Una volta arrivati, procedemmo per un lungo corridoio superando diverse porte, finché all’improvviso il mio accompagnatore in divisa si fermò di fronte ad una pesante porta di ferro massiccio, priva di sbarre, con una bassa apertura rettangolare al centro che poteva essere aperta solo dall’esterno e che al momento era chiusa.
Quando Geary infilò la chiave nel chiavistello per far scattare la serratura, la porta si aprì cigolando greve. Fu allora che lo vidi. Era immerso nella più completa oscurità, seduto a terra, in un angolo, con le ginocchia al petto, le braccia intorno ad esse e gli occhi stretti come quelli di un animale braccato.
- Oh Lincoln… - mormorai, portandomi una mano alla bocca.
- Potreste accendere le luci per favore? - chiesi alla guardia.
- Il direttore Pope mi ha concesso 5 minuti di visita, potreste almeno accendere una lampadina solo per evitare che mi metta a parlare col muro piuttosto che con quest'uomo.
Entrai e la prima cosa che feci fu abbracciare il mio amico dopo che quest’ultimo si fu alzato. Non ci venne lasciata alcuna privacy. Pope aveva ordinato categoricamente che l’incontro avvenisse sotto gli occhi attenti del fedele Geary.
- Che ci fai qui? Sei venuta per dirmi addio? - mi chiese Lincoln con una smorfia.
- Si, una specie… - lo strinsi più forte. - … Mi dispiace tanto per quello che è successo.
- Già, è andata così. Come sei riuscita a convincere Pope a farti scendere quaggiù?
- Nessuno è così convincente. Non hanno permesso neanche a Michael di vedermi e Pope è uno che rispetta le regole. - mi fissò sospettoso. - Che cos’hai combinato?
- Non ho combinato niente. Te l’ho già detto, sono un tipo molto convincente quando m’impegno. Non potevo lasciarti andare senza prima averti salutato. Questa potrebbe essere l’ultima volta che ci vediamo.
- Tra un minuto esatto si torna in cella, Sawyer! - mi ricordò Geary ancora fermo accanto all’entrata.
- Tasca sinistra… Michael dice di prenderla alle 8. - per poi concludere a voce più alta - Buon viaggio Lincoln, e grazie di cuore per essermi stato amico.
- Grazie a te per avermi creduto.
Io avevo portato a termine il mio compito. Adesso era tutto nelle mani di Michael e della fortuna. Dovevo solo trovare il modo per comunicare al ragazzo la riuscita dell’operazione prima che scattasse il secondo turno di lavoro.
- Capo, potrei avere altri 5 minuti, per favore? - chiesi al secondino, dopo aver lasciato le celle sotterranee ed essere risaliti nel Braccio A.
- Che altro c’è? - sbottò scorbutico l’uomo.
- E’ che stamattina io e il mio gruppo abbiamo fissato le nuove pareti di cartongesso nel magazzino, ma sono stata io a prendere le misure e ho dimenticato di trascriverle.
- E allora?
- E allora vorrei passare dalla 40 per ricordarle a Scofield e Sucre, così non dovranno ripetere nuovamente il lavoro e perdere tempo. Purtroppo oggi salterò la prima ora di lavoro per un controllo in infermeria. Per favore. Il capitano Bellick ci ha già rimproverati di metterci troppo tempo, non voglio prendermi un’altra strigliata.
- D’accordo, ma fa presto.
- Certo.
- Allora?
- Piano perfettamente riuscito! - esclamai soddisfatta, sorridendo sia a lui, sia al suo amico caffelatte.
- Ahm…no, ha acconsentito subito. - mentii.
- Meglio così. E Lincoln come sta?
- Credo che sia un po’ spaventato, ma sta bene. Adesso posso sapere come avete intenzione di organizzarvi?
- Cercheremo di prolungare il turno di lavoro per tutta la notte e partiremo dalla stanzetta delle guardie alle 9. - mi spiegò sicuro il ragazzo.
- Alle 8 Lincoln ingoierà la mentina e verrà colpito da forti dolori addominali. - proseguì. - Sospetteranno che si tratti di avvelenamento da cibo e lo lasceranno riposare in infermeria, così quando arriveremo noi, Lincoln sarà già lì e potremo evadere tutti insieme.
- Sembra un buon piano.
Per un istante restammo a fissarci in silenzio. Sembrava aspettare che dicessi qualcosa; io cercavo di pensare a cosa dire. Poi Fernando con un salto scese giù dalla sua branda e ci fissò entrambi.
- Ho capito. Tolgo il disturbo. - Mi sorrise e lasciò la cella.
- Beh… ci tengo a dirti che ti sono grato per quello che hai fatto. - iniziò. - Capisco di averti messa in una situazione scomoda.
- No, non fa niente… ve lo dovevo… comunque prego. - Ero imbambolata dai suoi occhi e mi stavo impappinando a parlare. - Spero che vada tutto bene e che Lincoln si salvi… e spero anche che T-Bag inciampi sul filo spinato e precipiti dal muro, ma… per lo più spero che ce la facciate. Perlomeno per Lincoln… e anche per te, certo.
Michael mi rivolse il suo tipico sorriso mozzafiato, capace di fare terra bruciata intorno, e per poco non mi cadde la mascella.
- Sembra che tu ti sia affezionata molto a Lincoln. Non ti sarai presa una cotta per lui.
