Anime & Manga > Inazuma Eleven
Segui la storia  |       
Autore: _ A r i a    27/10/2016    1 recensioni
♟ Storia ad OC | Iscrizioni chiuse ♟
È piuttosto singolare trovare una piccola stradina secondaria, nella Londra moderna, peraltro dove l’invadente asfalto non sia arrivato e dei ciottoli irregolari premano sotto le suole delle scarpe.
Eppure, a quanto pare, è proprio così.
Amelia ricontrolla l’indirizzo, segnato su un pezzo di carta piccolo e vecchio, piuttosto sgualcito.
L’inchiostro nero è un po’ sbiadito, non si meraviglierebbe di essere nel posto sbagliato… in effetti ha paura che qualche strano individuo sbuchi fuori dal nulla da un momento all’altro.
Se non fosse per la piccola bottega di legno che si trova ora davanti agli occhi.
È un posto piuttosto particolare, con tutte le pareti di legno e una vetrata all’ingresso, piccoli quadrati trasparenti ricoperti da uno spesso strato di polvere divisi tra loro da piccole strisce di mogano non esattamente definibile “in ottimo stato”.
C’è anche un’insegna, solo che è parecchio in alto e Amelia decide di non tentare la fortuna e le sue – scarse – abilità di equilibrista nell’arrampicarsi su delle casse malridotte lì al lato per controllare il nome di quel posto.
Genere: Azione, Mistero, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Shoujo-ai | Personaggi: Jude/Yuuto, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Image and video hosting by TinyPic
« Non è vero che abbiamo poco tempo:
la verità è che ne perdiamo molto »    
– Seneca –
 
Chapter seven
Butterflies and hurricanes

♟» New York, Stati Uniti d’America, 2120

«Spero vivamente che tutto ciò non sia che uno scherzo di pessimo gusto».
Jude scivola rapidamente lungo in corrimano polveroso delle scale dell’Hilton Hotel, le mani che litigano furentemente con un bottone della camicia che proprio non vuole saperne d’infilarsi nell’asola, mentre i lembi della felpa continuano a sbatacchiare contro il suo corpo, a causa della cerniera lampo slacciata sul davanti e dell’aria sferzante che s’è formata attorno al suo corpo, a forza di andare a quella velocità insostenibile.
«Credimi, anche io vorrei che lo fosse» Ray sospira di frustrazione, stare dietro al ragazzo in quelle condizioni è piuttosto difficoltoso, soprattutto considerando il fatto che si deve fare tutte le scale a piedi e di corsa, mentre Jude può filare via tranquillamente seduto su quel pezzo di legno.
Dark non c’è potuto salire perché, chiaramente, con ogni probabilità il corrimano non avrebbe retto il suo peso.
«Anche perché» riprende l’uomo, passandosi nervosamente una mano tra i capelli «che diavolo di giovamento potrei trarre dal guastarmi da solo l’unico momento della mia vita in cui finalmente mi sono sentito bene
Jude termina una rampa di scale, saltando giù dal corrimano con una capriola a mezz’aria ed atterrando in piedi senza difficoltà, percorrendo di corsa il pianerottolo per poi rituffarsi sulla scivolata successiva. Solo quando è sceso già di un altro piano accenna finalmente a rallentare, arrestandosi sul posto, come se fosse riuscito a comprendere solo allora le parole dell’ex Comandante.
Quando riesce a raggiungerlo, Ray ha il fiato corto, tanto che per riacquistarne un po’ è costretto a piegarsi su se stesso, le mani poggiate sulle ginocchia.
«Aspetta» commenta Jude, osservando con cipiglio incuriosito l’uomo «hai forse detto di essere stato bene con me?»
«Beh» l’uomo si tira nuovamente su, drizzando per bene la schiena «e te ne stai meravigliando?»
Un accenno di rossore fa capolino sulle guance del ragazzo, che tuttavia si appresta a nasconderlo, troppo orgoglioso per mostrare i propri sentimenti perfino in un momento del genere.
«Piuttosto» borbotta Jude, ostinandosi testardamente a tenere la testa china verso il basso «perché non mi hai svegliato prima, se avevi già visto quei cosi invadere la strada?»
«Potrei dirti che osservarti mentre dormi è così affascinante che anche solo il lontano pensiero di doverti svegliare mi è sembrato incredibilmente doloroso» ammette l’altro, sollevandogli il volto con due dita, in modo da costringerlo a guardarlo negli occhi mentre gli parla «o che ho valutato la possibilità di scendere senza dirti niente, poiché non volevo metterti in pericolo. E non dubitare di me se adesso ti dico che non saprei quale tra queste affermazioni sia la più vera, Jude Sharp».
Per un momento Jude teme di essersi dimenticato come si respira, per poi costringersi a distogliere lo sguardo dall’uomo, mascherando il proprio imbarazzo.
«Vedi di non fare l’eroe, Ray Dark» lo riprende seccamente, nel borbottio di voce più convincente che riesce a tirare fuori «ti ricordo che in questa faccenda ci siamo dentro entrambi fin sopra la testa».
«Certamente» replica Ray, per poi chinarsi lievemente sul ragazzo, sfiorando le sue labbra con le proprie. Jude è scosso da un fremito che gli attraversa il corpo da capo a piedi, mentre il rossore sulle sue guance non fa che aumentare.
Vorrebbe poter rimanere ancorato per sempre alle labbra dell’uomo, tuttavia ciò che gli è concesso non è nient’altro che quel tocco leggero, eppure così sorprendentemente e intimamente profondo, prima che Ray si separi da lui.
«Forza» mormora Dark, ancora a pochi centimetri di distanza dal ragazzo, le fronti che si sfiorano soavemente «abbiamo alcuni affari di cui occuparci».
Jude vorrebbe fermare la mano di Ray sulla propria guancia, che sente venire accarezzata con dolcezza, tuttavia non fa in tempo ad afferrarla che anche quest’ultima si è già allontanata.
Ray si avvia con ritrovato vigore lungo il corridoio, riprendendo a scendere le scale, sebbene un velo di mestizia gli avvolga il cuore: è chiaro che preferirebbe di gran lunga intrattenersi con il ragazzo, tuttavia immagina che non ci vorrà molto prima che quell’armata di combattenti di pietra invada anche l’Hilton Hotel e non solo le vie circostanti. Piuttosto che ritrovarsi incastrati e nell’incapacità di fuggire da quel luogo successivamente, meglio agire subito e cercare una via di salvezza – prima che sia troppo tardi.
Questa volta Jude affianca l’adulto e decide di scendere le scale insieme a lui, senza ricorrere allo stratagemma del corrimano. Mentre una di gradini e gradini continua a scivolare davanti ai loro occhi, così tanti che quasi sembrano essere infiniti, il ragazzo lascia scivolare la propria mano in quella di Ray, simulando il gesto con aria casuale, sperando che il suo ex allenatore non si accorga della tensione e della paura che si nascondono dietro quell’azione. Avrei solo bisogno che tu mi rassicurassi, adesso…
Ray, tuttavia, conosce fin troppo bene il suo ragazzo e sa cosa si nasconda dietro ogni suo singolo movimento, figurarsi in una situazione del genere. È fin troppo cosciente di star chiedendo molto a Jude, anzi, forse addirittura troppo. E se ne dispiace, eppure spera di star facendo la cosa giusta, almeno questa volta. Così stringe con gentilezza quella mano, sperando – almeno in quel modo – di riuscire a infondere un po’ di coraggio al giovane.
Quando ormai Jude comincia a credere che non vedrà mai la fine di quelle rampe di scale, il ragazzo scorge in lontananza una luce tenue, bluastra: ci mette qualche attimo a capire che si tratta della notte eterna che imperversa all’esterno, di un color oltremare lievemente più tenue rispetto al nero perenne del cielo.
In quel lucore appena accennato, Jude deve stringere le palpebre, riducendo il suo campo visivo a due fessure, pur di riuscire a intravedere qualcosa di quel che accade all’esterno. Peccato che la scena che gli si para davanti sia tutt’altro che incoraggiante.
Purtroppo deve constatare che, quello che Ray gli aveva accennato poco prima, corrispondeva alla verità: un esercito di giganti di pietra, i ranghi serrati e le schiere perfettamente ordinate. Sono lì, pronti ad attaccare, anche se forse la cosa più inquietante è il fatto che quei guerrieri impugnino, tra le loro mani granitiche, armi di ogni genere: spade, asce, martelli e mazze chiodate, tutti rigorosamente formati da rocce.
«Oh Dio» Jude s’arresta in fondo alle scale, fissando attonito quelle statue «e questi da dove diavolo sono sbucati fuori?»
