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Autore: Nirvana_04    14/09/2016    9 recensioni
"La vita è piena di fatiche, spesso ha il sapore del sale e del ferro. Assapora attentamente i momenti dolci."
Suo padre glielo disse quando ancora era un bambino, ma quella frase ha accompagnato l'intera vita di Kira; e lo fa anche quando, ferro alla mano, conquista Svea.
Il suo passato è sofferenza, il suo futuro è rosso come il sangue e bianco come la roccia che serpeggia nel cratere, al centro di Menrva. Sono i colori della vendetta e del dolore, e non troveranno ragione né riscatto se non negli occhi smeraldo della fanciulla con i capelli in fiamme e gli echi della Dea nel nome.
A volte, però, questo non basta...
Prima classificata a pari merito e vincitrice del premio "Stella d'oriente", per il miglior stile, al contest "Stelle d'Oriente" indetto da Dollarbaby e valutato da missredlights sul forum di Efp
Prima classificata al contest "Chi ben comincia è a metà del prologo" indetto da BessieB sul forum di EFP
Genere: Drammatico, Fantasy, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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CAPITOLO 2
La distanza tra giustizia e vendetta
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Kira macina leghe verso ovest, il più lontano possibile dalla sua terra. Viaggia come un miraggio per il deserto, sentendo i suoi piedi affondare tra i granelli e i suoi polmoni respirare calore. E più la terra rossa sotto i suoi piedi si fa dura, più egli sente la vita tornare nel suo corpo. Si aggrappa a quella sensazione per alimentare i suoi piani di rivalsa. Di giorno cammina, le vesti logore e i calzari consunti; di notte rivive la morte dei suoi, e i sogni sembrano nutrire la sua rabbia, incitandolo alla giustizia e chiamandolo al sangue.
Sangue, urla la sua mente. Ogni fibra del suo corpo reclama sangue e fiamme.
Raggiunge Vilant, la città dei veli e dei coltelli volanti. Davanti ai suoi occhi, donne con la pelle dipinta e vestita dai colori sgargianti di tulle gli riportano alla mente le danzatrici spiate al mercato di Svea, quando Demera lo costringeva a guardare quelle donne fare sfoggio della loro leggiadra bellezza. La sua mente lo obbliga ad allontanare quel pensiero e, con esso, il viso dell’amica svanisce in un angolo remoto della sua testa.
Vagabonda per le strade di terra, le quali sembrano tirarsi fuori a fatica dalle dune del deserto: la città è fatta d’argilla rossa e le tempeste di sabbia sono all’ordine del giorno. Sente la fame ghermire le sue membra ma, come ha imparato in quei giorni di marcia forzata, la rabbia sazia l’anima quanto basta per farlo camminare. Giunge ai piedi della cattedrale: il fango rosso, modellato a opera d’arte, disegna cupole sormontate da lance di ossidiana. È la forza di volontà a spingerlo verso i gradini; inizia a salirli. D’improvviso, la rabbia affoga nella stanchezza e le forze infine lo abbandonano. Kira stramazza al suolo, svenuto.
Quando si rià, gli occhi fissano confusi i mosaici sgargianti delle volte a ventaglio che lo sovrastano. Una donna anziana col viso grinzoso entra nella sua visuale: ha la testa avvolta in un turbante arancione e qualche capello bianco sfugge dalla stoffa e le drizza dritto davanti alla fronte. Lo osserva per un istante, gli tocca la fronte, poi sparisce di nuovo.
Kira sa di avere la febbre, le mani della donna sono gelate a confronto. I brividi lo scuotono e i denti tremano, ma la vecchia torna e lo costringe a bere un decotto amaro: riconosce il sapore, è identico a quello che sua madre gli preparava quando si ammalava da piccolo. Non sa se è la febbre o il desiderio di uccidere quei ricordi, ma chiude gli occhi e crolla nuovamente preda dei sogni.
E nei sogni li vede: città e fuoco, sangue e dolore; e lei, Svea, che ancora osa sovrastare quel caos con la sua inalterata perfezione. L'oro delle sue mura si spezza contro frammenti di cielo. Al suo interno c’è qualcosa che egli brama, sa cos’è. Demera è lì e lo attende. Ma prima c’è il cratere e ci sono i trentadue ponti; prima deve abbattere le difese della capitale.
Al suo risveglio scopre di essere stato ospitato da un vanyis, un lanciatore di coltelli di superba fama. Il padrone di casa lo viene a trovare ogni sera, portandogli personalmente la cena. Kira si riprende grazie alle cure dell’uomo e della vecchia. Nessuno lì è di molte parole e il primo passo lo fa il giovane, ringraziando il suo salvatore. Scopre che si chiama Amax: è un disertore dell’esercito, comune lì a Vilant, e nonostante ciò ha parecchio seguito; in molti bussano alla sua porta per chiedere favori o solo per scambiare due parole cortesi con lui. Non ha figli né mogli, ma apprezza la sua presenza e si prodiga perché egli abbia comodità e compagnia.
Amax si ferma sempre a suonare lo zufolo accanto al suo letto e Kira ha così il tempo per pensare a quali domande fare prima che l’uomo si congedi da lui. Nel frattempo ne ammira il corpo sottile come una serpe e nervoso come quello di una tigre. Ha i capelli lunghi che gli accarezzano le spalle, neri e ricci; e un pizzetto sotto il labbro che ne inscurisce il mento nodoso. Ma quello che più lo incuriosisce sono le vesti: indossa sempre una vestaglia di seta legata alla vita, ma quando si siede Kira scorge la tela grezza dei pantaloni a cui la sabbia è attaccata insistentemente.
