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Autore: Claire77    30/10/2016    1 recensioni
Dopo aver pronunciato quelle parole, Henry si fece di lato, lasciando entrare Jo nel negozio. Chiuse la porta a doppia mandata e appese il cartello con la scritta chiuso. Aveva paura di voltarsi e di incontrare lo sguardo di Jo. Quello che temeva, o che aveva desiderato, a seconda dei punti di vista, per tutto quel tempo, stava per accadere.
Genere: Drammatico, Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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One year later

 
“Allora, io direi venti dollari sulla prossima risposta”, propose Abe, mettendo una banconota sul piatto delle scommesse.
“Sì, però non vale”, disse Lucas mentre buttava giù un altro sorso di liquore, “Non posso stare io in squadra con Henry? Non è una cosa equa”.
“Ehi, razza di ingrato”, lo riprese Abe dandogli uno spintone, “Guarda che nemmeno io sono da buttare via, sai?”
“Guarda che Abe è un bravissimo giocatore”, disse Jo pescando una carta, “Allora, pronti per la domanda da venti dollari?”
“Spara, dolcezza”, Abe si strofinò le mani come per prepararsi alla battaglia.
“Mmh, allora, tecnologia”, lesse Jo. Lucas tirò un sospiro di sollievo per aver avuto la fortuna di imbattersi in un ambito in cui si sentiva abbastanza ferrato. “Che cos’è una backdoor? A: un sistema antivirus; B: un software di riconoscimento OCR; C: una porta di accesso nascosta a un sistema, D:…”
“C!”, rispose Lucas trionfante.
“Ci potevo arrivare anch’io”, osservò Henry sorseggiando il suo cognac.
“Seh, come no”, disse Abe. “Ora tocca a voi.” Estrasse una carta e lesse: “Storia. Merda”, aggiunse, “Se è una domanda di storia siamo fottuti in partenza”. Fece un respiro teatrale e continuò a leggere: “In quale anno avvenne quella protesta nota come Boston Tea Part…
“1773”, rispose Henry immediatamente, “Sei anni prima che nascessi, e dieci anni dopo mio padre ancora se ne lamentava, perché a causa di tutto il thè perduto la Compagnia delle Indie non aveva saldato il debito per le tre navi Morgan che aveva noleggiato”.
“Potevi almeno farmi leggere le possibili risposte”, borbottò Abe, lanciando lontano la carta che aveva appena letto. “Ed evitarti la lezione di storia”.
“Ma era per dare un po’ di contesto”, replicò Henry.
“Siamo pari, comunque”, disse Lucas.
“Facciamo un altro round, allora, per quei 20 dollari”, propose Jo, e prese un’altra carta:
“Moda e design”. Sorrise, ammiccando verso di loro: “Mi sa che siete fregati, ragazzi. Qui ci vuole una donna. Dunque: a quale famosa celebrità Hermes dedicò una sua creazione? A: Audrey Hepburn; B: Grace Kelly; C: Marilyn Monroe; D: Elizabeth Taylor”.
Seguirono alcuni secondi di silenzio.
“Io non so neanche chi sia, Hermes”, ammise Lucas, rifugiandosi nel suo bicchiere, “Abe, a te l’onore.”
“Ehm…” Abe rifletté, sotto lo sguardo ironico di Henry e Jo che già pregustavano la vittoria.
“Avanti, Abe”, lo incitò Henry scherzosamente.
“Ehm… Elizabeth Taylor?”, azzardò.
“No! Grace Kelly”, lo corresse Jo, e lei ed Henry batterono il cinque, ridendo.
“Non cantate vittoria troppo presto, voi due”, li riprese Abe, “Dovete ancora rispondere alla vostra domanda. Lucas?”.
Lucas prelevò una carta e lesse: “Storia. Gesù Cristo, ma non vale! Non possiamo togliere tutte le domande relative a storia?”
“Leggi e basta, Lucas!”, esclamò Jo, ridendo.
“Chi fu la prima donna a essere ammessa come insegnante all’università Sorbone?”
“Marie”, rispose di nuovo Henry senza permettere a Lucas di leggere le possibili alternative. “Curie”, aggiunse, quando tutti lo fissarono perplessi. “Subito dopo la morte di Pierre”, continuò Henry, come se fosse una cosa ovvia, “Gran bella donna, tra parentesi. Si divertiva un mondo a far finta di essere francese, quando in realtà era polacca”.
“Va bene, avete vinto”, concesse Abe, allungando la banconota verso di loro.
“Sì, però, non vale giocare a Trivial contro di te, Henry”, si lamentò Lucas, “Non dovreste darci dei punti di vantaggio o qualcosa del genere?”
“Che ne dite se ordiniamo delle pizze, con questi venti dollari?”, propose Jo, afferrando la banconota.
“Pizze??”, ripeté Henry, quasi scandalizzato, “Lo sai cosa ci mettono, lì dentro?”
“Eddai, papà, di cosa hai paura? Di morire per il colesterolo alto?”, sghignazzò Abe. Sia Lucas che Jo scoppiarono a ridere a quella battuta.
“E va bene, va bene”, Henry alzò le mani in segno di resa, “Se volete deturparvi con il cibo spazzatura, io non mi oppongo.”
“Amen”, disse Abe. “Jo, io prendo una pizza con salame e peperone”.
“E una confezione di bicarbonato”, aggiunse Henry ironico.
“Io una pizza prosciutto e funghi”, disse Lucas mentre Jo digitava il numero della pizzeria, “Tu, Henry?”
Tutti fissarono gli occhi su di lui, sfidandolo scherzosamente. “Una margherita, sicuramente”, borbottò Abe senza farsi sentire da Henry.
“Una margherita”, concesse Henry dopo parecchi secondi di silenzio.
“Come volevasi dimostrare”, disse Abe con un occhiolino rivolto a Jo.
 
“Allora, chi è la nostra vittima?”, chiese il capitano Reece avvicinandosi al tavolo dell’autopsia.
“Sarah Conrad”, lesse Jo dai propri appunti, “Venticinque anni, americana di New York. Laureata da poco in scienze politiche all’università di New York, ha sempre abitato qui. I genitori sono entrambi morti e non sembra ci siano altri parenti. Lavorava come stagista presso il senatore Christopher Elliott che si sta preparando per le prossime elezioni.” Controllò che non ci fosse altro da aggiungere, poi si rivolse a Henry: “Henry?”
“Sì, allora, è stata strangolata”, prese la parola Henry, “A mani nude, probabilmente da un uomo, a giudicare dalla dimensione dei segni”, e con una penna indicò i segni violacei sul collo del cadavere, “Nessuna impronta digitale, ma ho comunque trovato qualcosa di interessante”. Prese delicatamente una mano del corpo e la sollevò in modo che tutti potessero vederla. “Notate qualcosa?”
Jo osservò le dita della ragazza, con le unghie tagliate corte e la pelle abbastanza morbida e ben tenuta.
“… mani ben curate?”, azzardò Jo.
“Mani troppo ben curate”, la corresse Henry, “Qualcuno le ha ripulito le dita con dell’acetone, probabilmente per rimuovere eventuali tracce dell’assassino. Si deve essere difesa.”
“Quindi c’è la possibilità che l’assassino sia stato graffiato, magari in viso”, concluse il capitano, “Altro che ci può dire, dottor Morgan?”
“Sì”, rispose Henry, “Era incinta di due mesi”.
Hanson mandò un fischio di sorpresa.
“Questa sì che è una notizia”, affermò, “Troviamo il padre del bambino e almeno avremo una pista. Magari non voleva che lei avesse il bambino”.
“Possiamo capire chi è il padre dal DNA, Henry?”, chiese Jo.
“Sì, ma solo se mi portate un campione da confrontare.”
“Bene, ragazzi”, disse il capitano, “Al lavoro. Cerchiamo di capire se aveva una relazione, e con chi. Cominciate da colleghi e amici”.
 
“Novità sul caso Conrad?” Il capitano si avvicinò alla scrivania di Jo che era intenta ad analizzare alcuni fogli insieme ad Henry.
“Meno di quanto sperassimo”, ammise Jo, “Abbiamo interrogato tutti i suoi conoscenti. A dire il vero, non aveva amici. O almeno, non aveva amici al di fuori del lavoro. A quanto pare, viveva per il lavoro. Stava lì anche più di dodici ore al giorno. Nessuno sa se avesse un fidanzato”.
“Di qualcuno però è rimasta incinta”, intervenne Henry, “E visto che pare non avesse una vita sociale al di fuori del lavoro, mi viene da pensare che il padre del bambino sia da ricercare fra i suoi colleghi, o comunque qualcuno sul luogo di lavoro”.
“Esatto”, concordò Jo, “Senza contare che la reazione di alcuni colleghi quando ho chiesto se Sarah aveva una relazione non mi ha convinto”.
“È vero”, annuì Henry, “Sembravano imbarazzati. Forse è un uomo sposato, o comunque qualcuno che si comprometterebbe, se avesse una relazione… oppure…”.
“Oppure cosa?”, lo incitò Reece, incuriosita dal suo ragionamento.
“Oppure aveva una relazione con il senatore in persona”.
“Mi sembra un’ipotesi azzardata, dottor Morgan. Ha qualche prova?”, chiese il capitano aggrottando le sopracciglia.
“No”, dovette ammettere Henry, “Ma è l’unica teoria che acquisisce un senso. Voglio dire, Sarah Conrad aveva una vita assolutamente ordinaria. Niente droga, né debiti, né compagnie pericolose. Viveva sul lavoro. L’unico movente che mi viene in mente è la sua gravidanza, perché poteva compromettere qualcuno. In più, è stata strangolata, segno che è stato un delitto passionale, un gesto di impulso”.
“Ha senso, capitano”, disse Jo con una velocissima occhiata di orgoglio indirizzata a Henry.
“Sì, ma non avete prove”, ribatté il capitano.
“Possiamo cominciare con interrogare il senatore, vedere come reagisce”, suggerì Henry.
“Non potete convocare un senatore per un interrogatorio senza avere validi motivi”, osservò il capitano.
“Beh, perché no?”, chiese Jo, “In fondo, Sarah era una sua dipendente. Mi sembra normale fargli qualche domanda senza per questo accusarlo di nulla.”
Il capitano Reece rifletté per qualche istante.
“Procedete con cautela”, disse alla fine.
 
“Grazie per essere venuto, senatore Elliott”, disse Jo cortesemente, indicando al senatore (e al suo avvocato che lo aveva accompagnato) una sedia su cui accomodarsi.
“Qualunque cosa, per aiutare le nostre valevoli forze di polizia”, rispose il senatore con un sorriso a trentadue denti. Henry trattenne una smorfia di sarcasmo. Quell’uomo non gli piaceva. Alto, magro e in forma anche se si avviava verso i sessant’anni, la pelle con una tinta abbronzata quel tanto da dare l’impressione di condurre una vita sana all’aperto (ma Henry era sicuro che quell’abbronzatura fosse il risultato di costose lampade di bellezza), mani curatissime, denti sbiancati, capelli brizzolati quel tanto da donargli un’aria volutamente sbarazzina. Insomma, era un vero e proprio personaggio, costruito ad hoc per fare presa su un numero il più ampio possibile di elettori: dai ricchi ai borghesi, dai professionisti agli operai. Era un attore. E sembrava godere appieno del proprio ruolo, emanando un’aurea di pericolo se qualcuno avesse osato mettere in dubbio la sua messinscena.
“Dunque, come forse saprà, vorremo discutere con lei dell’omicidio di una sua dipendente, Sarah Conrad”, cominciò Jo, “La conosceva?”
“Ho molti dipendenti che lavorano per me”, rispose il senatore sempre sorridendo.
Risposta evasiva, pensò Henry, che non si trattenne dall’intervenire:
“Ma lei, nello specifico, la conosceva?”
“Forse”, concesse il senatore Elliott con un lievissimo lampo di irritazione nei confronti di Henry, “Probabilmente l’ho incrociata e ci ho parlato, ma non mi ricordo. Parlo con moltissime persone ogni giorno. C’è altro?”
“Quali erano le mansioni della signorina Conrad?”, chiese ancora Jo.
“Come le ho già detto, non mi ricordo nello specifico della signorina Conrad. Dovrebbe chiedere al capo del personale, sarà mia premura farle avere il numero”. Detto questo, prese una gomma da masticare alla menta e sa la mise in bocca, poi si alzò, come a sancire la fine della conversazione.
“Aspetti, non abbiamo ancora finito…”, si alzò Jo a sua volta, ma il senatore le sorrise di nuovo con finta cordialità:
“Invece credo proprio che abbiamo finito, detective Martinez. Come le avevo già detto, non conoscevo la signorina Conrad, quindi non posso aiutarvi. Per domande sulle sue mansioni, rivolgetevi al mio capo del personale. Per qualunque altra domanda nei miei confronti, rivolgetevi al mio avvocato”.
E se ne andò senza aggiungere altro.
“Ci scommetto i miei duecento anni di vita che è stato lui”, disse Henry. Jo, al suo fianco, annuì per dargli ragione. “Dobbiamo interrogare di nuovo i suoi colleghi”, decise Jo, “Andiamo”.
 
