Teatro e Musical > Les Misérables
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Autore: Christine Enjolras    23/10/2016    1 recensioni
Marius Pontmercy, sedici anni, ha perso il padre e, nel giro di tre mesi, è andato a vivere con il nonno materno, ora suo tutore, che lo ha iscritto alla scuola privata di Saint-Denis, a nord di Parigi. Ora Marius, oltre a dover superare il lutto, si trova a dover cambiare tutto: casa, scuola, amici... Ma non tutti i mali vengono per nuocere: nella residenza Musain, dove suo nonno ha affittato una stanza per lui dai signori Thénardier, Marius conoscerà un eccentrico gruppo di amici che sarà per lui come una strampalata, ma affettuosa famiglia e non solo loro...
"Les amis de la Saint-Denis" è una storia divisa in cinque libri che ripercorre alcune tappe fondamentali del romanzo e del musical, ma ambientate in epoca contemporanea lungo l'arco di tutto un anno scolastico. Ritroverete tutti i personaggi principali del musical e molti dei personaggi del romanzo, in una lunga successione di eventi divisa in cinque libri, con paragrafi scritti alla G.R.R. Martin, così da poter vivere il racconto dagli occhi di dodici giovanissimi personaggi diversi. questo primo libro è per lo più introduttivo, ma già si ritrovano alcuni fatti importanti per gli altri libri.
Genere: Commedia, Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Éponine

 “Sono tornata!” esclamò Éponine chiudendo la porta della residenza per studenti in cui lavoravano i suoi, il Musain[1].

“Éponine ti stavamo aspettando! Vieni ad aiutarmi a sistemare le camere prima che arrivino i ragazzi!”

“Ma mamma avevi promesso che come avessi cominciato il collège non mi avresti più fatta lavorare qui con voi!”

“Mica avrai già cose da fare?! È solo il primo giorno! Su sbrigati!”

Nonostante non avesse ancora mangiato, a Éponine non rimase altra scelta che salire la scala dell’ingresso per andare al primo piano, attaccare la presa dell’aspirapolvere alla corrente e aiutare i suoi genitori a pulire tutte le stanze. I Thénardier, i genitori della ragazza, erano quel tipo di persone che definirle spilorce voleva dire far loro un complimento: dopo che avevano perso la loro ultima cameriera, rigorosamente sottopagata, sette anni prima, non avevano più voluto assumere nessuno e avevano tenuto tutti i loro affari esclusivamente in famiglia, in modo da non dover pagare lo stipendio al personale. Perciò non c’è da stupirsi se ogni tanto capitava di vedere la giovane figlia maggiore con in una mano l’aspirapolvere e nell’altra un libro di scuola: a parte sua sorella Azelma, che aveva due anni meno di lei, gli altri suoi fratellini, tutti e tre maschi, erano troppo piccoli per lavorare assieme a loro. Éponine aveva chiesto ai suoi genitori di esonerarla dai lavori quando avesse cominciato il primo anno al collège, perché voleva concentrarsi sugli studi, ma come al solito i suoi genitori le avevano detto di sì per poi fare comunque quello che volevano loro. Quando lei e Azelma erano piccole, i Thénardier le avevano viziate molto, ma poi qualcosa era andato storto coi loro affari, o così le avevano detto, e si erano ritrovati improvvisamente al verde, quindi lei aveva iniziato ad aiutarli nel lavoro alla residenza e poi la stessa sorte era toccata anche alla sorellina.

Ad un certo punto, mentre stava pulendo una camera al primo piano, vicino alla sala comune, guardò le due grosse valigie arancioni sul letto a sinistra e le venne un’illuminazione. “MAMMA, MA QUALCUNOÉ ANDATOA PRENDERE GAVROCHE A SCUOLA?” urlò verso il piano superiore, infilando la testa nella tromba delle scale.

“NON DOVEVI ANDARE TU???” le urlò in risposta sua madre dal secondo piano.

“NO, DOVEVA ANDARE A PRENDERLO PAPÀ!”