«Perché mi hai salvato?» chiede una sera.
Amax gli dà le spalle e alimenta il fuoco con un tizzone. «Avevi bisogno d’aiuto. Ti è forse dispiaciuto continuare a vivere?» Anche la sua voce è sottile, aspira le vocali e strascica la fine della frase; ma non per questo è meno energica e decisa.
«Affatto» risponde con vigore ritrovato. «Ho ancora molto da fare» aggiunge, serrando le coperte tra i pugni delle mani.
L’uomo fa per andarsene.
«Perché hai disertato?»
«L’esercito di Svea risponde ai saggi Ban’gh, e loro venerano Demel. Non c’è posto per Isa tra le loro file.» Amax si concede una risata amara nel vedere la confusione sul suo volto. «La dea dei Veli e dei Coltelli, l’unica che un vanyis prega.»
«E se ti scoprono?»
«Ma loro lo sanno: sanno che non ho famiglia, così come molti vanyis da queste parti; sanno anche che ho molti amici, gente che mi stima e che mi ascolta. Non possono ucciderci né convertirci, così come sanno che non possono uccidere il nostro credo. Ci tollerano, e lo stesso fanno con Lirth e Ur e i loro dei. La nostra fede è radicata in noi, ci scorre nel sangue. Non combattiamo per un’altra dea.»
Sangue!
A quella parola, qualcosa scatta dentro Kira. «Però... voi innalzate statue per Demel!» lo accusa incespicando nella sua stessa rabbia, senza neanche provare a mascherare il tono ingrato. «Costruite i loro templi.»
Amax si acciglia e lo guarda con una strana espressione, tra la sorpresa e lo sconcerto. Afferma: «Sembri star meglio.»
Kira annuisce, il muso duro e gli occhi puntati sui suoi, decisi.
L’uomo sembra soddisfatto. «Bene. Domani allora verrai con me.»
Il giorno seguente Kira si ritrova a camminare a fianco dell’uomo per le strade di Vilant. Osserva il mercato e gli spiazzi per le grandi aste. Si fa strada tra le locande e i cortili delle bettole, dove donne dai corpi seminudi fanno il bagno in grandi piscine di marmo e gli sorridono ammiccanti. Passano sotto gli archi che saltano da una casa all’altra, nascondendo le botteghe dei sensali o ripide scalinate, dove incrociano gruppi di uomini chiacchierare sottovoce. Si fanno strada tra i vicoli stretti, in cui i bambini giocano con i bastoni o si sfidano a catturare i serpenti. Ma sono le arene di sabbia nei sobborghi che lo incuriosiscono di più. Lì grandi tendoni sono allestiti per riparare il cibo e le bevande dal sole cocente, mentre gli uomini e le donne assistono agli scontri dei vanyis.
Amax è atteso per un incontro: Kira ne può ammirare l’abilità e la precisione. Per certi versi il combattimento gli ricorda una danza a cui ha assistito una volta con il padre: la dama velata aveva danzato con dei serpenti. I vanyis sono mamba, si ritrova a pensare: le loro armi sono letali e anche se il bersaglio riesce a svignarsela per tempo, basta un piccolo taglio, e il veleno di cui sono intinte le lame non lascia scampo.
Si guarda attorno, e quello che vede sono serpenti. Serpenti chiusi in un cesto. Basta scoperchiarlo…
«Voglio imparare!» È la prima cosa che dice quando si riunisce al suo protettore.
«Non è una pratica ben vista a Svea» gli rammenta il vanyis. «Lontano da qui sarebbe la tua condanna.»
«Non intendo avvicinarmi alla capitale prima del Carhnokat» afferma, vaneggiando in un suono atonico. Lui stesso non riconosce la sua stessa voce.
Amax aggrotta la fronte e un guizzo offeso passa sul suo viso. «Non dire certe cose: sono eresie! E non credere che solo perché Vilant è ostile al culto dei Ban’gh, si possa considerare nemica di Menrva. Abbiamo combattuto e siamo morti per non veder mai giungere il Carhnokat.»
«Tu insegnami!» Kira ha lo sguardo deciso e le fiamme brillano nei suoi occhi. La sua voce sibila, minacciosa: «E io farò in modo che il giorno del giudizio non si abbatta mai su Vilant e la sua dea.»
 
 
Kira vive per tre anni nella casa del vanyis, ingoiando sabbia e duri insegnamenti. Presto le paure e le ansie di ragazzo lasciano il posto alla volontà di ferro di un guerriero: apprende l’arte dei coltelli e impara a maneggiare lo spuntone a due lame. I suoi movimenti diventano rapidi e sinuosi come quelli di una vipera, la sua forza e la scoperta agilità gli modellano il corpo. Amax lo segue da vicino, portandolo nelle arene e in mezzo alle ronde. Il corpo di Kira comincia a riempirsi di calli e cicatrici e il sangue che scorre sulla sua pelle si mescola con la terra rossa e le urla di giubilo degli abitanti di Vilant.
