Amir, Darya, il piccolo Jasper e persino il grasso cuoco Casper, insieme al resto dell'equipaggio, lottavano con sartiame e vento e pioggia infernale sulla tolda, impedendo al natante di smarrire la rotta, o peggio. Il povero Nadir, che soffriva leggermente il mal di mare, diede di stomaco almeno quattro volte, in modo molto poco consono al suo atteggiamento dignitoso. La cosa fece ridere Erik, anche se appariva ugualmente preoccupato per il Persiano – notai mentre gli porgeva una pezzuola per detergersi il volto sudaticcio e livido. «Odio le tempeste» aveva commentato il disgraziato Nadir con un mugugno, al che io non potei che concordare con una smorfia.

«Le mie lezioni di danza vanno benissimo, grazie» risposi con tono solo lievemente freddo, il naso all'insù per darmi importanza. L'attitudine di Amir mi dava ai nervi: rideva e diceva qualsiasi cosa gli passasse per la testa, con una naturalezza che sconcertava chi non vi era abituato. Mi ricordava troppo me stessa nella mia vita precedente, prima della morte di mia madre – forse ancora prima del suicidio di Claude Giry: una me stessa che mi era morta dentro ma di cui portavo ancora il sudario.

Amir trasse una profonda boccata da un narghilè che teneva poggiato sulle ginocchia. Eravamo seduti in cerchio attorno a una torcia, ma per il resto lasciavamo che fosse la luna a illuminare i nostri volti. La ciurma aveva aperto con avidità le botti conservate nella stiva, dando fondo alla propria sete. E Dio solo poteva immaginare con quanta bramosia tre dozzine di pirati e mercenari potevano festeggiare la fine della tempesta con birra speziata e rum. Sentivo gli schiamazzi dell'equipaggio, ma non ne comprendevo una parola. Qualche giorno prima ci eravamo fermati in non so quale punto della costa marocchina per scambiare delle merci con altri trafficanti del luogo, ed io avevo osservato dalla murata della nave il viavai del porto di quel Paese sconosciuto: i natanti all'approdo, dalle forme più diverse; la bancarelle che vendevano ogni sorta di cianfrusaglie; pescatori e prostitute che mettevano in mostra la loro mercanzia. L'equipaggio del Sole Nero si era anche rifornito di liquori di ogni tipo, e così quella sera avevamo festeggiato. Che cosa, non lo sapevo: c'era una guerra in procinto di scoppiare, o che forse era già cominciata. Certi uomini avevano davvero sete di violenza, così come Erik mi aveva detto una volta. A proposito di Erik – egli sedeva qualche metro lontano da noi, le braccia incrociate al petto, in silenzio. Avevamo trascorso molte notti insieme: aveva preso in prestito qualche libro dalla collezione (scarsa) di Amir, e mi addormentavo al suono della sua voce che mi narrava certe splendide leggende e poesie persiane. Quando uno di noi veniva scosso da un incubo, l'altro era sempre pronto a stringergli una spalla per confortarlo. Non sono sola: questo era l'unico pensiero che mi rincuorava. E come sarei stata dopo… dopo che quella guerra fosse finita, chiunque fossero stati i vincitori? Era un'idea che non volevo sfiorare neanche con le ali della mente, di cui avrei voluto chiudere le palpebre per sempre, per evitare che certi ricordi (sangue sui miei abiti sangue sul corpo senza vita di mia madre sangue sulle mie mani segnate da tagli superficiali) mi pulsassero dentro, decomponendomi l'anima.

Dopo la mia vendetta, se fossi riuscita ad attuarla… cosa avrei fatto? Come mi sarei sentita?

Scossi il capo e mi concentrai sulle storie che Amir – un ottimo narratore – raccontava: sue vecchie scorribande e avventure piratesche che davano le ali alla mia adrenalina. Darya sedeva accanto a lui, appoggiata al suo braccio. Apparivano come una coppia felice. Ne fui un po' invidiosa: tanta serenità mi pareva preclusa per sempre, ora che…

«Cosa fumi?» chiesi ad Amir per distogliermi da quelle riflessioni deprimenti. Non mi sarei arresa: avrei combattuto i demoni nella mia mente come sempre avevo fatto – con la spada in pugno, stavolta. Guardatemi mentre mi salvo da sola.

«Vuoi anche tu un assaggio di paradiso, Madamoiselle?» rise Amir. Era molto affascinante alla luce della luna, questo glielo concessi.

«É oppio, piccola» rispose Darya, dando una lieve pacca sulla spalla del marito.

«Ambrosia degli dei per noi mortali» continuò Amir. «Vuoi provare?»

«No, grazie.» Sebbene fossi curiosa, mia madre mi aveva sempre messa in guardie da droghe di quel tipo, e per rispetto alla sua memoria, obbedii al suo muto comando che mi sentivo ridondare dentro come il ricordo di un sogno.

«E tu, mio amico mascherato? Mi avevano detto che ne eri un ammiratore» continuò Amir, voltandosi per rivolgersi ad Erik, che scosse il capo senza dire una parola.

«Cosa intendi con ammiratore?» dissi, accigliata.

«Non sapete quante volte l'ho trovato affogato in quel veleno. Ma è stato tanto tempo fa» spiegò Nadir, lo sguardo basso per l'imbarazzo, un lieve sorriso sulle labbra.

«Adesso non mi dire che sei anche un drogato!» mi colpii la fronte con una mano, tra le risate generali. Erik si affrettò a negare. «No, Meg. Come ti ha detto il daroga, è stato molto, molto tempo fa. Non prendo quella roba da più vent'anni.»

«Alla tua salute, Erik!» Amir sollevò il boccale del narghilè e aspirò con voluttà. Il mio amico mascherato gli rivolse un'occhiata obliqua, e i suoi occhi bruciarono nell'oscurità come carboni ardenti. Ma il pericoloso luccichio nelle sue iridi d'oro si placò in breve tempo, e solo Nadir ed io lo notammo. Ci scambiammo uno sguardo d'intesa. Se Erik aveva ancora istinti violenti, ora – dopo Christine, dopo tutto – li controllava molto bene. Stavo imparando anch'io il significato di quella repressione: quante volte avrei voluto sgozzare uno dei membri dell'equipaggio che mi metteva a disagio col suo sguardo che si posava troppo a lungo sul mio corpo informe, reso ancor più anonimo dagli abiti maschili che indossavo? Quante volte sentivo ribollire la rabbia dentro di me al pensiero di ciò che i reali di Persia mi avevano strappato con la forza e il sangue?