“IO?! MA NO, CARA! IO STAMATTINA SON DOVUTO RESTARE A CONTARE I SOLDI INCASSATI DAL PAGAMENTO DEI NOSTRI OSPITI!” fu l’urlo che le arrivò da suo padre dal terzo piano.

Ecco, c’era da aspettarselo: oltre che da cameriera avrebbe dovuto fare anche da babysitter a quella peste di suo fratello! Fortunatamente le mancava poco per terminare di pulire le stanze: una volta terminato il suo piano, scese in cucina, tagliò un panino a metà, ci mise dentro una fetta di prosciutto e una di formaggio, recuperò dal bancone della reception la sua borsa e corse fuori per andare a prendere il maggiore dei suoi fratellini.

Il quartiere moderno era affollato come al solito, con automobili che sfrecciavano sulla strada in vista della pausa pranzo e moltissime persone lungo i marciapiedi che si dirigevano nelle loro abitazioni o in bar e ristoranti. Insomma, non proprio la situazione ideale per permettere a un bambino di otto anni di muoversi da solo in città: Éponine sapeva che se nessuno si fosse presentato entro massimo quindici minuti dal suono della campanella, Gavroche sarebbe tornato a casa da solo. Guardò l’orologio del suo telefono cellulare e si accorse che era già tardi: Gavroche era uscito da scuola circa una ventina di minuti, quindi si ritrovò a sperare che non avesse ancora preso l’autobus. Accelerò il passo, cercando di passare tra la gente che camminava sul marciapiede contro il suo senso di marcia: perché tutte le volte che aveva fretta sembrava che l’umanità intera andasse nel verso opposto al suo? Non poteva proprio sopportarlo! Si ritrovò costretta a spintonare la gente perché la lasciasse passare e maledisse che i suoi genitori fossero sempre troppo occupati a pensare ai loro affari per rendersi conto di aver messo al mondo ben cinque figli!

Éponine non somigliava per niente ai suoi: lavorare fin da quando era piccola l’aveva resa responsabile, matura e indipendente; i Thénardier invece erano sempre occupati a fare soldi, che fosse in maniera onesta o illegale a loro non importava un granché: erano talmente bravi a ripulire le tasche dei loro ospiti che essi non si accorgevano di essere stati derubati finché non rientravano nelle loro abitazioni e si ritrovavano a pensare di aver perso tutti quei soldi e quegli oggetti preziosi che si intascavano i due padroni di casa durante il viaggio. Presi com’erano dal rimpinguare le loro casse dopo questo misterioso affare fallito, era Èponine a doversi occupare di tutto: fortunatamente c’era anche Azelma con lei!

Quando arrivò alla fermata dell’autobus, il mezzo era già arrivato: era proprio il numero 3, quello che avrebbe dovuto prendere lei per raggiungere la scuola di Gavroche, quindi Éponine dovette fare uno scatto di corsa per non perderlo. Salì sull’autobus, si sedette sul sedile in fondo vicino al finestrino, pronta per venti minuti di viaggio in cui finalmente avrebbe ripreso fiato. Stava addentando il suo pranzo improvvisato, quando sentì il suono di ‘Rain and tears’ degli Aphrodites Child[2]: solo dopo ricordò che era la suoneria del suo cellulare e, prendendo il telefono in mano, vide che chi la stava chiamando erano i suoi genitori.

“Mamma che cosa c’è?” Erano proprio le ultime persone che avrebbe voluto sentire in quell’istante.

“Éponine dove sei finita?!” si sentì dire da una voce maschile all’altro capo della linea. Éponine si sorprese nel riconoscere la voce di suo padre: “Papà? Perché chiami col telefono di mamma?”

“Non avevo voglia di spendere soldi per nulla: lei ha le chiamate gratis verso il tuo numero, quindi… ma non è questo il punto!” le rispose lui cercando di non sviare troppo dal discorso.

“Sono sull’autobus: sto andando a prendere Gavroche a scuola.”

