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Autore: Nirvana_04    17/10/2016    5 recensioni
"La vita è piena di fatiche, spesso ha il sapore del sale e del ferro. Assapora attentamente i momenti dolci."
Suo padre glielo disse quando ancora era un bambino, ma quella frase ha accompagnato l'intera vita di Kira; e lo fa anche quando, ferro alla mano, conquista Svea.
Il suo passato è sofferenza, il suo futuro è rosso come il sangue e bianco come la roccia che serpeggia nel cratere, al centro di Menrva. Sono i colori della vendetta e del dolore, e non troveranno ragione né riscatto se non negli occhi smeraldo della fanciulla con i capelli in fiamme e gli echi della Dea nel nome.
A volte, però, questo non basta...
Prima classificata a pari merito e vincitrice del premio "Stella d'oriente", per il miglior stile, al contest "Stelle d'Oriente" indetto da Dollarbaby e valutato da missredlights sul forum di Efp
Prima classificata al contest "Chi ben comincia è a metà del prologo" indetto da BessieB sul forum di EFP
Genere: Drammatico, Fantasy, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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CAPITOLO 3
Sale e ferro
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Kira tiene gli occhi chiusi, la testa china come in preghiera; ma non rivolge alcuna supplica o canto verso i cieli e gli alti Idoli. I suoi occhi, dietro le palpebre, bramano le ossa di ossidiana che reggono i trentadue ponti, tanti quanti sono i venti e le città erette verso ognuno di essi; smaniano per poter nuovamente osservare l’alta cinta dorata e incastonata di pietre preziose, le strade senza lastricato e le case senza porte, la fiducia degli abitanti che, anche dopo tutti quei secoli, riesce a farlo sogghignare. Con la mente ripercorre le sue fatiche, dall’inizio dei tempi fino alle più recenti.
Da Svea, aveva impiegato un’intera decade per raggiungere Vilant; con l’esercito a seguito, a Kira sono occorsi otto mesi per tornare laddove tutto è iniziato.
Gli uomini di Ur giocano un ruolo importante nella sua avanzata. Tra lui e la capitale ci sono cinque città-stato. La guerra è diventata il suo pane quotidiano: marcia di giorno, senza sosta, in un continuo stato di eccitazione; la notte attacca. Ormai non esiste più il buio, dopo il tramonto giunge il fuoco. Le città che non si arrendono sposando la sua causa, vengono semplicemente date alle fiamme, in pasto a colui che ha divorato anche la sua anima.
Con il riverbero costante del vermiglio, i suoi occhi hanno cambiato colore: il grigio tipico degli abitanti dell’est ha lasciato il posto al bianco latteo delle antiche popolazioni estinte, che il guizzo delle braci trasforma puntualmente in rubini lucenti. I suoi uomini hanno iniziano a temerlo e venerarlo. La stessa psicosi che aveva invaso le anime degli sveani, affogandole nella paura, adesso ha elettrizzato i guerrieri delle sue truppe, che lo osannano e ripongono in lui le loro speranze di rivalsa.
Ciò che è nato nel nome della libertà, è mutato in una sistematica soppressione: nessun uomo, donna o bambino trova scampo dopo il loro rifiuto. Prima Samoa e Kraeta, le città dei pescatori dei flutti e dei mandriani di cavalli; poi Leda e Zeris, signori dei pascoli di lemek e droghieri di spezie. Avaen, la città delle miniere, gli apre le porte, come aveva fatto Lirth: i servi si sono ribellati ai padroni, spinti dall’onda d’insurrezione che stava giungendo dall’ovest. Kira è accolto come il salvatore. Le catene vengono spezzate e gli uomini lasciano i picconi per brandire le armi, poiché il giovane giunto dall’est li ha chiamati alla guerra.
Sulla cresta occidentale di Azar, la montagna più alta che separa l’ovest dal cratere, Kira pensa ai giorni passati, senza nostalgia o rimpianto nel cuore. Serah non riscalda ormai da tempo il suo letto, la donna non gli è più di alcuna utilità: la sua pelle è scottata dal sole, i suoi capelli non sono più lavati con oli profumati e i vapori d’incenso delle case del piacere sono distanti troppe miglia per poter ancora sortire qualche effetto su di lui. Le assahrì continuano a seguire il suo esercito e a combattere per la sua causa, ma non è stato più possibile replicare l’astuzia mossa verso Ur; comunque, sono servite al loro scopo.
