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Autore: Iryael    25/10/2016    1 recensioni
Aprile 5396-PF, Veldin, Kizyl Plateau
A Lilith, dopo una penitenza finita male (ma che poteva finire malissimo) non resta che cercare qualcosa a cui aggrapparsi per arrancare senza esplodere.
A Sikşaka, dopo una serata cominciata apatica e finita dolorante, non resta che salvare il salvabile lottando contro il senso di responsabilità.
Nessuno dei due crede che si arriverà a un terzo incontro. Ignorano che, negli anni a venire, di quelli ne perderanno anche il conto.
È tempo di spacchettare i keikogi.
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[Galassie Unite | Scorci | 6 anni prima di Rakta]
[Personaggi: Nuovo Personaggio (Lilith Hardeyns, Sikşaka Talavara)]
Genere: Azione, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Ratchet & Clank - Avventure nelle Galassie Unite'
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[ 02 ]
Leggero e brutale
Non trascorsero che dieci minuti prima che la ragazza si pentisse amaramente.
La voce baritonale del padre, nella sua testa, le ricordava a nastro tutti i motivi per i quali una dodicenne non dovesse recarsi nei bassifondi dopo il calar della sera e – forse – era il caso di ammettere che avesse ragione.
Cole aveva preteso che lei gli portasse l’autografo di una certa prostituta – Charline – che lavorava in un certo bordello – la SoftHouse. Lilith era sicura che quel nome non le fosse nuovo, ma non riusciva a ricordare da chi l’avesse udito. In ogni caso, trovava quella penitenza particolarmente umiliante. Ma, ancora prima che umiliante, la trovava spaventosa. Più si guardava intorno, infatti, più le ombre la facevano sentire tremendamente fuori posto. Lunghe e avide, si protendevano dagli imbocchi dei vicoli e sembravano dirle “vieni, sappiamo come occuparci di te”.
Ovviamente non avrebbe ammesso ad anima viva la sua paura, però stava bene attenta a camminare sotto la luce emessa dai lampioni.
Aveva già imboccato quelle vie, di giorno. N’era sicura perché di tanto in tanto riconosceva un’insegna. Ma non c’era mai stata dopo il calar della sera, e ai suoi occhi, in quel momento, le stradine sembravano un budello di intonaco scrostato.
 