Le sue orecchie si riempiono di voci, sussurri che nascono in un deserto che si estende a perdita d’occhio e che le tempeste di sabbia cancellano l’attimo dopo. Amax gli dice che Vilant è libera, per il semplice motivo che non si può incatenare. «Io sono un vanyis, nonostante la disapprovazione dei Ban’gh. La nostra libertà è il nostro retaggio.» Gli dice che Vilant è come il deserto: cambia forma, ma non sparisce, anzi cresce. «Alla fine, saremo tutti sabbia.»
Ma Kira ascolta: sente il malcontento alzare la testa dalla sabbia, la coda della vergogna vibrare al profumo della libertà. Vilant è una città lontana dagli ammonimenti dei Ban’gh, mantiene la sua identità, libera quanto un lemek al pascolo però. È un città che si nasconde tra le dune, ma che un tempo esprimeva il massimo dell’energia della civiltà umana: c’era la forza dei vanyis che incuteva timore, il potere delle assahrì che ammaliava; e c’era il deserto, un deserto che Vilant sapeva sfruttare.
È in quella città che scopre la lussuria e di come essa va a pari passo con la guerra.
Le donne delle case del piacere sono più che semplici intrattenitrici, lo apprende una sera nella casa del vanyis Sefard, amico del suo ospite. Il suo maestro frequenta la sua casa per trovare conforto e, dice lui, un po’ di sano divertimento.
«Perché non vi trovate una moglie?» gli chiede dinanzi all’ingresso, un po’ scocciato di doverlo attendere lì insieme a ubriachi perditempo.
«Perché vorrebbe dire perdere la libertà. I Ban’gh non aspettano altro da noi. Se noi abbiamo una famiglia, loro hanno le catene con cui addomesticarci.»
«Ma io che dovrei fare qui?» domanda ancora.
«Osserva e impara.»
Amax se ne va insieme a due donne dalle chiome nere e Kira resta solo ad affrontare la sala. La prima cosa che nota è l’eleganza del luogo: a Darsta, la sua città, i bordelli sono topaie per cagne e roditori, ma le case di Vilant sono teatri di bellezza e seduzione. La sala circolare richiama l’oro della sabbia e il rosso del fuoco; i tavolini e i divani sono disseminati nel locale e solo uno spiazzo al centro, decorato da mosaici di lingue infuocate, è lasciato libero. Una fanciulla gli sorride e lo prende sotto braccio, accompagnandolo a un tavolo vuoto.
«Grazie, ma sto bene dove sono» prova a obbiettare.
Le mani di lei scivolano sul suo petto e risalgono verso la mascella; la guidano con presa decisa, incoraggiandola verso il mosaico vermiglio. Kira sussulta quando una lama arriva a poche spanne dal suo viso. Il coltello s’arresta a mezz’aria e rimbalza verso la sua proprietaria, al centro della pista: i seni e le parti intime sono l’unica cosa semi coperta del corpo; intorno ai polsi, al bacino e alle caviglie sono legati sottili veli alle cui estremità pendono le lame affilate dei lunghi coltelli. Il ragazzo si sistema meglio nella sedia mentre i suoi occhi vengono rapiti da quella danza fatale: la fanciulla si snoda in gesti sensuali e voluttuosi e ognuno di essi finisce con la fredda precisione del lancio delle armi bianche; persino i lunghi capelli ambrati sono intrecciati intorno alle else e le ruotano intorno, mulinando l’acciaio. Inarcando gli arti e balzando in una capriola, conficca le punte dei pugnali sui tavolini; alza lo sguardo e i suoi occhi bramano lui.
Più tardi, tra le lenzuola aranciate di una delle camere da letto, Serah gli insegna come il piacere può incendiare e far bruciare il sangue nelle vene tanto quanto la rabbia e l’odio.
Kira guarda la città con occhi nuovi, più attenti e bramosi. Cerca spesso la compagnia della donna e pian piano compone quel mosaico misterioso che è tessuto intorno alla sua figura: ella è un’assahrì, una donna della dea Isa; il suo corpo è un’arma che uccide prima ancora delle sue lame. Scopre che il loro potere, per quanto venerato, negli anni ha perso il favore della gente, anche a causa delle lotte pubbliche che i saggi di Svea hanno indetto contro di loro. Nonostante ella venda le sue abilità, Kira ammira la sua dignità, che le fa guadagnare il rispetto silenzioso dei suoi tanti amanti. Il ragazzo esce sempre più spesso dalla casa del suo protettore, perdendosi tra le strette viuzze di Vilant, dove guarda la forza di quel popolo che nasconde il viso sotto i veli, aspettando che le tempeste di sabbia passino oltre; sente la loro forza e capta la brama che scorre nelle loro vene, trepidante e iraconda. È allora che la forza che lo ha sorretto nel deserto si fa sussurro nella sua coscienza: sfruttali!
Serah diventa il suo secondo maestro: lo avvicina alla gente, gli insegna a capirne gli animi, a parlare la loro lingua fatta di sibili e lame sottili; gli presenta i sensali che mediano con la capitale e vanyis dalla tempra più guerrafondaia di Amax. Il suo protettore lo lascia andare, non lo ferma, ma è sempre lì, come un’ombra. Lo lascia sperimentare, gli lascia sfogare la rabbia nelle arene, per poi gettarlo di nuovo nella sabbia, sconfiggendolo. Kira sente la sua bontà scivolargli addosso come acqua nel deserto. Non è solo la lotta quello che lui gli tramanda: impara a suonare lo zufolo, legge i vecchi scritti della dea e conosce un po’ di più l’anima di quell’uomo che ha rinunciato a una donna che ha amato solo nei suoi sogni e un bambino che non ha mai visto nascere solo per non vederli in catene. Questa, pensa rammaricato Kira, è la sua unica libertà: una sofferenza barattata con la solitudine.