«Non ne ho la più pallida idea» ammette Ray, stringendo il ragazzo a sé con aria protettiva «però non possiamo restare più qui. Ce ne sono a centinaia, non ci metteranno molto prima di sfondare il vetro e invadere l’albergo».
Jude deglutisce un po’ a fatica. Non ha paura, accidenti, solo che per la prima volta in vita sua che si sentiva finalmente felice e al sicuro, si ritrova nuovamente a dover fronteggiare una situazione troppo grande di lui. Se solo per una volta le cose fossero facili…
«Ehi» Ray gli accarezza la testa, apprensivo «se hai paura puoi restare qui, me ne occupo io».
«Non se ne parla» Jude scuote il capo, discostandosi dal corpo dell’uomo «non provare a fare l’eroe, te l’ho già detto».
«Va bene, ho capito» Dark annuisce, seguendo a pochi passi di distanza il suo amato «e allora cosa pensi di fare?»
«Facile» il giovane Sharp avanza con passo marziale – il che gli ricorda in maniera inquietante il periodo in cui studiava ancora alla Royal Academy – mentre raggiunge l’ingresso dell’Hilton Hotel «li affrontiamo».
Questa volta quello titubante sembra essere Ray, che per un momento tentenna sul posto mentre domanda:«Eh? Sei serio, Jude?»
«Mai stato così serio in vita mia» il sorriso sul volto del ragazzo la dice lunga, mentre quest’ultimo pone le mani ai lati delle porte «non ho intenzione di farmi accerchiare da un esercito di giganti di pietra».
E, ciò detto, spinge le porte di lato, che subito si aprono al suo comando.
Non appena lo schiocco secco delle porte riempie la via, le teste di tutti i guerrieri di pietra ruotano in direzione dell’entrata dell’hotel, le loro espressioni fredde e imperturbabili che si specchiano in quella determinata di Jude.
«Qualora ne avessimo bisogno, abbiamo appena ricevuto la conferma che questi energumeni possiedono anche la capacità di muoversi» sentenzia il giovane, lapidario.
«Beh, te l’avevo detto» Ray sbuffa, indirizzando l’improvviso getto d’aria verso una ciocca di capelli, che proprio non ne vuole sapere di stare al suo posto, continuando a cadergli in maniera irritante davanti al volto «altrimenti come avrebbero fatto ad arrivare fin qui? Materializzandosi dal nulla?»
«A quanto pare, l’ironia non è il tuo forte» replica Jude, seccato «ad ogni modo, non ho la benché minima intenzione di rimanere qui con le mani in mano».
«E questo cosa vorrebbe dire?» domanda Dark, inarcando le sopracciglia.
«Ovvio» il ragazzo sogghigna appena, sa già esattamente quale sarà la sua prossima mossa «li attacco per primo».
Ray fa per aprire la bocca, con tutte le intenzioni di ribattere – non può certo lasciare che il suo ragazzo s’imbarchi in un’impresa del genere – tuttavia non fa in tempo a dire niente che Jude è già scattato in avanti.
Prendendo una rincorsa poderosa il ragazzo scarta di lato, per poi spiccare un balzo che lo fa atterrare direttamente sulle spalle di uno dei giganti di pietra. Una volta lì, senza dare modo alla statua di attuare un contromossa, colpisce con un calcio preciso la testa del guerriero, che viene recisa di netto dal collo e il resto del corpo, finendo per volare secondo una traiettoria orizzontale dritta davanti a sé, colpendo e distruggendo i capi di altri tre combattenti.
«Bel colpo!» esclama Ray, con un fischio di apprezzamento.
Jude sorride soddisfatto, incrociando le braccia al petto.
«A quanto pare, anni e anni di allenamenti hanno dato i loro frutti» commenta, con estrema nonchalance.
A quel punto, incoraggiato dai buoni risultati ottenuti dal giovane, anche Ray decide di arrampicarsi su uno di quei lottatori. Certo, lui non può contare sull’agilità e la freschezza del ragazzo, tuttavia decide di non demordere lo stesso, tirando fuori le unghie e scalando lentamente quell’ostacolo terribile, inerpicandosi a forza lungo la schiena di un altro gigante.
Tuttavia, il loro trionfo dura per poco.
A terra, infatti, le teste troncate da Jude iniziano a vibrare, talmente forte che di colpo l’intera strada è tutta un tremito e Ray e il ragazzo devono fare appello a ogni briciolo della loro determinazione – e anche alle scarse capacità di equilibrismo che possiedono, certo – pur non perdere la stabilità che faticosamente hanno acquisito e fare la figura degli idioti, cadendo rovinosamente a terra.
Eppure, in quel momento il loro problema è un altro: infatti, di colpo le teste che Jude era riuscito a separare dai corpi dei giganti si sollevano nell’aria, tornando a posarsi sulle spalle dei guerrieri e ricongiungendosi saldamente ai loro colli.
«Oh, no» mormora Dark, un’espressione funerea sul volto «questa proprio non ci voleva».
Come a voler confermare le sue parole, proprio in quel momento il gigante sul quale l’uomo stava cercando di arrampicarsi colpisce con decisione il marciapiede accanto a sé con la mazza in suo possesso, sollevando una grossa nuvola di polvere e schegge di cemento armato che volano da una parte all’altra della scena.
«Ray!» grida Jude, il cuore in gola, una mano a coprirgli le labbra e la disperazione dipinta negli occhi, alcune lacrime che già fanno capolino. Lo sapeva, lanciarsi in una pazzia troppo grande, un rischio che – ora come ora – non potevano permettersi di correre, tuttavia lui si era lasciato convincere ed era stato addirittura il primo a gettarsi a capofitto in una prova del genere, mettendo a repentaglio anche la vita del suo compagno. Oh, Dio...
Lentamente la polvere inizia a diradarsi, liberando il campo visivo e grazie al cielo Jude può tirare un enorme sospiro di sollievo: Ray è ancora lì, appollaiato sulle spalle del gigante, tutto accoccolato per potersi proteggere da schegge e polveri varie. Emette un profondo colpo di tosse, con ogni probabilità deve aver respirato dell’aria insalubre e carica di terra, per il resto però non sembra aver riportato nessuna conseguenza fisica.
«Sto bene» si affretta a comunicare, rincuorando infinitamente il ragazzo «tuttavia non potremmo mai batterci alla pari contro questi esseri. Anzitutto siamo in evidente svantaggio numerico – saremo due contro duecento – inoltre hanno anche uno sproposito di forza fisica: potremmo continuare a lottare con questi cosi per quanto ci pare, però se loro continuano a ricomporsi ogni volta che li colpiamo, allora le nostre chance di vittoria sono sotto lo zero».
Il quadro descritto da Ray è a dir poco desolante, tant’è che Jude pesta per qualche secondo i piedi nervosamente sulle spalle del suo combattente, cercando di ragionare. Adesso gli farebbe tanto comodo una delle sue solite idee geniali, peccato che ora come ora  la sua mente sia un vero e proprio vuoto cosmico.
«E allora» riprende, turbato «come possiamo superare un dispendio di forze del genere?»
«Beh, non è poi così difficile» spiega Dark, cercando di risultare pragmatico e preciso come al solito «di affrontarli frontalmente non se ne parla, perciò ci toccherà ricorrere alla nostra arma migliore: l’astuzia»
«E cioè?» lo incalza Jude, visibilmente impaziente.
«E cioè» conclude Ray «non ci resta che allontanarli».

♟» Londra, Regno Unito, 2059

Quando Amos riesce finalmente a raggiungere Tower Bridge ha il fiato corto e il volto arrossato dallo sforzo fisico. Deve poggiare le mani sulle ginocchia e prendere delle profonde boccate d’aria per tornare a respirare più o meno regolarmente – e nonostante ciò non gli sembra ancora abbastanza.
Poco dopo vede arrivare degli sconsolati e affaticati Thiago, Amelia e Andrea, che purtroppo si presentano tristemente a mani vuote, la mestizia e l’afflizione ben dipinte sui loro volti.
«Non ditemi» inizia Amos, il fiato ancora altalenante «che abbiamo fatto… tutta questa strada… inutilmente».
«Beh, inutilmente non direi proprio» replica Andrea in tono piatto, mentre si sistema gli occhiali «considerando che quei documenti erano per noi della massima importanza».
«Ma…?» fa pressione su di loro Julie.
«Non siamo riusciti a recuperarli» annuncia Thiago, seccamente.