 

 

Bussai alla camera di Erik. Era rinchiuso lì dentro da circa mezz'ora e non era tornato sulla tolda con gli altri. Mi chiesi se si fosse addormentato: dovevamo finire di leggere alcuni brani di mitologia persiana che lui mi traduceva in francese con l'usuale perfezione.

«Erik, sei sveglio?»

Da dietro la porta udii dei rumori confusi che non riuscii a distinguere bene. Cosa stava succedendo? Bussai, poi entrai nella stanza. Lo vidi di spalle, mentre si aggiustava qualcosa sul volto – notai che la maschera, insanguinata, giaceva dimenticata sul letto.

«Erik, stai bene?» chiesi, allarmata.

Lui si voltò appena. La ferita sul suo viso, che gli attraversava la fronte, il buco che aveva in luogo del naso e quel che gli rimaneva della guancia destra, si era riaperta ai margini, e stillava sangue. Lui si teneva le mani sul volto, per risparmiarmi lo spettacolo. «Si è riaperta la ferita» costatai, avanzando di qualche passo nella sua direzione. «Aspetta, ora ti aiuto a fasciarla…»

Tesi una mano verso di lui, ma sarebbe stato come tentare di stringere il vento. Lui si irrigidì notevolmente al mio tocco, quasi fossi un ferro rovente, un'arma letale. Arretrò e scosse la testa, mentre le fasciature s'imbevevano di sangue.

«Non toccarmi, per favore.»

«Erik, ma che cosa stai dicendo?» Sbattei le palpebre, perplessa, forse persino spaventata.

«Tu non capisci» disse in un sussurro roco. Mi fissò con quei suoi occhi disumani, e mi si gonfiò in petto il cuore nel vedere che no, erano più vivi di quanto potessi sopportare. Mi limitai a stringere le mie stesse dita rovinate. «Non puoi. Ed è naturale, è ovvio, è… Come potresti? Non puoi capire cosa si prova nel non potersi neanche guardare allo specchio… Nello sfiorare pelle morta sul proprio viso e nient'altro… Nient'altro che un vuoto, dentro e fuori di te. Sei un abisso di rovina, e chi mai potrebbe sopportare un tale… un tale abominio? Mostro è una parola che mi risuona nelle orecchie da quando ho memoria. Non mi ha mai abbandonato, come certi sogni non diluiscono col tempo e alla fine si trasformano in incubi, poiché non si avverano. E tu…» Allungò una mano bianca verso di me che, raggelata, non riuscivo a scostare lo sguardo, o me stessa, dal tocco di fuoco dei suoi occhi e quello gelido e morto della sua pelle sulla mia. Mi sfiorò appena una ciocca di capelli, null'altro, eppure mi sembrò di percepirlo ovunque. Gli tremavano le mani. «Guardati» disse, come se fosse la cosa più naturale del mondo. «Guardati. Perfezione. Perfezione dell'essere umani e vivi e… Tu sei così bella. Non puoi capire.»

Sbattei le palpebre, sconvolta. Nessuno mi aveva mai definito bella in tutta la mia vita, neanche mia madre, neanche Luc nei nostri antichi fulgori di ormoni e passioni adolescenziali. Perché, molto semplicemente, non lo ero: ero spigolosa e insipida e avevo i denti un po' storti, la pelle rovinata dall'acne giovanile, il naso a bitorzolo. In quel momento compresi quel che Erik stava cercando di dirmi: che non importava quanti difetti avessi – e non erano pochi. A suo confronto ero bella, bellissima. Christine era stata una dea, io una ninfa. Per esserlo, agli occhi di Erik bastava avere un aspetto umano, e io lo avevo.

Internamente trasalii al suo tocco, sebbene fosse leggerissimo, una goccia di rugiada e poco più. E non era per paura, né per disgusto; forse per la sorpresa, e per qualcos'altro, qualcosa che non riuscivo, o non volevo, decifrare. Lui se ne accorse e arretrò d'istinto, forse sconvolto dalla sua stessa audacia.

«Scusa» mormorò. Come se dovesse chiedere ammenda per quel tocco di foglia e piuma, somigliante a una lacrima. Uno spirito dell'aria mi aveva sfiorato i capelli, quel giorno, e nel cuore rimanevano le volute tracciate dal suo tocco, i primi segni di ciò che si chiama desiderio.

Gli afferrai un braccio con decisione. Lui sussultò leggermente.

«Non nasconderti da me» gli dissi in un sussurro. Poi gli tesi le bende che trovai gettate alla rinfusa

sul suo letto e lui le prese, senza sfiorarmi le dita.

«Grazie» disse, quasi sorpreso. Io sollevai un sopracciglio: cosa credeva, che lo avrei lasciato a sanguinare come un cane bastardo lì, solo, nella penombra di quella cabina su una nave che non ci apparteneva, circondati da persone che non ci conoscevano?

«Con quella maschera intrisa di sangue, spaventerai a morte metà equipaggio» sogghignai. Lui stirò le labbra in quel che sembrava l'ombra di un sorriso.

«Questo mi ricorda i bei tempi andati, quando la gente dell'Opera mi credeva un fantasma.»

«Sei stato tu a mettere in giro queste voci per primo, perché ti faceva comodo.»

«Non lo nego. È stato un passatempo divertente. Tutte le piccole allieve ballerine che urlavano come gallinelle: “Oh, è lui! Il fantasma dell'Opera!”» Imitò alla perfezione la voce acuta e stridente delle ragazze. Ridacchiammo insieme di quei ricordi dolci e amari a un tempo. Evitai di riflettere così sulle sensazioni che il suo tocco aveva provocato in me pochi istanti prima: non riconoscevo le avvisaglie di quella caduta sensazionale che si chiama amore, perché non l'avevo mai provato davvero. Non era la prima volta che accadeva, però. Questo mi costrinse a fermarmi a ponderare con considerazione: ricordai quando gli avevo sfiorato una mano per la prima volta, tanto tempo prima, o quando lui mi aveva toccato con innocenza durante una disastrosa lezione di canto… Mi sembrava che le mie viscere fossero avvinghiate dalle fiamme dell'inferno. Non potevo dimenticare questa sensazione abissale, e tuttavia ci tentai: strizzai le palpebre e rivolsi i miei pensieri altrove.

Mi chiesi, non senza un pizzico di disperazione, se lui provava lo stesso. Perché se così non era…

«Fatti visitare dal medico di bordo» gli dissi in tono perentorio. Lui annuì – sapeva che discutere con me su simili questioni era vano: potevo essere testarda quanto e più di lui.

Lo percepii esitare, mentre gli davo le spalle. «Poi ti raggiungo in camera per finirti di leggere quella storia di ieri?» Suonava certamente come una domanda, visto il tono interrogativo.