Al kesh Narsek, si sono aggiunti i capi degli eserciti di Avaen e Balar, la città dei cacciatori di lemek del nord. Nonostante sia la gemella di Leda del nord, ha risposto al richiamo del salvatore. Ancora ricorda come il polh dei pastori di Leda aveva cercato di rimediare all’affronto e aveva supplicato di aver salva la vita; e qualcosa, in un punto indefinito del suo corpo, si bea, crogiolandosi ancora nelle echi delle sua urla mentre lo squartava.
In lui non c’è neanche dolore per la morte del suo maestro.
Asfum è un agglomerato di case che in via del tutto pacifica ha ricusato di abbracciare la loro cagione: desiderano solo vivere in pace. Kira prosegue la sua scalata su per il monte sacro, tra rocce ricoperte di sabbia e piante sporadiche di stramonio, e poi si volta, e guarda la terra sotto di lui, e scaglia un dardo infuocato sul villaggio addormentato: non c’è salvezza per gli abitant, ignari del pericolo.
Il suo mentore gli si scaraventa contro dinanzi all’intero esercito. «Che ragione c’era?» vocia.
«Il Carhnokat incalza alle nostre spalle, vorace. La sua rapacità dev’essere saziata ogni giorno, ma io non permetterò che si cibi con la carne dei miei fratelli.» Kira ha parlato con tono rauco, senza emozione, ma la folla di soldati si lascia andare a urla di tripudio e a folli danze selvagge tra le strette maglie della notte. Sotto il pendio il villaggio arde, e l’odore di carni carbonizzate e le urla disperate si alzano verso il creato insieme alla loro verve.
«Quello che stai cibando tu è un demone maligno, figliolo. Liberatene.» Lo guarda con biasimo, e di quel biasimo Kira si vergogna, ma solo in parte e solo per un attimo. Qualcosa dentro di lui spinge per urlare all’offesa e al tradimento; si agita e smania per divorarlo.
La notte dopo un male incurabile ha acciuffato il vanyis: che sia stato il dolore o una malattia giunta dall’est, Amax si contorce per due giorni e due notti sotto le calde coperte, la figura di Kira a vegliare costantemente al suo capezzale. Il guerriero ha persino dato l’ordine all’esercito di arrestarsi, non volendo gravare le condizioni del suo consigliere più fidato.
Amax soffre: all’inizio in silenzio, poi le urla veleggiano tra i venti caldi che soffiano da sud, tra le tende dell’accampamento. Guarda con occhi spiritati il suo allievo e figlioccio, e ciò che vede non è più ciò che guardano le donne che lo assistono in quella tenda scura. Ormai, dicono loro, è preda del delirio.
«Carhnokat, Carhnokat» raspa la sua voce, gutturale. Tra i lembi della tenda, suona come un ceppo che sfrigola avvolto dalle fiamme.
Kira si piega su di lui, avvicinando le fredde labbra carnose al suo orecchio, e lo culla verso la morte, prendendo un impegno: «Non preoccuparti, maestro. La morte arriva per tutti. E io ti prometto che la tua non sarà la più dolorosa.»
Amax muore quella notte stessa, Kira ne incenerisce le spoglie, poi comanda di proseguire la marcia.
Presto, ciò che ancora si regge in piedi dell’ovest si prolifera sulla grande vetta di arida terra, tra arbusti rachitici e ceppi vuoti e secchi, dove i roditori hanno fabbricato le loro tane, per raggiungere l'esercito di Kira. Le aquile nere dagli occhi rossi hanno sorvolato i grandi esodi per giorni, terrorizzando i più piccoli e facendo crescere ombre di terrore sui più anziani. Infine, le genti dell’occidente raggiungono il condottiero, una fiumana di alleati che inscurisce i pendi e le valli dorate dell’Azar. Kira solleva un braccio disarmato e, con un unico grido, sfida gli uccelli del malaugurio. Subito, sotto gli occhi dei popoli, il più grande tra essi scende in picchiata e gli si poggia docilmente sul braccio, artigliandolo come un ara fa con un trespolo.
Kira urla, pieno d’ardore: «Non temete il destino, poiché noi saremo le sue dita su questa terra! Non temete il Messaggero degli Dei, perché sarà colui che racconterà ai cieli la nostra vittoria!»
