Attesa
The first condition of
immortality is death.
Stanislaw
Jerzy Lec.
«Tesoro, non fare i
capricci. Ti prometto che non durerà molto.»
promise con voce flebile mamma
stringendomi la mano in una presa delicata, ma ferma. Strisciai il
piede destro
per terra annoiata, mentre un leggero broncio si disegnava sul mio
volto.
Non mi piaceva quel
posto. Era troppo bianco e puzzava di disinfettante, ogni volta che
andavamo lì
incontravamo sempre persone tristi: alcune piangevano cercando di
liberarsi dal
dolore che li tormentava senza riuscirci davvero, altre, invece,
sembravano
spezzate dentro, come se non riuscissero più a provare nulla
se non la
disperazione nella sua forma più pura…
Tutti lì dentro mi
davano i brividi. Non riuscivo a stare tranquilla, i loro occhi mi
fissavano
ogni volta che io e la mamma percorrevamo i corridoi, ma non era tanto
il peso
del loro sguardo a farmi vacillare, quanto più la follia e
la brama che li
attraversava a tratti. Una brama che non aveva niente di
sano…
Terrorizzata mi
strinsi al fianco di mia madre, mentre la presa tra le nostre mani
diventava la
mia unica ancora di salvezza. Volevo uscire da quel posto e non
tornarci più,
dimenticare quell’edificio e tutto ciò che lo
abitava. Quella era la Casa della
Disperazione, un luogo che una bambina
non avrebbe mai dovuto visitare, né vedere da lontano ed
invece io mi trovavo
esattamente in quell’antro degno dell’Inferno con
l’unico desiderio di uscire
da quella struttura e scappare il più lontano possibile
senza guardarmi
indietro.
Con un occhio sbirciai
il volto stanco della mamma, lunghe occhiaie le incidevano il viso, la
carnagione chiara pareva quasi bianca, i capelli erano intrecciati in
una
perfetta treccia laterale le scivolava oltre la spalla donandole
un’aria
piuttosto austera…
Se era vero quello che
si diceva in giro, vale a dire, che gli occhi sono lo specchio
dell’anima,
allora mia madre era devastata da quello a cui stava andando incontro,
perché
per un attimo, quando abbassò il volto mi sembrò
di vedere le sue iridi
sbiadire leggermente fino a quando non mi mise bene a fuoco. Allora non
poté
fare a meno di cercare di sorridere, provando a rassicurarmi. Non mi
lasciai
incantare da quel triste sorriso…
I suoi occhi
rispecchiavano la morte nel cuore.
Finalmente riuscii ad
inquadrare l’edificio ospedaliero in cui ci trovavamo ed il
motivo per cui ci
trovavamo lì.
La struttura
dell’Attesa, una specie di ricovero per i casi senza speranza
che aspettavano
di poter oltrepassare quel leggero velo che divideva il nostro mondo da
quello
delle anime. Qui venivano portati alcuni casi di malattie in stato
troppo
avanzato per essere curate o persone che avevano smesso di vivere da
tempo, ma
che i loro cari si ostinavano a trattenere al loro fianco…
Continuammo lungo il
corridoio fino a raggiungere la stanza 999 e, come tutte le volte che
dovevo
attraversare quella soglia, venni colta dal panico. Volevo fuggire
lontano ed
andarmi a nascondere, lontano da tutti e da tutto, ma soprattutto
lontano da Lei.
Lei, la stessa che ora
giaceva impotente in un asettico e disinfettato letto ospedaliero,
circondata
da pareti bianche e coperta da lenzuola bianche e con la testa poggiata
su un
cuscino bianco, con cui i suoi lunghi capelli grigi sembravano
confondersi.
Detestavo quel colore con tutta me stessa, soprattutto quando mettevo
piede lì
dentro.