“È sicura di non avere idea di chi potesse essere il suo ragazzo?”, chiese di nuovo Jo, “In fondo, lavoravate insieme tutto il giorno”.
La ragazza scosse la testa, stringendosi nelle spalle. Era alla terza sigaretta nel giro di dieci minuti, continuava a battere il piede per terra e a guardarsi attorno allarmata. Li aveva portati in un vicolo sul retro prima di rendersi disponibile a rispondere a una qualsiasi domanda. Poco ma sicuro, quella ragazza sapeva qualcosa.
“Jenny”, cominciò Henry con tono persuasivo e rassicurante, “Sono sicuro che tu sai qualcosa, come sono sicuro che l’unico motivo per cui sei così reticente a parlare è che hai paura per il tuo posto di lavoro. Ho ragione?”
Jenny non confermò né smentì. Si limitò a un’altra boccata dalla sua sigaretta e a guardare fisso a terra.
“Ci puoi almeno dire quali erano i compiti di Sarah? Questo non credo che sia compromettente, per te”.
La ragazza sembrò rilassarsi un pochino.
“Sì. Beh… Sarah lavorava principalmente con Elliott. Collaborava con gli addetti stampa e si occupava di tutte le relazioni con i media: interviste, interventi in tv, comunicati, discorsi…”
Henry e Jo si scambiarono un’occhiata.
“Con il senatore, hai detto?”, chiese conferma Jo dolcemente.
Jenny annuì, ma sembrò messa in allarme da quella domanda.
“Il senatore Elliott ci ha detto di non conoscere Sarah”, osservò Henry.
“Ha detto questo?”, gli occhi della ragazza di spalancarono di stupore e paura, “Beh, ecco, forse… non lavorava proprio con Elliott. Forse comunicava con i suoi addetti… in ogni caso… devo andare, adesso”. Gettò la sigaretta a terra e sparì in fretta e furia.
Henry guardò Jo in maniera eloquente.
“L’ho già detto che secondo me è stato lui?”
Jo alzò gli occhi al cielo, trattenendo un sorriso.
“Sì, Henry, forse una volta o due”.
Rientrarono nel quartier generale della campagna elettorale attraverso la stessa porta utilizzata da Jenny. Erano tutti indaffarati a parlare al telefono, correre da una scrivania all’altra, accumulare plichi di fogli. L’attenzione di Henry fu attirata da una scrivania non occupata, in fondo alla stanza.
“Mi scusi”, chiese cortesemente alla prima persona che riuscì a intercettare, “Quella scrivania è del senatore Elliott, vero?”
“Più o meno”, rispose il ragazzo, che sembrava non vedere l’ora di liberarsi dalla montagna di volantini che stava trasportando, “Non è proprio sua, ma la usa sempre quando viene qui a fare il punto della situazione. Visto che ci sono le sue cose, nessun’altro la usa”.
“Grazie infinitamente”, disse Henry con un sorriso smagliante, e senza aggiungere altro si diresse dritto verso quella scrivania.
“Henry!”, sussurrò Jo per non farsi sentire dagli altri, “Ma che fai? Henry!” Lo seguì, evitando il via vai ininterrotto di gente. Henry stava fissando la scrivania, assorto. Come previsto, era in perfetto ordine. Troppo in perfetto ordine. Gli oggetti erano allineati in maniera simmetrica, le penne erano ordinate in base al colore, non c’era un filo di polvere né tantomeno graffi o segni lasciati dalle tazze di caffè. A destra, nascosto dietro al server del computer, c’era un piccolo bidone della spazzatura. Henry si chinò per sbirciare all’interno e trovò quello che stava cercando: una gomma da masticare. Con noncuranza prese un sacchettino di plastica dal cappotto, recuperò la gomma da masticare e se la mise in tasca.
“Henry!”, sibilò Jo, “Ma che stai facendo? Lo sai che non puoi procurarti delle prove senza mandato”.
“Ma questa non è una prova”, rispose Henry tranquillamente, “Diciamo che è solo un mezzo per ottenere una conferma. Voglio solo controllare se il DNA corrisponde a quello del feto. Se sarà così, almeno avremo la sicurezza di muoverci sulla pista giusta.” Jo si limitò a scuotere la testa in segno di rassegnazione, ma non obiettò.
Quando Henry arrivò in laboratorio, trovò Lucas che picchiettava nervosamente una penna sulla scrivania. Appena lo vide entrare, si rivolse a lui: “Henry! Meno male che sei arrivato. Sei stato tu a spostare il cadavere della Conrad?”
“Spostare?”, lo stupore di Henry si trasformò in un brutto presentimento. “Io non ho spostato nulla. Perché?”
“Allora abbiamo un problema”, disse Lucas, “Perché il cadavere di Sarah Conrad è sparito”.
 
“Sparito? Che intendete dire con sparito?”, il capitano Reece si sporse in avanti sulla propria scrivania.
“Lo giuro, capitano, non so come sia successo”, balbettò Lucas, “Per tutto il tempo in cui Henry è stato via con Jo io sono stato in laboratorio. Non mi sono mosso”.
“Devono aver agito di notte”, intervenne Henry, “Lucas era lì stamattina, e io ero lì ieri pomeriggio. Non c’è altra spiegazione.”
“Ma perché rubare un cadavere su cui era già stata fatta un’autopsia?”, chiese Hanson.
“Per impedirci di scoprire chi era il padre del feto”, rispose Henry convinto, “Peccato che io avessi già prelevato un campione di DNA, in attesa di trovare un altro campione con cui fare un confronto”.
“E…?”, incalzò Reece.
“… e il padre del bambino è sicuramente il senatore Elliott. Ho fatto il test.”
“Non ricordo che qualcuno di quest’ufficio l’abbia autorizzata a prelevare un campione di DNA dal senatore Elliott, dottor Morgan”, il capitano lo fulminò con lo sguardo e sia Henry che Jo al suo fianco abbassarono gli occhi a terra, “Non voglio sapere come ha fatto a procurarsi quel campione”.
“Ho solo raccolto una gomma da masticare da terra”, tentò di giustificarsi Henry, “Giusto per sapere se eravamo sulla strada giusta”.
“Però adesso non abbiamo più un cadavere”, intervenne Hanson, “Sarà meglio che lo metti in cassaforte quel campione di DNA, Doc.”
“Vedete di scoprire chi ha avuto la faccia tosta di entrare in questo dipartimento e rubarci un cadavere”, ordinò il capitano, “E convocate di nuovo Elliott. Anche se in maniera non ufficiale”, e fulminò di nuovo Henry, “… ora sappiamo che aveva una relazione con la vittima. Avete l’autorizzazione a forzare un po’ la mano”.
 