Infine, quando il suo coltello si ferma minaccioso sulla giugulare di Amax tra le grida della folla estasiata, Kira sa perfettamente cosa Vilant si aspetta da lui e come sfruttare la loro devozione per la sua causa.
«Figli di Isa!» inneggia alla gente, attirando subito la loro attenzione. «Mi avete accolto nella vostra città, mi avete custodito agli occhi dei Ban’gh come fossi stato uno di voi. Oggi sono finalmente il vostro degno figlio!» urla.
La gente risponde al suo richiamo, fa sentire la voce fiera; Serah è tra loro. Kira sa cosa vuole dal corpo di lei, ma conserva quei piani per momenti più favorevoli.
«Il male dell’est ha sradicato le mie radici, Svea ha bruciato la mia stessa carne, ma solo Vilant mi ha ridato la forza e una ragione per cui rinascere. Ed è alla vostra terra che io mi consacro oggi, fratelli!» Le sue mani lasciano il maestro e allontanano il pugnale dalla sua gola; lo brandisce in alto, incitando la folla. «Svea ha soppresso la vostra anima, vi ha legato le mani e smussato le lame in nome di una minaccia sconfitta secoli fa! I demoni sono il nemico, dicono! Ma non sono i demoni a condannare il vostro culto! Non sono i demoni che vi privano di una famiglia! I demoni sono sottoterra, morti e dimenticati, ma i Ban’gh e le dita arcuate di Svea decantano alla loro paura per dominarvi!»
Le sue grida hanno azzittito la folla. Il capannello di gente si è trasformato in una macchia colorata che ha invaso lo spiazzo e le vie adiacenti. Ogni uomo e donna di Vilant si è azzittito, i più piccoli hanno lasciato cadere i loro giochi e persino i venti sferzano silenziosi tra di loro, accecandoli e lasciando solo l’udito a cogliere le sue accorate parole, ingigantendo la sua ombra e pompando la sua figura, quasi fosse quella di un re. Con gli occhi attaccati dai mulinelli di sabbia, gli abitanti della città iniziano ad aggrapparsi a quell’unica immagine, nata da quell’ultima parola: dominio.
Se c’è qualcosa su cui nessuno può dominare, gli sussurra una voce incoraggiante nella testa, è la loro libertà!
«Avete lottato valorosamente secoli fa per la vostra libertà. Ve la siete guadagnata!» S’infiamma, gli occhi ardenti spalancati sulla folla. Kira avvicina il pugnale al petto, brandendolo con forza davanti al viso. «Menrva è un regno di popoli liberi. Vilant ne è stato il cuore pulsante. Ed è ora che Svea e la sua dea se lo ricordino! Che i Ban’gh lo accettino: noi-siamo-liberi!»
Il pugno armato si alza e con esso l’urlo di guerra dell’ovest galoppa verso la conquista della capitale.
 
 
Lirth è un popolo di artigiani; il suo dio è Masheb, o della Creta. Kira non ha bisogno di combattere, il vento ha fatto giungere le sue parole fino a loro. Sotto gli imponenti archi sono appoggiate foglie di papaya e palme di cocco. Quest’ultimo frutto, con il guscio raschiato e il succo miscelato a una strana pastura violacea, gli viene offerto al suo ingresso nella città dei Volti Piangenti.
Masheb è raffigurato su ogni colonna o edificio maestoso, con metà del volto perfettamente scolpita e l’altra metà appena abbozzata, quasi non avesse ancora deciso quale aspetto assumere. La creta pare piangere su metà della statua. Nessuna di quelle effigie è uguale alla precedente, mutano e cambiano come l’elemento di cui sono fatte. Lirth è una tipica città di Menrva: le sue strade sono di sabbia e i suoi palazzi di mattoni a crudo; poche finestre si affacciano sulle vie, tutte oscurate da stuoie opache dai toni smorzati. È una città povera, pensa Kira, ma ora è libera.
Un pensiero confuso lo fa sorridere. Alza il volto verso una delle statue e lentamente si sfila di dosso la tagelmust, mostrando il viso ben rasato e i lineamenti perfetti della sua mascella. Gli occhi grigi sfidano il volto del dio prima di tornare a dissimulare quel sentimento e guardare nuovamente il kesh Narsek, il capo della città.
«Questa città prega Masheb» pronuncia Kira con voce attenuata, «permettetemi di porgergli il mio rispetto.»
Il kesh sorride soddisfatto e lo guida verso il tempio del dio della Creta. La Casa Sacra non è altro che un’unica stanza circolare di terra cotta, senza idoli od ornamenti, che s’innalza a nord-est della città per quattro braccia verso il cielo; al suo interno non ci sono statue o pavimenti, solo terra e un braciere acceso al centro. Narsek vi si dirige con passo ossequioso e s’inginocchia un momento per raccogliere un pugno di terra; si alza, la mano tesa, e la getta tra le braci. Le fiamme si rianimano e sputano un getto violaceo verso l’alto del tempio, dove un foro all’apice della cupola sovrastante permette ai raggi della luna di fondersi con il riverbero delle fiamme.