«Signora Fiore…»
Un medico in camice
era appena comparso alle nostre spalle, richiamando
l’attenzione della mamma
con un tono di voce serio, mentre ci osservava al di là
delle lenti degli
occhiali che indossava. Con un gesto ci invitò ad entrare,
mamma non se lo fece
ripetere due volte, trascinandomi dentro e probabilmente mi
richiamò anche per
il comportamento che stavo dimostrando, ma io non la potevo sentire.
L’aria all’interno
della stanza si era fatta di colpo irrespirabile e pesante. La vista
iniziò a
traballare ed i contorni del mio campo visivo si facevano via a via
sempre più
sfocati, non riuscivo a sentire nulla a parte il battito del mio cuore
rimbombarmi nelle orecchie.
Volevo uscire da
quella stanza e scappare il più lontano possibile.
Perché mi trovavo lì? Io non
volevo andarci, odiavo quel posto!
Mano a mano che mi
avvicinavo a quel letto di ospedale più sentivo il bisogno
di fuggire da quel
luogo diventare impellente. Cominciai a strattonare la presa di mia
madre e a
puntare i piedi a terra pur di non avanzare nemmeno di un altro passo.
«Mamma…
Andiamocene, per favore…» piagnucolai, mentre lei
si girava verso di me
esasperata.
Prese un profondo
respiro e si inginocchiò davanti a me. «Diana,
tesoro… Per favore, devo sentire
ancora il medico sulla situazione della nonna. Poi andiamo a casa, va
bene?» mi
promise prima di prendermi in braccio per impedirmi di fare altre
storie.
Il medico ormai era a
fianco del letto e fece cenno alla mamma di avvicinarsi, di riflesso
chiusi gli
occhi, non volevo vedere nulla della persona che occupava quel posto,
avevo una
sensazione orribile a riguardo. Se avessi guardato, sarebbe successo
qualcosa
di brutto.
«Lei
è viva… È qui…» sussurrò
una voce roca.
D’istinto aprii gli
occhi per vedere di chi stesse parlando e mi ritrovai a fissare due
pallidi
occhi azzurri che mi tolsero il fiato… L’orrore
che si rifletteva nei nostri
sguardi era del tutto primordiale. Il cuore cominciò a
battere all’impazzata,
mentre cercavo disperatamente di respirare…
Mia madre mi mise
immediatamente a terra guardandomi spaventata da quella reazione di
panico che
mi aveva colpita all’improvviso. La sentii chiedere disperata
aiuto al dottore,
ma non appena lui fece un passo nella nostra direzione, un lungo e
acuto bip
riempì la stanza.
In un secondo ripresi
a respirare correttamente, ma da quel momento in poi cominciai a
singhiozzare
senza riuscire a fermarmi. Un dolore straziante aveva preso il posto
della
crisi di panico di poco prima. Quel repentino cambio di umore
sembrò
tranquillizzare mia madre, fino al momento che comprese
l’origine del bip…
«Noioso,
non trovi?»
Con
uno scatto mi voltai verso la voce, ma mi ritrovai a
fissare un’immensa distesa oscura. Non riuscivo a vedere
chiaramente, soltanto
una specie di sagoma in mezzo a quelle tenebre; qualcosa con una
diversa
consistenza, che, in qualche modo, la metteva in risalto rispetto
all’ambiente
circostante.
«Chi
sei?» domandai tenendo lo sguardo fisso su quello che
credevo il mio interlocutore.
Una
risata fanciullesca e divertita si levò dalla sagoma, ma
la sensazione che mi provocò fu tutt’altro che
piacevole. Era come se mi
trovassi davanti a qualcuno in grado di decidere della mia vita in base
ad un
suo semplice capriccio.
«Chi
sono?» mi fece il verso una voce maschile.
«Incredibile
che proprio tu, fra tutti, me lo chieda. Ti sei già scordata
di me?» domandò
passando rapidamente da un tono di voce calmo e socievole ad uno
lamentoso.
«Ecco cosa succede quando decidi di aiutare un essere umano,
si dimenticano
subito di tutto ciò che hai fatto per
loro…» aggiunse arrogante. Troppi cambi di
umore repentini perché la sua presenza mi tranquillizzasse.