E la gente risponde: «Condottiero, condottiero! Tua è la mano che dominerà il male!»
E come un unico uomo, un’unica armata, la gente dell’ovest marcia fino alle cresta più alta del monte sacro; ne calpesta incurante il suolo con i calzari ai piedi e le armi ai fianchi, e ne ridiscende i declivi del versante orientale. Senza fretta, ma inesorabilmente, la manna guidata dal condottiero dell’est naviga sulle terre spoglie a occidente della capitale e ne esaurisce ogni oasi e laguna, come le tempeste di sabbia che ricoprono le città, inaridendone l’immagine e insecchendone l’energia. Alla fine, sembra che il deserto torni a divorare tutto quello che l’uomo ha costruito, di nuovo padrone delle terre che gli aveva donato.
E infine Svea, con il candore della sua terra, il fulcro di Menrva e della tanto decantata pace. La città dei venti e dei trentadue ponti, colei che si erige sopra la bocca dell’inferno coperto dalla sfuggente bellezza della spirale di mesolite; la vetta nascosta dalle alte rupi del cratere, il ragno che ha tessuto la sua effimera tela sopra i turbini e le malie dell’oscurità… la capitale… sbalza a oriente piena del suo vanto fulgore, scoppiettante di luci, dando fuoco al cratere spento da millenni. Ed è quel cratere che Kira intende far scoppiare di nuovo.
Finalmente Kira apre gli occhi ed esulta nel sentire la paura degli sveani solcare il vento di nord-est, il Grecale: il fiato degli schiavi risorge dalle ceneri, e nemmeno il ghiaccio e la pietra sono riusciti a spegnere. Gli abitanti della capitale guardano ciò che lui ha creato, nonostante le catene sfibrate che ancora legano i suoi polsi: la marea di soldati dell’ovest, coloro che un tempo erano stati gli eroi, adesso giungono alle porte del baratro per conquistare la libertà, la sua.
La notte giunge impaziente sull’accampamento. Fuochi di segnalazione vengono allestiti tra le tende e lungo il perimetro, posti di vedette vengono organizzati sul fronte orientale. Le donne cuociono la minestra, le aquile banchettano con la sugna e i pezzetti di carne rubati con prepotenza dai vassoi. Gli uomini affilano le armi, molti si preparano alla loro prima battaglia. La voce che un condottiero vuole sfidare il potere dei Ban’gh è giunta persino a settentrione e meridione. Le città più limitrofe, come Balar e Karass, hanno mandato i loro eserciti per dar manforte al salvatore giunto dall’est.
Kira passa tra gli uomini, molti gli chiedono perché non attaccano subito: sono trepidanti, sanno che l’ora del cambiamento è vicina.
«Ma non la comprendono appieno» sussurra la voce nella sua mente.
«La luce del giorno dovrà essere testimone del nuovo inizio. I cieli ci benediranno con il bagliore dell’aurora. Avrete la libertà» promette ad alta voce.
Il bellun di Balar lo raggiunge vicino a uno dei fuochi di vedetta. L’accampamento è sito sullo strapiombo nord-ovest, sopra i ponti di Maestrale, Vespero e Traversone. Roban è un uomo burbero con una folta barba ispida e rossiccia, un viso tondo e colorito, forse dovuto anche a quella forte bevanda amara che bevono al nord; è tarchiato e porta sempre con sé un’ascia bipenne legata alla cintola e due coltelli dentati.
«Condottiero» lo incalza con voce tonante. «Pensi a domani?»
Kira annuisce, quatto sul terreno.
«Comunque andrà, verrai ricordato. Sei il primo dopo Errka ad aver riunito le città dei venti sotto un unico stendardo. Svea ha perso molto tempo fa questo potere.»
La voce nella sua testa ride a quel paragone.
«Errka?» chiede, evasivo. «Ho già sentito quel nome.»
«Ci credo!» sbuffa, aggiustandosi meglio il panciotto e sedendosi al suo fianco. «Ma forse il nome Bastian ti è più noto.»
«Il primo sovrano di Svea, colui che sconfisse i demoni» biascica con voce atona.