In quel momento, un crollo generale sembra imperversare tra i crononauti. Amos si lascia sfuggire un mugolio di disperazione, tornando a valutare che quello debba trattarsi di un ennesimo colpo di coda della sua perenne sfortuna, mentre Claudine si affloscia letteralmente al suolo, esausta. Atemu se ne rimane in disparte, deluso da quel risultato; quanto a Julie, si limita a posare una mano sulla spalla della connazionale, nel tentativo di rassicurarla.
«Non fatevene un cruccio» cerca di rincuorarli la Dupont, un sorriso solare nonostante i capelli color cioccolato siano in parte sfuggiti alla sua elegante acconciatura, incollandosi alla fronte imperlata di sudore per via della fatica «tutti noi abbiamo dato il nostro meglio, dopotutto».
Margarita muove passi lievi intorno all’atipico gruppetto, osservando il paesaggio circostante. Sembra essere la meno affaticata, il respiro perfettamente regolare e il volto ancora cereo – con ogni probabilità, dev’essere abituata a grandi sforzi fisici, considerando che appartiene alla vita di strada e si mantiene con furti neanche troppo saltuari: bisogna saper correre via in fretta, dopo aver commesso un reato, pur di non farsi beccare dalla polizia.
La giovane lituana osserva attentamente il paesaggio che la circonda: dopo che la nave ha attraversato il Tower Bridge, il ponte è stato tirato di nuovo giù, così che il traffico delle auto potesse tornare regolare. Il cielo sopra Londra è grigio e tetro, alcuni cumuli di nubi che svolazzano qua e là e una sottile nebbiolina che persiste nell’aleggiare soavemente, anche se solo nelle zone limitrofe al Tamigi. Un lungo viale alberato costeggia le rive del fiume, mentre passanti di ogni genere scivolano lungo i lisci marciapiedi della metropoli: ci sono uomini e donne di ogni età che praticano jogging, dai giovani ventenni ai quarantenni con il callo per la forma fisica, chi più affaticato e chi meno, quasi tutti con tute in materiale sintetico un po’ troppo leggere per la stagione e un paio di auricolari, musica rock a tutto volume che infonde loro energia per l’attività sportiva; poi annovera nel suo conteggio uomini d’affari, manager in carriera che camminano con passo spedito, le giacche grigie infeltrite che arrivano loro fino ai piedi mentre non riescono a staccare nemmeno per un momento il cellulare di ultima generazione dall’orecchio perché no, il prezzo di mercato è ancora troppo alto, va ribassato; infine turisti e abitanti della città, facilmente distinguibili tra loro visto che i primi si guardano intorno con aria frastornata e stupefatta, scattando foto a questo e quello – finendo per immortalare anche scorci senza monumenti o comunque punti d’interesse – con le loro reflex super costose, gli altri cercano di farsi spazio tra tutta quella calca, imprecando tra i denti mentre cercano di non arrivare in ritardo anche al prossimo appuntamento di lavoro.
Oh, Margarita ama così tanto analizzare quelle persone, immaginare quale storia possano avere, resterebbe lì per delle ore intere a ideare le sue supposizioni…
Amelia tuttavia richiama d’improvviso l’attenzione dello scapestrato gruppetto, tenendo un braccio alzato per catturare anche lo sguardo di tutti i ragazzi.
«Torniamo alla bottega» annuncia, la voce decisamente scoraggiata «abbiamo ancora il foglio su cui stavamo lavorando… speriamo che possa bastarci».

~~

Sulla via del ritorno, Amelia rimane in fondo al gruppo, gli occhi bassi sull’asfalto umido che percorre e la testa piena di mille pensieri. Si sente terribilmente in colpa per essersi lasciata sfuggire quel ladruncolo, inoltre potrebbe aver sottratto loro delle informazioni importanti sugli Orologi… e tutto perché lei non è riuscita ad acciuffarlo.
Chissà cosa avrebbe pensato sua madre, se sarebbe stata fiera di lei… ne dubitava. Anche se adesso Elizabeth Greene non c’era più, continuava a darle dispiaceri – Amelia sperava vivamente che non si stesse ribellando nella tomba. Era sempre stata quel genere di “figlia modello” che tutti i genitori desidererebbero: studiosa, disciplinata, impegnata in mille attività, scolastiche e non. Aiuto bibliotecaria alla London Library, iscritta al club di atletica e a quello di dizione, spesso in prima linea in alcune manifestazioni pubbliche… insomma, una ragazza perfetta. Beh, almeno all’apparenza.
Amelia infatti aveva imparato in fretta che il peso delle proprie responsabilità finiva sempre per schiacciarti, se non riuscivi a star dietro a queste ultimi. E la giovane, in effetti, arrivata ad un certo punto della sua vita, non era riuscita più a seguire ogni cosa come un tempo. Si era sentita schiacciare dal peso opprimente di tutte quelle incombenze, un macigno pesantissimo sul cuore che le impediva di respirare. Era stato proprio per questo motivo se, di colpo, aveva iniziato a saltare sempre più lezioni o ad abbandonare buona parte delle sue attività pomeridiane. Si era richiusa sempre di più in se stessa, passando interi pomeriggi rinchiusa in camera sua e uscendo agli orari più improbabili della sera, smettendo di frequentare i suoi vecchi amici e trovandosene di nuovi, che la trascinavano nei vicoli più oscuri di Londra, introducendola in una spirale viziosa di alcool e fumo dal quale era impossibile sottrarsi. Se non ti omologavi alla massa, non eri degna di entrare a far parte del gruppo. Era diventata sempre più schiva e aggressiva, rispondeva spesso male anche ai suoi genitori e sgattaiolava fuori casa agli orari più improbabili della notte, tornando solo alle prime luci dell’alba, nonostante suo padre e sua madre gliel’avessero vietato – era diventata molto brava a scivolare di sottecchi su e giù dalla scala antincendio fuori dalla finestra della sua stanza.
Con la morte della madre, tuttavia, qualcosa in lei era cambiato, come se una parte della sua anima si fosse spezzata definitivamente. Aveva abbandonato le sue cattive frequentazioni ed era tornata a stare vicina al padre, cercando di consolarlo – riteneva infatti che portare un peso del genere in due fosse più facile che da soli. Era tornata a scuola, finendo l’ultimo anno di liceo e iscrivendosi all’università presso la facoltà di giornalismo, il lavoro che aveva sempre sognato di fare – e che un tempo era stato anche quello di sua madre – conseguendo per altro degli ottimi risultati. Oltre a gettarsi a capofitto nello studio, aveva anche cercato un lavoretto, così da sostentare sia se stessa che suo padre, raggiungendo una certa indipendenza economica: era stata commessa presso un negozio di abbigliamento, barista, per un periodo aveva perfino consegnato i quotidiani a domicilio e ricevendo uno stipendio miserrimo. Aveva conosciuto – soprattutto all’università – nuovi amici, persone dagli animi splendidi, sempre così solari, gentili e disponibili, che con la loro sensibilità e comprensione l’avevano accettata e aiutata a riprendersi dopo quel brutto periodo.
Suo padre era partito, trasferendosi in un’altra città – Atlanta, in Georgia, uno stato americano – per praticare ancora la sua professione di medico. Aveva detto ad Amelia che restare ancora a Londra era diventato per lui impossibile, vivere in quella casa una tortura che ogni giorno gli riportava crudelmente alla mente i ricordi della moglie che aveva tanto amato e che adesso invece aveva perso per sempre. Amelia aveva trovato la scelta di suo padre estremamente ipocrita e non gliel’aveva mai perdonata, sebbene da una parte riuscisse anche a capirlo. Anche per lei era dura continuare a vivere lì, resistere ogni giorno all’impulso di correre in camera sua e aprire l’armadio, infilare il naso tra i vestiti della donna e cercare, ancora una volta, perfino la più minima traccia di quel profumo inconfondibile di acqua alle rose, che aveva sempre associato a sua madre fin da quand’era una bambina, illudendosi che lei fosse ancora lì. L’aveva fatto spessissimo, i primi mesi dopo la sua scomparsa… ora invece cercava di evitarlo, perché sapeva che se fosse tornata lì probabilmente non sarebbe più riuscita ad uscirne.