Fissai
quella sagoma informe senza capire. Di cosa stava
parlando? Ero sicura di non averlo mai incontrato, eppure quella voce
aveva
qualcosa di familiare e spaventoso allo stesso tempo, ma non per questo
mi
ispirava fiducia.
Ero
certa di non aver mai chiesto aiuto a nessuno, avevo
difficoltà a fidarmi delle persone, men che meno della fonte
di quella voce!
Nonostante non ne conoscessi l’identità, qualcosa
nella sua arroganza e nel
tono calmo mostravano quanto sarebbe stato facile per lui esaudire
qualsiasi
richiesta. Un’offerta allettante se non si faceva caso al
pesante “ma” che
alleggiava nella frase…
Tutto
ha un prezzo a questo mondo, ora non rimaneva che
scoprire cosa credeva di avermi promesso di esaudire e cosa avrebbe
richiesto
in cambio.
«Non
credere di sfuggirmi, ragazzina. Il patto che abbiamo
stretto più di settant’anni fa, è stato
sigillato con il sangue e il sangue non
mente mai!» soffiò quella voce nel mio orecchio
con una vena di aggressività.
Settant’anni
fa? «Impossibile. Io non ero ancora nata! Non
sono io la persona con cui hai stretto il patto!» urlai
girando su me stessa in
mezzo a quell’infinito oscuro. «Quindi ora lasciami
andare.»
Una
fragorosa risata rimbombò tutto intorno a me. «Ti
piacerebbe, Denise…»
Un
movimento improvviso alle mie spalle mi fece voltare su
me stessa, ritrovandomi faccia a faccia con me stessa. Per un attimo
rimasi
imbambolata a fissarmi, finché non iniziai a notare alcuni
particolari come una
cornice barocca che circondava la mia immagine. Non era una mia copia,
ma la
mia semplice immagine riflessa in uno specchio dall’aria
antica.
Più
fissavo il mio riflesso, più iniziavo a notare dettagli
diversi fra di noi.
I
suoi capelli erano perfettamente acconciati in una coda
bassa, mentre i miei ricadevano spettinati e sciolti lungo la schiena;
i
vestiti che indossavamo erano totalmente diversi: i suoi vecchi, quasi
anni
’20, mentre i miei un pantalone da ginnastica e una semplice
maglia a maniche
corte. La stavo ancora studiando attentamente quando mi
saltò all’occhio uno
scintillio. Spostai lo sguardo e mi ritrovai a fissare una collana
d’ro con un
ciondolo a forma di cerchio.
«Saremo insieme per
sempre.» affermò
sorridendo lanciando un
ultimo sguardo al sole ed alla luna uniti.
«Il
sole…» sussurrai flebile, mentre mille ricordi mi
affollavano la mente.
Era
lo stesso ciondolo di quella volta, di quel maledetto
primo sogno!
Dovevo
scappare, non ero al sicuro!
Provai
a girarmi in ogni direzione, sperando di trovare un
varco o una flebile luce che mi potesse indicare una via di fuga, ma
tutto
quello che mi circondava era solo un ammasso di oscurità.
Uno
spostamento d’aria alle mie spalle e un improvviso
calore mi fecero capire di avere qualcuno dietro di me. Non riuscii a
muovermi
alla sola idea che una creatura simile a quella che mi aveva attaccata
in
camera mia, potesse essere lì dietro, ma la
curiosità era troppo forte.
Così,
senza fare un movimento, sbirciai dal riflesso nello
specchio. Non riuscii a vedere chiaramente, tutto il buio che ci
circondava
rendeva difficile metterlo a fuoco, sembrava quasi che le ombre
facessero parte
di lui. Perché di una cosa ero certa: si trattava di un uomo
e aveva gli occhi
di due colori diversi, il destro verde e il sinistro giallo che
risplendevano
nel buio.
«Oh
no, ragazzina. Quello non è un sole.» mi
sussurrò con
voce melensa nell’orecchio. «Quella è
una luna piena.»