Roban asserisce, soddisfatto. «Era del nord, sai? La sua famiglia era una delle più antiche di Gilda, la capitale del settentrione. Il suo mestiere era la terra stessa.» Il suo sguardo è lontano mentre ripercorre le vie della leggenda. «I Sicari dell’inferno avevano già inaridito tutto il sud e parte dell’est e dell’ovest. Giungevano sempre più voci su terre morte e anime perdute, e Bastian sapeva che la stessa sorte sarebbe toccata alle nostre terre.» Si gratta la barba e prosegue: «Dicono che fu lui il primo ad affidarsi ai Ban’gh. Gli antichi saggi di Svea erano uomini del Nord, sapevi? Covavano le loro nenie magiche nei mausolei di pietra tra i nostri boschi, situati in luoghi segreti ai più. Errka, che nel gergo antico vuol dire proprio pietra, chiese aiuto ai saggi e da loro ebbe in dono un corto pugnale di mesolite, la lama sottile come l’osso del mignolo di una donna.» Mostra il suo dito grassoccio al ragazzo e ride della sua stessa similitudine. «Poi partì verso il Carhkaan, il monte del supplizio, da cui i demoni uscivano a frotte, vomitati dalla terra, insieme a lava e lapilli. E lì conficcò il pugnale nel cuore del loro sovrano e tiranno, e lo uccise. Il Carhkaan crollò su se stesso e un boato sconquassò le terre di Menrva. I demoni e i loro Sicari furono inghiottiti dentro profondi baratri e la terra si richiuse sopra di loro. Errka, Bastian, costruì Svea e la proclamò la vigilante dei popoli liberi.» Il braccio con il pugno ancora alzato e il viso infuocato, Roban finisce di raccontare la sua storia; poi, come se si accorga solo in quel momento della sua veemenza, tossisce e si risistema meglio sulla dura pietra. «Beh, immagino tu conosca la storia.»
«Una delle sue varianti» risponde, con un sorriso felino. «Fa piacere rivangare di tanto in tanto il passato.» Corruccia teatralmente la fronte e piega il viso un po’ verso l’uomo. «Chissà perché gli sveani sono finiti a venerare Demel.»
«Oh, è la figlia di Radaht-uat, l’unico dio del nord. Dicono che suo era il pugnale donato al condottiero del nord. Serviva il potere di un Divino per contrastare quello dei Demoni, e Demel s’incarnò in terra per permettere a Errka di condurci alla vittoria.» Si raspa i peli sotto il naso. «Bene, ragazzo… ehm, condottiero… domani sarò al tuo fianco. Ma per stanotte intendo chiudere giusto un occhio.»
Se ne va, con un cenno del capo a mo’ di saluto.
«Quanta memoria serbano gli uomini del Nord?! Certamente più di quelli dell’ovest» La voce ride e anche lui sogghigna, un po’ tetro. Il sussurro continua: «E dire che questi ultimi furono tra i primi ad appoggiare il condottiero del Nord, proprio quando la sua stessa gente si rifiutò di scendere in battaglia, credendosi immune dalle piaghe delle altre terre. La storia si ricorda dei re, non dei soldati.»
Muovendo le labbra, invece dice: «Kesh! Vi è piaciuto il racconto del nostro amico?»
Narsek gli si avvicina, uscendo dall’ombra. «Mai fidarsi delle storie degli uomini del Nord, condottiero. Raccontano frottole per combattere il freddo.»
Kira sa che, all'altro, il nordista non sta molto simpatico. Quanti appigli che dà la mente di un uomo e la sua natura facinorosa… «Su quale punto non siete d’accordo, kesh? Sulle storie di una dea che si fa donna? Oppure temete l’ira della divinità?» lo stuzzica.
«Voi sapete che c’è un solo dio che io venero, condottiero. Ed è Masheb» risponde fiero, pensando che la domanda sia un modo per metterlo alla prova.
«Ma Masheb non è il dio dai mille volti? Allora uno di questi non potrebbe essere quello di Demel?»
Narsek sobbalza e sgrana gli occhi, impaurito da un simile dilemma.
E Kira stesso che lo tira fuori da quel pantano. «State tranquillo, kesh. Se il vostro dio fosse contrario, vi avrebbe già punito per aver depredato il suo tempio» lo congeda con parole ambigue.
Kira si alza e scruta ancora un po’ la città. Ormai è talmente vicino alla meta… Domani finalmente metterà le mani sull’oggetto dei suoi desideri e lo stringerà, e le fiamme lambiranno la sua carne, ma non lo bruceranno.
«Domani» ripete la sua fedele compagna, nella sua testa, «il sole illuminerà e spegnerà la sua luce su un nuovo mondo. La terra cambierà e risorgerà a nuova vita.»