Per lunghi mesi aveva temuto di essere lei la causa del suicidio di sua madre: le aveva dato troppi dispiaceri, fino a che la donna era giunta al punto in cui sopportare ancora fosse impossibile e per questo si era tolta la vita. Quel rimorso le aveva roso lo stomaco per giorni e tolto il sonno notti intere, perlomeno fino all’apertura del testamento. Amelia era rimasta sorpresa di quella convocazione, non pensava che sua madre avesse lasciato qualcosa in eredità – o perlomeno, non si aspettava di essere lei una degli eredi. Dopo tutti i “ti odio” che le aveva urlato in faccia negli ultimi mesi – sebbene non ci credesse davvero in quelle parole, certo, peccato che se ne fosse resa conto solo quando lei ormai non c’era più – non credeva che sua madre tenesse ancora a lei. In fondo l’avrebbe capita, se avesse preferito estrometterla dal testamento, sarebbe stata una scelta ben più sensata, tant’è che nemmeno Amelia stessa sapeva che il suo nome fosse scritto lì… l’unico altro erede era suo padre, l’uomo che era stato accanto ad Elizabeth Greene fino all’ultimo dei suoi giorni e questa era una decisione che Amelia comprendeva già molto di più. Ma lei…?
All’apertura del testamento, suo padre non si era presentato, dichiarandosi troppo impegnato con il suo nuovo lavoro ad Atlanta. Ennesimo punto a suo sfavore, perlomeno a dire di Amelia. All’uomo era toccata la maggior parte dei beni di sua madre, comprensivi di gioielli, utilitaria e la vecchia villa di famiglia al mare. Era passato per la riscossione qualche mese prima, senza nemmeno avvisarla del fatto che fosse in città. Con ogni probabilità anche lui riteneva Amelia responsabile della morte della donna, pertanto se poteva evitare di vedere quella figlia che tanto a lungo si era sottratta al suo controllo di genitore, lo faceva ben più che volentieri. Quanto ad Amelia, invece, era toccato proprio l’Orologio.
All’inizio aveva pensato che si trattasse di un cimelio da niente, il genere di rivincita personale che i genitori si prendono dopo che i figli si sono comportati così tanto a lungo scorrettamente nei loro confronti. Quando invece aveva scoperto che l’Orologio era in grado di viaggiare nello spazio e nel tempo e che sua madre era morta per difendere quell’oggetto, aveva pensato che si trattasse di una punizione, che la incatenava crudelmente a patire lo stesso destino della donna. Infine, nel momento in cui aveva conosciuto Darren proprio viaggiando con quell’Orologio, le era balenato in mente il sospetto che quello fosse l’ultimo regalo che Elizabeth Greene aveva deciso di lasciarle. Già, ma perché?
Quando aveva ritrovato la lettera in cui le scriveva che era stato per via dell’Orologio che era morta, uccisa da qualcuno che voleva quell’oggetto e non suicidandosi, si era sentita immensamente sollevata – allora sua madre non si era tolta la vita a causa sua! Forse non ce l’aveva poi così tanto con lei! – ma al tempo stesso incredibilmente terrorizzata: se qualcuno era arrivato ad uccidere sua madre pur di impossessarsi di quell’artefatto, evidentemente senza riuscirci, allora forse sarebbe potuto arrivare a cercare di far fuori anche lei.
Di una cosa Amelia era assolutamente certa: se mai avesse incontrato l’assassino di sua madre, gliel’avrebbe fatta pagare, a qualsiasi costo.
«Amelia?» di colpo la ragazza si sente ridestare dai suoi impenetrabili pensieri, tratta via da quella matassa intricata da due braccia forti. La giovane scuote lievemente il capo, cercando di risvegliarsi da quella sorta di trance: si guarda a destra e a sinistra, nel tentativo di individuare la fonte di quel richiamo.
Si sorprende non poco quando si rende conto che la voce proveniva da Thiago, che ora  cammina al suo fianco. Il ragazzo le sorride dolcemente, dimostrandole un briciolo di comprensione.
«Tutto bene?» riprende, una nota interrogativa nella voce e nello sguardo «Saranno tre o quattro volte che ti chiamo.»
«Cielo, perdonami» mormora Amelia, passandosi con imbarazzo una mano tra i capelli «ho la testa piena di pensieri…»
«A tal proposito» Thiago la anticipa, cogliendola in contropiede «mi dispiace se non siamo riusciti a fermare quel ladro, prima. So che per te questa questione è molto importante, magari quel che ha rubato poteva esserci utile. Se solo fossi riuscito a correre più in fretta…»
«No, ha ragione Julie» Amelia sospira, scuotendo appena la testa «è inutile adesso stare qui a parlare con i se e con i ma, Thiago. Abbiamo fatto tutto quel che potevamo e non è bastato, semplicemente. Per fortuna, abbiamo ancora il foglio con le rappresentazioni di tutti gli Orologi. Non dobbiamo far altro che tornare alla bottega e rimetterci a lavoro su quello; e poi non credo che non ci siano altri documenti sugli Orologi, sparsi in giro per il laboratorio…»
Thiago sorride di compiacimento, incrociando con nonchalance le braccia dietro alla schiena.
«Sei una che non si da mai per vinta, eh?» commenta, lo sguardo intenso e magnetico posato sull’esile figura di Amelia.
«Diciamo che ho imparato a rinascere dalle mie ceneri, un po’ come una fenice» replica lei, con fare pragmatico e allo stesso tempo enigmatico, le guance lievemente arrossate per la sensazione di soggezione che prova ogni volta che il ragazzo la osserva. Non è fastidio, affatto… forse il punto è che non riesce proprio a capire quale emozione provi, ogni volta che la guarda.
«Già, in merito a questo» riprende lui, distogliendo lo sguardo dalla ragazza e puntandolo nuovamente sulla strada davanti a sé «mi dispiace davvero. Per tua madre, intendo.»
Nel sentire quella frase, Amelia si sente come trafitta da una pugnalata in pieno petto, sebbene cerchi di non darlo a vedere. Tiene la testa e lo sguardo basso, puntati sulla strada che percorre – sono finalmente tornati nel vialetto pieno di ciottoli dove si trova la bottega. In un certo senso, se l’è cercata, dopotutto era stata proprio lei a raccontare agli altri di sua madre.
Odiava la compassione che trovava negli occhi e nella voce delle altre persone, quando rivelava loro la verità sulla donna: i loro “mi dispiace” suonavano incredibilmente falsi, alle orecchie della giovane, mentre quegli sguardi si riempivano di una comprensione così mendace. Cosa volevano comprendere, dopotutto? Erano stati forse uccisi anche i loro genitori, a causa di quell’assurda guerra magica?
Con Thiago invece è diverso: lui almeno ha già in comune con lei qualcosa, quel peso incredibilmente gravoso che entrambi sono costretti a portare che altro non sono se non le responsabilità che derivano dal possesso di un Orologio.
È bello sapere che, almeno qualcuno sulla faccia della Terra, non la giudicasse.
«Grazie» mormora Amelia, riconoscente.
In quel momento, i ragazzi in cima al gruppo rifluiscono nuovamente nel negozio, scendendo lentamente lungo i gradini di legno, come se stessero varcando la soglia di un luogo sacro e arcano – in effetti, in parte è proprio così.
Gli ultimi ad entrare sono proprio Thiago e Amelia, un tantino più trafelati del dovuto. La ragazza si ferma sul primo gradino d’ingresso, osservando attentamente gli altri ragazzi che si dispongono all’interno. Sembra che stiano aspettando un ordine dalla ragazza, che tuttavia esita. Quando ancora si trovavano nei pressi del Tamigi ha dato prova di essere decisa e dal polso fermo, indirizzando tutti di nuovo verso la bottega; ora che sono di nuovo qui, tuttavia, non sa bene cosa fare: dove potrebbero cercare? C’è una soluzione giusta o una sbagliata?
«Dunque» esordisce, torturandosi le mani dietro lo schiena «dobbiamo guardare ovunque, a costo di mettere ancor più a soqquadro questo posto. Deve esserci qualcosa che possa farci capire quale strada prendere…»
Atemu, Amos, Andrea, Claudine, Margarita e Julie annuiscono, per poi cominciare a rovistare un po’ ovunque, dividendosi in coppie o piccoli gruppetti. Thiago scende invece un paio di gradini, portandosi di fronte ad Amelia.
«Che ne dici se io e te diamo un’occhiata insieme?» le propone, allungando una mano nella sua direzione.
La giovane acconsente, ponendo il proprio palmo pallido e minuto in quello forte e abbronzato del ragazzo. A quel punto Thiago la conduce gentilmente giù lungo le scale, ad ogni suo passo ne corrisponde uno di Amelia.
I due tornano al tavolo da lavoro su cui, poco prima, avevano lasciato il foglio che stavano analizzando insieme agli altri crononauti, troppo presi dall’inseguimento del ladro per potersene occupare ancora.
Adesso che si trovano di nuovo lì, tutti quei disegni e lettere arzigogolate sembrano incredibilmente senza significato per Amelia, tanto che la ragazza li vede vorticare in maniera confusa davanti ai suoi occhi e nella sua mente, gettandola in una terribile caos. Si porta una mano alla testa, d’improvviso le sembra di avvertire una forte emicrania e per un momento i sensi le vengono meno, tanto che rischia di cadere al suolo svenuta.