 
“Non capisco perché mi avete di nuovo convocato”, il senatore Elliott aveva abbandonato il suo tono affabile per adottarne uno decisamente più scocciato, “Non conoscevo Sarah Conrad e non ho altro da dirvi”.
“Strano che lei dica così”, Jo non si lasciò provocare, “Perché abbiamo dei testimoni che ci hanno detto che lei e Sarah Conrad lavoravate a stretto contatto. Doveva conoscerla per forza”.
“Lavoro a stretto contatto con molte persone, non significa che io le conosca”, sibilò il senatore.
“Inoltre la signorina Conrad era incinta”, buttò lì Jo senza esporsi troppo.
“Buon per lei”, gli occhi del senatore si strinsero a due fessure.
“Ha idea di chi potesse essere il padre?”
“Come le ho già ripetuto mille volte, detective”, Elliott quasi sospirò come se stesse parlando a un bambino, “Non conoscevo quella donna. Se ho avuto contatti con lei, non me lo ricordo. Non so nulla di lei né delle sue relazioni personali. Se non avete capi d’accusa o mandati con cui trattenermi, questa conversazione si conclude qui”. Si alzò, come aveva fatto l’altra volta, e senza salutare si diresse verso l’ascensore.
“Signor senatore, le consiglio di smetterla di fare finta di niente. Abbiamo testimoni, e anche prove, del fatto che avesse una relazione con la signorina Conrad”. Jo inseguì il senatore lungo il corridoio, con Henry che le stava accanto, in silenzio.
“Vorrei proprio vederle, queste prove e questi testimoni”, il senatore alzò le sopracciglia in un’espressione di sfida, “E se posso permettermi, vorrei dare io un consiglio a lei. La smetta di perseguitarmi, detective. Non vorrà certo finire a dirigere il traffico, vero?”
Nonostante il suo sangue freddo, Jo si sentì sbiancare di fronte a quella provocazione.
“È una minaccia?”, chiese a denti stretti.
"Io non minaccio, detective", disse Elliott con un sorriso strano, "Non ne ho mai avuto bisogno".
Quando lo vide sparire dietro le porte dell'ascensore, Jo scoprì di essere infuriata. Non solo Elliott si era palesemente preso gioco di lei negando di conoscere Sarah, ma le aveva sbandierato davanti il potere della propria posizione, sminuendo tutto il lavoro onesto che lei aveva svolto nel corso degli anni. Si voltò verso Henry, pronta a dare il via a una battaglia personale contro il senatore, quando si accorse che lui non era lì. Doveva essere sceso in laboratorio senza che lei se ne accorgesse. E infatti era là, seduto alla scrivania del suo ufficio, che fissava il vuoto con occhi assorti. Jo entrò e chiuse la porta alle sue spalle.
"Hai sentito quel… quel bastardo che cosa ha detto?", esclamò Jo per sfogare la sua frustrazione.
"Sì, ho sentito", rispose Henry posando il suo sguardo su di lei. I suoi occhi erano imperscrutabili.
"Quel… non posso credere che abbia avuto una tale faccia tosta da minacciarmi di farmi perdere il lavoro se avessi continuato a indagare. Voglio dire… è un senatore! Mi aspettavo che tenesse un profilo basso, almeno, ma invece…" Jo si aspettava un intervento di Henry, ma lui non diceva nulla, e Jo prese il suo silenzio come un invito a proseguire la sua filippica, "Invece non solo mi ha mentito spudoratamente, ma mi ha fatto anche capire di essere intoccabile, e che lui può fare quello che vuole! Ma ti rendi conto? Ha apertamente buttato nel cesso la legge, i diritti, la giustizia… e chi più ne ha più ne metta! Oh ma non finisce qui", Jo si scostò i capelli che per la foga del discorso le erano caduti davanti al viso. "Giuro che non finisce qui!"
"Sì invece", la interruppe Henry in tono fermo, "Finisce qui".
Jo era così basita da quell'intervento che rimase per alcuni secondi in silenzio.
"Che stai dicendo, Henry? Non possiamo permettere che la faccia franca!"
"Sì, invece. È esattamente quello che faremo".
"Ma… Henry, non ti farai spaventare da una minaccia, vero? Non è la prima volta!"
"Quella non era una minaccia, Jo", disse Henry con fermezza, "E non era neanche un avvertimento. Era una constatazione. E ho visto il suo sguardo. Se continuerai a dargli la caccia, non arriverai viva alla fine della settimana. No, Jo, te lo assicuro, so quello che dico", aggiunse vedendo che Jo stava per replicare, "L'uomo che mi ha ucciso la prima volta aveva lo stesso identico sguardo. E non è una minaccia a vuoto. Ha già deciso di ucciderti. Anzi, probabilmente ti ucciderà comunque, anche se ti fermerai".
"Henry, non starai dicendo sul serio", disse Jo, "Sì, è una persona potente, ma non può ammazzare i poliziotti a suo piacimento. Non la farebbe franca…"
"Sto parlando sul serio, Jo", replicò Henry, "Sono serissimo. Quando Abigail se n'è andata…" il suo tono si fece leggermente meno fermo, come ogni volta che parlava di Abigail, ma continuò comunque imperterrito, "… e poi non si è fatta più viva, io sapevo che era successo qualcosa. Me lo sentivo nelle ossa. E ora ho la stessa sensazione. E mai, per nulla al mondo, permetterò che a te succeda lo stesso che è successo a Abigail. Dovessi chiuderti all'interno di una stanza contro la tua volontà, non permetterò che ti succeda qualcosa. Vivrei l'eternità senza riuscire a perdonarmi". Si interruppe, abbassando lo sguardo per un istante, prima di fissarlo nei suoi occhi: "Per cui ti chiedo, Jo, te lo chiedo supplicandoti, lascia perdere. Prenditi una settimana di ferie, fai la valigia e andiamo via fino a che le acque non si saranno calmate. Ti scongiuro."
"Henry", esordì Jo portandosi al suo fianco, "Io capisco la tua preoccupazione, ma… credo che sia esagerata. Tutti i criminali minacciano. Sono un poliziotto, sono abituata a queste cose. Non posso permettere che un omicidio rimanga impunito perché mi hanno lanciato qualche minaccia. È contro tutto quello in cui ho sempre creduto".
"Lascia perdere", ripeté Henry, e le prese le mani, stringendole, "Ti prego, lascia perdere".
"Non posso", ribadì Jo, "Non posso lasciar perdere! Non riuscirei più a dormire. Non verrei mai a patti con la mia coscienza se sapessi di aver volontariamente lasciato libero un assassino. Non me lo perdonerei mai."
Henry abbassò gli occhi a terra, ma continuò a tenerle le mani. Rimase in silenzio per parecchi secondi prima di sussurrare: "Lo sapevo che avresti risposto così. Ma dovevo tentare comunque". Si alzò in piedi, e cominciò a passeggiare nervosamente davanti alla scrivania.
"Jo, se non vuoi lasciar perdere, almeno promettimi una cosa", si posizionò davanti a lei guardandola dritto negli occhi, "Promettimi che farai tutto quello che ti dico senza obiettare. Giurami questo, e non ti chiederò più di lasciar perdere".
Jo esitò, cercando di carpire dalla sua espressione quali fossero le sue intenzioni.
"Henry, se dopo avermi fatto promettere mi chiederai di rinunciare al caso, sappi che io…"
"No, non ti chiederò di rinunciare. So che non lo farai. Ma conosco gli individui come Elliott, ne ho incontrati così tanti nel corso della mia esistenza che ho perso il conto. Per sconfiggerlo bisognerà giocare il suo stesso gioco. E dobbiamo essere preparati al peggio."
"Il peggio?", ripeté Jo confusa, "Dobbiamo?"
"Sì, il peggio. Ci ho pensato per ogni secondo da quando sono sceso qui. Lui ha già un piano in mente. Dobbiamo essere pronti a contrattaccare."
"Henry, sai che mi fido di te. Ma questa volta credo che tu stia esagerando. Forse la tua preoccupazione nei miei confronti ti sta facendo vedere le cose in…"
"Non sto esagerando, Jo", la voce di Henry si alzò di una tacca, "Te lo assicuro. Non sto esagerando. So perfettamente quello che sta succedendo. L’ho capito sin dal primo momento in cui l’ho visto."  Sospirò, nascondendo per qualche istante il viso tra le mani. Quando tornò a fissarla, il suo sguardo era di nuovo irremovibile.
"Ti chiedo una cosa, una cosa sola. Vai al negozio adesso usando la mia bici, e dammi le chiavi della tua macchina".
"Come?"
"Dammi le chiavi della tua macchina, e vai a casa mia in bici. Ti chiedo solo questo. Se la mia idea era sbagliata, non dirò più nulla. Ma se avevo ragione, voglio che mi prometti che farai tutto quello che ti dirò".
"E che idea dovresti dimostrare?", chiese Jo, ancora tentennante.
"Lo vedrai. Dammi le chiavi della tua macchina", ripeté Henry.
Dopo aver soppesato le implicazioni di quella richiesta, Jo decise che in fondo questo poteva anche concederglielo. Estrasse le chiavi dalla tasca e gliele porse.
"Pensavo che non sapessi guidare", osservò cercando di alleggerire la tensione da cui Henry sembrava essere permeato.
"Io so guidare", rispose lui, "Solo che lo faccio molto male. Questa è la chiave del lucchetto della mia bici", aggiunse, dandogliela, "Prima di partire chiama Abe e digli che se non mi vede arrivare tra una ventina di minuti, deve venire a prendermi".
"A prenderti dove?", chiese Jo, anche se nel profondo credeva di averlo intuito.
"Al fiume", rispose Henry asciutto, e senza aggiungere altro uscì.
Jo impiegò una mezz'ora a raggiungere il negozio in bicicletta. Quando arrivò, la porta era chiusa, e le luci sia all'interno del negozio che al piano superiore erano spente. Un brutto presentimento si fece strada nel suo stomaco. Se Abe non era in casa, allora voleva dire che…
Arrivarono circa dieci minuti dopo. Henry scese dalla macchina di Abe, e quando lo vide Jo capì che lui aveva avuto ragione: era ancora fradicio dalla testa ai piedi, e indossava un paio di pantaloni della tuta e una t-shirt.
"Che cosa è successo?", chiese, e si accorse di avere la voce strozzata.
"Freni manomessi", rispose lui, "Sono riuscito a far deviare la macchina giù dal ponte senza ammazzare nessuno, a parte me stesso, ma tu non avresti avuto scampo". Entrò nel negozio e accese le luci. "Lo sapevo che aveva già deciso, l’ho capito quando ha detto quel non ho bisogno di minacciare. Non ha bisogno, perché l’oggetto della minaccia è già condannato. Ovviamente nessuno avrebbe potuto ricondurlo a dei freni tagliati. Sei una detective, chiunque tu abbia messo in prigione o arrestato avrebbe potuto farlo." Si diresse verso la sua scrivania e si versò un bicchiere di cognac. "E appena scoprirà che il piano A è fallito, sono certo che ha già pronto un piano B".
"Porca miseria, Jo, hai fatto incazzare un pezzo grosso", osservò Abe raggiungendo Henry e versandosi a sua volta del cognac, "Sarà meglio che calcoli le tue mosse con cura, d'ora in poi".
Jo non rispose niente. Non poteva credere che la minaccia fosse davvero così reale, e imminente. Ma tutto quello non faceva altro che rafforzare il suo proposito: Elliott andava fermato.
"Tu l'hai già fatto, vero, Henry?", chiese alla fine, "Le mosse. Hai già un piano in mente, vero?"
Henry annuì con un cenno del capo, e bevve un sorso di cognac.
"Allora farò tutto quello che mi dirai di fare", disse, risoluta, "Basta che alla fine dei giochi quel bastardo vada in prigione".
"Iniziamo subito, allora", Henry indicò con un cenno la botola che portava al suo laboratorio, "Scendi, ho bisogno di farti un prelievo di sangue".
Jo annuì e obbedì senza chiedere spiegazioni.
 