“Come stai andando a prendere Gavroche a scuola?! Qui c’è bisogno di te alla reception: gli studenti sono arrivati!” Nella mente di Éponine ci fu un attimo di confusione: fece mente locale per essere certa di ricordare bene la successione degli eventi e poi si disse che suo padre doveva essersi bevuto il cervello.

“Ma papà mi ha detto tu di andare a prendere Gavroche!” Nella voce di Èponine si poteva cogliere una certa impazienza, quasi come si stesse arrabbiando.

“Ci sta andando Azelma: tu torna subito qui!”

“Ma papà…”

“SUBITO!” Quello era il suo ultimatum: Èponine lo capì. Sospirò e decise che sarebbe scesa alla prossima fermata per poi camminare molto velocemente verso casa.

“Ok sto tornando!” disse con tono scocciato, chiudendo la chiamata.

Dopo pochi minuti l’autobus arrivò alla fermata successiva e Éponine poté finalmente scendere e ricominciare a camminare spedita, cercando di non farsi travolgere dalla gente e, allo stesso tempo, di mangiare il suo panino. Quando arrivò alla residenza, vide un mare di ragazzi accalcati davanti al bancone che attendevano solo lei per poter salire nelle loro stanze. Éponine fece un respiro profondo, gettò la borsa sull’unica poltrona libera accanto all’ingresso e si fece largo nella folla.

“Okay eccomi! Da chi comincio?” disse appena arrivata dietro il bancone, raccogliendo i lunghi capelli scuri in una coda di cavallo.

“Éponine! Ti trovo bene!” Courfeyrac era raggiante e precedeva tutti i membri del suo gruppo.

“Ragazzi! Bentornati! Passato delle belle vacanze?”

Il primo a risponderle fu Bahorel: “Al solito: sono tornato dai miei e poi siamo andati alla nostra casa in montagna: ho passato il mese ad allenarmi e a suonare!”

Lo seguì Joly, alzando il braccio per richiamare l’attenzione della ragazza: “Io sono andato al mare da mia nonna! Un toccasana per la mia tiroide! ”

“E mi ha abbandonato qui!” precisò Bossuet. Poi proseguì: “Io sono andato a Marsiglia: ho passato la settimana a letto a causa di un’insolazione; tornato a casa sono stato di nuovo a letto per via di una slogatura alla caviglia, ma mi sono riposato tantissimo!” Éponine conosceva Bossuet da quattro anni, ormai: non poteva aspettarsi nulla di diverso da lui.

Poi fu il turno di Grantaire: “Ah, io sono stato a Lione con i miei: mia madre e mia sorella hanno guardato la città, io ho accompagnato il mio vecchio a provare tutti i locali del posto!”

“Io sono stato a Londra con i miei zii” esordì con grazia Combeferre. “È stata una vacanza molto bella ed interessante.” Poi si avvicinò al bancone, scostando delicatamente Courfeyrac mettendogli una mano sulla spalla e disse ad Éponine: “Lui ha passato le vacanze qui, vero?”

Éponine poteva leggere un velo di preoccupazione e di tristezza sul suo volto; fece segno di sì con la testa e poi disse: “È già di sopra che ti aspetta. Stanza 008, la stessa dell’anno scorso.” Gli protese la seconda chiave della stanza: Combeferre la ringraziò con un cenno della testa e un sorriso di cortesia, salutò i suoi amici mentre recuperava il borsone e poi si diresse a passo spedito al primo piano, quasi come avesse fretta di raggiungere il suo compagno di stanza.

Per un attimo tutti rimasero in silenzio, guardandosi tra di loro confusi; poi Courfeyrac, che Èponine sapeva essere a conoscenza della situazione, cercò di distogliere l’attenzione da quanto accaduto: “Io sono stato nella villa di campagna dei miei, questo mese! Non ci ero mai stato perché mia madre non ci è mai voluta andare, ma mio padre ha detto ‘Fanculo! Possiamo andare anche senza di lei!’, e quindi ci siamo andati! È stato davvero forte!”

Sembrava che la tattica di Courfeyrac avesse funzionato, perché Jehan sbucò da dietro le larghe spalle di Bahorel e disse a bassa voce: “I-io sono riuscito ad andare a Firenze con i miei genitori… è stato indimenticabile! E… e tu, Éponine?”