Mi voltai e annuii, e un'espressione di sollievo gli riempì gli occhi. «Bene» disse, più a se stesso che a me. «Bene.»

Uscii dalla camera con il cuore e le vene sulle tempie, sui polsi e sulle dita che pulsavano come piccoli soli.

 

 

Raggiungemmo la costa persiana circa un mese e mezzo dopo dacché eravamo partiti dalla Francia, non prima di aver superato una frazione dell'Egitto, che ci permetteva di raggiungere il Mar Arabico senza circumnavigare l'Africa. Il viaggio era stato lungo, e il clima cominciava a diventare torrido. La nostra meta era Teheran, la capitale persiana dove viveva la regina Ezzat nel palazzo ideato per lei da Erik stesso. Il difficile era giungere fino alla capitale in incognito, viaggiando per le deserte campagne persiane, senza farsi scoprire dalla guardia reale dell'esercito della Khanum Assiye e dello Shah Naser. In Egitto era stato molto più semplice: ci eravamo celati frammezzo a una compagnia di commerciante beduini, in realtà collaboratori del Sole Nero. Avevo di nuovo dovuto indossare i panni di un uomo, però. Riprendemmo il viaggio in mare dopo una settimana e mezzo circa, ma vidi molto poco dell'Egitto, se non deserti e rade oasi, dato che trascorrevo i giorni a dormicchiare rannicchiata all'interno di un un carrozza merci trainata da cammelli (creature che m'incuriosirono, poiché non ne avevo mai veduto uno prima) e le notti a smembrare i miei incubi.

Arrivati al fine in Persia, ci organizzammo in una piccola carovana, e portammo con noi solo i guerrieri migliori: abbandonare la maggioranza dell'equipaggio non mi toccava affatto, ma dovetti salutare Jasper, il piccolo mozzo, sperando che lo avrei rivisto al mio viaggio di ritorno in Francia. Se mai ci sarebbe stato, un viaggio di ritorno: dovevamo solo attraversare la Persia con l'alito della guardia reale sul collo. Niente di più facile.

«É una condanna a morte» sentenziò Erik, solito uccello del malaugurio che non era altro.

«Sempre ottimista tu, vero?» fece Amir con una smorfia.

«Non ha tutti i torti. Siamo una dozzina di persone…» cominciò il daroga.

«… che si fingono dei mendicanti» precisò Darya. Nello scendere dalla nave già ci eravamo procurati gli abiti e i cammelli, lunghi veli per proteggerci il viso dalla sabbia, adatti anche a nascondere le nostre fattezze – soprattutto quelle di Erik, troppo riconoscibili. La guardia reale non conosceva nessuno dei nostri volti, ed io avevo la carnagione tanto scura da poter passare per un'indigena del posto. Erik, d'altra parte…

«Per la Khanum e lo Shah sarà come cercare un ago in un pagliaio» dichiarò Darya.

«Ma non sospetterà che anche sua sorella si sta muovendo alla ricerca di Erik?» chiesi, contrita.

«Certo che sì. Sa che è l'unico motivo per il quale l'esercito che Ezzat ha radunato non si è ancora mosso da Teheran» spiegò Amir, nel suo francese accentato. Quello di Darya era poco migliore, ma ugualmente ottimo. C'erano tante cose che di loro non sapevo.

«Perché combattete per la causa di Ezzat?» chiesi loro durante il nostro primo giorno di viaggio.

Ogni giorno cambiavo cavaliere, e di volta in volta sedevo in groppa a un cammello dietro Erik, Darya, Amir o Nadir.

«Per denaro, certo. Siamo mercenari» rispose duramente Amir, al che rimasi un tantino delusa, anche se non mi ero aspettata altro. E tuttavia, dopo averli conosciuti… non mi sembravano persone capaci di uccidere solo per l'oro.

«Ma siamo anche persiani, piccola ballerina» aggiunse Darya con la sua voce melodiosa, «e vogliamo aiutare questo Paese a ritrovare la sua libertà.»

«Quindi, se la Khanum e lo Shah vi offrissero più denaro di Ezzat – di Sua Maestà, intendo, voi non cambiereste partito?»

«Ci hanno già provato, ma invano» spiegò Amir. «Ezzat ha comprato per prima la nostra lealtà.»

«Dicono che la lealtà dei mercenari sia molto volubile» feci notare.

«E questo dove lo hai sentito, Madamoiselle?» chiese Amir, fingendosi piccato; ma io non ci cascai.

«Non la nostra» rispose invece Darya con serietà. «Quando sposiamo una causa, è per sempre. Il nostro esercito è andato a ingrandire le file di quello della regina e di suo figlio. Loro li guideranno in battaglia, noi combatteremo sotto i loro vessilli… abbiamo già deciso.»

«E davvero credete che sia per il bene del Paese?» chiesi, non poco stupita, malgrado provenissi da una nazione che aveva dato al mondo l'esempio in materia di rivoluzioni.

«A volte, per vincere una pace, c'è bisogno della guerra» affermò Erik in tono stentoreo. Tutti ci voltammo a fissarlo. «Questa è la vostra guerra, persiani. Anche noi francesi ne abbiamo avuta una.»

«Beh, più di una» precisai, «e non tutte sono andate a buon fine.»

«Questa sì» concluse Amir, sicuro. Lo osservai di sottecchi: ero in groppa al cammello di Erik, e gli cingevo con agio la vita ossuta. Per l'intera durata del viaggio di quel giorno, preferii rimanere in silenzio e posare il capo sulla sua schiena. Di tanto in tanto tracciavo scie invisibili sulle sue scapole, seguendo le cicatrici che immaginavo sotto la stoffa nera che lo ammantava.

Come in Francia e in Egitto, ci tenemmo lontano dalle grandi città, attraversando solo piccoli villaggi e l'infinito – o così appariva ai miei occhi stranieri – deserto persiano. Ci caricammo d'acqua e viveri e superammo le grandi distese di sabbia cocente, rossa e bianca e dorata, sospirando di gioia alla vista delle oasi verdeggianti, e riposando di notte, quando la luna emergeva nel cielo di ossidiana come un faro lontano ma sempre presente all'orizzonte. Il freddo del deserto allora ci coglieva, e ci stringevamo attorno a un modesto falò. Eravamo una dozzina di guerrieri mercenari scelti personalmente da Amir, se non si contavano il capitano, Darya, il Persiano, Erik ed io. Anche allora, mi accoccolavo di fianco all'Angelo – o Diavolo? Cos'era in realtà? Temevo che mai l'avrei capito – che mi indicava le stelle e mi rivelava i loro nomi, a me sconosciuti. Allora a noi si aggiungeva Monsieur Nadir, che me li traduceva in persiano.