Jo aveva mantenuto la sua promessa, ed Henry la sua. Lui non le aveva più parlato di rinunciare al caso, e lei eseguiva ciecamente tutto quello che lui le chiedeva di fare. Ogni giorno, le prelevava un po’ di sangue e lo metteva da parte, anche se Jo non sapeva perché, ma sospettava che lui temesse il peggio e si stesse preparando a una trasfusione di emergenza. Insisteva per dormire da lei tutte le notti, ma entrava sempre dal retro, convinto che lei fosse sotto sorveglianza. Le impediva di usare l’auto, e l’accompagnava sempre da e per il lavoro.
“Non puoi proteggermi da tutto, Henry”, gli disse Jo una mattina, mentre camminavano fianco a fianco sul marciapiede. “Se ha deciso di uccidermi, non puoi impedirglielo. Può accadere in qualunque modo, in qualsiasi momento”.
“Non dirlo neanche per scherzo”, replicò Henry, “E qualunque cosa provi a farti, se ti sono vicino hai sempre una possibilità in più di sopravvivere. Metti che paghi qualcuno per investirti. Se mi metto nel mezzo, hai pur sempre la possibilità di salvarti e scappare”.
Jo non disse nulla, sospirando di fronte alla sua ostinazione. Henry aveva due scure occhiaie sotto gli occhi. Oltre a fingere di venirla a prendere tutte le mattine (per cui dormiva da lei, usciva di nascosto, poi tornava da lei simulando di essere appena arrivato, sempre perché era convinto che qualcuno la tenesse d’occhio), di notte la raggiungeva tardissimo, e dormiva solo per poche ore. Jo non sapeva cosa facesse, in quelle ore che passavano da quando uscivano dal lavoro al momento in cui lui veniva da lei. Sapeva solo (e lo aveva scoperto tramite Abe), che lui trafficava moltissimo nel suo laboratorio.
“È preoccupato”, le aveva confidato Abe di sfuggita, un pomeriggio che lei era venuta al negozio, “Non l’ho mai visto così preoccupato dalla scomparsa della mamma.”
E nonostante Jo tentasse di tenere i nervi saldi e gli occhi sull’obiettivo, ovvero incriminare il senatore Elliott, doveva ammettere che le preoccupazioni di Henry si stavano mostrando sempre più fondate. Tutte le prove e gli indizi che pensava di trovare scomparivano alla velocità della luce, mentre al contempo comparivano ostacoli, mozioni, ordini dall’alto, altri casi che richiedevano la precedenza. Il capitano stava cercando di sostenerla nella sua indagine, ma si vedeva che anche lei era sotto pressione dei suoi superiori. Se non avesse trovato una prova schiacciante subito, il caso sarebbe stato archiviato. Eppure Jo non demordeva. Più la combattevano, più lei si sentiva determinata.
Quella mattina, Jo sbatté con violenza la cornetta del telefono mentre riattaccava. Era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso. Trattenne l’istinto di alzarsi, mettersi a urlare e rompere qualcosa.
“Che è successo?”, le chiese Hanson di fronte a lei.
“Fanculo”, borbottò Jo, sospirando di frustrazione, “Hai presente quella ragazza che lavorava nello staff di Elliott? Quella con cui avevamo parlato io e Henry, Jenny? Doveva venire qui oggi per essere interrogata ufficialmente.”
“Sì, ce l’ho presente”, annuì Hanson.
“È stata trasferita. All’estero. E l’ufficio del personale casualmente ha perso il suo fascicolo e non sa dov’è”.
“Speriamo almeno che sia davvero all’estero”, osservò Hanson, condividendo la sua rabbia, “E non in fondo all’Hudson”.
Jo appoggiò i gomiti sulla scrivania e la testa tra le mani. Dopo quella notizia si sentì improvvisamente sfinita. Il suggerimento di Henry di lasciar perdere, fare le valigie e andare via insieme per una settimana non le era mai sembrato così allettante.
Jo passò il resto della giornata a cercare di rintracciare il testimone sfuggente, senza risultati. Non aveva altre piste, altre prove, altri appigli a cui aggrapparsi. Il test del DNA che Henry aveva fatto non sarebbe mai stato ammesso in tribunale. Non avevano prove sufficienti per chiedere un test del DNA ufficiale. Elliott stava vincendo. Alla grande.
Mentre tornava a casa insieme a Henry, lasciò che la sua rabbia si sfogasse in un monologo che Henry ascoltò pazientemente. Non le era rimasto altro, se non la rabbia.
“Lo so, Jo”, disse Henry alla fine del suo sfogo, “Lo so. Individui del genere esistono da sempre e continueranno a esistere. Bisogna prenderne atto.”
“Dimmi che almeno in qualcuna delle tue storie c’è il lieto fine”, sospirò Jo, “Dimmi che alla fine il male perde e il bene trionfa”.
“Preferisci una bella menzogna o una cruda verità?”
Jo si concesse un sorriso, se non altro di rassegnazione.
“Credevo avessimo pattuito ormai da tempo che dovessi dirmi sempre e soltanto la verità, dottor Morgan”.
“La verità è che bene e male non esistono, Jo. Ci sono solo gli esseri umani, e le bassezze a cui possono arrivare. Non importa quanto progresso abbiamo vissuto in questi anni, gli esseri umani sono sempre gli stessi”.
Jo rifletté su quelle parole, e le venne in mente che mai, nonostante stessero insieme da più di un anno, Henry le aveva raccontato delle circostanze in cui era morto, la prima volta. Gliele aveva accennate, ma mai raccontate nello specifico.
“Com’è successo, Henry? La prima volta. Non me lo ha mai raccontato”.
“Perché non mi piace parlarne”, rispose lui asciutto, “E preferisco non farlo. Scusami.”
“Va bene”, acconsentì Jo, anche se ascoltare una delle storie di Henry avrebbe potuta distrarla. O comunque, rimettere le cose in una giusta prospettiva.
Arrivati al portone di casa sua, Jo estrasse le chiavi per aprire.
“Torni più tardi?”, gli chiese.
“Sì. Devo fare alcune cose. Ma ci vediamo fra un’ora, va bene?”
Jo annuì, sia perché era stanca, sia perché non aveva senso discutere con Henry. Nel frattempo si sarebbe fatta un bagno caldo e avrebbe cercato di calmare la rabbia.
Entrò in casa, posò la pistola e il distintivo sul bancone della cucina, si tolse la giacca e l’appese all’attaccapanni. Anzi, meglio di un bagno sarebbe stato un bicchiere di vino. Si servì un calice di vino rosso e si sedette su uno sgabello, riflettendo su tutte le ingiustizie che aveva dovuto affrontare in quelle settimane. Cercò di spostarsi su pensieri più piacevoli, per esempio alle cene con Henry, lì in quella stessa cucina. Era solo un caso, continuava a ripetersi. Henry aveva ragione, bisognava fare i conti con la realtà: non sempre si poteva vincere. Doveva darsi una calmata, e avere un minimo di prospettiva. Insomma, se pensava a tutto quello che Henry aveva vissuto, la sua ingiustizia diventava un semplice sassolino in una scarpa. Ormai quella povera ragazza era morta e sbattere il senatore in prigione non le avrebbe ridato la vita. Era un ragionamento che le dava la nausea, ma era l’unico che riuscisse a formulare per dare un senso a quella mancanza di giustizia.
Mentre stava finendo il suo calice di vino, sentì bussare alla porta. Strano. Era passata solo mezz’ora, ed Henry di solito entrava dal retro. Chi poteva essere?
Guardò attraverso lo spioncino, e vide il tessuto di un berretto da baseball, gli zigomi pronunciati di quello che sembrava un ragazzo giovane e, accostato alla strada, un furgone della FedEx. Consegne a quell’ora? Stava per tornare indietro e prendere la pistola dalla penisola dalla cucina, quando la porta tremò, e un colpo potente la scaraventò a terra, mentre tre uomini armati facevano irruzione.
Jo reagì di istinto, anche se il vino, la stanchezza e la sorpresa l’avevano lasciata spiazzata. Da terra, facendo leva sul primo gradino della scala su cui era caduta, scalciò, colpendo il primo uomo che aveva davanti prima al ginocchio e poi in mezzo alle gambe. Quello ondeggiò e cadde, ma gli altri due uomini le erano già di fianco e l’afferrarono ognuno per un braccio, trascinandola verso la cucina. Jo provò a divincolarsi, ma erano troppo forti, e riuscì solo a farli sbandare mentre cercavano di costringerla su una sedia. Jo, in mezzo alla sua lotta disperata, cercò di trovare degli indizi sulla loro identità, ma erano completamente vestiti di nero, con un passamontagna, a parte il primo uomo, quello che aveva colpito ed era caduto, e che ora si stava rialzando, che era a volto scoperto e indossava il cappellino da baseball. Lo sguardo di Jo saettò al bancone della cucina, dove aveva la sua pistola, ancora nella fondina, ma era troppo lontana, e i due uomini la tenevano premuta contro la sedia. Non aveva scampo. Tranne…
Con tutte le sue forze lanciò un urlo (perché non ci aveva pensato prima, a gridare?) e si spinse contro lo schienale della sedia, rovesciandosi per terra. Gli uomini persero la presa su di lei e Jo fece partire un altro calcio, che centrò uno dei due aggressori dritto in faccia, facendolo cadere addosso all’altro. Jo rotolò di lato verso il bancone della cucina e si sporse per prendere la pistola. Un colpo attutito, probabilmente a causa di un silenziatore, risuonò nella cucina. Jo non sapeva chi aveva sparato né cosa avesse colpito: continuò a sporgersi verso la sua pistola, l’afferrò, l’estrasse dalla fondina e in un unico movimento inserì il primo colpo in canna: voltandosi verso i due aggressori che l’avevano spinta sulla sedia, fece fuoco. Quelli sussultarono e si accasciarono a terra, poi un altro sparo, di nuovo attutito, risuonò nella cucina. Questa volta Jo sentì una fitta al fianco, che nel giro di un secondo si trasformò in un dolore tale che si ritrovò a cadere per terra, la testa che le girava vorticosamente. Perse la presa sulla pistola, e cadendo il suo sguardo volò verso l’ingresso: il tizio che aveva sparato era quello con il cappellino da baseball. C’erano stati due spari, l’aveva colpita due volte o soltanto una? Jo cercò di guardare verso il punto di origine del dolore, ma attraverso la sua vista annebbiata vide solo sangue. Poi il tizio con il cappello si avvicinò di un passo e le puntò di nuovo la pistola contro, questa volta alla testa.
È finita, pensò, e in quel momento tutta la sua rabbia, la sua sete di giustizia, la sua determinazione nell’incastrare Elliott svanirono: non voleva morire. Non adesso. Perché non aveva dato ascolto a Henry? Perché era stata così cieca nella sua testardaggine? Le si strinse il cuore al pensiero di quanto Henry avrebbe sofferto perdendola. Non se lo meritava. Avrebbe vissuto l’eternità convinto di non essere riuscito a proteggerla. Avrebbe tanto voluto fargli sapere che non era colpa sua…
Un terzo sparo rimbombò nella stanza, ma era diverso. Non era uno sparo con il silenziatore, ma uno sparo normale. Jo pensò che uno dei due a cui aveva sparato probabilmente non era morto e si era rialzato, sparandole a sua volta. Invece, il tizio con il cappellino sussultò e cadde in avanti.
Jo cercò di mettere a fuoco, gli occhi appannati. Una figura scura si profilò alle spalle dell’uomo appena caduto a terra. Non riusciva a vedere bene… era…
Henry!
Il sollievo la investì come un’ondata, tanto che per qualche millesimo di secondo non provò più dolore. Poi, si sentì di nuovo sommersa dalla sofferenza, e rinunciando a ogni resistenza si abbandonò completamente a terra.
“Jo!”, sentì urlare, “Jo, resisti, ok? Ci sono io. Resisti!”
Sto resistendo, avrebbe voluto dire Jo, ma non era sicura di aver mosso veramente le labbra o di averlo solo pensato, sono sveglia. Mi dispiace.
“Mi dispiace”, riuscì a mormorare a stento, “Mi dispiace… avrei dovuto… ascoltare…”
“Shh, stai zitta e resta sveglia, ok? Resta sveglia!”
Jo annuì, o almeno credette di annuire. La stanza iniziò a ondeggiare paurosamente. Il bancone della cucina era proprio all’altezza del suo viso. Henry l’aveva sollevata? Stava diventando tutto così difficile da distinguere… a un certo punto, fu semplicemente nero.
 
Svegliarsi fu come emergere attraverso una nebbia profonda. Cominciò a percepire il proprio corpo da lontano, e un dolore sordo, costante, al fianco destro. Poi il pulsare alle orecchie, e alla testa. La gola secca, le labbra aride. La luce la ferì attraverso le ciglia socchiuse. Immagini chiazzate di bianco e nero si affollavano nella sua testa, cercando di acquisire un senso. Cos’era successo? Dov’era? Che ore erano?
Lentamente, con un respiro sempre più affannoso a causa dello sforzo, riuscì ad aprire gli occhi.
La prima cosa che percepì fu la luce. Una luce bianca, forte, puntata contro di lei. Poi sentì delle coperte sfregare contro la sua pelle nuda. Un odore forte e pungente di disinfettante le pizzicò le narici. Un senso di nausea la prese, facendo accelerare ulteriormente il suo respiro. Quando riuscì a riprendere il controllo di sé, strinse gli occhi cercando di analizzare l’ambiente attorno a lei.
Era sdraiata su un letto. Di fianco a lei, sulla destra, c’erano due comodini messi vicini per formare una specie di tavolo. Sopra, un asciugamano bianco, una vaschetta di plastica con all’interno dell’acqua rossa, bisturi, forbici, pinze, una boccetta di vetro. Jo si accorse che aveva un ago infilato nel braccio, collegato a una flebo in plastica attaccata a una gruccia di metallo che era stata ripiegata su stessa in modo da poter usare l’uncino come appendino.
Quando Jo cercò di alzarsi, la testa le girò così tanto che ricadde all’indietro sul cuscino. Rimase dov’era, ma abbassò lo sguardo sul proprio petto, scostando le coperte con la mano sinistra: indossava solo i pantaloni e il reggiseno, e metà del suo busto era avvolto in bende bianche. Mentre cercava di capire dove si trovava, sentì dell’acqua scorrere, e si accorse di una porta in fondo alla stanza, aperta, che dava su un bagno piastrellato in bianco e giallo. Jo mise a fuoco, e riconobbe la schiena di Henry, mentre, chino sul lavandino, sembrava intento a lavarsi con cura le mani e le braccia.
“Henry…?”, riuscì a mormorare. Temette di aver parlato con un volume di voce troppo basso, ma Henry la sentì lo stesso, e in pochi secondi fu al suo fianco accanto al letto.
“Jo! Jo, come ti senti?”, le chiese preoccupato.
“Io… io sto…”, balbettò Jo con la testa che le vorticava anche se era saldamente appoggiata al cuscino, “Sto bene, credo… gira tutto… dove siamo? Cos’è successo?”
“Gira tutto perché hai perso molto sangue, e l’anestetico che ti ho somministrato sta finendo il suo effetto”, spiegò Henry, e delicatamente le tirò le coperte fin su sotto il mento, “Ti ho estratto le pallottole. Appena te la senti, ti darò qualcosa da mangiare. Hai bisogno di rimetterti in forze. Hai sete?”
“Sì”, rispose Jo, e Henry si affrettò a procurarsi un bicchiere d’acqua e ad accostarglielo alle labbra, delicatamente. Jo bevve un po’ d’acqua ma fu come ingerire dei chiodi.
“Ma…”, continuò Jo nonostante la debolezza, “Che è successo? Dove siamo?”
“Siamo in un posto sicuro, non ti preoccupare”, le rispose Henry. Le posò una mano sulla fronte per verificare se aveva la febbre.
“Ma casa mia… quegli uomini…”
“Ti ho detto di non preoccuparti”, ripeté Henry con fermezza, “Devi solo pensare a guarire”.
“Ma… non riesco a non preoccuparmi, se non so cos’è successo”, ribatté Jo con un po’ più di forza nella voce, forse anche grazie all’acqua che aveva bevuto.
Henry sospirò, ma poi le sorrise pieno di affetto.
“Jo Martinez, sei la donna più testarda che abbia mai conosciuto”, le disse, baciandola sulla fronte, “Ora ti dico cos’è successo, ma solo se mi prometti che poi te ne stai tranquilla, mangi quello che ti do da mangiare e poi dormi, intesi? Ordini del medico”.
Jo annuì, anche se quel movimento le causò un ulteriore giramento del capo.
“Siamo in un hotel”, spiegò Henry, “Tranquilla, stanza prenotata con un nome falso, e da più di una settimana. Nessuno farà caso a noi.”
“… da più di una settimana?”, mormorò Jo confusa.
“Te l’ho detto che ero preparato al peggio, Jo. Questo è il peggio”, le disse Henry, “I tre uomini che ti hanno aggredito sono morti. Due li hai uccisi tu con la tua pistola, uno io, quello con il cappellino da baseball. Ma quello che tutti penseranno è che ti abbiano aggredita, tu ti sei difesa uccidendone due, e uno di quei due, nella lotta, ha sparato un colpo che ha ucciso il terzo uomo. Poi tu ti sei trascinata fuori, perdendo sangue, in cerca di aiuto, e le tue tracce si perdono poco distante da casa tua”.
“Ma… ma come…?”, obiettò Jo cercando di capire tutta la scena.
“I due tizi che tu hai ucciso non avevano sparato. Avevano ancora la pistola nella fondina. Così ho sostituito una delle loro pistole con quella che ho usato io per uccidere il terzo uomo. Non ti preoccupare per il guanto di paraffina, ho pensato anche a quello”, aggiunse Henry vedendo che Jo stava per interromperlo, “Poi ho spostato i cadaveri, fatto qualche ritocco alla scena del crimine, e sparso in giro un po’ del sangue che ti avevo prelevato. Con un tale quantitativo di sangue perso, si viene dichiarati morti anche se non c’è cadavere.”
M…morta?”, balbettò Jo, “Che… che intendi dire? Non hai… non hai chiamato… Hanson o…”
“Riceveranno una chiamata anonima tra un paio d’ore e arriveranno sulla scena del crimine in mattinata”, continuò Henry.
“Ma io… non capisco…”
“Jo, quello era il piano B”, sospirò Henry, “Non capisci? Non si fermerà finché non sarai morta. Ha provato con i freni manomessi, ma ha fallito. Allora ha mandato un commando di mercenari a casa tua ad ammazzarti senza troppi complimenti. Se sapesse che ha fallito di nuovo, ci riproverebbe. Manderebbe qualcuno in ospedale a staccarti la spina, o iniettarti qualcosa. Prima o poi ce la farà. Il modo migliore per essere al sicuro è essere morta. Se crede di essere riuscito nel suo intento, si fermerà, si rilasserà e magari commetterà anche qualche errore”.
Jo cercò di riflettere sulle parole di Henry, ma si sentiva stanchissima, e i pensieri non si articolavano in maniera compiuta.
“Quindi… quindi fra poco tutti penseranno… penseranno che sono morta?”
“Sì”, rispose Henry, “E mi dispiace Jo, mi dispiace moltissimo, ma ci ho pensato e ripensato, ed è la soluzione migliore. Resterai nascosta finché Elliott non finirà in prigione.”
“Ma non abbiamo prove…”, ribatté debolmente Jo, “Tutto quello che avevamo sull’omicidio di Sarah… non riusciremo a incastrarlo.”
“Ma io non voglio incastrarlo per l’omicidio di Sarah”, disse Henry con un’espressione misteriosa, “Io voglio incastrarlo per il tuo omicidio.”
“Cioè vorresti… lasciarlo libero per un omicidio che ha commesso… e metterlo dentro per un omicidio che non ha commesso?”
Henry la guardò con una di quelle occhiate che, per un brevissimo istante, lasciavano trapelare la sua vera età a dispetto del suo aspetto.
“Sì.”, rispose semplicemente, “A mali estremi, estremi rimedi”.
 