Kira abbassa il capo e attende che l’uomo torni al suo fianco. Non ripete il suo gesto, ma socchiude gli occhi in segno di rispetto della divinità; al kesh sembra bastare.
Il capo lo ospita nella sua dimora, insieme ad Amax e ad altri due capi del suo esercito. È un pasto frugale quello che consumano, ma viene servito loro con timore reverenziale e una timida espressione di scuse: è tutto ciò che possono offrire. Amax è il primo a ringraziare e a condividere la sua porzione con i convivali. Kira mangia poco e ascolta tanto. E osserva: ci sono donne con la pelle scura macchiata dal sole e i capelli raccolti in lunghe trecce che riempiono il suo bicchiere e chinano il capo; ci sono uomini a piedi scalzi e con i vestiti ricoperti di sabbia che si addossano alla parete, guadagnandosi timidamente un cantuccio dal quale ossequiare la sua presenza; e ci sono bambini che si arrampicano alla finestra per poterlo spiare. Kira sa cosa vedono in lui – la promessa in un dio che si sta sgretolando – e capisce cosa deve fare.
«La tua campagna è onorevole» inizia il kesh, sincero. Il brusio si acquieta subito.
Kira sorride con fare incoraggiante.
Narsek incrocia le gambe e tende il busto verso di lui, riverente. «Lirth ha aspettato a lungo la tua venuta, guerriero. Siamo pronti per combattere.» Il suo viso si fa più serio. «Non credere che noi uomini della creta non sappiamo come impugnare le armi. Vilant vive per morire e lottare, noi serviamo la vita e le sue mille facce; una di esse è la lotta. Sappiamo essere temibili quando serve.»
Un lampo passa negli occhi di Kira. «Grande kesh, neanche per un attimo ho messo in dubbio le vostre capacità. Ricordo bene quanto la vostra mano può essere letale.» Il suo sguardo, per un attimo, si fa distante e sembra squarciare il velo del tempo; torna presente e il suo cipiglio si fa più deciso, meno ambiguo. Spiega: «Mio padre conosceva molte leggende della Grande Lotta, molte riguardavano il vostro popolo.»
L’uomo s’inchina, lusingato. «Grazie, guerriero. Lirth ricorda ancora, non ha dimenticato le catene. Per questo siamo con voi!» esclama appassionato. «Ma altri temono la sommossa. Ur è forte, ma il suo legame con Svea è fatto da maglie strette. La città dipende dalla capitale, i suoi uomini sono il cuore dell’esercito. Si sta preparando alla guerra sì, ma contro di te, guerriero.»
Kira sorseggia un po’ della bevanda fermentata che gli è stata versata nel bicchiere, pensieroso. Poi, molto lentamente, afferma: «Ur è corrotta al vertice, ma le fondamenta sono ancora sane. Lasciamo loro il tempo di preparare le truppe» sorride, nuovamente con quella fiamma negli occhi assetati di sangue, «al momento giusto saranno nostre.»
Gli uomini non ribattono: bevono le sue parole come se fossero il nettare più buono. Questo ha il sapore effimero di un miraggio, eppure è capace di inebriarli.
Il concilio ristretto finisce a notte tarda, ma Kira non è stanco e si dirige senza preamboli nella tenda di Serah. La donna sta dormendo, ma il sangue da combattente la fa fremere al suo arrivo. Egli nota subito la lama lucente tra le mani di lei.
Il viso le si colora di lussuria quando lo vede avvicinarsi. Si allunga verso di lui e si sistema a cavalcioni, iniziando a liberare il corpo dai vestiti insabbiati. Kira la lascia fare, ammirandone ancora una volta le abilità seduttive, letali e ammantate di potere. Si lascia trasportare dalla sua passione, bevendo di quel fuoco e dissetando per un po’ la sua brama di rivalsa. L’eroticità di quell’avvinghiamento placa la sua rabbia sempre più forte e mitiga la sua impazienza. Non ci sono luoghi che la lingua di lei non esplora, non c’è lembo della sua pelle che rimanga insoddisfatto. Quando lei infila le dita tra i suoi capelli, un lampo latteo sfugge dai suoi occhi, e il corpo di Kira prende il sopravvento, ribaltando i ruoli. Le sue dita affondano fino alle ossa, sembra quasi volerle strappare la carne. La morde, la graffia, e gode nel sentirla cedere alle sue insane torture. Le permette di sistemarsi contro il suo fianco solo quando il freddo delle notti del deserto non diventano altro che un un’ombra al di là della tenda.
«È stato divertente» la lusinga.
Serah ride sommessamente. «Tutto qui?» sussurra poi, invitante.
Kira la sovrasta, afferrandole il volto all’attaccatura dei capelli. «Un uomo potrebbe morire felice tra le tue braccia. Non ti servono lame.»
«Un uomo qualunque, forse» obietta, «ma non il grande guerriero dell’est.» Le mani di lei scivolano sul suo addome, lo stuzzicano.
«Basteranno contro i capi di Ur» afferma. La sua pelle è ora indifferente a quelle attenzioni.
Serah si acciglia, confusa. «Cosa vuoi dire?»