«Vediamo stelle diverse, ma siamo sotto lo stesso cielo» mi disse quest'ultimo con un lieve sorriso. Annuii, poggiando il capo sulle ginocchia e sentendo il calore che emanava dal corpo di Erik, la sua trasudazione, mescolarsi ai miei. Avevo il formicolio alle dita, fin nelle radici del cuore, e di nuovo non sapevo cosa provare. Di certo non mi accadeva lo stesso con qualsiasi altro uomo! Mi ero sempre vantata di come fossi in grado di controllare le mie emozioni, e ora… Speravo che Erik (né nessun altro) notasse il mio assurdo comportamento. Era folle: non sapevo quali fossero i pensieri che mi scorrevano nella testa, né le emozioni che mi riducevano le membra a un unico brivido palpitante. Mi diagnosticai una follia passeggera e passai oltre. Non potevo farmi distrarre in quel modo.

Le mie lezioni di danza andavano avanti. Quando ci accampavamo in un luogo qualsiasi, più o meno nei pressi di un villaggio o ai limiti di un'oasi, Darya ed io ci sfidavamo. Mi aveva procurato – non so come – una spada affilata che mi aveva insegnato a maneggiare con cura: come impugnare l'elsa nel modo giusto, varie tecniche di affondo, e soprattutto come difendermi dai fendenti nemici. Era un lavoro faticoso, che mi lasciava spossata e mi affliggeva il mal di capo, ma ne valeva la pena: pian piano miglioravo considerevolmente. Secondo Darya, ero portata anche per questo particolare tipo di danza.

«Stai andando bene» mi diceva per incoraggiarmi. Io non sentivo imbarazzo, nemmeno sotto lo sguardo degli altri uomini, che si concentravano su di noi poiché non avevano altro da guardare. Sentivo i commenti dei mercenari persiani, ma non me ne curavo, anche perché non li comprendevo.

Erik, dal canto suo, non aveva nulla da dire, ma sapevo che i suoi occhi dardeggianti non mi lasciavano mai davvero. Li sentivo bruciare sulla mia nuca, simili a un incendio dorato. Cosa gli passava per la testa? Era lieto dei miei progressi, o indifferente, o persino preoccupato? Da quando mi aveva donato il respiro della vita, anni e anni prima – non potevo pensare che le nostre labbra si fossero toccate, non davvero – eravamo uniti indissolubilmente. No, non mi era indifferente, questo ormai mi era chiaro. Come io, naturalmente, non lo ero nei suoi confronti.

«Tua madre aveva ragione. Hai un vero talento per la danza. Ogni tipo di danza» mi disse una notte in cui eravamo coricati vicini, imbacuccati nelle nostre coperte per ripararci contro il freddo sferzante. Io strofinai il naso contro la sua spalla.

«Devo prenderlo come un complimento?»

Lui non rispose. «Mi chiedo se ti vedrò mai tornare a danzare veramente. Era la tua vita.»

Mi incupii. «Me l'hanno strappata via.»

«Ma tu puoi ancora riprendertela.»

«É quel che intendo fare» dissi in un sibilo. «Con il sangue e il ferro.»

Erik emise un sospiro quasi inudibile. Nel silenzio della notte, si udiva solo il lieve respiro di chi già dormiva e il russare degli altri.

«La rabbia che hai dentro… Usala a tuo vantaggio. Usala per mantenerti in vita. Non farti bloccare da nulla sulla tua strada. Ti ho promesso un cuore, ed è quello che avrai, se è ciò che desideri.»

Dopodiché chiuse gli occhi. Ebbi l'intenso, inesprimibile istinto di stringermi a lui come facevamo in mare, nella nostra solitudine. Ma ora era impossibile, avevamo compagnia. Cosa avrebbe pensato Monsieur Nadir della nostra familiarità? Anche se, col senno di poi, dovevo ammettere che doveva sapere cosa il suo compagno di cabina andava a fare in quella della loro giovane compagna di viaggio, quando spariva ogni notte con un libro sotto il braccio.

 

 

«A volte mi sembra di essere l'unica persona vivente sulla faccia della Terra» gli confessai una notte, mentre il cielo brulicante di stelle si rifletteva nei suoi occhi. Lui posò lo sguardo su di me che, stesa al suo fianco, gli parlavo in quello che era appena un sussurro, con le labbra tese verso la conchiglia del suo orecchio bianchissimo. Ai barbagli fusi nell'argento della luna, splendeva cadaverico.

«Che strano. Per me era l'esatto contrario» ribatté lui.

«Ed ora?» gli chiesi, sfiorandogli con le dita una spalla.

«Ora sono molto consapevole del… del mio cuore che batte» rispose arrossendo e voltando il viso dall'altra parte. Forse mi ero lasciata trascinare un po' troppo. Era così facile, con lui, dimenticare le barriere che ancora ci dividevano, implacabili. Mi scostai dal suo corpo freddo e chiusi gli occhi, sentendo bruciare sulla retina il riverbero delle stelle. Non potevo vederle, adesso, ma loro erano ancora lì, intente a sorvegliarmi come speravo che, dall'alto, stesse facendo mia madre. Speranza vana: il mio rampante cinismo m'impediva di credere in un aldilà. Non avrei più rivisto il suo volto severo e amabile insieme, mai più. Mi colò una lacrima lungo il naso – una sola – e mi rassegnai a un'altra notte di sonni agitati.

Era difficile nasconderli ora che dormivamo tutti insieme attorno al fuoco. Immaginate, Monsieur Leroux: un gruppo di sconsiderati mercenari e pirati – in tutto, una dozzina – armati fino ai denti (le spade e le pistole erano nascoste sotto i mantelli) e una ragazza che stava apprendendo l'arte della guerra insieme a loro, ad ogni passo, ad ogni granello di sabbia rossastra sotto le zampe dei nostri cammelli. Mi agitavo convulsamente nel sonno, ma Erik era sempre lì per rassicurarmi, sfiorandomi i capelli con la delicatezza di una piuma mentre io mi aggrappavo al suo braccio, per evitare di conficcarmi le unghie nelle palme della mani fino alla mandorla. Non era il modo né il momento giusto per rivelare i miei sogni turbati a un nugolo di mercenari rozzi che non parlavano nemmeno la mia lingua. Non avrebbero capito, e mi avrebbero considerata debole, non conoscendo la mia storia. Quella era l'ultima cosa che volessi: tornare ad essere ai loro occhi un topo spaventato. No, non potevo permetterlo. Le “lezioni di danza” stavano dando i loro frutti, e ogni giorno miglioravo nell'arte della spada. Adesso, sebbene mai avrei potuto competere con loro e l'esperienza che portavano sulle spalle, ero più sicura di me stessa. Ero più leonessa che cucciolo smarrito.