Jo cadde in un sonno agitato, popolato da flashback di quello che era successo, fitte al fianco, mal di testa, gola secca e momenti di panico in cui si immaginava lo sguardo dei suoi colleghi quando avessero visitato la scena del crimine. Casa sua.
Quando riaprì gli occhi, il sole trapelava attraverso le tende tirate della stanza. Si sentiva la testa pesante come piombo. Avrebbe voluto raggiungere il bagno per fare pipì, ma anche solo provare a scostare la coperta la fece ricadere all’indietro in preda ai capogiri. In quel momento, la porta d’ingresso si aprì.
Henry entrò di fretta, e il suo sguardo corse subito verso di lei, preoccupato.
“Come stai? Ti gira la testa?”, le chiese concitato.
“Sì”, ammise Jo, “Da dove vieni? Da… casa mia?”
Henry annuì, grave. Si sedette accanto a lei, tastandole il viso per verificarne la temperatura.
“Niente febbre… bene, è un buon segno”, disse a bassa voce tra sé e sé.
“Beh, sono in cura dal miglior dottore del mondo”, mormorò Jo, abbandonandosi al tocco tranquillizzante della sua mano.
“Non sono sicuro di essere il migliore, ma quello con più esperienza sì”, scherzò Henry, accarezzandole la guancia.
“Allora…”, cominciò Jo dopo qualche secondo di silenzio, “Com’è andata?”
“Direi bene”, rispose Henry dopo un attimo di esitazione, “Anche se non è facile definire il bene, in questo contesto. Però sia Hanson che il capitano hanno subito pensato a un attentato di Elliott senza nemmeno indagare troppo. Non ho nemmeno dovuto indirizzarli verso la pista giusta”.
“C’era anche il capitano?”, chiese Jo, sentendo il disagio del senso di colpa farsi strada nel suo stomaco, “Come hanno reagito?”
“Hanno reagito come reagirebbe chiunque quando qualcuno fa del male a una persona a cui vogliono bene”, rispose Henry evasivamente. 
“Soffrono?”, domandò Jo con una punta di dolore nella voce.
Henry evitò di guardarla negli occhi.
“Sì, Jo, soffrono. Ti vogliono bene, sei una di loro. Sono arrabbiati e addolorati”. Henry si interruppe, le prese una mano e gliela strinse. “Jo, so che è dura. Ma te l’avevo detto: avrei fatto qualsiasi cosa, intendo qualsiasi cosa per proteggerti. Anche a costo che tu mi odi, farò tutto ciò che serve per salvarti”.
“Oh, Henry”, mormorò Jo stringendo a sua volta la sua mano, “Io non ti odio. Non l’ho mai neanche pensato.” Sospirò per cercare di rallentare i giramenti di testa. Un’idea la colpì e si sentì ulteriormente in colpa per non averci pensato prima.
“E tu come stai, Henry?”, gli chiese, notando solo in quel momento il suo viso stanco, un filo di barba sul mento, e le occhiaie scure sotto gli occhi.
Io come sto?”, ribatté Henry perplesso, “Sei tu quella a cui hanno sparato, Jo. Io sto bene.”
“Non mi mentire”, replicò Jo, “Lo sai cosa intendo. Non deve essere stato facile per te far finta di niente mentre gli altri facevano teorie sulla mia aggressione e sulla mia… morte”, aggiunse l’ultima parola dopo una pausa.
“No, non è stato facile”, ammise Henry dopo qualche secondo di esitazione, “Io mento tutti i giorni per proteggere me stesso, ma non mi piace farlo. Quando posso, preferisco stare in silenzio piuttosto che mentire. È quello che ho fatto oggi. Ho cercato di evitare di… ingannarli di proposito.”
“Henry, mi dispiace”, Jo quasi si sentì le lacrime agli occhi, “È tutta colpa mia. Se ti avessi dato ascolto sin dall’inizio…”
“Shh, Jo, non dire così”, Henry le posò un dito sulla bocca per zittirla, “Il piano è mio, non tuo”.
“Sì, ma se avessi lasciato perdere, come avevi detto...”, replicò Jo, “Non avresti avuto bisogno di attuarlo…”
“Jo, basta”, il tono di Henry si fece improvvisamente severo, “Recriminare non serve a nulla. Quello che è stato è stato. Credimi, sono un esperto di rimpianti. E ti assicuro che pensare al passato, a quello che avrei o non avrei dovuto fare non serve a nulla, se non a farti soffrire”. Sospirò, guardandola dritto negli occhi. “Mi hai chiesto della mia prima morte. Credi che non ci abbia pensato, in tutti questi anni? Ogni giorno, pensavo che se avessi compiuto scelte diverse, se non avessi litigato con mio padre, se non fossi andato a studiare a Londra, se non fossi stato così cieco da non accorgermi di quello che succedeva, se fossi stato più attento… forse non sarei mai salito su quella nave, non sarei mai morto, magari a quest’ora sarei sepolto nel cimitero di famiglia di fianco alla mia legittima moglie, che non mi avrebbe mai tradito, con i fiori freschi dei nostri figli e nipoti sulle lapidi”. Henry si alzò e iniziò a camminare davanti al letto, preso dalla foga del suo discorso. “E sai dove mi hanno portato tutti questi ragionamenti? A niente. Assolutamente niente. Quindi smettila di pensarci, Jo, perché la tua vita è troppo breve per sprecarla a commettere errori. Il passato non si può cambiare, e ripensarlo e cambiarlo nella propria testa è inutile. Ora tu devi pensare a rimetterti al più presto, perché appena sarai in piedi dovremo prendere un aereo.”
“Un aereo? Per dove?”, chiese Jo, rendendosi conto che non sapeva nulla, in effetti, dei piani di Henry.
“Ogni cosa a suo tempo, Jo. Non ti stancare troppo.” Tornò a sedersi accanto a lei. “Ti serve qualcosa? Hai fame, sete? Fra poco devo tornare al distretto, ma Abe verrà a darmi il cambio.”
“Dovrei andare in bagno”, ammise Jo con una punta di imbarazzo, “Ma non riesco ad alzarmi”.
“Ti accompagno”, disse Henry, e senza aspettare obiezioni le passò un braccio dietro alla schiena e l’aiutò a sollevarsi. Una volta in piedi, Jo si accorse di quanto deboli fossero le sue gambe. Ondeggiò, ritrovandosi appoggiata quasi per interno a Henry. Lui, senza dire nulla, si chinò e la prese in braccio, portandola verso il bagno.
“Niente male per un vecchietto”, scherzò Jo per evitare di pensare all’imbarazzo del dover essere portata in bagno come una bambina.
“Mi tengo in forma nonostante l’età”, rispose lui con un occhiolino.
 