Fortunatamente, Thiago riesce ad afferrarla proprio all’ultimo secondo, un istante prima che le ginocchia della giovane impattino dolorosamente al suolo.
«Ehi» la richiama il ragazzo, tenendola sollevata con le mani poste sotto le sue ascelle «a quanto pare la corsa ti ha stancata più del dovuto.»
«Già» ammette Amelia, sebbene non sia totalmente d’accordo con lui. Si rimette faticosamente in piedi, reggendosi al bancone con i palmi delle mani ben piantati su di esso.
La verità è che è tutta quell’intera giornata ad essere stancante, solo che Amelia si rifiuta di ammetterlo a se stessa e agli altri, per paura che poi qualcuno possa costringerla ad andare a casa a riposarsi. E lei non ha alcuna intenzione di tornarsene a casa sua, assolutamente, almeno finché non avranno risolto quella storia.
«Aspetta» mormora Thiago, allontanandosi dalla ragazza solo quando è certo che riuscirà a reggersi in piedi da sola, perlomeno per qualche altro secondo. Poco dopo, infatti, se ne ritorna con uno sgabello – lo stesso che Amos aveva fatto cadere a terra, quando si erano resi conto della presenza del ladro nella bottega. Amelia, seppur riluttante, si accomoda su di esso.
«Allora» riprende il ragazzo, una volta tornato nuovamente al suo fianco «io direi di ripartire da qui. Dopotutto, prima dell’incursione del ladro, stavamo ispezionando questo foglio.»
Amelia annuisce, concorde, così Thiago prosegue:«Bene. Allora, qui sono rappresentati sedici Orologi, tra cui gli otto in nostro possesso – rispettivamente quelli con i simboli di corvo, ragno, libellula, pavone, maschere, mondo, scheggia di vetro e ingranaggi. Poi ce ne sono altri otto e il problema è qui: io ero a conoscenza del fatto che esistessero dodici Orologi, non sedici. Come sai ho studiato a lungo ogni cosa in merito a questo argomento e, se non mi ricordo male, mi pare che una volta su un antico manoscritto avessi letto che tra i dodici Orologi originariamente costruiti da Joshua ci fossero – oltre ai nostri otto – anche altri quattro che riportavano rispettivamente le effigi del Sole, della Luna, di una freccia e infine una clessidra. L’Orologio con quest’ultima immagine sarebbe, a quanto pare, il più potente, una sorta di tramite tra tutti gli altri. Il problema è che non ho la più pallida idea di cosa diavolo siano questi quattro nuovi Ori…»
Con ciò, Thiago indica ad Amelia gli Orologi in questione sul progetto: sono diversi da tutti gli altri, poiché i dorsi di questi ultimi o sono più decorati o non lo sono affatto.
«C’è scritto qualcosa accanto?» domanda Amelia, dubbiosa.
Thiago si piega in avanti, osservando attentamente la vecchia scrittura raffinata e piena di ghirigori. Ma che lingua è, cirillico?
«Oro del Bene, Oro del Male, Oro della Luce, Oro delle Tenebre. La cosa non mi piace, sembra molto in stile fantasy medievale o qualcosa del genere» annuncia Thiago, storcendo un po’ il naso.
«Non posso darti torto» si associa la ragazza, che spia il documento affacciandosi oltre le spalle del giovane.
Di colpo un rumore improvviso raggiunge le orecchie dei due ragazzi, che subito si voltano verso la fonte di quel trambusto. Amelia non si stupisce troppo quando vede Julie lanciare un gridolino piuttosto acuto, gettando in preda al panico le braccia attorno al collo di una Claudine dall’aria alquanta apatica, come se non fosse affatto turbata da un gesto del genere. In un primo momento la giovane dai corti capelli corvini crede che si tratti di un inconveniente come quello di prima – un altro ratto, oppure un ragno tutto intento a correre lungo le travi di legno incassate nel soffitto del negozio – quando tuttavia poco dopo si rende conto che non è di questo che si tratta, subito si mette sull’attenti.
Per un lungo, terribile istante crede perfino che possa trattarsi nuovamente di quel ladruncolo da strapazzo, eppure non è nemmeno di questo che si tratta, così, una volta fatto il giro intorno al ligneo tavolo da lavoro, affianca Claudine e Julie, seguita a ruota da tutti gli altri crononauti.
Una volta lì, la questione le è ancora meno chiara di prima.
A terra, infatti, si trova una strano macchinario – piuttosto moderno, soprattutto se si considera che quella bottega dovrebbe essere ferma agli anni di fine ‘700 – che vibra rumorosamente e brilla di una luce chiara e intensa.
Come diavolo è possibile che un marchingegno del genere sia arrivato in quel locale, rimasto chiuso per molti anni e inaccessibile a chiunque? Lo ha forse portato il tipo di poco prima? No, impossibile. Eppure Amelia è abbastanza certa di non averlo visto, al suo ingresso lì.
Una cosa del genere non dovrebbe passare inosservata, no?
Tutti i crononauti sembrano essersi immobilizzati sul posto, troppo spaventati al pensiero di dover prendere quel coso in mano. E se dovesse esplodere di colpo?
«È c-caduto all’improvviso da là sopra» spiega finalmente Julie, dopo diversi minuti in cui il silenzio più assoluto aveva regnato sul locale «io e Claudine stavamo dando un’occhiata qua in giro e lui bum!, è piombato giù dall’armadio.»
Mentre Julie non sembra ancora essersi ripresa del tutto dallo spavento, Amelia invece non riesce a staccare lo sguardo da quell’oggetto misterioso.
«Forse non dovremmo toccarlo. Potrebbe essere pericoloso…» la mette in guardia Atemu, le braccia conserte strette al petto e un’espressione dura a solcargli il volto.
Amelia non sembra nemmeno sentire le parole del ragazzo, tant’è che poco dopo si china in avanti e afferra l’attrezzo non identificato tra le mani, tenendolo ben stretto tra le mani.
Quando la giovane drizza nuovamente la schiena, tutti i crononauti – tranne Andrea e Thiago – fanno un balzo all’indietro, impauriti. Amos, piuttosto terrorizzato, si aggrappa alla camicia di Atemu, che viene allontanato a sua volta, sebbene apparentemente contro la propria volontà – probabile che Amos tema l’incombere dell’ennesimo colpo di sfortuna e tenti di proteggersi come meglio può – mentre Julie e Claudine sono ancora strette l’una all’altra e procedono insieme verso l’interno del negozio.
«A me questa faccenda sembra proprio bruttabruttabrutta--» commenta timoroso Amos, facendo capolino da dietro la spalla di Atemu, gli occhi inquieti che saettano da una parte all’altra, mentre sembra incapace di smettere di tremare.
«Riesci a non tremare? Non credevo che fossi un idromassaggio» replica Atemu, inarcando un sopracciglio folto e scuro mentre fulmina con lo sguardo il ragazzo ucraino.
Amelia si volta di scatto e quasi tutti gli altri ragazzi sobbalzano, chi per la sorpresa e chi per la paura. La giovane prosegue dritta davanti a sé, dirigendosi verso i tavoli da lavoro e al suo passaggio i compagni crononauti le fanno ala, terrorizzati dal macchinario sconosciuto che tiene tra le mani. Gli unici che la seguono senza esitazioni, come al solito, sono Andrea e Thiago, imperturbabili.
La ragazza poggia quell’affare sul tavolo e subito tutti gli altri le si affollano attorno, alcuni stavolta però si tengono un po’ più a distanza di sicurezza, spaventati da ciò che quell’attrezzo misterioso potrebbe provocare.
«Potrebbe essere pericoloso, è vero» replica Amelia, decidendosi finalmente a rispondere alle parole di Atemu di poco prima «però non possiamo saperlo. Potrebbe anche aiutarci a scoprire qualcosa in più su tutta questa storia, forse, solo che non possiamo andare avanti con tutti questi mille dubbi. Se non ci proviamo, non sapremo mai quale sia la verità.»
Thiago, Margarita, Julie, Claudine e Andrea annuiscono, convinti. Gli unici a risultare un po’ più restii o dubbiosi sembrano essere Amos e Atemu; il giovane dalla pelle color caffellatte si volta in direzione del ragazzo dall’incarnato perlaceo, ancora ancorato alle sue spalle. Pare piuttosto spaventato, tuttavia non rivolge né parole né gesti o tantomeno cenni – del capo così come di qualsiasi altra parte del corpo – all’altro. Si limitano a guardarsi a lungo negli occhi, per degli attimi travestiti da ore.