 

 

I giorni passavano senza che incontrassimo ostacoli, fortunatamente. Avevamo l'aspetto di una carovana qualunque, come se ne vedevano spesso in quelle lande di sabbia e vento e terra arida sotto il sole e oasi sporadiche, come macchie sulla pelle, ove cui ci fermavamo per riprendere fiato e far provvista di acqua e frutta. Darya mi incalzava con la spada, e ormai avevo quasi – e sottolineo il quasi – imparato a vedere con gli occhi, come diceva lei, e a danzare in un modo del tutto differente da quello che avevo immaginato. Ero una principiante, ma promettevo bene. Avevo sempre pensato che la danza fosse il mio unico talento: beh, non avevo torto.

Adesso sono trascorsi così tanti anni che non saprei più tenere un'elsa nel verso giusto e, peggio ancora, non riuscirei a reggere il peso della spada. Non con la malattia che avanza, non con il mio corpo di ossa e ricordi di fumo.

Tornando al passato, presto accadde qualcosa che mise alla prova non solo le mie nuove abilità, oltre che la mia vita, ma anche la quiete del viaggio. Eravamo ormai vicini a Teheran, mancava un solo giorno all'arrivo nella grande città. Lì saremo stati al sicuro, dal momento che era gremita di uomini di Ezzat che l'avrebbero difesa fino alla morte.

Un capannello di uomini con in capo un velo, ma per il resto armati e protetti da maglia di ferro, ci fermò mentre erano in ricognizione. Non erano tanto ottusi da portare la rosa rossa in terra nemica, fuori dai confini di Mazenderan, ma sapevamo per istinto – dal modo in cui ci scrutavano, rapaci – che si trattava di uomini della Khanum. Spie in incognito.

Scambiarono con Amir parecchie parole che non capii. Notai quanto tutti si fossero irrigiditi intorno a me. Accarezzai la fodera che conteneva la spada che Darya mi aveva donato. Un peso scomodo, che eppure mi tranquillizzava.

«Cosa stanno dicendo?» chiesi a Nadir, che condivideva con me la montatura, un mio braccio attorno alla vita. Parlai in quello che suonò come poco più di un sibilo tra i denti.

«Hanno l'accento di Mazenderan» rispose il Persiano in francese. «Ci hanno scoperti.»

«Quindi è certo che non sono uomini di Ezzat.»

«No, altrimenti avrebbero riconosciuto Amir, e ci saremmo potuti rivelare a loro e ottenere protezione.»

Deglutii. «Merda» imprecai. Nadir era talmente teso che non fece caso alle mie maniere poco signorili. Guardai Erik, in sella a un cammello a pochi passi da noi. Sedeva rigido e meditabondo, e non si muoveva di un muscolo.

In men che non si dica, tutti estrassero le spade e le pistole all'unisono. Io rimasi intontita, poi tirai fuori anch'io la mia arma, stringendo forte l'elsa nel palmo madido.

Amir e gli altri uomini continuavano a parlare – o meglio, a lanciare grida di battaglia contro gli sconosciuti, che ricambiavano con ringhi altrettanto feroci. Si scatenò una confusione immane. Nadir si scostò dalla marmaglia, ritraendosi col suo cammello – tutti gli altri sembravano imbizzarriti all'odore del sangue e del metallo e della polvere da sparo.

«State indietro, Meg» mi suggerì il Persiano.

«Non ci penso proprio» sussurrai tra i denti, stringendo con maggior forza la spada tra le mani.

Era una massa di corpi e trasudazione palpitante. La guerra ci cantava nelle vene, e sulla schiena mi salì un brivido d'eccitazione e paura insieme, quasi avessi le viscere avvinghiate, quando saltai giù dal cammello per evitare che un soldato, il cui elmo era coperto da un velo di lino rosso, mi si avventasse contro. Con uno scatto rapido, gli mozzai il braccio di netto – lo stesso braccio che impugnava l'arma che avrebbe voluto affondarmi nello stomaco. Sobbalzai, chiudendo gli occhi mentre scagliavo il colpo e lui urlava di dolore; un grido che riuscii a comprendere malgrado le barriere del linguaggio. Mi ero macchiata di sangue gli abiti, ma non importava. Ora non c'è tempo per vomitare.

Arretrai, incapace di notare ciò che accadeva agli altri, concentrata com'ero sulla figura che incombeva su di me. Un altro dei soldati della Khanum avanzava a passi pesanti, brandendo una spada grossa il doppio della mia. Deglutii, scoccando una rapida occhiata intorno a me. Darya ruggiva, infilzando un uomo più alto di lei di tutta la testa con lo scatto di un toro alla carica; Amir brandiva due sciabole, spalla contro spalla con Nadir, che aveva tirato fuori la sua pistola; Erik schivava i fendenti con facilità – avendolo riconosciuto, il nemico non mirava comunque a punti vitali del suo corpo, volendolo mantenere in vita – e notai come metteva al tappeto un uomo giovane la metà dei suoi anni con un solo colpo, per poi finirlo con il suo letale laccio del Punjab in circa cinque secondi. Tornai al mio, di scontro: il mio avversario (è solo altra carne da macello, mi dicevo, non devi pensare che sia altro, è un morto che cammina) menò un fendente che parai appena; il contraccolpo mi fece vibrare il braccio. Montante, affondo, imbroccata – vedi con gli occhi, Meg, usa i tuoi occhi. E così facevo: come Darya mi aveva insegnato, danzavo via dalla sua morsa mortale con la stessa agilità con cui piroettavo, un tempo, sulle scarpette da ballo. Si arrivò al punto che il mio nemico ed io lottammo ringhiando, lama contro lama: non avevo speranze di sopraffarlo, le mie braccia non erano abbastanza forti, e non avrei resistito a lungo. Il suo volto, per metà coperto da un sottile velo di lino carminio, era così vicino al mio che potevo vedere le pagliuzze nei suoi occhi. Con un ansimo disperato, lasciai la presa e mi gettai tra le sue gambe divaricate. Egli mi scagliò quella che doveva essere una maledizione. Passandogli attraverso, gli avevo reciso un legamento della coscia sinistra, e fu costretto in ginocchio, alla mia mercé: gli tagliai la mano della spada prima che potesse voltarsi e riacciuffarmi di nuovo. Con un grido che gli sgorgò dalle labbra e che non avrei mai più dimenticato, gli tagliai la gola di traverso. Fu un colpo rude, una ferita malfatta, poiché avevo chiuso gli occhi. Il mio sangue cantava, e non sentivo dolore.