L’intero distretto era in fermento. Anche chi non era strettamente legato a Jo era all’opera: avevano aggredito, in casa, un poliziotto. Il senso di fratellanza che nasceva con quel mestiere si era risvegliato in tutti, dal capitano ai detective fino agli addetti della scientifica. Henry cercò di raggiungere il laboratorio evitando più gente possibile: alcuni gli lanciarono uno sguardo senza dire nulla, altri gli toccarono fraternamente la spalla in segno di sostegno. La sua espressione sfatta e stanca era stata scambiata da tutti per dolore per la sua partner scomparsa e, probabilmente, morta. Mai come in quel momento Henry aveva bisogno di ricorrere alla corazza che aveva faticosamente costruito nei suoi decenni di vita: si nascose dietro a un’espressione indecifrabile e a un animo di ghiaccio. Se avesse cominciato a sentirsi in colpa per le occhiate di compassione che in realtà non si meritava, perché Jo non era morta come tutti credevano, non avrebbe avuto la forza di portare avanti il suo piano.
Quando entrò in laboratorio, scorse Lucas seduto al suo sgabello, che fissava il vuoto con espressione triste. Era pallido e aveva gli occhi arrossati. Se non altro, pensò Henry, almeno Lucas avrebbe smesso di soffrire, quel giorno.
“Lucas”, gli disse con il tono più autoritario di cui si potesse armare, “Seguimi e non fare domande”.
Lucas alzò lo sguardo su di lui, interrogativo, ma obbedì senza ribattere. Una luce di speranza si accese per qualche istante nei suoi occhi. Henry fece strada fino a un corridoio buio, che conduceva alle celle frigorifere. Lì non c’era nessuno e non c’era il rischio di essere ascoltati, se non dai morti.
“Henry”, esordì Lucas con tono malfermo, “Mi dispiace per Jo, so che…”
“Lucas, ascoltami bene”, lo interruppe Henry, “Ascoltami con attenzione, perché dopo oggi non ne parleremo più. Hai capito?”
Lucas annuì, interrompendo quello che stava per dire, e lo osservò, perplesso dalla sua fermezza e apparente mancanza di dolore.
“Jo è viva e sta bene…”, disse Henry velocemente.
Lucas sospirò di sollievo e quasi si chinò in avanti, sopraffatto dalla notizia.
“Oh, grazie. Grazie. Grazie al cielo”.
“… ma per tutti gli altri è morta e deve rimanere così”.
Lucas riacquisì la sua postura normale, interdetto.
“Come… cosa…?”
“Elliott ha tentato di uccidere Jo due volte…”
Due volte?”, Lucas strabuzzò gli occhi.
“Lucas, ti prego, non abbiamo tempo. Lasciami parlare senza interrompermi”, lo riprese Henry, “La prima volta le ha manomesso i freni della macchina, ma ero io alla guida e sono morto solo io. La seconda volta ha mandato quei tizi che sono stati trovati morti sulla scena del crimine. Lei era ferita ma sono riuscita a operarla e portarla in salvo. Ora è al sicuro, ma se Elliott scopre che è ancora viva non esiterà a tentare di ucciderla di nuovo. Capito?”
Lucas annuì.
“Sì, ho capito. Che cosa hai mente? Cosa posso fare?”
“Ho un piano in mente, ma non te lo posso dire, non perché non mi fidi di te”, aggiunse, posandogli una mano sulla spalla, “Ma perché è meglio che tu non sia coinvolto, e poi credo ci siano delle spie all’interno del dipartimento”. Quest’ultima informazione Henry se l’era inventata sul momento, ma preferiva che Lucas non pensasse che mancava di fiducia nei suoi confronti. “Quello di cui ho bisogno è che tu mi copra. Mi dovrò assentare spesso per controllare Jo e portare avanti il mio progetto. Se mi cercano, dovrai dire che sto indagando da solo, che sono al telefono, che sono uscito un attimo, che sono a letto con la febbre… qualunque cosa, purché io abbia almeno una settimana di tempo per fare tutto senza che nessuno mi intralci. Lo puoi fare?”
“Sì, Henry. Farò del mio meglio, contaci”, rispose Lucas con foga, “Dì a Jo che l’abbraccio con affetto. Non sai come sono stato da schifo in queste ore pensando che lei… insomma, dille che le voglio bene. E grazie per avermelo detto”.
“Grazie a te, Lucas”, disse Henry, sollevato che il coinvolgimento di Lucas fosse stato così facile, e indorando un po’, per sicurezza, la pillola, “Senza di te, non potrei farcela. Mi darai un aiuto prezioso.”
Lucas si riempì di orgoglio di fronte a quell’ultima affermazione.
“Che cosa facciamo, allora?”
Tu ora torni in laboratorio e fai finta che questa conversazione non sia mai avvenuta”, ordinò Henry, “Io invece mi devo occupare di mandare in prigione il senatore Elliott”.
 
“Abe, grazie”, disse Jo dopo che Abe ebbe finito di aiutarla a mangiare del brodo di pollo.
“Ma figurati, dolcezza”, rispose lui posando la ciotola e il cucchiaio sul comodino, “Come ti senti?”
“Uno schifo”, sospirò Jo, “Come se mi avessero sparato”.
Abe ridacchiò.
“Tu sì che sei dotata di senso dell’umorismo”. L’aiutò a sedersi un po’ più dritta e le sistemò i cuscini dietro alla schiena. “Te la sei vista brutta, Jo. Ma proprio brutta brutta.”
“Lo so”, Jo sospirò di nuovo, “Non sai quanto mi sento stupida per questo”.
“Ti senti stupida perché un commando di militari è entrato in casa tua e ha cercato di ucciderti? Tra parentesi, dolcezza, ne hai fatti fuori due. Mica male, eh?”
“Non è per questo, Abe”, Jo scosse la testa, e scoprì che se non altro non aveva più capogiri forti come prima, “È che… Henry me lo aveva detto. Sin da subito. Mi aveva detto: lascia perdere. Prendiamo un aereo e andiamocene. Ma io mi sono intestardita, e ora guarda come sono conciata”.
“Non ti biasimare, Jo. Hai fatto quello che ritenevi giusto. E poi, senza offesa, Henry è l’ultima persona che può giudicare, in questo caso”.
Come al solito quando si parlava del passato di Henry, la curiosità di Jo si risvegliò. C’erano ancora moltissime cose di cui non era a conoscenza.
“In che senso?”, chiese.
“Beh, quando mamma se n’è andata, lui ha continuato a cercarla per più di un decennio, anche se io gli avevo ripetuto mille volte di lasciar perdere. Quando vorrà, tornerà, gli dicevo. Ma lui non voleva saperne. È stata una delle poche volte in cui abbiamo litigato sul serio. Anzi, una delle due volte, adesso che ci penso.”
“Solo due volte?”, domandò Jo sorpresa, “E l’altra volta per cosa litigaste?”
“Non ti stanchi mai di fare domande sul passato di papà, vero?”, scherzò Abe.
“No. Considera che sono un poliziotto e fare domande ce l’ho nel sangue. Poi con tutto quel materiale a disposizione… è impossibile stancarsi”, rispose Jo quasi ridendo.
“Beh, la seconda volta fu quando mi arruolai per la guerra nel Vietnam. Papà si oppose. Litigammo per giorni, non voleva che partissi. Continuava a ripetermi che la guerra era un’esperienza terribile che dovevo evitare, se ci riuscivo. Ma io mi sarei sentito un codardo a non partire, con tutti i miei coetanei che si erano arruolati. Il giorno della partenza c’era solo mamma e io temevo che papà fosse così arrabbiato da non venire a salutarmi.”
“Ma alla fine è venuto, vero? Ci scommetto”.
“Sì, alla fine è venuto”, confermò Abe, “E sì, la guerra è stata un’esperienza terribile, come lui aveva detto. Ma non mi pento della mia scelta… credo che non sarei diventato quello che sono, senza la guerra. Tornare a casa è stato… come rinascere, come avere una nuova prospettiva sulla vita”.
Jo si abbandonò contro il cuscino. Era piacevole sentire Abe parlare. Le sembrava che la distraesse dal suo dolore, e dal suo senso di colpa.
“Ti va di continuare a parlare, Abe? Raccontami quello che vuoi.”
Abe ci pensò su per qualche istante.
“Mmh, quello che voglio? A tuo rischio e pericolo, Jo, quando vado a braccio divento incontenibile”.
“Beh, raccontami qualcosa di quando eri piccolo”, lo incoraggiò Jo, “Com’era avere uno come Henry come padre?”
“Ah, hai scelto il tasto più dolente, Jo”, rispose Abe in tono grave, “Avere Henry come padre è stato terribile. Sin da bambino mi parlava in cinque lingue diverse per farmele imparare, a tre anni pretendeva che sapessi elencare i nomi delle ossa del corpo, a cinque si mise a insegnarmi il pianoforte, a sette…”
Jo spalancò gli occhi, stupita, fino a che non si rese conto, dall’espressione di Abe, che la stava prendendo in giro.
“Dio santo, Jo, dovresti vedere la tua espressione. Sto scherzando”.
Jo rise, e il movimento le causò una fitta al fianco. Si portò una mano sulla ferita e cercò di smettere di ridacchiare.
“Henry è stato un padre fantastico”, continuò Abe, “Dico sul serio. Sì, ci sono stati momenti duri. Non ti mentirò su questo. Cambiare scuola e città così spesso non è stato piacevole… ho perso degli amici e delle opportunità perché a volte dovevamo spostarci all’improvviso. Al mio matrimonio mio padre era seduto in fondo e si spacciava per un amico. Certe cose… non abbiamo potuto farle insieme come padre e figlio. Guardaci adesso, che ci spacciamo per partner d’affari e sono costretto a chiamarlo Henry in pubblico… anzi, spesso lo chiamo così anche a casa, tanto ci sono abituato.” Abe si interruppe per qualche secondo. “Però non avrei mai voluto una vita diversa”, proseguì, “Non avrei voluto genitori diversi. Sono stato fortunato, soprattutto se consideri che venivo da un campo di concentramento. Era già tanto che fossi vivo, ma essere adottato da due persone come Henry e Abigail è stata una fortuna… una cosa di cui sarò sempre grato” Lo sguardo di Abe si fece fisso, perso nei ricordi. “Mamma mi ha raccontato di avermi sentito piangere e di avermi cercato per un bel po’, perché non capiva da dove venisse il pianto. Alla fine mi ha trovato in fondo a un camion, quasi nascosto sotto delle coperte, in mezzo a una decina di altri feriti che erano stati portati al campo per le cure. Secondo lei, è stato il destino a portarci insieme. Mi ha raccontato che fu proprio in quello stesso giorno che lei incontrò papà per la prima volta. Dopo avermi recuperato dal camion, stava cercando un dottore per verificare le mie condizioni di salute… e vide Henry che si stava occupando di alcuni feriti nella tenda del pronto soccorso. A quanto pare, quando lui mi prese in braccio io smisi di piangere. Almeno, così diceva sempre mamma”
“Sembra proprio che fosse destino”, osservò Jo, rapita da quella storia.
“Già. A quanto pare io ero intrattabile, piangevo sempre e le infermiere del reparto pediatrico mi odiavano. Ma se mi prendevano in braccio l’infermiera Abigail o il dottor Morgan, allora improvvisamente smettevo e mi addormentavo. Sembra che alcune infermiere avessero iniziato a fare la spola tra pediatria e pronto soccorso, così quando Henry era in pausa mi affidavano a lui e io dormivo. Alla fine, Abigail mi prese e mi portò a casa. Considera che con tutti gli orfani di guerra che c’erano, nessuno obiettava se qualcuno si prendeva in carico un bambino. Anzi. Henry e Abigail si sposarono qualche mese dopo e poi si trasferirono qua a New York. Il resto è storia”.
Jo sospirò, improvvisamente colpita da un pensiero che non aveva mai preso in considerazione. Esitando, perché temeva di essere indiscreta o di sfociare nell’imbarazzo, chiese:
“Abe, posso farti una domanda personale?”
“Certo, cara.”
“Ti dispiace che io e Henry stiamo insieme? Voglio dire, ti dà fastidio…?”
“Ma no, Jo, certo che no”, rispose Abe ridendo, “Anzi, ne sono felice. Lo sai, no? Te l’ho già detto. Basta che non mi chiedi di chiamarti mamma o cose del genere”, le fece un occhiolino, e nonostante il dolore al fianco Jo rise di nuovo. “Papà si merita di essere felice. Ha sempre sacrificato tutto, per me e mamma. Mi ha insegnato tutto quello che sa, mi ha protetto e mi ha sempre sostenuto, anche quando non condivideva le mie scelte. Si è preso cura di me e continua a farlo anche se potrebbe andare in giro a devastarsi di droga, alcool e sport estremi, tanto che gli importa?”
Jo continuò a ridacchiare al pensiero di Henry che si fumava uno spinello in una discoteca. No, era un’immagine che non riusciva a concepire.
“E invece mi è sempre rimasto vicino, per quanto gli è possibile, ed è consolante, per me, sapere che si prenderà cura di me anche quando io magari non sarò più autosufficiente. Insomma, averlo accanto mi fa avere meno paura della morte, sai? Perché lui ci sarà sempre, a conservare un ricordo di me… è come se, alla fine, non morissi per davvero”.
“È bello quello che hai detto, Abe”, Jo smise di ridere e sospirò, commossa, “Ed è bello fare parte di tutto questo, a modo mio.”
“Già. Siamo una grande famiglia americana”, commentò Abe con una vena ironica. “Parli del diavolo”, aggiunse, sentendo la porta della stanza che si apriva.
 