Quando Atemu si decide finalmente a voltarsi di nuovo verso Amelia, le lascia un unico cenno di assenso col capo, senza aggiungere altro. A quel punto la giovano torna a focalizzare tutta la sua attenzione sull’oggetto davanti a sé, analizzandolo attentamente.
Le fattezze sono piuttosto simili a quelle di un lettore cd – un pezzo d’antiquariato, ormai, nel 2059 – quindi basso, di base circolare e piatta, solo che un po’ più grande; la superficie è liscia e lucida, probabilmente di un materiale plastico o metallico. È in maggioranza di un colore argenteo, anche se alcune rifiniture possiedono invece delle sfumature bluastre. Infine, sul bordo che corre tutto intorno all’oggetto, sembrano esserci dei pezzi in rilievo… tasti, forse?
Amelia avvicina con timidezza e riverenza – oltre forse ad un pizzico di timore – la punta delle dita a quei pulsanti, facendo ben attenzione ad essere quanto più delicata possibile. Esercita una lieve pressione su quello centrale, fino a che un violento fascio di luce azzurrognola si dirada a partire dalla superficie di metallo di quello strano oggetto. Ma che diavolo…?
Al centro di quell’alone luminoso compare la riproduzione del mezzobusto di un uomo, probabilmente sulla sessantina. È piuttosto basso, i capelli che gli rimangono sono bianchi e radi, disposti ai lati della nuca come sparuti ciuffi d’erba in un prato inaridito, mentre al centro il cranio è rivestito solo da lembi di pelle chiara e lucidissima – una sorta di acconciatura monastica – in uno stato di calvizie ormai già palesemente avanzato. Ha occhi piccoli e scuri, sul naso pende un paio di occhiali dalle lenti tondeggianti e microscopiche. I suoi tratti sono gentili, tuttavia ogni cosa in lui ispira vecchiaia, compreso il suo abbigliamento, a cominciare dalla camicia bianca con le maniche arrotolate fino ad arrivare al vecchio camice da laboratorio, ormai logoro e consunto. Nonostante la statura ridotta, la sua è una figura magra, esile e minuta.
«Cosa…—» cerca di domandare Julie, prima che la voce di quell’ologramma interrompa le sue parole.
«Salve, forestieri» comincia, una certa nota concitata nella voce «se avete trovato questo messaggio, allora vuol dire che per me ormai non c’è più speranza. Il mio nome è Joshua Parrish e sono l’ideatore degli artefatti che pendono al vostro collo, gli Orologi.»
Nell’udire quella frase, tutti i crononauti sobbalzano, allibiti.
«Com’è possibile?» mormora Thiago, confuso.
«Ci sarebbero molte cose che vorrei spiegarvi, purtroppo tuttavia un terribile nemico è sulle mie tracce e devo sbrigarmi e fuggire via da qui il prima possibile, altrimenti per me sarà la fine. Per più di duecento anni sono riuscito a sostentarmi grazie alla magia degli Orologi, arrivando quasi fino ai giorni vostri: chiunque sia in possesso di tutte le copie presenti, infatti, potrà considerarsi il Signore del Tempo.
Credo che vi sarete accorti che, grazie ai vostri artefatti, non solo siete perfettamente in grado di viaggiare attraverso lo spazio-tempo a vostro piacimento, ma anche che, per tutto il tempo in cui continuerete a usufruire dei vostri Ori, vi sarà impossibile invecchiare. Tuttavia, ahimé, c’è anche qualcun altro che vorrebbe ottenere questo elisir di lunga vita, ossia colui che sta per uccidermi. Se costui dovesse riuscire ad impossessarsi di tutti gli Orologi presenti sulla Terra, per il mondo così come lo conoscete sarebbe la fine: non ci penserebbe due volte infatti a dare il via ad una serie infinita di carneficine ed altri abomini di questo genere.
Per scongiurare questo rischio, tuttavia, ho ideato il processo della diaspora degli Orologi: è una sorta di protocollo di emergenza, una misura di prevenzione che avevo apportato al momento della creazione dei vostri artefatti. In poche parole, alla mia morte ho fatto sì che tutti gli Orologi esistenti andassero dispersi nelle più disparate aree del mondo. Se siete qui, oggi, significa che voi fate parte dei fortunati che, fino a questo momento, sono riusciti a ritrovarne uno. Sono così certo e fiducioso del fatto che siate voi e non degli impostori o magari alcuni degli emissari del mio nemico, poiché questo marchingegno è incantato: l’ho reso visibile solo a quelli che considero i miei eredi legittimi, coloro che si sono guadagnati il proprio Oro per merito e necessità. Se non foste stati voi i veri destinatari di questo messaggio, l’ologramma non si sarebbe visualizzato affatto.
 Tornando a noi, ho una missione molto importante da affidarvi. So che non sono nessuno per chiedervi di affrontare qualcosa del genere, tuttavia non è per un mio eventuale tornaconto personale che vi chiedo di lanciarvi in un’impresa simile, quanto piuttosto per scongiurare la fine del mondo di cui vi ho parlato. Immagino che nessuno di noi trarrebbe beneficio da una situazione del genere, inoltre in caso di vittoria del nostro nemico comune, probabilmente sareste i primi che verrebbe a cercare, pur di togliervi personalmente dalla circolazione. Fate molta attenzione, è un uomo crudele e senza scrupoli.
Quanto alla missione, è presto detto: ci sono quattro Orologi, la cui posizione è ignota per l’aspirante Signore del tempo. Sono stati occultati in luoghi irreperibili e possono essere conquistati solo superando delle prove specifiche. Si trovano esattamente ai quattro angoli del globo e dopo questo messaggio vi lascerò le indicazioni sulle varie località. Non posso dirvi esattamente dove si trovano o che prove dovrete affrontare per ottenerli, ho paura che in questo momento ci possa essere qualcuno che mi stia ascoltando e non posso dare più informazioni del dovuto, sarebbe fin troppo rischioso per tutti noi, credetemi – le notizie che ho divulgato fino ad ora sono anche eccessive, infatti quando avrò finito il messaggio si distruggerà automaticamente, tramite una pioggia di inchiostro che comprometterà irrimediabilmente gli ingranaggi del riproduttore.
Sento che il Nemico sta per giungere; per me è ora di andare. Vi auguro buona fortuna, crononauti: il destino dell’umanità è in mano vostra.»
Ciò detto, l’immagine di Joshua scompare, lasciando il posto all’ologramma di un planisfero. Su di esso sono segnati quatto punti luminosi, che scintillano di una luce rossastra secondo un’intermittenza regolare. Mentre Amelia si avvicina per osservarli, Andrea ha già segnato tutto su un taccuino, con indiscutibile efficienza.
«Ecco qui» commenta, allungando il block notes in mezzo al tavolo, così che tutti possano vederlo «i punti segnati sono Roma, Città del Capo, Pechino e la montagna di Uluru, nell’outback australiano.»
Sguardi accigliati osservano la scrittura precisa e ordinata di Andrea, non tanto perché non riescano a leggerla – è talmente chiara che riuscirebbe a comprenderla anche un bambino di cinque anni – quanto piuttosto perché comprendono di trovarsi di fronte ad un bivio: dovrebbero gettarsi a capofitto in quell’impresa senza certezze? Oppure farebbero meglio a temporeggiare, cercare di capire se si trovino davanti ad un grande bluff?
«Dobbiamo partire» sentenzia Amelia, in tono impetuoso. È vero, anche se non si direbbe lei è una persona molto impulsiva, si lancerebbe senza indugi anche nella più sciocca delle abitudini. Eppure stavolta c’è in gioco qualcosa di diverso, se non accettassero la missione affidata loro da Joshua rischierebbero di andare incontro ad una fine orrenda, tutti, nessuno escluso.
Lo scotto da pagare sarebbe troppo alto, insomma.
Julie inarca le sopracciglia, dubbiosa.
«Ma… possiamo davvero fidarci di un messaggio del genere?» domanda infatti, l’incertezza ben percepibile nella voce.
«Potrebbe essere un falso» fa notare loro Atemu, in tono pragmatico «dopotutto, non mi risulta che esistessero riproduttori di ologrammi, sul finire del 1700.»
«Ma ha detto che, grazie al potere degli Orologi, è riuscito ad arrivare quasi fino ai giorni nostri, ecco dove si è procurato un oggetto del genere» obietta Claudine, con un certo senso di fierezza per essere giunta ad una conclusione del genere?