- No… non è per Lincoln che mi sono presa una cotta. - e dopo aver pronunciato l’intera frase, mi resi conto di aver parlato senza pensare e mi sentii un’idiota.
- Adesso… ehm… devo proprio andare. Buona fortuna.
- Ciao Gwen. Ci vediamo fuori.
Esistevano solo due spiegazioni per spiegare quel ritardo: o per qualche motivo il gruppo aveva deciso di rimandare l’evasione, oppure qualcosa era andato storto.
Poi alle 11,05 l’epilogo. Qualcuno fece scattare la serratura nell’entrata ovest del Braccio A. Un secondo dopo, il capitano Bellick, seguito dai 5 operai ancora in tenuta da lavoro, varcarono la porta.
Restai a fissarli senza parole. Era piuttosto chiaro dalla loro presenza lì e dalle loro espressioni deluse e stanche che l’evasione fosse fallita. Che cosa era andato storto? Lincoln non era riuscito ad arrivare in infermeria? Qualcuno li aveva scoperti? Probabilmente no, altrimenti Bellick sarebbe entrato urlando e i 5 uomini sarebbero stati sbattuti in isolamento, e non certo riaccompagnati nelle loro celle con tanto di riguardo.
Non potevo credere che fosse tutto finito in un buco nell’acqua, dopo tutti i preparativi, dopo che ero arrivata addirittura a ricattare il direttore Pope per vedere Lincoln, rischiando di compromettere la mia situazione fin troppo delicata. Cosa ne sarebbe stato adesso di Lincoln?
La mattina del 9 Maggio, mi svegliai con una strana inquietudine addosso. Non ero riuscita a chiudere occhio tutta la notte, tormentata dal miliardo e mezzo di domande che mi frullavano in testa e dal pensiero logorante di ciò che sarebbe accaduto l’indomani.
Alle 9 esatte ero schizzata in cortile alla ricerca di Michael per avere delle spiegazioni, ma dopo aver praticamente rivoltato tutto il circondario e l’intero Braccio senza successo, mi ero dovuta accontentare di Charles, seduto sulla sua branda, solo e sconsolato.
- Avreste già dovuto trovarvi oltre i confini dell’Illinois a quest’ora. - esordii, dimenticando tatto e buone maniere.
- C’è stato un problema. - disse soltanto.
- Beh, questo è ovvio. Che cos’è successo? - chiesi, sedendogli accanto.
- Il passaggio sotto l’infermeria, quello che Michael aveva corroso per farci passare, è stato sostituito con un condotto da 7 centimetri e non siamo riusciti a creare nemmeno una crepa. Abbiamo dovuto rinunciare.
- Com’è possibile che non vi siate accorti della sostituzione?
- Credo… non lo so, probabilmente qualcuno dev’essersi accorto del vecchio condotto danneggiato, richiedendo una sostituzione rapida.
Per un istante fissai Charles che ricambiò il mio sguardo, preoccupato. Non stava più pensando all’evasione adesso, ma ad un problema molto più urgente. Lincoln.
- Mancano meno di 15 ore all’esecuzione. - constatai pensierosa.
- Già.
- Che cosa farà Michael?
- Credo che stia cercando di prendere tempo.
Scrollò le spalle. - Non so come farà esattamente, ma non è intenzionato a lasciar morire il fratello.
Di questo ne ero certa anch’io, ma non contribuiva a sminuire le mie preoccupazioni. Sapevo che Michael non si sarebbe arreso, lui poteva ancora salvare Lincoln… o perlomeno lo speravo.
Ero certa che l’ansia mi avrebbe uccisa.
Alle 21,30, dopo che i detenuti vennero fatti rientrare nelle loro celle e chiusi dentro per la notte, cominciai a farmi prendere dal panico. Non ero riuscita a sapere niente da Michael, niente su Lincoln, e stavo impazzendo. Mancavano soltanto 2 ore e mezza. E se Michael non avesse trovato un modo per fermare l’esecuzione?
Se solo non mi fossi lasciata coinvolgere. A ripensarci, mi sembrava a dir poco impossibile essermi presa tanta pena per un delinquente qualsiasi, conosciuto in carcere, del quale non ero nemmeno sicura fosse innocente. Non ero una grande sostenitrice della pena di morte e probabilmente per questo avrei dovuto provare rabbia, orrore, disgusto. Ma quello che stavo provando in quel momento andava ben oltre la rabbia, l’orrore e il disgusto. Ero chiusa in una cella con delle sbarre all’ingresso, ma mi sentivo ugualmente soffocare, quasi fossi rimasta intrappolata in uno sgabuzzino largo un metro per un metro, privo di luci e di finestre.
Alle 23,30 avevo già percorso la breve distanza che separava le sbarre della porta al lavandino, ben 663 volte. Non potevo restare ferma. Sedermi era fuori discussione. Dormire, un’utopia.
L’ultima mezz’ora fu la peggiore. Cominciai a sudare freddo, poi a spogliarmi per il caldo. Pregai per Lincoln , per finire un minuto dopo ad imprecare contro me stessa e la mia dannata debolezza a lasciarmi coinvolgere. Pregai di nuovo e restai con il fiato sospeso per un lasso di tempo che mi parve infinito, finché l’orologio non segnò mezzanotte e un minuto esatto.