“Niente, niente, niente!”, esclamò Hanson, gettando con violenza il fascicolo che aveva in mano sulla scrivania, “Sappiamo che quei tizi facevano parte di un commando speciale finanziato dal dipartimento della difesa, a sua volta finanziato dal senatore Elliott, ma a parte questo non abbiamo niente”. 
Il capitano annuì, chiudendo per un istante gli occhi, sconsolata. Henry ascoltava in silenzio, seduto sulla sedia di fianco alla scrivania di Hanson.
“Conti bancari? Trasferimenti di denaro sospetti? Telefonate, email?”, chiese il capitano dopo il suo momento di raccoglimento.
“Un cazzo di niente”, rispose Hanson con rabbia. “Se ha usato un telefono, sarà stato un prepagato non rintracciabile. Eventuali pagamenti li avrà fatti in contanti, oppure non li aveva ancora pagati…”
“Niente a casa delle vittime?”, chiese ancora Reece.
Hanson scosse la testa.
“E… per quanto riguarda… Jo?”
“Niente”, rispose di nuovo Hanson, “Le tracce svaniscono a metà del marciapiede. Forse c’era un’unità di rinforzo e… quando lei si è trascinata fuori… forse l’hanno caricata su un furgone. Non lo so. In quella via non ci sono negozi con telecamere. Solo case, e nessuno ha sentito niente”
“Henry…?”, il capitano si rivolse a lui, che fissava assente il vuoto, “Qualche idea? Qualche teoria? C’è qualche possibilità che Jo sia ancora…”, esitò un istante, “…viva?”
Henry non rispose subito, e la sua espressione si fece di pietra, così come il suo tono si fece freddo come il ghiaccio.
“Da un punto di vista strettamente medico”, disse, lentamente, “Con una tale quantità di sangue perso, le probabilità di sopravvivenza sono praticamente nulle”.
Hanson sbatté una mano sulla propria scrivania, incapace di trattenere la rabbia. “Fanculo”, borbottò, “Bastardo figlio di puttana. Sappiamo che è stato lui, ma non abbiamo niente per incastrarlo”.
“Continuate a cercare”, ordinò il capitano ignorando lo sfogo di Hanson, “Troveremo qualcosa, dovessi metterci cent’anni”.
Detto questo, si voltò e si avviò verso il proprio ufficio. Senza dire nulla, Henry la seguì, lasciando Hanson alla propria frustrazione.
“Capitano, le posso parlare un minuto?”
Il capitano, che non si era accorta che Henry era entrato nel suo ufficio, si voltò sorpresa.
“Certo, Henry, si sieda pure”.
“No, non sarà necessario”, replicò lui, “Volevo solo darle questo”. Estrasse un foglio dalla tasca della giacca e glielo porse.
“Che cos’è?”, chiese il capitano.
“Le mie dimissioni”, rispose Henry asciutto.
Il capitano lo fissò per parecchi secondi in silenzio, basita, prima di riuscire a parlare:
“Henry… so che è dura, ma… quello che è successo a Jo… non è ancora detta l’ultima parola, e abbiamo bisogno di lei, qui. Non può andarsene adesso”.
“Ho già deciso”, ribatté Henry, “Volevo solo dirglielo di persona. Lucas potrà prendere il mio posto… ho anche scritto una lettera di raccomandazione per lui, se può servire” Estrasse un’altra lettera e la porse a Reece, che però, immobile, non la prese, allora Henry si avvicinò alla scrivania e la posò lì.
“Spero che prenderete in considerazione l’idea di promuovere Lucas”, aggiunse, “È pronto per questo ruolo, ne sono certo”.
Fece per andarsene, quando il capitano lo richiamò:
“Henry, non sia sciocco, non prenda decisioni affrettate. Qualunque cosa lei pensi di dover fare…”
“Quello che io penso di dover o non dover fare non è più affare di questo dipartimento”, la interruppe Henry, e quelle parole misero in allarme il capitano Reece più di tutto il resto.
“Henry, non avrà intenzione di fare qualcosa di stupido, vero? Incastreremo Elliott. Ce la faremo”.
“Non ne dubito”, rispose lui, anche se lasciava intendere esattamente il contrario.
“Dottor Morgan”, disse il capitano cercando di riacquistare un tono autoritario, “Non ce la farà mai a prendere Elliott da solo”.
“Non ho mai detto di volerlo fare”, commentò Henry, e prima che Reece potesse aggiungere qualcos’altro aprì la porta e se ne andò.
 
Jo si sentiva meglio. Erano passati cinque giorni dalla sparatoria e cominciava a riacquistare le forze. Si sentiva ancora debole, ma la testa aveva smesso di girare, camminava tranquillamente da sola e aveva anche abbozzato qualche piegamento ed esercizio per sgranchire il corpo.
Henry continuava a fare la spola tra lei e il distretto. Sempre più pallido e dimesso, si rifiutava categoricamente di dirle che stava succedendo là fuori. Jo sapeva che lo stava facendo per il suo bene, ma quell’attesa e quell’ignoranza dei fatti la stavano snervando.
Quando Henry entrò nella stanza, quella sera, portava con sé un sacchetto di cibo, o almeno quello sembrava dato il profumino invitante.
“Come ti senti, Jo?”, le chiese immediatamente, come ogni volta che arrivava.
“Sto bene, Henry, ora sto davvero meglio”, rispose Jo, e per dimostrarglielo si alzò in piedi e gli andò incontro. “Che novità?”
“Va tutto bene”, rispose lui evasivamente, e posò il cibo sulla scrivania in truciolato della stanza.
Jo attese per qualche secondo, ma lui non aggiunse altro.
“… e non hai intenzione di spiegarti meglio, vero?”, domandò ironica.
“Non voglio che ti preoccupi, Jo, non ti fa bene. Devi pensare a guarir…”
“Anche il non sapere mi fa preoccupare, Henry. E non mi fa bene alla guarigione. So che pensi di farmi un favore, ma…” Jo gli posò una mano sulla spalla, avvicinandosi ancora di più, “Ho bisogno di sapere. Posso darti una mano.”
Henry sospirò come se si fosse aspettato una simile richiesta da un momento all’altro e si stesse arrendendo all’inevitabile.
“E va bene, Jo”, concesse, “Ma prima mangia. È il primo vero e proprio pasto dopo giorni di brodi e minestre”.
Jo sancì l’accordo con un cenno del capo, ma non trattenne a sua volta un sospiro di impazienza. Lui, con nonchalance, le scostò la sedia della scrivania e la fece sedere. A quel gesto gratuito di galanteria Jo si lasciò scappare un mezzo sorriso.
“Che hai da ridere?”, chiese Henry incuriosito. Recuperò uno sgabellino che c’era nel bagno e si sedette vicino a lei, distribuendo sulla scrivania il contenuto del sacchetto.
“Niente”, liquidò Jo velocemente, “Una cosa stupida”.
“Illuminami, detective Martinez”, la incitò lui, “È bello vedere che pensi anche a qualcos’altro oltre a farmi degli interrogatori.”
Jo lo fulminò con lo sguardo ma poi suo malgrado rispose.
“Pensavo… che tutte le donne, anche le newyorkesi più isteriche, sognano il perfetto gentiluomo, anche se non lo vogliono ammettere. E io ne ho proprio uno tutto per me, originale, per di più, non un’imitazione”, aggiunse scherzando. Addentò un pezzo di carne bianca dal contenitore di plastica che aveva di fronte.
Anche Henry si concesse un sorriso, e continuò con lo scherzo:
“Sì, se guardi bene dovrei avere ancora da qualche parte l’etichetta con su scritto made in England”.
“Un pezzo unico”.
“Più o meno… quasi unico”, la corresse Henry, e per un brevissimo istante un’ombra passò sul suo volto. Jo terminò di mangiare e decise che era il momento di ottenere risposte.
“Allora? Parli tu o ti devo interrogare?”
Henry la evitò ancora per qualche secondo, con la scusa di bere un bicchiere d’acqua. Poi iniziò a parlare:
“Allora, sta andando tutto come previsto. Solo che il mio piano A non ha funzionato, quindi adesso devo ricorrere al piano B”.
“Sarebbe così gentile da erudirmi su questi piani, dottor Morgan?”
“La mia idea era incastrare Elliott per il tuo omicidio”, spiegò Henry, “Ma purtroppo lui è stato prudentissimo. A parte un solo indizio, che non reggerà mai in tribunale, non c’è altro collegamento tra lui e i mercenari che ti hanno aggredita. Ma diciamo che me lo aspettavo, quindi ricorriamo al piano B”.
“… che sarebbe?”, chiese Jo incalzante.
“… farlo confessare e registrare tutto”.
Jo rimase per qualche istante in silenzio, confusa e perplessa.
“Henry, senza offesa, ma non mi sembra la tua idea più geniale. Come pensi di riuscirci? Un uomo così furbo, come hai ammesso anche tu, non si lascerà mai ingannare a fare una confessione”.
“Sì, se è convinto che la persona con cui sta parlando non vivrà abbastanza per raccontarlo”.
Il battito del cuore di Jo cominciò ad aumentare man mano che iniziava a capire dove Henry voleva andare a parare.
“Aspetta, aspetta un attimo”, lo interruppe, “Non mi vorrai mica dire che…”
“È furbo, ma è anche arrogante, e vanitoso”, continuò Henry, “È intelligente e ci gode a esserlo. Non vede l’ora di vantarsi con qualcuno del suo potere e della sua furbizia. Ed è esattamente quello che voglio.”
“Quindi tu vuoi provocarlo e farlo confessare? E poi farti… ammazzare? Perché è questo che farà, sicuro”
“Beh, farmi ammazzare non è mai stato un problema”, disse Henry, “Ed è esattamente quello che voglio. Registrerò tutto, e così ci sarà un altro omicidio di cui accusarlo”.
“Ma Henry”, protestò Jo per nulla convinta, “Ti rendi conto di quello che dici? Farti uccidere davanti a lui… e se ti vede scomparire?”
“Prenderò delle precauzioni. Metterò un giubbotto…”
“Ma se ne accorgerebbe.”
“… un giubbotto un po’ riadattato, Jo, fammi finire di spiegare”, proseguì Henry imperterrito, “Il giubbotto antiproiettile comune è concepito per salvarti la vita, ma a me non interessa salvarmi la vita, ma rimanere vivo abbastanza a lungo perché mi seppelliscano da qualche parte, mi gettino nel fiume o mi sciolgano nell’acido, insomma finché non si sbarazzano di me. Una guaina sottile sugli organi vitali basterà”. 
“E se ti spara in testa?”, obiettò Jo.
“Non lo farà”, replicò Henry con convinzione, “È un sadico. Vorrà vedermi soffrire e godersela il più a lungo possibile. Ovviamente sarà mia premura fingere di essere morto prima del dovuto.”
Jo non disse nulla per parecchi secondi, provando orrore di fronte alla prospettiva di quello a cui Henry aveva intenzione di sottoporsi.
“Henry, non posso permettere che tu lo faccia. Farti sparare così… so che non puoi morire, ma soffriresti comunque, e io non vogl…”
“Jo, per l’amor del cielo”, la interruppe Henry sbuffando, “Cosa vuoi che sia? Mi hanno sparato, avvelenato, sono saltato in aria, morto di fame, affogato, investito, pugnalato, per quattro fottuti anni mi hanno messo la testa in acqua ghiacciata e coperto il viso con asciugamani bagnati per farmi guarire, come dicevano loro”. Henry si fermò, forse stupito lui stesso di essersi lasciato andare così. Jo lo guardò, allibita:
“Non so cosa mi sconvolge di più, l’elenco delle tue morti o il fatto che tu abbia detto una parolaccia”.
“In ogni caso”, riprese Henry ricomponendosi, “Qualche minuto di sofferenza non significa nulla, per me. Una volta che la registrazione sarà in mano alla polizia, potranno arrestarlo”.
“Ma la registrazione?”, domandò Jo, “Non riuscirai a portare con te un microfono, poco ma sicuro. E se anche ci riuscissi, una volta morto… scomparirebbe, giusto?”
“Per questo”, rispose Henry con un sorriso, “Domattina incontrerò un supporto tecnico”.
“Supporto tecnico?”, chiese Jo dubbiosa.   
 