 
 
Gli steli d’erba del deserto sono bianchi e più frequenti vicino al cratere, e in particolare nella zona sita tra i ponti di Solano e Altano; ed è proprio in direzione di quest’ultimo che sorge la sua città natia, Darsta. I suoi abitanti sono un popolo di coltivatori: le terre sono spartite in acri e ogni famiglia ha il suo piccolo frutteto; e i più fortunati hanno due pecore o tre, da cui ricavano la lanugine per poi filare la lana e scambiarla con i mercanti di Ortog, maestri nel creare capi di altissima e finissima qualità, famosi in tutta Menrva; e avanza sempre un po’ di spazio per un piccolo orto curato, magari di patate e rapanelli, o fagioli. D’estate i bambini fanno a gara per raccogliere i frutti dagli alberi, sotto la tutela dei padri e degli zii, e d’autunno reggono il filo che le madri tessono nell’arcolaio, arrotolandolo tra le mani, fino a formare una matassa precisa e ordinata. In inverno i giorni sono corti e immersi tra le tempeste di vento, e il divertimento più grande consiste nel vedere quanto gli alberi spogli riescono a resistere a quelle frustrate senza spezzarsi. La primavera è dedita alle chiacchiere e ai grandi viaggi verso la capitale.
Adesso è primavera, e Kira si trova sulla rupe che si getta sopra il ponte dell’Altano, in attesa del segnale. Nella sua mente questi ricordi non esistono più, o forse sono talmente seppelliti sotto cumuli di ceneri di risentimento e colate d’ira da soffocare senza alcun riguardo da parte sua.
Narsek guida parte del suo esercito nella parte opposta, sopra i ponti occidentali: saranno loro ad attirare l’attenzione delle guardie della capitale. Con lui, invece, c’è Roban, l’uomo del nord. È stata una sorpresa spiacevole per il kesh di Lirth venire a sapere che non avrebbe conquistato la città nella posizione di secondo. Invece il nordista era rimasto indifferente alla cosa, superiore, quasi sicuro di quel suo inappellabile diritto; dopotutto, ha mormorato, il nord è stato al fianco del primo condottiero, secoli prima.
La tagelmust lo isola dalle voci dei compagni, ovattandole e sopprimendole, lasciando solo il rumore del suo cuore a riempirgli le orecchie. La mente è pervasa dall’ebbrezza e dalla smania di chi, dopo tanta attesa, è impaziente di lanciarsi sopra ciò di cui più a patito la mancanza: il suo regno, quella terra arida che gli sveani avevano fatto risplendere di luce opalescente, falsa, esile e debole, quali essi sono, spegnendo e annientando la vera forza del fulgore delle fiamme.
«Le temono, eppure le hanno brandite contro la gente dell’est» lo aizza la voce.
Sì, le hanno dato impasto i miei genitori, pensa in risposta. La collera monta e la sua rabbia risponde alla parte della sua mente che mantiene una parvenza di lucidità, quella che si risveglia e ride al sapore del sangue e al calore del fuoco.
Gli uomini guardano la bruna polvere sollevarsi in nuvole dal versante nord occidentale: il kesh ha dato inizio all’attacco. Nel cratere risuona il suono degli zoccoli dei cavalli al galoppo e lo sfregare delle roche voci dei guerrieri contro le pareti rocciose. Kira osserva i fuochi di segnalazione accendersi per tutta la lunghezza delle mura giallognole, il trambusto della città che si riversa per l’ovest e i primi tafferugli che indicano l’inizio degli scontri ai portoni. Roban freme al suo fianco, ma lui non dà l’ordine di avanzare. Aspetta. Il silenzio si scontra contro l’irruenza dei suoi uomini, ma questi ultimi restano ai loro posti, sotto l’influsso costante del suo potere carismatico.
La canicola del sole nascente sfiora la sua pelle e lambisce le sue spalle, coperte da strati di cotone. Kira getta la tagelmust a terra, e questa risuona con uno schiocco sordo, liberando il segnale. Come un solo uomo, l’esercito cammina sopra il ponte dell’Altano, silenzioso, con un unico respiro, un unico ritmo cadenzato. Da dietro le mura, sembra di sentire i tamburi battere da sotto le fondamenta, scandendo il corso della loro fine.