Dopo aver girato a vuoto per più di mezz’ora, la ragazzina si arrese all’idea di dover chiedere informazioni.
Ma a chi?
Escluse i passanti: anche supponendo di trovarne, non sarebbe stato un buon affare fermarsi in mezzo alla strada.
Le serviva un posto più affollato.
Non chiedo una convention; qualcosa tipo un bar sarebbe perfetto. Se solo ‘sto posto non fosse fottutamente deserto...
Bofonchiando maledizioni inintelligibili, la ragazzina proseguì finché non adocchiò un locale, diversi minuti più tardi. Era in un edificio che faceva angolo di strada, con i vetri gialli e rossi incastonati come scaglie di pesce nelle vetrine.
Quando lo vide, Lilith storse il naso.
Al di là dei gusti discutibili del proprietario, le luci che uscivano dai vetri erano molto soffuse. Indubbiamente lo strato di polvere su di essi giocava un bel ruolo, ma era più come se le luci all’interno fossero tenute molto basse.
Beh, è l’unico che c’è – si disse per farsi forza. – Entro, chiedo ed esco. E se non ottengo la risposta me ne torno a casa passando da un’altra parte e la firma di Charline la recupero domani pomeriggio. E al diavolo anche Cole e le sue cazzate. In effetti potrei farlo anche adesso...ma anche no! ‘Fanculo, sono più forte di così!
Una volta dentro, la ragazzina si sentì più fuori posto che mai. L’aria del bar sapeva di fumo, di alcol e di qualcosa pungente che non voleva sapere che fosse. Si avvicinò al bancone sforzandosi di non giocare con la lunga coda di cavallo e attirò lo sguardo del barista.
«Che vuoi?» gracchiò quello al suo indirizzo.
Se avesse dovuto descriverlo, Lilith l’avrebbe definito un armadio dalla voce cavernosa. E guercio da un occhio (a meno che la benda sull’occhio destro fosse scena).
«Sto cercando la SoftHouse, ma mi sa che mi sono persa» disse, cercando di non mostrarsi impaurita.
Il barista si scambiò un’occhiata intorno, prima di rispondere: «Direi proprio di sì. Ma che ci vai a fare? Mica li fanno entrare i bambini!»
«Cerco mio fratello. Credo che sia là» mentì.
Un avventore dall’aria alticcia, piegato in due sul bancone, alzò lo sguardo e lo puntò su di lei. Era un cazar, con una chioma di capelli decisamente troppo unti.
«Non è che cerchi lavoro, eh?» disse, prima di lasciarsi andare a una risatina. Il suo alito era puro effluvio d’alcol: Lilith trattenne l’istinto di girarsi e vomitare per terra.
«No. Voglio solo ripescare quel deficiente di mio fratello» insisté.
«Oh, peccato...»
«Dree, sei all’arrivo» obiettò il barista, prima di rivolgersi alla ragazzina. «Adesso gli procuro un caffè bello amaro, così magari la smette con le puttanate» disse, indicando il cazar. Poi, molto gentilmente, le fornì le indicazioni per raggiungere il bordello.
* * * * * *
Procurarsi l’autografo di Charline non fu difficile dopo le dritte del Guercio.
Paradossalmente, dopo essere entrata in quel bar, varcare il portone della SoftHouse non le fece impressione. Forse perché le sembrò di entrare in un set cinematografico dove le donne vestivano corpetti di porporina e piume vaporose.
In quel momento stava tornando indietro. Non pensava più a come le ombre sembrassero avide, o a come gli imbocchi dei vicoli avessero sfumature sinistre. La mente era ancora settata su quel mondo luccicante che aveva intravisto pochi minuti prima.
La pithil, la brezza notturna che avvolgeva Kyzil Plateau, la colse da dietro e le portò gli odori dell’alcol e di qualcosa di pungente, subito prima che due mani unticce l’afferrassero e una di esse le tappasse la bocca.
«Non c’era tuo fratello?» sussurrò una voce alle sue orecchie, malevola.
* * * * * *
Quando la paura le concesse di utilizzare i sensi in sincrono, era già successo qualcosa, anche se non avrebbe saputo raccontare cosa.
Non avrebbe saputo spiegare come fosse finita in quel vicolo. O come mai sentisse male al seno. O come si fosse accasciata contro il muro, coperta da una giacca che non le apparteneva.
 
«ERA LA MIA PUTTANA, STRONZO!»
Alzò lo sguardo. La sua attenzione si focalizzò sul cazar ubriaco del bar, quello che le aveva chiesto se cercasse lavoro.
Quello che si era avventato su di lei quasi senza darle respiro.
Ricordò la scena in pochi flash confusi, prima di essere sovrastata dalla sensazione delle sue mani che la toccavano. Si strinse le braccia al petto, sentendolo pizzicare e dolere in più punti.
«Torna a casa che sei ubriaco» ordinò l’altro, scandendo le sillabe con calma.
L’altro. Il lombax ch’era intervenuto a sorpresa, che dopo aver spinto via il cazar le aveva gettato addosso la sua giacca.
«CAZZO VUOI DA ME?!?»
Lo sguardo scattò di nuovo sul cazar. Nella sua destra era apparso un tubo che, per quanto stretto con mano leggermente tremolante, aveva l’aria pericolosa.
Lilith deglutì e si fece piccola piccola contro il muro.
Dove l’ha preso?
Poi vide i ponteggi impilati contro il muro e capì.
E anche il lombax dovette capire che il cazar s’era fatto pericoloso, perché si fece più serio.
«Ti rispiego il concetto, Dree» asserì. «Poggia quel tubo e vai a casa.»
«SCORDATELO!»
Scattò in avanti. Il tubo compì un unico arco, fino alla verticale e poi giù, violento come un colpo di scure.
Lui, però, non si fece sorprendere. Quando il tubo calò, lo scansò torcendo il busto. Si spostò di una misura a malapena sufficiente a evitare il colpo e contrattaccò, affibbiandogli un pugno a palmo aperto sotto il mento.
Il cazar rimase disorientato e l’altro ne approfittò per aggrapparsi alla sua spalla e impattargli una ginocchiata alla bocca dello stomaco.
Dree si piegò su se stesso, lasciando cadere la sua arma. Lilith lo vide indietreggiare fino al muro, con una mano sul ventre, prima che una poltiglia lasciasse la sua bocca producendo un rumore disgustoso.
Poi la sua visuale fu riempita dalle ginocchia del lombax, che s’accucciò fino a guardarla in faccia.
Lilith si ritrasse contro il muro, spaventata. Poco importava che quel tizio avesse pestato il cazar al momento giusto o che avesse un’espressione innocua.
«Va tutto bene» lo sentì dire, con lo stesso tono pacato di poco prima. «Sono un amico. Mi chiamo Sikşaka.»
Vedendo che non reagiva, si affrettò a chiedere: «Non sono arrivato tardi, vero?»
La ragazzina denegò e lui si aprì in un sorriso sollevato.
«Meno male!» esclamò, soddisfatto.
 