Fu allora che mi voltai, e ruzzolai all'indietro di una mezza dozzina di passi, in una fuga quasi rocambolesca. L'uomo che mi puntava contro una pistola crollò a terra, scalciando e sparando al cielo in un ultimo tentativo di liberarsi dalla micidiale stretta dell'Angelo della Morte che gli stava alle spalle. Mi resi conto di quanto fosse effettivamente forte Erik – una forza quasi bestiale in un corpo così magro, tutto nervi tesi, muscoli sottili e pulsanti e ossa visibili sotto la pelle – e di come fossi stata stolta a sfidarlo ai tempi dell'Opera Garnier. Il nemico spirò in pochi istanti. Erik mi guardò, leggermente ansante, gli occhi d'ambra che mandavano lampi.

Mi aveva salvato la vita. Per la terza volta.

Non dissi una parola. Mi guardai attorno, accorgendomi solo in quel momento che la battaglia era finita: erano giunti rinforzi direttamente da Teheran – soldati di Ezzat e Roshak, si doveva supporre – e avevamo vinto. Eravamo circondati, e io ero coperta di sangue.

«State bene, Meg?» Nadir arrivò al mio fianco, ansioso. Mi squadrò in cerca di ferite o qualcosa di simile. Annuii, corrugando la fronte.

«Sto bene. Chi sono quelli?» Indicai il gruppo di uomini a cavallo che ci aveva attorniato. Un giovane dai fluenti capelli neri, che egli scuoteva liberandoli dal velo che li intrappolava, parlava con Amir – di nuovo, non capivo una parola di quanto stavano dicendo. Compresi solo allora quanto fossi estranea a tutto quello: era una guerra che non mi apparteneva, in un Paese che non era il mio. La strada che mi si stagliava dinanzi era gremita di ostacoli dal sapore sconosciuto sulla lingua, che neanche sapevo nominare. Ero un pesce fuor d'acqua.

Studiai i cadaveri che ci attorniavano: avevamo perduto solo due dei nostri, realizzai con sollievo. Sia Darya che Amir sembravano in ottima forma. Il mio sguardo non si posò oltre sul sangue e le viscere che macchiavano il terreno. Per un attimo fui invasa dalla nausea e mi portai una mano alla bocca dello stomaco. Tossii, scossa da conati di vomito.

Fu allora che Erik mi afferrò per le spalle, ed ebbi l'impressione che si stesse trattenendo dallo scrollarmi un po'.

«Sei impazzita?» Aveva gli occhi fulminanti. «Perché non ti sei nascosta?»

Mi scostai da lui con brutalità. «Perché avrei dovuto?»

«Eravamo sotto attacco.»

«Ebbene? Non voglio celarmi dietro le vostre schiene come un animaletto smarrito. Hai visto cosa Darya mi stava insegnando. Pensavi che fosse solo un gioco? Mi prendi per un'idiota?» gli sibilai in faccia con ardore. Lui arretrò, preso in contropiede.

«Potevi finire uccisa.»

«Come tutti voi. Io non sono diversa.» Incrociai le braccia al petto. «Non voglio nascondermi, Erik. Mai più. Non sarò mai una guerriera, ma voglio saper badare a me stessa. Chiaro?»

Lui tacque, stringendo i denti. Poi aggiunse, in tono flebile: «Avevo promesso a tua madre che avrei vegliato su di te. Che razza di guardiano sono se non riesco a proteggerti?»

«Non mi farai da cane da guardia» ribattei, stizzita. Gli puntai un dito contro il petto. «Mettitelo in testa, capito?»

Lui arretrò, stupito dalla mia ostinazione. Eppure doveva conoscermi, e sapere che razza di testa calda ero. Si aprì in un sorriso distorto: «Sei la degna figlia di tua madre. Anche lei non avrebbe mai voluto cedere la propria indipendenza.»

«Vedo che ci capiamo.»

Nadir ci fissava mortificato. «Badate a stare attenti, tutti e due. Non mettetevi nei guai e, se potete, restate lontani dallo scontro.» La sua voce si fece triste. «Non voglio perdere nessun altro.» Certo: dopo la morte di Darius, eravamo gli unici amici che gli rimanevano. Che bel gruppetto, pensai con pesante sarcasmo. Un pazzo che un tempo impiccava la gente per vivere e una tizia che sognava di sventrare lo Shah di Persia e la sua nobile madre.

Sospirai. Almeno io avevo Nadir dalla mia parte, che era sano di mente. Erik, d'altra parte… Sebbene fosse cambiato da allora, ricordai tutti i guai che aveva causato (o quasi causato) all'Opera e a Christine. Lo guardai di traverso.

Darya mi sorprese passandomi un braccio attorno alle spalle. «Ti sei portata bene, ma la prossima volta guardati le spalle.» Feci una smorfia che da lontano poteva assomigliare a un sorriso.

«Chi sono quelli?» Indicai gli uomini che ci avevano subitaneamente aiutati contro i soldati della Khanum. Questa volta qualcuno mi fece la grazia di rispondermi.

«Lui è Roshak, il figlio di Ezzat.» Darya sorrise, con un cenno al giovane dai capelli scuri e gli occhi scintillanti che avevo notato poco prima. Malgrado la sua età, era sicuramente il comandante dei suoi uomini. «L'erede al trono.»

Ah, ora conoscevo uno dei motivi primari della guerra. Lo osservai di sottecchi: aveva la schiena ritta e la voce potente, e sembrava aver chiara la sua posizione sulla scacchiera.

Ma nessuno gli ha detto che è la regina il pezzo più potente in campo?

 

 

Roshak non fece caso a me, come è giusto che fosse. Non ero che una mosca nell'alveare che si ritrovava a dover portare sulle spalle, e di cui sua madre era l'ape regina. Seppellimmo i caduti e poi ci avventurammo nel deserto persiano, questa volta vicini alle porte della città.

Teheran sorgeva antica e accerchiata da mura di pietra stentorea, rossastra, sulla pianura. Una volta giunti alle porte della città, fu sufficiente che Roshak scoprisse il bel viso cotto al sole perché le sentinelle di guardia lasciassero passare lui e il suo corteo senza domande ma, anzi, con riverenti inchini. Avevo notato il Re dei Re scambiare qualche parola con Erik, prima – forse per accertarsi che fosse davvero lui l'uomo che stavano cercando. Erik doveva averlo convinto, perché sul suo viso vedevo splendente il riflesso del trionfo.