«Sei un’assahrì, e ho bisogno delle tue doti di serva della dea.»
La donna svicola dalla sua presa e lo allontana in malo modo. Lo fulmina, offesa e incollerita. «Vuoi usarmi?»
«Voglio lasciarti libera di essere quello per cui ti sei addestrata.»
«Mi vuoi condividere con un altro?»
Kira non può fare a meno di sorridere. «Non l’ho sempre fatto?»
Serah alza una mano per schiaffeggiarlo, ma egli le blocca il polso e l’attira verso di sé. «Mi piace quanto ti arrabbi, il tuo sangue brucia contro la mia pelle. Lotta al mio fianco, assahrì. Sii la degna donna del guerriero.»
Quelle ultime parole sembrano acquietarla un po’. Ancora con la fronte aggrottata, la donna si risistema contro il suo petto e lentamente si abbandona tra le braccia del sonno ristoratore.
 
 
Kira la rivede solo sei giorni dopo, davanti alle porte sbarrate della città. Il suo esercito è accampato qualche miglio più a ovest, al sicuro dalla gittata delle balliste. La donna cammina verso di loro, nascosta da una tempesta di sabbia che scivola alle sue spalle, la figura completamente avvolta nel mantello. La riconosce e l’attende; una parte di lui è contenta di saperla viva, ma una voce nella sua mente si aizza sospettosa.
È quest’ultima che prende la parola, malefica e priva di espressività sennò quella che mostra ira: «Torni da me, ma le porte sono ancora sbarrate!»
«I dodici capi sono morti. Con il sorriso sulle labbra» aggiunge, mentre le sue due compagne lo salutano e raggiungono le carovane dei viveri; una di loro è ferita superficialmente a un braccio e viene presa in consegna da un uomo dei guaritori. «Ma altri, tra le loro fila, cercano di far schierare Ur contro di te. Non appena abbiamo iniziato a parlare alla folla, hanno attaccato.»
Kira guarda le scuri grigie: Ur è l’unica città di Menrva a essere stata costruita con la solida pietra. Le sue mura sono alte più di cinquanta braccia e sui portoni, a monito dei nemici, vi sono scolpiti i visi contorti e demoniaci in evidente supplizio, a significare che nessun tipo di creatura, demone o uomo, può varcarne la soglia con i vessilli di guerra spiegati.
«L’esercito è in rotta, necessita solo di un capo» mormora lui. «Mobilitate gli uomini. Attacchiamo!»
Serah sobbalza, ma è Amax che prende la parola. «Kira, Ur non è il nemico.»
«No, certo» conferma, accondiscendente. «Ma è preda di uomini corrotti, e va liberata.»
«Non con la forza. Non farti corrompere dal potere, ragazzo.» Il vanyis è ancora il suo maestro, e in lui vede solo il ragazzino impaurito e debole che è giunto ai suoi piedi anni prima. «Quella città ha bisogno di una guida, non di un tiranno.»
«Certo, certo…» Kira sopprime un lampo latteo e i suoi occhi si rilassano in un'espressione pacata.
Alla fine, avvantaggiandosi della protezione della tempesta, Kira conduce un manipolo di guerrieri verso la cinta muraria. Accanto a lui, Serah lo guida sicura lungo il fianco orientale. Lì, dissimulata tra i blocchi di pietra, grazie a un marchingegno di carrucole e ingranaggi, si nasconde il varco segreto usato poco prima da lei e dalle sue compagne per uscire.
«Il comandante del bastione aveva voglia di chiacchierare» spiega allusiva, e fa scattare il meccanismo.
Percorrono un intricato incrocio di strette gallerie, dove la roccia è stata lasciata allo stato grezzo, e trovano i gradini irregolari che portano all’interno della caserma. Al di là della porta che sbarra loro la strada riecheggiano delle voci. Attraverso un foro nelle assi, Kira può vedere due soldati seduti intorno a un tavolo e illuminati da una lanterna. Con un calcio poderoso, sfonda la porta e lancia due lame verso i due uomini sorpresi; questi cadono a terra, i punteruoli conficcati nei loro corpi.
Approfittando dei tafferugli all’interno delle mura, il piccolo manipolo si fa largo verso le scale e poi giù tra le vie della città. Serah cammina svelta, certa che gli altri le stiano dietro. Il suo corpo è piegato ed evita il contatto visivo con la folla; la sua mano stringe quella dell’uomo che ama. Si ferma ai bordi di una grande piazza, dov’è raccolta la maggior parte della gente: qualcuno sta cercando di prendere le parola, ma sono troppe le discussioni accese tra gli astanti.
Serah gli indica un giovane uomo tra quelli in piedi sui blocchi di pietra, ai lati della stretta scalinata. «Brav, il luogotenente di Trorah; e quella è la Via Perpetua» la designa. «Si snoda lungo tutta la città, sempre più stretta tra gli edifici neri, tagliando a metà, come una saetta, Ur. Trorah è lì che invoca Arg, il dio della città, sotto gli occhi dei comandanti delle altre unità. È lui che ha il maggior assenso. È un khatà» lo avverte, quasi a giustificarsi. «L’unico piacere che si concede è la lotta.»
Kira annuisce, lo sguardo puntato sulla folla. «E questi?»
«Molti sono fedeli di Trorah. Gli altri sono solo curiosi o indecisi che aspettano di vedere se Arg risponderà.»