“Io sono rimasta qui a lavorare con i miei… come al solito!” Quella dei Thénardier non era solo una residenza per studenti: il terzo e il quarto piano erano dedicati a vere e proprie camere d’albergo per i turisti. Ad essere sinceri somigliava più ad un bordello piuttosto che ad un albergo, ma Èponine sapeva che era così che suo padre voleva.

Sarebbero rimasti lì a parlare ancora, ma c’erano molti altri studenti che attendevano le chiavi delle loro stanze, quindi la ragazza consegnò ad ognuno la propria e li salutò.

“Ah Courfeyrac! Feuilly è andato a vivere con il custode della vostra scuola, quindi avrai la stanza tutta per te” disse lei al ragazzo mentre gli consegnava una copia delle chiavi della sua stanza.

“Uooooo! Grande!” fu la risposta esaltata con la quale Courfeyrac si congedò.

Dopo circa un quarto d’ora di consegna di chiavi, Éponine notò che c’era un ragazzo che non aveva mai visto ancora seduto su una poltroncina. Sembrava quasi perso: si guardava intorno nervoso, curioso, agitato, preoccupato, eccitato… confuso, insomma.

L’unica cosa di cui Éponine poté essere certa fu che quel ragazzo era molto carino e che quel suo sguardo strano pieno di tante emozioni differenti lo faceva sembrare impacciato e molto dolce.

“Posso aiutarti?” si sentì dire la quattordicenne.

Il ragazzo sembrò ripiombare nel mondo reale al sentire quella frase e i suoi dolcissimi occhi verdi si posarono su Éponine pieni di sorpresa.

“Ah… ciao! S-sono Marius Pontmercy… mio nonno dovrebbe essere passato stamattina a portare le mie cose…”

Éponine rimase molto sorpresa da quella notizia: “Aspetta… passerai l’anno qui?”

“Beh, emh… sì…”

Ci fu un attimo di silenzio in cui i due si guardarono negli occhi, entrambi confusi: Èponine era perplessa, Marius, invece, sembrava un po’ a disagio. Alla fine la ragazza prese i registri e vide che in effetti un certo Pontmercy era segnato e, inoltre, il pagamento era già stato effettuato da un tale Monsieur Gillenormand.

“Cazzo! Si può sapere perché nessuno mi ha informato che ci sarebbe stato un nuovo studente?!” disse Èponine.

La ragazza era imbarazzata e mortificata. Marius le sorrise in modo molto dolce e le disse: “Dai non è successo nulla. Davvero! Può capitare a tutti!”

Se la sua intenzione era farla stare più tranquilla, il sorriso aveva funzionato: Éponine alzò lo sguardo dai registri, guardò Marius con uno sguardo sorpreso, gli sorrise tranquilla, prendendo sicurezza, e poi riprese: “Marius Pontmercy, camera 002, al primo piano. Ah… bene conoscerai subito il tuo compagno di stanza. Vieni con me: ti faccio strada. Credo che i tuoi bagagli siano nel guardaroba.”

La ragazza andò verso il guardaroba e sentì che Marius, timidamente, la seguiva con lo sguardo. Quando Éponine cercò di sollevare due grosse valige, lui corse subito da lei per aiutarla. Le prese dalle mani i due bagagli, lasciando a terra solo un borsone di modeste dimensioni.

“Oh no non devi! Tu sei un ospite qui!” gli disse lei, un po’ in imbarazzo.

“Non farei mai portare dei pesi così ad una signora” le rispose lui, con un sorriso dolce e galante allo stesso tempo. Éponine rimase positivamente impressionata da quel nuovo ospite: dovette ammettere qualcosa di lui le piaceva molto.

 


[1] Musain è il nome dato da Victor Hugo al bar dove si ritrovano i rivoluzionari, il café Musain.

[2] Piccolo tributo al musical a cui ad Éponine è associata spesso l’immagine della pioggia.

   
 
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