Il cazar avvertì una fitta al plesso solare quando si raddrizzò.
Sikşaka – pensò. Era troppo ebbro per pensare con criterio, ma quel nome così particolare gli riportò alla mente una scena passata.
C’era una città devastata dalla guerra. C’era un vicolo fatto di muri sgretolati e una donna che implorava pietà. E c’era lui che gli rifilava un pugno in pieno viso, furibondo, gridando che non tollerava lo stupro.
C’era una fila di insulti che non riusciva a ricollegare al ricordo, ma sapeva che a rivolgerglieli era stato lui.
Sikşaka – pensò di nuovo, stavolta più arrabbiato. – Quello lì. Quello che mi ha stangato di botte.
Un flash gli fece sgranare gli occhi. Sbagliava: gli insulti non erano i suoi. Erano quelli dei loro camerati, che dopo la zuffa l’avevano lasciato nel piazzale, riverso nel fango e nell’umiliazione.
Bruciante umiliazione.
 
Vicino a lui c’era il fascio di tubi. Senza pensare allungò la mano e la strinse attorno al più vicino. Doveva essere lungo quanto il suo braccio, ma era leggero. Poco importava. L’attenzione era tutta per il bastardo, che cincischiava con la ragazzina senza più calcolarlo. Proprio come dopo la baruffa in quel vicolo di Anther City.
Dree digrignò i denti e scattò in avanti.
«TALAVARA!»
Il lombax – in quel momento come allora – fece appena in tempo ad alzarsi a metà, prima che lui lo sovrastasse. Ma quella volta Dree l’afferrò per il bavero e lo tirò a sé, affibbiandogli una testata sul naso.
Lo colse totalmente di sorpresa.
Una rete di dolore avvolse il volto di Sikşaka che, quando il cazar lo allontanò con una spinta, barcollò rischiando pericolosamente di perdere l’equilibrio.
L’altro, euforizzato dal successo, lo inseguì menandolo con foga, ogni colpo sempre più vigoroso.
Sikşaka, stordito, fece a malapena in tempo a offrire il fianco piuttosto che il torso intero. Il bastone impattò con forza sull’avambraccio alzato a mo’ di scudo, poi sulla parte alta della schiena, lasciata indifesa, poi in pieno ventre, con un movimento a gancio.
Il lombax gemette e realizzò che al colpo successivo sarebbe stato alla mercé dell’avversario. Il suo istinto combattivo gli intimò di fare qualcosa.
Dree lo vide piegarsi e sul suo volto si allungò un sorriso folle. Era debole. Alzò il tubo, quella volta con entrambe le mani, deciso a finirlo e lavare l’umiliazione subìta.
Fu il fisico a reagire per Sikşaka. Mentre il tubo scendeva, portò avanti tutta la parte destra del corpo e intercettò con l’avambraccio i polsi del cazar. Fu diverso da poco prima: non cercò di bloccare il suo movimento; bensì lo guidò verso il basso, cambiandogli traiettoria. Dree era ancora trasportato dal suo slancio, e non poté fare altro che finire il movimento, sbilanciandosi in avanti.
Il lombax era di lato all’avversario, gli agganciò la caviglia col tallone e lo spinse sulla nuca. Il cazar cadde faccia avanti, a strusciare il pavimento.
L’aria lasciò violentemente i suoi polmoni, mentre la parte sinistra del volto divenne un’accozzaglia di dolore e bruciore. Fu la rabbia a dargli la forza di puntellare i palmi a terra, ma di rialzarsi non ci fu verso. Un peso gravò all’improvviso sulla sua già malconcia spalla destra, un piede entrò di profilo nel suo campo visivo. Capì che si trattava di Sikşaka, che si era inginocchiato su di lui.
«Bas...tardo...»
«Ah, parli ancora?» domandò, mentre faceva passare il braccio armato al di sopra del ginocchio alto. Gli piegò il polso all’indietro e il tubo passò di mano. Ora armato, il lombax si rialzò e colpì di punta la tempia del cazar, mandandolo definitivamente al tappeto.
 