«Già, ma ripeto: come fai a sapere che non fosse un falso? Della serie: non abbiamo prove certe che quello dell’ologramma fosse il vero Joshua Parrish. Magari era solo un buontempone che voleva tirarci uno scherzo di pessimo gusto. In fondo, insomma, non abbiamo mai visto il vero volto di quest’uomo, non sappiamo come sia fatto in realtà.»
Quello sollevato da Atemu è un dubbio lecito: dopotutto, come potrebbero scongiurare una simile evenienza.
«Io lo so» li informa Thiago, il petto che si gonfia di soddisfazione per quella consapevolezza.
«Ah, sì? E come fai ad esserne così certo?» s’informa Margarita, i gomiti puntellati sul tavolaccio di legno e il mento premuto sulle mani.
«Beh, facile» Thiago scrolla le spalle, con nonchalance «perché nel video ha detto una cosa che solo il vero Joshua Parrish poteva conoscere.»
«La diaspora degli Orologi» esclama Amelia, la prima ad arrivarci «nessuno a parte lui era a conoscenza del meccanismo di difesa ideato per mettere in salvo gli Ori!»
«Esatto~» conviene Thiago, ammiccando lievemente in direzione di Amelia, soddisfatto che qualcun altro oltre lui sia arrivato alla sua stessa conclusione senza bisogno di doverglielo spiegare.
Gli sguardi degli altri sei crononauti si puntano all’istante su Amelia e Thiago, che sembrano essersi resi conto solo in quel momento di quanto siano eccessivamente vicini.
«Dobbiamo partire» ribadisce Amelia, lo sguardo fermo e adesso ancor più deciso.
«Okay, potreste anche aver ragione» s’intromette Andrea, rimasta imparziale fino a quel momento «però adesso cosa avreste intenzione di fare?»
«Niente di più semplice» risponde Amelia, balzando in piedi e mettendosi a camminare – ha troppa adrenalina in circolo, impossibile pensare che possa stare ferma – lungo la bottega «ci sono quattro destinazioni segnate su quella mappa, no? Bene, noi siamo otto: non dovremo far altro che dividerci in quattro coppie diverse e recarci nelle località indicate.»
«E in base a quale criterio dovremmo dividerci?» azzarda Claudine, mordicchiandosi il labbro inferiore.
«Beh» s’intromette Thiago, con fare quasi involontario «Andrea, tu hai detto di essere di origini italiane, giusto? Una delle destinazioni è proprio in Italia, potresti andarci tu.»
La ragazza sembra sorpresa, tant’è che alza di colpo la testa dal suo amato e inseparabile tablet, sul quale stava già digitando comandi ad una velocità insostenibile.
«Uhm? Oh, beh, non è così male come idea» ammette, piegando appena la testa di lato.
«Potrei venire io con te» si offre Claudine, alzando una mano con entusiasmo «amo l’Italia, inoltre ci sono anche stata un paio di volte. Sempre che per te vada bene, certo…»
«È indifferente» replica Andrea, con una rapida scrollata di spalle.
«Bene, e la prima coppia è sistemata» commenta Thiago, soddisfatto «poi, vediamo: c’è la Cina…»
«Oh, io ho dei contatti in Cina!» trilla Julie, gli occhi che d’improvviso le si illuminano di gioia.
«Ottimo» riprende il portoghese, sorridendo appagato «con te potrebbe andare—»
«Vado io!» si offre Margarita, raggiante «potrebbe essere un’esperienza estremamente… interessante~»
«E siamo a metà del lavoro» annuncia ancora il portoghese, il sorriso sul suo volto che va via via sempre più allargandosi «a questo punto mancano solo le ultime due destinazioni: Africa ed Oceania…»
«Se proprio dobbiamo ricorrere a questa follia di piano, allora io opto per l’Africa» sentenzia Atemu, lo sguardo duro come la pietra «almeno, essendo le mie origini riconducibili a questo continente, spero di potermela cavare al meglio.»
«Penso che andrò con lui» comunica Amos, mentre continua a torturarsi nervosamente le mani in grembo «rispetto all’Australia, è un viaggio decisamente molto più breve. Se posso evitarmi una fatica del genere, lo faccio ben più che volentieri.»
«Perfetto» conclude Thiago, tirando le fila del discorso «in questo modo a me e ad Amelia rimane l’Oceania. Siamo fortunati, mi è capitato di recarmi lì una volta, in passato, durante uno dei miei tanti viaggi. Direi che tutte le coppie sono ufficialmente formate.»
«Bene» conviene Amelia, annuendo con vigore «adesso non ci rimane altro da fare che partire…»
«Ma… siamo sicuri che questa sia la scelta giusta? Insomma, a me sembra tutto così affrettato…» obietta Amos, ancora una volta timoroso.
«Sentite» Amelia sospira pesantemente, le sembra di essere invecchiata di colpo di almeno dieci anni «mia madre ha pagato con la vita il caro prezzo di dover difendere quest’Orologio. Se c’è qualcuno intenzionato a distruggere il nostro mondo e che potrebbe essere potenzialmente la stessa persona che l’ha uccisa, io non ho la benché minima intenzione di restarmene qui con le mani in mano mentre ogni mia certezza viene rasa al suolo. Lotterò con tutte le mie forze per far sì che mia madre sia fiera di me e se mai dovessi incontrare chi le ha fatto del male… beh, non vi assicuro di riuscire a trattenermi dal fargli molto ma molto male. Detto questo, per riuscire a renderle giustizia io ho bisogno della collaborazione di tutti voi, senza nessuna esclusione. Se ci arrendiamo a prescindere, non facendo neanche una prova, allora siamo già vinti in partenza.»
Segue un silenzio che pare essere eterno, durante il quale i vari crononauti si guardano tra loro, cercando di decidere quale sia la via più giusta da percorrere. Nei loro sguardi sono ben visibili i mille dubbi che li attanagliano in quel momento, ma anche consapevolezza del loro compito e desiderio di dimostrare le proprie capacità.
Alla fine di quel muto dialogo, tutti i ragazzi tornano a voltarsi verso Amelia ed è Andrea a comunicare la loro decisione.
«Siamo tutti d’accordo» annuncia, solenne «affronteremo questa missione.»
Amelia sorride, sollevata, mentre i tratti del suo volto si distendono, ora non più in tensione.
«Bene» comunica, con determinazione «tra i vari documenti sugli Orologi di Joshua ho letto anche che, quando due persone devono spostarsi nello stesso luogo, può bastare anche solo un Orologio: infatti, essendo la catena che li sostiene piuttosto lunga, se riescono ad infilarsela contemporaneamente due crononauti il viaggio si può compiere tranquillamente.»
Poco dopo, neanche si accorge di quando la catena sottile dell’Orologio di Thiago le avvolge il collo. Il ragazzo, essendo di diversi centimetri più alto di lei, ne approfitta per passarle una mano tra i capelli, in maniera bonaria. Quel gesto fa arrossire leggermente Amelia, che tuttavia cerca di nasconderlo, spostando lo sguardo da un’altra parte.
Anche gli altri si sono già approntati per il viaggio: Andrea ha legato a sé una Claudine piuttosto impegnata a sistemare le pieghe della sua gonna, Atemu ha condiviso di malavoglia la propria collana con Amos e Margarita ha incatenato se stessa a Julie.
«Tutti pronti?» domanda Thiago, in tono austere.
Le teste di altri sei viaggiatori annuiscono, in contemporanea. Per avere il consenso di Amelia, invece, gli basta guardarla negli occhi: il suo sguardo arde così tanto di determinazione che è praticamente impossibile aspettarsi da lei una risposta che non sia un “sì”.
«Molto bene» conclude il portoghese «ci rivediamo tra cinque giorni alle Azzorre. Fate in modo che, per allora, abbiate assolto tutti i vostri compiti.»
Dopodiché, la stanza viene avvolta da quattro fasci luminosi di colori differenti: blu, giallo, viola ed azzurro.
L’istante successivo, la bottega è tornata ad essere deserta.

♟» Roma, Italia, 2059

Quando il raggio traente si dirada e la luce azzurrognola comincia a dissiparsi – come nebbia alle prime luci dell’alba – Andrea si convince a riaprire gli occhi, certa che ormai l’emissione luminosa violenta sia pressoché scemata.
La prima cosa che riesce ad appurare, ancora un po’ frastornata, è che si trova in una grande piazza, a terra una distesa di sampietrini sembra essere estesa come un mare. Davanti a lei c’è un’enorme gradinata, che si innalza maestosa ed imponente apparentemente verso il cielo; a metà strada si biforca, due rampe semicircolari che procedono secondo direzioni differenti, per poi ricongiungersi sulla cima. In alto, ha il suo posto d’onore su una terrazza panoramica un maestoso obelisco, mentre in fondo alla scalinata fanno la loro comparsa alcune colonnine, sulla sommità delle quali vengono riprese delle forme sferiche.