Kira fa per avanzare, ma Amax lo afferra per un braccio e lo costringe a fermarsi. «Non essere avventato, figliolo.» Lo ammonisce con quella nota d’affetto che Kira ha imparato a cercare durante i momenti di spaesamento; lo trattiene con discrezione, per non minare alla sua credibilità. E Amax è fiero di quello che è diventato, glielo legge negli occhi. Eppure Kira, per la prima volta, prova il desiderio di liberarsi di lui, della sua influenza, della sua protezione. Sente un sibilo risalire nella gola, e lo trattiene tra i denti, risentito. Una parte di lui vorrebbe ascoltarlo, ed è proprio quell’istinto all’obbedienza che l’altra parte, invece, vorrebbe debellare.
In quei pochi attimi le discussioni in piazza si sono animate, la gente viene alle armi. Un guizzo di sangue schizza sul mantello del giovane guerriero, l’odore del ferro arriva alle sue narici, inebriandolo. Il vanyis gli sta parlando: consiglia di non cercare lo scontro aperto. Una voce, nella sua testa, è d’accordo; ma solo in parte.
Sicuro di sé, Kira libera il braccio dalla presa. Volta le spalle al suo maestro. «Apri i portoni. Conduci il mio esercito qui!» ordina alla donna. Si fa strada tra la gente e il suono cacofonico delle loro grida. Mette un piede sul primo gradino e comincia a salire, ma Brav gli si para davanti, ostacolandogli il cammino.
«Sono qui per Trorah» annuncia, sereno. Alle sue spalle, sa che Amax lo segue come un’ombra.
«Solo le alte cariche possono raggiungere in preghiera Arg!»
La tagelmust cade a terra. Kira si volta leggermente verso la folla e afferma: «Sono il guerriero dell’est, consacrato a Isa e alla guerra contro Svea! Sono qui per Trorah» ripete poi, con tono deciso. «E tu mi farai passare.»
Brav sussulta, ma è solo un attimo: lesto, afferra la sciabola e cerca di colpirlo con un tondo. Mostrando un’atavica indifferenza, Kira si abbassa e riprende a salire; alle sue spalle, Amax para il colpo e trafigge al torace l’uomo, lasciandolo morente in una pozza di sangue. Insieme, i due guerrieri salgono i settemila gradini che conducono al tempio, lasciando i compagni a sedare la sommossa dei fedeli.
Le porte del tempio sono identiche ai battenti delle mura esterne, anche se più piccole e con i visi combattivi raffigurati sopra. Sul frontone vi è incisa una scritta. Kira pensa di non conoscere quei glifi, ma la risposta giunge comunque.
«Nel mezzo dell’inverno ho scoperto che c’era, dentro di me, un’estate invincibile» legge a fil di labbra.
«Il motto dei khatà» annuisce Amax, colpito dalla sua conoscenza. «Addestrati al piacere della lotta sin da quando erano in fasce. Dicerie dicono che ad alcuni fanno bere il sangue di animali insieme al latte.» Forse vuole spaventarlo, forse solo metterlo in guardia. Amax stringe le lame e lo affianca con disinvoltura, una calma così differente da quella che imbavaglia la furia di Kira: il suo maestro è freddo e preparato, mentre lui ha il fuoco ad alimentare la sua sicurezza.
Sarà gloria da quest’oggi in avanti, e nascerà dal dolore patito fino a qui. «Non mi fermeranno» giura.
I battenti sono chiusi, ma non bloccati: a Kira basta spingere con forza per aprirle. Con il sole alle spalle, la sua scura figura si staglia sulla soglia e la sua ombra si allunga sulla cella sottostante. Con lentezza misurata, inizia a scendere i gradini interni, fino a trovarsi di fronte i capi dell’esercito di Ur. Dai lati della navata circolare giungono delle guardie armate, ma lascia che sia il vanyis a occuparsene.
«Cerco colui che ha prestato giuramento a Svea!» proclama.
«Tutti qui sono tenuti a rispettare quel giuramento, straniero!» lo sfida una voce. «Persino tu.»
Kira osserva gli uomini dinanzi a lui prima di concentrarsi sull’uomo che ha parlato: vestito con una lunga veste spaccata ai fianchi, Trorah tiene una mano sull’elsa della sciabola e i suoi piccoli occhi lo guardano omicidi da sotto le folte ciglia nere; sul suo viso, la tipica barba dei guerrieri di Ur arriva sino al petto.
Kira sorride affabile. I suoi occhi scrutano i sette busti e la grande statua del dio Arg. Lentamente, con gesti misurati, estrae la spada e la poggia al suolo. «Sono morto sottoterra, tra la polvere e la luce abbagliante» dichiara, enigmatico. «La mia nuova vita è iniziata col fuoco e si spegnerà solo col sangue.»
Le sue dita scattano alla cintura e prima che gli uomini possano mettere mani alle loro lunghe lame, il suo corpo volteggia nell’aria, scagliando i coltelli a ventaglio. Otto uomini cadono a terra, Trorah rotola sulla pietra e si rialza, in agguato e pronto alla contromossa.