«Benvenuta nella nostra capitale, Meg» fece Amir con un gesto eloquente, portandosi alla destra mia e di Erik – ero ancora seduta sul cammello, alle sue spalle. Feci una smorfia irrisoria che fece sorridere Darya, pochi metri più indietro, e ignorai il capitano mercenario.

Tutto quello che posso dire su Teheran era che differenziava ampiamente da Parigi. Palazzi di pietra antica mettevano radici nella terra arida e calda, padiglioni di ricchi tendaggi vendevano spezie e sete e altra merce che non riuscii ad individuare. Su tutto, aleggiava un odore che non saprei ben definire, se non con la parola straniero – e la barbara degli antichi ellenici ero io, fatalmente posta tra l'incudine e il martello.

Un soldato portava il vessillo di Roshak che garriva nel vento, e gridava di fare largo per lasciar passare il legittimo Shah di Persia – questo lo dedussi dalle poche parole che avevo appreso della lingua persiana. Ma non ce n'era bisogno: la gente – gli uomini vestiti con larghi pantaloni di lino e camice dalle maniche arrotolate, le donne che nascondevano il capo nel velo – si scostava al nostro passare, e grida di giubilo vibrarono nell'aria e si elevarono al cielo che virava a un color tramonto vivo, di fuoco. Grida che non comprendevo, ovviamente. Esaltavano tutti la figura del loro sovrano, che in cambio salutava con un cenno della mano ancora umida di rosso.

«É molto amato» commentai, senza poter trattenere una nota di sarcasmo.

«Qui, almeno, sì.» Tra me ed Erik aleggiava ancora una certa freddezza, dovuta allo scambio di parole poco gentili di prima, ma sperai di accomodare il tutto sfiorandogli delicatamente una spalla con le dita.

«E altrove?»

«Nella regione di Mazenderan si sono radunati i realisti, quelli che rimangono fedeli a Naser e alla madre Assiye. Ma il capitano ha ragione: sono in pochi rispetto agli oppositori, soprattutto se si conta che il popolo – la maggior parte, che io sappia – è dalla loro parte. E con la conoscenza da me fornitagli, vinceranno questa guerra.»

Corrugai le sopracciglia. «Il tuo contributo è tanto importante?»

«A quanto pare.»

Intravedemmo su un'altura il grande palazzo di Teheran, dimora del re Roshak e della regina madre Ezzat. Solo in quel momento mi resi conto del genio architettonico di Erik: era stato lui a progettare quell'edificio, ed era magnifico. Con colonne istoriate, era possente in una maniera che mi ricordava l'Opera Garnier, eppure appariva del tutto diverso. Le bifore filtravano la luce del sole morente, sotto la quale la pietra risplendeva dorata, pulsante. I fregi erano finemente scolpiti, e sembravano vivi a contrasto con le cupole a volta, tipiche dell'arte musulmana. Rimasi a bocca aperta mentre ci facevano passare dal torrione di guardia – noi mercenari eravamo tutti stanchi e insanguinati – e attraversavamo il ponte che dava sul grande fossato. Le zampe dei cammelli pestavano stancamente sulle pietre bianche, e così avanzammo fino al mastodontico portone che dava sull'ampia sala d'ingresso. Essa da sola avrebbe potuto contenere dieci volte il foyer della danza dell'Opera Garnier, con i suoi corridoi dorati. Lasciammo le cavalcature alle cure di alcuni servi e seguimmo Roshak e il suo seguito lungo la rampa di scale che portava ai piani superiori, ossia alla Sala del Trono. Eravamo sporchi ed esausti, ma il giovane principe aveva fretta di riferire alla madre del suo ritorno e della vittoria sulle spie di Mazenderan.

«Ci sarà tutto il tempo di guardarsi attorno, dopo» mi sussurrò Darya, scostandosi una ciocca di capelli umida che era scivolata via dalla protezione del velo, notando che il mio sguardo vagava sulle volute dei capitelli e i morbidi tappeti persiani con avidità. «Nel frattempo, cerca di farti il più bella possibile.»

«Bel consiglio» dissi, appiattendomi i capelli sulla fronte – erano un groviglio disastroso. Non mi pettinavo da… beh, avevo perso il conto dei giorni.

La Sala del Trono era grande quanto mi aspettavo. Arazzi che raffiguravano scene di battaglia e miti orientali drappeggiavano le pareti; i frontoni delle colonne erano teste di animali selvaggi, tipici dei luoghi della sabbia; degli scalini portavano a un piedistallo su cui si stagliava uno scranno rifinito in pietre preziose – degno dell'Ombra di Dio, a quanto pareva. La luce che irrompeva dalle finestre a trifora e dal grande lampadario di cristallo che pendeva dal soffitto era accecante. Su un trono più modesto, posto a un livello inferiore rispetto a quello del re, sedeva una donna vestita di seta dorata, una corona a cingerle il capo e un velo intessuto di preziosi a coprirle i capelli. Parlava con alcuni consiglieri di corte, ma quando facemmo il nostro ingresso tacque e ci osservò con un misto di sollievo e aspettativa. Non sapevo perché, ma era difficile cogliere le sue emozioni. Poteva essere sulla cinquantina, ma la sua bellezza era ancora incontrastata.

Roshak prese posto sul suo scranno, pronunciando qualche convenevole di rito e salutando quella che doveva essere sua madre, Ezzat, con un gesto lieve e rapido ma di cui non mi sfuggì la gentilezza. Non poteva, tuttavia, mostrarsi sentimentale dinanzi ai suoi uomini.

L'araldo riferì in persiano della nostra vittoria, e ci presentò tutti dinanzi alla regina, che ci squadrò con occhio di falco. Tutti c'inchinammo al suo cospetto, tranne Erik, che si limitò a chinare il capo con un sorriso nascosto.

Ezzat cominciò a parlare in persiano, parole che fu in seguito Monsieur Nadir a tradurmi.

«Miei valorosi soldati» esordì, tendendo le braccia come per accoglierci tutti, «benvenuti. E per alcuni, bentornati.» Il suo sguardo perforante si posò sul daroga ed Erik in particolare. «Siete ben accetti tra le nostre schiere. Capitano Amir, potrete unire le vostre forze a quelle del resto del vostro esercito.» Sapevo che era accampato in alloggi fuori dal castello che, sebbene enorme, non era in grado di ospitare tutti i soldati del Sole Nero, la compagnia mercenaria di Amir e Darya, come mi aveva spiegato quest'ultima.

«Sono lieto di essere al vostro servizio, maestà.»