«Piazza di Spagna» commenta Andrea, mormorando lievemente tra sé.
Generalmente quel luogo è uno dei fulcri del turismo della capitale d’Italia, tuttavia quel giorno sembra essere deserto in maniera desolante: di certo il clima non aiuta, visto che sono a metà dicembre e il cielo è terribilmente plumbeo, minacciando pioggia da un momento all’altro. Ci sono giusto un paio di turisti, tutti intenti ad osservare i sontuosi gradini, mentre la zona al momento sembra piuttosto un crocevia per uomini d’affari, che corrono da una parte all’altra della piazza, stringendosi i mongomeri pesanti al corpo e continuando a parlottare nervosamente al telefono – smartphone di ultima generazione – di questo o quell’altro argomento, in un italiano rapido e fluidissimo.
Andrea lancia un rapido sguardo al cielo, notando che alcune piccole e sottili gocce di pioggia hanno cominciato a cadere al suolo, cerchietti scuri sui sampietrini.
«Voglio un ombrello» sussurra qualcuno, al suo fianco.
Andrea si volta e sembra ricordarsi solo in quel momento sembra ricordarsi della presenza di Claudine.
«Andiamo, solo soltanto due gocce» ribatte Andrea, scuotendo lievemente la testa.
«Sì, ma potrebbero diventare ben più di due!» insiste Claudine, pestando i piedi per terra in maniera un po’ infantile.
Andrea alza gli occhi al cielo, sospirando lievemente. Ma chi gliel’ha fatto fare?
«Comunque» cerca di riprendere le fila del discorso la ragazza italiana «a quanto pare il viaggio in Oro condiviso di cui ha parlato Amelia ha funzionato: adesso siamo a Roma, dovremmo cominciare a cercare il posto in cui potrebbe essere l’Orologio. Magari un monumento famoso, come il Colosseo, oppure—»
«Oppure potremmo andare a fare shopping!» la interrompe la francese, tutta su di giri.
«Ma se siamo qui è perché dobbiamo trovare l’Orologio, no?» le rammenta Andrea, piuttosto scettica.
«Zut alors!1» sbotta Claudine, con una leggera punta di esasperazione «Thiago ha detto che abbiamo cinque giorni di tempo per trovare l’Orologio, no? Se per un pomeriggio non cominciamo subito a cercarlo non morirà certo nessuno.»
A quel punto Andrea apre la bocca per cercare di ribattere, tuttavia non fa in tempo a dire niente che Claudine ha già cominciato a trascinarla verso le centralissime vie dello shopping romane.
«Vedrai, ci sarà da divertirsi~» conclude la francesina, già eccitata al pensiero di immergersi in negozi pieni di abiti all’ultima moda e griffati, una boutique dietro l’altra, mentre la faccia di Andrea è quanto di più vicino si possa immaginare alla rappresentazione vivente della mestizia.
Sarà proprio un pomeriggio indimenticabile, sì.







1
“Sciocchezze!” in francese






* Angolo autrice *
{In time è ufficialmente la storia più lunga che abbia mai pubblicato su Efp, yay!}
Vi giuro che sono commossa. Sul serio, non immaginavo di riuscire a rispettare la tabella di marcia che mi ero prefissata, soprattutto visto che lo ammetto in questi trenta giorni ho bighellonato molto e scritto poco. Praticamente mi sono messa d’impegno per finire questo capitolo solo negli ultimi tre giorni ma oh!, alla fine chi se ne importa: quello che conta è riuscire a portare a casa il risultato, d’altronde, no? E beh, direi che anche questa volta ci siamo riusciti alla grande.
Sì, dico “siamo” e non “sono”, perché ormai ritengo che questa di In time sia diventata una grande famiglia, dove un po’ tutti cerchiamo di aiutarci come meglio possiamo: io scrivo e poi chi può mi commenta il nuovo capitolo direttamente qui in recensione, altrimenti bene o male le altre riesco a sentire per via messaggistica, sia su Efp che altrove. Insomma, ho capito che lamentarmi per il fatto che lo scorso capitolo sia stato recensito solamente da due persone sarebbe un po’ inutile, in fondo ho ricevuto più o meno – in un modo o nell’altro – i pareri di tutte voi in merito. Certo, sarei ancora più felice se riusciste a recensire tutti i capitoli, solo che mi rendo conto da sola di quanto sarebbe “gravoso”, tra scuola e tutti gli altri vari impegni della real life. E questo, fondamentalmente, è il motivo per cui ho deciso di non fare richiami o altro.
Comunque, se recensite vi voglio bene.
Volevo fare ancora tanti auguri a Bea, che ho sentito via MP. Lei è un po’ l’assente giustificata di questo periodo— no, non faccio preferenze e no, Ange, l’ho detto prima io che me la sarei portata all’altare, adesso tu non puoi rubarmi la sposa-- ma sappiate tuttavia che è l’unica a cui concedo (e per cause di forza maggiore) questo lusso, tutti gli altri sappiate che dovrete comunque farmi avere un qualche genere di vostre notizie, altrimenti sapete che fine fanno i vostri personaggi– quella di Ethan Bailey, LOL.  
Ah ehm, torniamo a noi. Adesso gli aggiornamenti dovrebbero essere sempre regolari (come avrete potuto ben notare e come mi avevo già accennato nelle note d’autrice dello scorso capitolo) una volta al mese, quindi sempre il 27. Ho notato che riesco (per ora) a mantenere costanti gli aggiornamenti se continuo con questo genere di “regolarità”, perciò per ora il metodo adottato dovrebbe essere questo. Siete felici? Io parecchio.
Allora, come vi avevo accennato i nostri crononauti hanno scoperto la loro missione e finalmente sono partiti alla volta delle quattro destinazioni che vi avevo accennato. Scopriamo qualche notizia in più sul passato di Amelia, anche se c’è ancora qualcosa di cui non vi ho parlato… e che scoprirete tra qualche capitolo~ quanto mi piace tenervi sulle spine, ahahahahah
Piccole info sul prossimo capitolo: i più rilevanti sviluppi di trama saranno quelli sulle prove per recuperare gli Orologi delle coppie Andrea/Claudine (di cui vi ho lasciato un assaggio alla fine di questo chap) e Atemu/Amos. Preparatevi ad ogni genere di colpo di scena, anche se con me ormai ci dovreste essere abituati.
Quanto alla ormai conclamata e confermata coppia Kageyama/Kidou (altresì nota come Kageki): eh, per le novità sulla loro vicenda vi toccherà aspettare fino a dicembre-gennaio e sappiate che saranno delle bombe! Della serie: possibile che non abbiate ancora capito chi sia il cattivo di questa storia? Beh, certo, se non avete letto quella trilogia…
Alcune rettifiche a livello di trama: Darren vive davvero nel 2012 (è un AU, ergo i personaggi di IE me li spalmo un po’ a mio piacimento attraverso tutti i vari secoli) e quindi Amelia ha paura di rivelargli la verità sul suo conto proprio perché è una crononauta, mentre la dolce Maricchan mi fa notare – riguardo alla sua Claudine – che, mentre nella lista dei pg ho segnato come simbolo del suo Oro una rondine, nel capitolo ho scritto che è una libellula. Comunque, il simbolo giusto è la libellula, giusto perché lo sappiate, eh.
Bene, dovrebbe essere tutto. Io vi lascio come al solito appuntamento al 27 novembre e mi auguro di potervi risentire presto. Sappiate che ho tutte le intenzioni di concludere questa storia: i capitoli totali dovrebbero essere circa sedici, di questo tuttavia non sono ancora sicura. Ho invece forti certezze su quello che voglio scrivere in ciascun capitolo: la trama c’è, ce l’ho ben chiara nella mia mente. Fidatevi, qualsiasi cosa cercherà di mettersi in mezzo tra me e la conclusione di questa fic, io lo supererò, perché so che accanto a me ho delle persone fantastiche che mi aiuteranno sempre, qualsiasi cosa accada. Per il resto se volete con chi può ci incontriamo domenica 30 ottobre al LCG, che ci siamo io e Maricchan che vi lanciamo i bacini e io devo commettere un omicidio ma shh, non ditelo in giro.

A presto (spero)

Aria


Next stop .:: Chapter eight —Supermassive black hole
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Inazuma Eleven / Vai alla pagina dell'autore: _ A r i a