Non ci mise una forza eccessiva – voleva renderlo incosciente, non ucciderlo – eppure agli occhi di Lilith il gesto parve incomprensibilmente brutale, in totale contrasto con la leggerezza dimostrata prima.
Anche il gesto con cui lanciò via il tubo ebbe un ché di sgraziato, ma a quello la ragazza pose molta meno attenzione. Il lombax, infatti, si era voltato verso di lei.
La stava fissando, così come lei fissava lui.
Poi, lentamente, Sikşaka s’incamminò verso di lei.
C’erano forse dieci passi tra di loro, non di più. Una parte del cervello di Lilith considerò che, se si fosse mossa subito, sarebbe potuta scappare. L’altro non sembrava proprio in condizione di correre e, con ogni probabilità, l’avrebbe seminato facilmente.
Tuttavia c’era qualcosa che la fece rimanere seduta dov’era, con gli occhi incollati su di lui e la giacca indosso che odorava di naftalina. Non sapeva dire il motivo esatto, ma provava una sensazione a pelle per cui non riusciva a identificare quell’uomo come un nemico.
Perciò rimase a fissarlo mentre si avvicinava, con la mano sul ventre che la diceva lunga su quanto la randellata gli avesse fatto male. Lo fissò in silenzio, e non disse una parola nemmeno quando si fermò davanti a lei e si accucciò di nuovo.
A quel punto la ragazzina si rese conto della scia rossastra che colava dal naso e gli tingeva le labbra. Si strinse leggermente nella giacca, e Sikşaka – interpretando il suo gesto – si affrettò a coprire la parte bassa del viso.
«Della tasca alla tua sidistra c’è u’ fazzoletto. Be lo passi?» domandò, sporcando la pronuncia col naso tappato.
Lilith impiegò un istante a capire che stava parlando con lei. Le sembrava talmente surreale!
Però, passato quell’istante, si affrettò ad infilare le dita nel luogo indicato. Il tessuto all’interno era quasi scivoloso, come se fosse stato cerato. E fu altra stoffa ciò che toccarono i polpastrelli: diversa, più ruvida. Quando riportò fuori la mano, stringeva un fazzoletto ripiegato.
Sikşaka si andò a sedere un poco distante da Lilith, la testa alta e il fazzoletto premuto sul naso. Rimasero in silenzio a lungo, lui impegnato a fermare l’emorragia e lei coi pensieri in panne.
Il primo a parlare fu Sikşaka, non appena si fu assicurato che non usciva più sangue. «Mi dispiace di averti spintonato, prima.»
Lilith scosse la testa. «Fa nulla.»
“Era per staccarmelo di dosso, va bene così” avrebbe voluto aggiungere, ma non riuscì ad andare oltre l’essenziale.
«Sei tutta intera, al di là dello spavento?»
La lombax annuì.
«Allora, se mi dai un minuto, ti accompagno fuori da qui.»

 

   
 
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