«Lo immagino.» Colsi un'ombra di sarcasmo nel tono della regina, come se sapesse che l'oro era lo scopo principale per cui i soldati di Amir combattevano. D'altronde, tutto ha un prezzo, anche la guerra, e il potere soprattutto.

«Erik.» Riconobbi all'istante il suono del nome del mio peculiare amico. Sbagliavo, o c'era una sorta di nostalgia nella voce di Ezzat, mentre posava i suoi occhi scuri sulla figura dell'Angelo della Morte? In fondo, lo conosceva sin dai tempi del suo primo soggiorno alla corte dello Shah, quando doveva essere ragazza e ancora nubile.

«Quanto tempo è trascorso. Sapevo che ti avrei ritrovato vivo, prima o poi.»

Con mia grande sorpresa, non parlò in persiano, ma in un francese impeccabile, così che anch'io riuscii a capire il loro dialogo.

Erik sogghignò. «Non avete dimenticato la mia lingua madre.»

Ezzat sorrise. «Come potrei? Mi sono sempre tenuta informata sulle vicende del tuo Paese. Ne sono sempre stata affascinata, come ben sai, e tu sei stato un maestro d'eccezione.»

Poi aggiunse, ritornata seria: «Sai perché sei qui.»

«Sì.»

«Sai anche che non è mia intenzione farti del male. Immagino che abbiate superato molte vicissitudini.»

«Dovete ringraziare vostra sorella per questo. Ci ha aizzato contro i suoi mastini.»

Ezzat fece una smorfia, come se l'allusione alla Khanum non le fosse affatto gradita. «Non parlarmi in tono così scortese, Erik. Sono una regina, ormai, non la principessa che si rifugiava nei tomi di strategia militare per sfuggire ai ricevimenti di corte.» Sogghignarono entrambi al ricordo. «Non apprezzo che mi si rammenti la mia parentela con quella donna. Vuole guerra, e guerra avrà. Anche se, d'altro canto, rimane pur sempre…» Ebbe una pausa, ma compresi che sapeva benissimo come terminare la frase. Solo che non voleva farlo.

«Dovremmo fargli vedere le mappe di Mazenderan, madre» disse Roshak, concitato. «Per prepararci alla guerra.»

Ezzat alzò una mano. «Siete stanchi. Avete appena concluso un lungo viaggio. Lasciamo loro il tempo di riposare, figlio. Non trovi?»

Roshak annuì. Era evidente che, sebbene a lui spettasse l'ultima parola, teneva in gran conto il consiglio della madre, che lo influenzava largamente.

«Caro Nadir Khan, quale piacere ritrovarti in patria dopo tutti questi anni. Molte cose sono cambiate, da allora.»

«Immagino di sì, Maestà.»

«Cambieranno. E presto.»

Con mio grande sgomento, sembrò notarmi tra la turba di gente che affollava la sala. Io, che mi nascondevo dietro Erik, sollevai leggermente lo sguardo, inebetita. Perché mi fissava in quel modo?

«Non sei originaria di qui, vero?»

Si stava rivolgendo a me?

Darya mi spinse un po' in avanti perché mi facessi notare meglio. Scossi il capo. «No… Madame.»

Sentii il daroga trattenere il fiato alle mie spalle ed Erik sogghignare nel suo solito modo luciferino. Non l'avevo chiamata “sua maestà” né nulla di simile. Non ero sua suddita, in fondo. Con mia sorpresa, Ezzat si limitò a sorridere della mia impudenza. Fui grata che Roshak non comprendesse il francese, altrimenti mi avrebbe già fatta punire per la mia insolenza, ne ero certa. I sovrani orientali detenevano un potere assoluto sui loro sudditi, e sebbene la politica di Ezzat e suo figlio fosse molto più democratica rispetto a quella della Khanum Assiye e dello Shah Naser, non potevo dimenticare quali fossero le regole del gioco.

Roshak comprese a chi si stava rivolgendo sua madre e disse semplicemente: «Il ragazzo è con il daroga e Azrael, mia signora. È sporco di sangue – vuol dire che ha combattuto, quel tanto da sopravvivere – ma non so chi sia.»

«É una ragazza» lo corresse gentilmente Ezzat. «Come ti chiami?»

«Meg» risposi senza indugio.

«Assiye ha dato l'ordine di perseguitare chiunque fosse in stretto contatto con Erik. Immagino che si tratti del tuo caso.»

«Loro… hanno ucciso mia madre. Questo non posso dimenticarlo.» Strinsi i pugni fino a conficcarmi le unghie nella carne.

«Mi dispiace» disse Roshak, quando queste parole gli furono tradotte dalla madre. «Avrai la tua giustizia, fanciulla.»

Annuii, mentre Ezzat faceva da interprete fra noi. Gli occhi di Roshak brillavano del fuoco della rivoluzione.

«Ora andate a riposare e a rinfrancarvi, ne avrete bisogno. Selene» Ezzat si rivolse a una giovane ancella al suo fianco, «mostra loro le camere degli ospiti e tutto ciò di cui necessitano.» La serva annuì, facendoci segno di seguirla per un corridoio laterale, che portava all'uscita della Sala del Trono.

Mi lanciai un ultimo sguardo alle mie spalle. Il gioco del trono, pensai. È appena cominciato.




Note dell'autrice:
* Il titolo di questo capitolo è un tributo al primo romanzo di George R.R. Martin della saga delle Cronache del ghiaccio e del fuoco, A Game of Thrones, tradotto in italiano – per l'appunto – Il gioco del trono.

Scusate il ritardo, ma in questi giorni ho avuto un'emicrania pazzesca, non dormo bene da secoli e giovedì comincio pure l'università. Evvai.
A parte l'entusiasmo, sono lieta di dirvi che mi mancano circa tre capitoli per finire questa storia. Non ci posso credere, l'ho quasi terminata! Per me è un grande risultato, anche se magari ciò che scrivo sono solo sciocchezze. Parlando del capitolo di oggi... è lungo. Ma parecchio. Diciotto pagine di Word, che record per me. Spero non vi annoi.
E ora le recensioni!

bibliofila_mascherata: Sì, la Persia *.* Sono felice che ti piacciano i miei OC. E arrossisco sempre ai tuoi complimenti, non li merito. >///< Nel prossimo capitolo ci sarà una scena divertente, eheh (tra tante tragedie). Un bacio.**

debbythebest: Che ne pensi di questo nuovo capitolozzo? Lunghetto, eh? XD Spero che ti piaccia. ^^ Grazie mille per la recensione (non devi farti perdonare di nulla), e un bacio. :3
   
 
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