Svea non mostra difese sulle mura, le sentinelle tutte richiamate alla porta del Grecale, i portoni d’oro il solo ostacolo tra loro e le strade della capitale. Serah è abile a trovare un varco per scalare le mura e, insieme alle altre assahrì, a spalancare le porte. Kira apre le braccia e la fiumana di soldati si riversa per le strade, scalpitante, rabbiosa, come cani che sbavano alla ricerca del coniglio.
Inizia la carneficina.
Le tendine dinanzi le porte delle case vengono lacerate, pezzi di stoffa volano al vento mentre i primi raggi avanzano lucenti tra le pietre e le costruzioni. La lancia nelle sue mani infilza senza distinzione uomini armati e giovani indifesi; le guardie che accorrono sono poche e disorganizzate, e vengono distrutte. La luce del sole pare avanzare con lui.
Il suo passo è cadenzato e non mostra cedimenti. Ogni ostacolo viene eliminato, ogni nemico abbattuto. Para, attacca, uccide. Cammina. Sempre più avanti.
La cacofonia allegra di quel luogo che albergava nei suoi ricordi viene soppiantata dalle note stridule dell’inferno. Lo scoppiettio delle fiamme sale, unendosi alle urla disperate dei morenti. È musica che fa danzare l’anima; e il suo cuore improvvisa un battito a tempo con essa.
I suoi occhi nivei sono freddi e puntano sempre più verso il centro della città. La sua mano si stringe più forte intorno alla lancia mentre passa accanto alla scalinata del tempio di Demel. Per un attimo, il ricordo dei suoi genitori morenti lo strazia e lo blocca. Il suo sguardo s’ingrigisce ed egli si piega dolorante, confuso.
C’è rumore, confusione, dolore. Kira vorrebbe indietreggiare. Capire cosa lo ha spinto fino a lì.
In quel momento un dardo vola verso di lui, lo manca. Uomini corrono per affrontarlo, ma Roban è ancora al suo fianco e lo difende con un ringhio in bocca, urlando il suo nome, lo stesso che lo aveva tenuto in vita in quegli anni.
«Condottiero!»
Un secondo dardo ferisce il nordista a un braccio, il sangue cola dal taglio profondo, ma l’uomo continua imperterrito a mantenere la sua posizione.
«Rosso, le fiamme…»
«Il sangue…» La voce lo richiama a sé, la sua mente torna prigioniera del bianco, scattante.
Un guizzo d’ira lo spinge in avanti. Allontana Roban, infilza un nemico, libera la lancia e ruota l’asta; la testa del secondo sveano si stacca in parte dal corpo e penzola su una spalla, mentre la figura si accascia, morta. Kira uccide gli ultimi due, poi torna ad avanzare verso l’edificio che, più alto del tempio, s’innalza alle spalle di quest’ultimo.
L’avorio dell’alta torre risplende mentre i raggi dorati strisciano sulla sua liscia superficie, risalendone i fianchi. Alle sue radici, una dozzina di uomini è schierata per fermare la loro avanzata.
«Abbiamo aspettato troppo per poterci far fermare da loro» lo istiga la voce nella testa.
Kira avanza, inesorabile. «Occupati dei superstiti. Concedimi più tempo che puoi» ordina a Roban.
Non gli lascia il tempo di ribattere. Si lancia nella mischia, perforando le fila con la forza del suo gesto avventato. Supera i primi, allontana i due uomini alle loro spalle e intreccia l’arma con l’ultimo che gli si para di fronte. Alle sue spalle, il nordista impedisce al grosso dei nemici di raggiungerlo, ma non può bloccarne l’avanzata. Kira non se ne preoccupa: elimina il suo avversario e s’immerge nell’oscurità della torre. La battaglia, gli uomini, ogni cosa resta fuori. È lontana.
Comincia a scendere le rampe di scale.
Svea non ha re, non ha padroni. Il comando, affidato a uomini ricchi eletti dal popolo ogni otto anni, risiede in un palazzo color albicocca nel quartiere nord-est della città; eppure non ne è il centro. Il cuore della capitale è occupato da quell’alta costruzione bianca che si erige come un enorme dito verso il cielo e affonda le sue radici fin nelle profondità della pietra bianca e, ancor più giù, in quella nera.