È senza armi, adesso Kira, e non può far altro che eludere gli attacchi dell’altro. È calmo, però: le lame dell’avversario gli danzano vicino ma non lo riescono a colpire; sembra deviare i colpi con la concentrazione dello sguardo. È in attesa, il guerriero, mentre risale a ritroso i gradini e si sposta di lato e li ridiscende nuovamente, lasciando che il khatà lo sovrasti con la sua boria.
Un fischiettio attira l’attenzione di Kira: con la coda dell’occhio, vede giungere Narsek. Lo chiama per nome, ed egli tende finalmente la mano per afferrare l’oggetto lanciatogli. Prima che Trorah possa attaccare, con un affondo che lo porta a genuflettersi conficca la lancia nella gola dell’avversario. L’ultima cosa che Trorah vede è il bianco che per un attimo si impadronisce degli occhi del condottiero.
 
 
Kira ringrazia l’arrivo tempestivo dell’uomo e gli va incontro.
«La vostra attesa è stata largamente ripagata, kesh.»
«Trovare la lancia nelle fondamenta del tempio non è stato un lavoro facile, guerriero» si giustifica con un po’ di affanno nella voce. «Abbiamo dovuto scuotere le fondamenta, ma Masheb ci perdonerà: combattiamo per una giusta causa. I nostri antenati l’avevano ben seppellita.»
«Questo perché nelle mani sbagliate può essere un flagello per Menrva» mormora Kira.
I suoi occhi osservano con ammirazione la siffatta bellezza dell’arma: la lancia ha una linea semplice e primitiva e in entrambe le estremità termina con una lama piatta di spectrolite; nessun graffio o abrasione ne intacca la materia e il filo è rimasto affilato in tutti quei secoli. La polvere sembra evitare di depositarsi su di essa, il potere di cui è intrisa che pulsa dormiente al suo interno.
«Allora, forse, sarebbe stato più saggio lasciarla sottoterra» li interrompe Amax.
«L’arma migliore, per il condottiero che ci libererà!» prorompe Narsek, indignato.
«Posso parlarti da solo?» lo ignora il vanyis, rivolgendosi al suo allievo.
Kira sospira, ma lo segue docilmente fuori dal tempio. Ridiscendono la scalinata silenziosamente, Amax davanti con le mani strette dietro la schiena. La roccia è macchiata qua e là dal sangue, alcuni morti sono abbandonati sugli alti gradini. Ma è una volta giunti in piazza che lo scempio si mostra ai loro occhi: ogni uomo che era rimasto ad attendere i comandanti in preghiera al tempio è stato ucciso brutalmente, passato a filo di spada senza remora; persino le donne non sono state risparmiate.
Sangue! Urla la sua mente.
«È questo ciò che volevi?» gli chiede. «La vendetta è il trofeo che brami?»
«Io voglio solo giustizia per me e il mio popolo» afferma, ma neanche lui riesce a mettere abbastanza enfasi per risultare convincente. «Erano nemici» riprova, un guizzo di sfida che nasce e muore nel suo animo.
«I Ban’gh sono il nostro nemico, Kira. Questi erano uomini, e molti di loro ti avrebbero appoggiato» lo redarguisce.
Urla di vittoria lo acclamano; il suo esercito lo invoca per nome. La mente di Kira traballa, confusa. Per un istante, il volto della fanciulla con i capelli in fiamme compare davanti al suo volto, poi l’odore del sangue lo scaccia via.
In un sussurro, risponde: «Sono vittime della guerra. Verranno ricordate.»
Si allontana, lasciando il suo maestro e amico sulle scale, a domandarsi cosa abbia cambiato tanto il ragazzo solo e addolorato a cui aveva dato aiuto tre anni prima.
E la stessa domanda se la pone Kira, più tardi, nella stanza assegnatagli dentro Ur: è spartana e senza mobilio e il letto è un giaciglio spoglio, con le coperte ripiegate ai suoi piedi. Egli vi si è rannicchiato sopra, le gambe strette contro il busto e la testa poggiata sulle ginocchia. Ha chiuso la porta, allontanando tutti, persino Serah. C’è solo la sua mente a fargli compagnia.
«Non volevo» sussurra. «Ma è stato necessario» si giustifica subito dopo. «Erano innocenti»… «Come i miei genitori»… «Non voglio uccidere degli innocenti»… «I Ban’gh sono assassini, il loro sangue sazierà la sete di giustizia di Menrva.»
Delirante, preda delle sue paure e delle sue colpe, Kira sogna: vede città in fiamme e Svea che si regge ancora in piedi in mezzo al caos, dorata. Lui è diretto lì, brama quello che la città custodisce; lo vuole, lo desidera.
«Demera!» si sveglia, il nome della fanciulla sulle labbra, una morsa stretta al petto.
Si è addormentato con i vestiti impolverati addosso, il tessuto si è appiccicato al corpo sudato.
«Demera!» accarezza quel suono, come un piacevole ricordo lontano; sa di dolce e sembra dargli un po’ di pace.
I suoi vestiti puzzano ancora di sangue, quell’odore gli riporta alla mente altri ricordi: le fiamme, la malattia, l’esilio, la condanna. Risveglia la sua sete di giustizia, per i suoi genitori e le vittime di quella guerra appena iniziata. Kira stringe le mani a pugno, ringhiando.
«Pazienza» sussurra la sua mente, «conquisteremo Svea e avremo la nostra giustizia.»
Gli occhi acquamarina sbiadiscono ancora una volta tra le fiamme della sua rabbia.
   
 
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