Così Kira scende nelle viscere della roccia, con l’unica compagnia di quella voce che si risveglia alla vista delle fiamme e all’odore del sangue. I gradini si interrompono all’improvviso, lasciandolo a camminare su un terreno battuto. Le pareti sono fatte di pietra calcarea, senza fronzoli o elaborati rinfreschi, inscurite dal tempo e illuminate solo dalle danze rosse del fuoco che dai bracieri delimita la via. L’austerità di quel luogo è un pugno nello stomaco dopo la preziosità delle mura e dei palazzi della città; eppure conserva il potere antico della maestosità della natura e di forze sconosciute o dimenticate dall’uomo.
La roccia è ovunque: intorno, sopra e sotto di lui; persino nel suo cuore. Le due punte della lancia sono cangianti di riflessi, sfiorate dal languido calore, e assorbono la poca luce, accumulando potere.
Infine la terra cede il posto alla mesolite, la voluta più piccola della spirale serpeggia sotto i suoi piedi. Un cerchio di luce trafora l’alta sala e giunge dal cielo, attraverso le sessantacinque braccia di pietra verticale sopra di lui. La cupola grezza è retta da trentadue colonne di calcare grigio, spoglie e rudemente scanalate; al di là di esse, la sala si perde nell’oscurità.
E lì, al centro della stanza, colpita dalla luce del sole che entra dall’occhio in alto, c’è lei. Impulsivamente smania per tendere una mano e afferrarla, e Kira muove di scatto il braccio, per poi farlo ricadere confusamente contro il fianco.
Demera è lì, vestita di bianco, un lungo saio che la riveste dal collo ai piedi nudi, e la sua pelle ambrata sembra sbiancare, colpita dalla luminescenza della candida roccia; ma i suoi capelli bruciano sotto il riverbero dell’astro solare e ricadono come vene aggrovigliate sulle spalle e sulla stoffa grezza. Fa un passo verso di lui, verso il centro della spirale; si frappone tra lui e la luce e tende le mani tra loro, gli occhi due pietre di acquamarina dorate dalle lacrime, e le labbra, leggermente spalancate, che cantano silenziosamente per lui.
C’è silenzio, nella stanza e nella sua testa, e per la prima volta da tanto tempo un sordo dolore lo fa tremare, convulsioni che lo costringono in ginocchio.
«Demera» sussurra. La sua fronte si contrae, il suo volto libera le sue pene. «Demera!»
Kira urla, spaventato, e corre verso di lei, quasi striscia sulla roccia, fino a cadere ai suoi piedi, e stringe un lembo della sua veste. La vede esitare un attimo, poi l’amore è più forte della ragione, e la sua mano gli sfiora la testa, tremolante.
«Kira.» La sua voce è un fremito che il silenzio minaccia d’inghiottire. «Perché?»
Scuote il capo, la voce gli muore in gola. Vorrebbe dire tante cose, molte senza senso: la morte dei suoi genitori, il sangue, la solitudine, il sapore del sale, l’odore del ferro, il sangue, la morte di Amax…
«È morto. Amax è morto» riesce a dire.
La verità sembra raggiungerlo solo in quel momento. E finalmente piange: per i suoi genitori, per il suo maestro, per i morti che imbrattano la sua anima di sangue; e piange anche per la sua futile sorte e quella di lei. E pensa: e se fosse riuscito a sapere il suo nome quel giorno… se avesse saputo baciarla… se fosse rimasto al suo fianco e avesse cercato il riscatto tra le sua braccia…
Demera lo stringe forte a sé e il tempo pare riavvolgersi intorno a loro. Se fuori perversa la battaglia, a lui non importa più: non è più il condottiero giunto dall’est, ma il ragazzo che ha ballato con lei durante la festa del Darthì, quella che celebra la dea Demel alla fine dei giorni di mercato; colui che ha rincorso la cascata di fuoco che danzava sui suoi fianchi, mentre rideva per le strade di Svea; lui è chi si è arrampicato sull’obelisco della piazza nord, imbrattato di grasso, per regalarle il foulard di seta d’oro. Così, mentre finalmente stringe le mani intorno al suo corpo, Kira riprende possesso della sua mente e dei suoi ricordi.
«Demera!» la chiama, infine consapevole dei significati di quel nome. «Io non posso…»
«Ho temuto per te.» Gli accarezza il viso e sorride. Sussurra solo per lui: «I miei pensieri non ti hanno lasciato un solo istante.» La sua fronte si piega, si riempie di crepe. «Perché, Kira? Perché lo hai fatto?»
Kira non sopporta quel cieco dolore nella sua voce. Boccheggia: «Non lo so. Loro sono morti, lui diceva… io volevo… non lo so…» Per un attimo distoglie lo sguardo da lei e si osserva intorno. «Dove siamo?»
«Dentro al cuore di Menrva. Il centro della spirale.» Esita, poi lo esorta ad alzarsi. «Usciamo da qui. Ferma i tuoi uomini. Non versare altro sangue su questa pietra, o essa se ne ciberà.»
«Non volevo che qualcuno morisse.» Preme la testa contro il suo ventre. Dei, aveva desiderato farlo così tante volte! Strofina il viso sulla sua veste: vorrebbe baciarle la pancia, sfiorarle i seni. Affondare le dita nella sua carne… Trema di paura e desiderio.
«Sono morti in tanti. Troppi» si dispera. «Ma puoi impedire che altri muoiano ingiustamente. Fermali, Kira.»
Alza gli occhi. L'acquamarina delle sue iridi brucia il grigio dei suoi, illuminandole del suo amore, della sua speranza. Gli tende una mano, fiduciosa. E lui prende un respiro profondo, s’inginocchia e con delicatezza stacca una mano dal suolo per afferrarla. Con la pace nell’animo, si tira su e le sorride.
Ed è in quel momento che l’inferno s’infiamma di luce.
Le labbra di Demera si piegano verso il basso e i suoi occhi si spalancano, terrorizzati. La pietra intorno a loro scricchiola, fragile, privata della sua forza, del suo punto saldo. Lo sguardo di lei si abbassa e quello di lui lo segue, fermandosi sulla lama bianca che inconsapevolmente stringe nella sua mano. Una parte della sua mente è confusa mentre qualcosa, dentro di lui, riconosce l’artefatto: è l’oggetto dei suoi desideri, quello che nella sua testa si era più volte sovrapposto al viso di Demera in quegli anni di esilio; ed è ciò che prima di scorgere la donna aveva visto, colpito dai raggi del sole, al centro della spirale.
Kira alza il volto, smarrito.
«Perché, Kira?»
«Io… non lo so…»
Demera apre le labbra, ma la voce le muore in gola. Ansima in cerca d’aria, mentre un rivolo di sangue sgorga dalle labbra. Il corpo si accascia tra le sue braccia ed egli lo sostiene, impallidito. Sente l’odore, lo riconosce: è sangue, ed è dappertutto, sulle sue mani, sulla pietra, sulla veste candida di lei. Non comprende, ma vede la lama bianca perforare il ventre della fanciulla, il ramato dei lunghi capelli infuocarsi contro il rosso scuro della vita che l’abbandona. Gli occhi sono spalancati, coscienti e vigili; lo guardano sofferenti, intimoriti.
«Ho paura…» riesce a mormorare tra un ansito e l’altro.
«No… ti prego… no… io… oh, mia dea, ti prego, lei no…» Le lacrime gli solcano il viso e cadono su quello della fanciulla, mischiandosi a quelle di lei. La mano della morte restituisce a Demera la sua vera bellezza: la pelle indorata dall’oscurità crescente si frantuma contro la lucentezza degli occhi opachi, mentre il corpo trema, preda delle convulsioni.
«Non temere, troverò un modo per salvarti. Deve esserci. Lo troverò, non temere» vaneggia, disperato.
Demera sussulta, gli occhi guardano qualcosa che lui non può ancora vedere. Per un attimo si perdono nell’oscurità, poi tornano da lui, partecipi. Con un ultimo sforzo, si allunga verso di lui, cerca di tenere ancora un po’ il suo viso nell’incavo della mano. Le forze, però, l’abbandonano e lei ricade, rantolante.
«Non temere…» ripete, ormai incapace di reagire, «non temere.»
Demera chiude gli occhi, una lacrima scivola via, lontano. Prova a parlargli ancora: «Ho paura… per te.»
Infine il pallore della morte colpisce le sue membra e il corpo si arrende, cadendo vittima del freddo della dura pietra. Tutto ciò che resta è l’odore del ferro e il sapore del sale sul volto esangue.
Il viso di Kira si contrae. «Demera…» sussurra, piangente, «DEMERA!»
Il grido disumano riecheggia tra le colonne di calcare, mentre una risata metallica lo deride alle spalle, vittoriosa.
   
 
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