“Grazie per aver accettato di incontrarmi”.
Liz Chamberlain si voltò verso di lui quando lo sentì rivolgersi a lei. Lo salutò con un lievissimo cenno del capo, senza dare segno di volersi alzarsi dalla panchina su cui era seduta. Aveva il cellulare stretto in una mano e una sigaretta nell’altra, lo sguardo già di per sé cupo appesantito ulteriormente da del make-up scuro sulle palpebre.
“Confesso che mi ha incuriosito il tuo modo di metterti in contatto con me”, disse Liz lentamente, “Nascondere un messaggio con un codice all’interno di un altro codice. Come facevi a sapere che l’avrei letto, e decifrato?”
Henry si sedette al suo fianco, stringendosi nel cappotto. Il suo sguardo corse verso i lampioni lì vicino: come aveva calcolato, in quel punto del parco non c’erano telecamere.
“Ero sicuro che ci saresti riuscita”, rispose, “Sei una ragazza intelligente.”
Lei accolse il complimento con una specie di scrollata di spalle.
“Beh, che cosa vuoi?”, chiese bruscamente.
“Ho bisogno del tuo aiuto”, disse Henry, “In cambio ti darò qualsiasi cosa vorrai. Posso pagarti in denaro, o darti quel certificato di morte a cui aspiravi tanto, anche se adesso non ti serve più”.
A quelle parole Liz si voltò a guardarlo apertamente in faccia, con un vago sorriso sulle labbra.
“Curioso”, osservò, “Quando te l’ho chiesto, sembrava fossi disposto a tutto pur di non tradire i tuoi principi, dottore. E adesso mi dici che sei disposto a darmi qualsiasi cosa?” Soffiò un po’ di fumo che si disperse di fronte al suo viso. “Sei proprio un tipo strano”.
“Senti chi parla”, ribatté Henry, accennando ai suoi tatuaggi, piercing e pantaloni di pelle.
Liz lo ignorò e tornò a guardare di fronte a sé. Henry aspettò che dicesse qualcosa, ma lei sembrava assorta nei propri pensieri.
“Lascia stare”, disse Liz alla fine, aspirando altro fumo dalla propria sigaretta, senza guardarlo, “Non credevo che l’avrei mai detto, ma sono in debito. Le infermiere mi hanno detto che se non fosse stato per te sarei morta. Il sistema era rotto e non era suonato l’allarme… ma hai tentato di rianimarmi e hai chiamato aiuto”. Fece una pausa, continuando a fumare con lo sguardo perso nel vuoto.
“Hai già pagato quel debito, te ne sei dimenticata? Hai rintoccato il mio passato digitale”, osservò Henry.
Liz scosse la testa, sempre evitando di guardarlo.
“Quella è stata una stronzata, per una come me. Ci ho messo cinque minuti. No… quello che non capisco è perché tu l’abbia fatto. Voglio dire, io ti stavo ricattando. Avrei potuto rovinarti. E mi hai salvato la vita, quando avresti potuto lasciarmi morire, e i tuoi problemi si sarebbero risolti. Voglio dire, io l’avrei fatto”, questa volta si voltò brevemente verso di lui, “… se fosse stato il contrario”.
Henry sorrise debolmente.
“No, non l’avresti fatto”, le disse.
“E tu che cazzo ne sai?”, ribatté lei gettando via il mozzicone della sigaretta.
“Lo so e basta. Tu sei brava con i computer”, rispose Henry, “Io sono bravo a capire le persone. E tu non sei un’assassina. Magari ci avresti fatto un pensierino, sì, ma poi avresti fatto la cosa giusta. Ne sono convinto”.
Liz scosse le spalle come a voler scacciare l’idea di essere una brava persona. Si accese un’altra sigaretta, ignorando il commento di Henry (“il fumo uccide, sai?”), e si appoggiò allo schienale della panchina.
“Allora, che vuoi che faccia?”
“Ho bisogno di registrare una conversazione senza usare una cimice. Qualcosa che non possa essere individuato. E ho bisogno che la registrazione sia su un dispositivo esterno, non addosso a me”.
“Che genere di conversazione?”, chiese Liz.
Henry decise di ricorrere alla storia che aveva messo assieme nel caso Liz gli avesse chiesto spiegazioni. Storia che, tra parentesi, equivaleva alla verità. Più o meno.
“Ti ricordi la mia partner, la detective Martinez?”
“Sì, la stronza che mi ha inseguito per mezza New York”, rispose lei sbuffando.
“È morta”, continuò Henry.
Liz perse per un istante la sua espressione arrabbiata a favore di una genuinamente sorpresa.
“Cazzo. Ci andavi a letto, per caso?”.
“Il tizio che l’ha fatta ammazzare”, proseguì Henry ignorando il suo ultimo commento, “È un senatore. Non abbiamo prove né testimoni a suo carico. Ma so che è stato lui”.
“Vuoi che guardi nel computer di un senatore?”, gli chiese Liz mostrando una certa curiosità.
“Non serve. Non ha lasciato tracce, ne siamo sicuri. No. Quello che voglio è provocarlo a tal punto da spingerlo a confessare, ma per farlo lui deve essere certo che io non lo stia registrando. Ed è qui che mi servi tu.”
Liz soppesò la questione per qualche istante.
“Posso fornirti un auricolare wireless”, azzardò, “Opportunamente modificato affinché funzioni anche da microfono. Lo nascondi nell’orecchio, è invisibile, e posso inviare la registrazione in streaming al mio computer. Il problema è che ti serve anche un cellulare, e ci scommetto che il tipo ti controllerà e ti toglierà tutti i dispositivi elettronici.”
“E se il cellulare non fosse addosso a me, ma già all’interno della stanza?”
“Potrei accenderlo a distanza”, rifletté Liz, “Ma come fai a sapere in quale stanza parlerete?”
“A questo lascia che ci pensi io”, replicò Henry, “Tu credi di potermi procurare il necessario?”
“Ho dei contatti”, rispose Liz con un sorriso, “Certo, potevi dirmelo subito che il tuo scopo era estorcere una confessione di omicidio a un senatore del cazzo. Posso coinvolgere anche qualche amico, se vuoi. In fondo, è questo quello che fanno i faceless”.
“Meno siamo, meglio è, ma grazie comunque”, disse Henry, “Ce la fai a procurarmi il tutto entro oggi pomeriggio? Ne ho bisogno per domani”.
Liz annuì in una voluta di fumo.
“Comunque, senza offesa, Doc, ma andare da un senatore accusandolo di omicidio per farlo confessare… mi sembra proprio un bel modo per farti ammazzare”.
Questa volta toccò a Henry sorridere.
“È proprio quello che voglio fare”.
 
Jo cercava di sfogare la propria frustrazione camminando avanti e indietro nella stanza. Henry le aveva categoricamente proibito di uscire: nessuno doveva sapere che lei era lì, nemmeno il portiere dell’hotel. Il piano di Henry era folle. Il pensiero che lui si autobuttasse in una missione suicida aumentava i suoi sensi di colpa, già rumorosi di per sé per il fatto di non aver lasciato perdere il caso Elliott. Sì, era vero, Henry non poteva morire, ma farsi sparare di proposito… prolungare apposta la propria sofferenza per evitare di morire subito… insomma… Jo sospirò, divisa tra il senso di colpa, la sensazione di impotenza, e anche la consapevolezza della genialità del piano di Henry. O follia. Più volte la follia di Henry si era rivelata genialità, e sperava con tutto il cuore che sarebbe successo anche questa volta. E neppure conosceva il piano nella sua interezza. Avrebbero dovuto prendere un aereo, per dove? Le parole di Abe le tornarono alla mente: ha sempre sacrificato tutto... Mi ha insegnato tutto quello che sa, mi ha protetto e mi ha sempre sostenuto... Si è preso cura di me e continua a farlo…
Sta facendo tutto questo per me, pensò, e io per ringraziarlo che faccio? Lo ostacolo e lo metto in dubbio.
Erano le quattro del pomeriggio. Non aveva idea di dove Henry fosse e cosa stesse facendo. L’unica cosa che poteva fare era fidarsi di lui, e aspettare.
 
Il sole stava tramontando, e lanciava bagliori rossi sulla superficie grigia dell’Hudson. Henry controllò per l’ultima volta che non ci fossero telecamere nelle vicinanze, né che nessuno lo stesse tenendo d’occhio. Aveva già recuperato il necessario da Liz Chamberlain e doveva solo incontrare un’altra persona prima di mettere in atto la prima parte del piano B.
“Henry!”
Lucas si sedette di fianco a lui, stringendo il casco della moto al proprio petto. “Sono venuto appena ho potuto. Che succede?”
“Lucas, innanzitutto ti voglio ringraziare per il tuo aiuto”.
“Non ho fatto niente”, sminuì Lucas con genuina modestia, “Sono tutti così presi dal caso di Jo che nemmeno ci hanno fatto caso, a te e a me.”
“Comunque, so che per te non è stato facile”, proseguì Henry, “E mi dispiace dovertelo chiedere, ma ho ancora bisogno del tuo aiuto”.
“Qualunque cosa”, rispose Lucas raddrizzando la schiena.
Henry gli porse una sacca da palestra che aveva portato con sé.
“Qui ci sono due cambi di vestiti”, spiegò, “Avrei bisogno che tu mi venga a prendere, due volte”.
“Venirti a prendere… dove?”, chiese Lucas confuso.
Henry accennò eloquentemente alle acque del fiume. Lucas ci impiegò qualche secondo a capire.
“Ah”, disse, “Ma… due volte? Quando?”
“Una stasera, fra poche ore”, continuò Henry, “Poi domani, sempre alla sera. Devo essere sicuro al cento per cento di non essere visto, e di allontanarmi da qui il prima possibile.”
“Ma… ma…”, balbettò Lucas, stringendo senza motivo i manici della sacca da palestra, “Come fai a sapere che… insomma… mi dici che hai in mente?”
“Domani io e Jo scompariremo”, disse Henry ignorando di proposito la domanda di Lucas, “E se tutto andrà secondo i piani, prima di partire avrò recuperato abbastanza materiale da mandare Elliott in prigione.” Fece una pausa, indeciso se rivelare o meno una parte del piano. “Domani sera io e Jo saliremo su un aereo e lasceremo il paese, subito dopo che il senatore mi avrà ucciso, se farà come previsto”. Lucas ascoltava, ipnotizzato e a bocca aperta. “Per questo ho bisogno di te. Non ho tempo da perdere, deve essere tutto preciso al secondo. Appena muoio, mi recuperi, mi vesto, mi dai un passaggio con la moto fino al luogo che ti dirò.”
“…e poi?”, chiese Lucas con il fiato sospeso.
“Poi ce ne andremo fino a che tutto qui non si sarà risolto”.
“Ma…”, Lucas si ritrovò a fissare l’acqua del fiume che diventava sempre più scura, “Questo significa che… non ci rivedremo più?”
“Non ti preoccupare per il lavoro, Lucas”, lo rassicurò Henry, “Ho dato le mie dimissioni ieri e ho consegnato personalmente al capitano una lettera di raccomandazione che caldeggia una tua promozione al mio posto”.
Che cosa?”, esclamò Lucas, “Dimissioni? Io prendere il tuo posto? Io non voglio prendere il tuo posto, Henry!” Si interruppe, leggermente affannato per il suo sfogo improvviso. “Voglio dire…”, riprese, più calmo, “… non te ne puoi andare, Henry. Io pensavo… pensavo che nascondessi Jo per un po’ ma che tu rimanessi, se non altro per gestire la situazione... Senza di te non sarebbe lo stesso…”
“Lucas, non dire stupidaggini”, lo rimproverò Henry, anche se nel profondo era commosso e imbarazzato da quella dimostrazione di affetto nei suoi confronti, “Hai imparato tanto in questi anni e sono certo che ricoprirai il mio ruolo in maniera egregia.” Giusto per rassicurarlo, gli sfiorò brevemente la spalla. “E poi, prima o poi sarebbe successo”, aggiunse con una punta di amarezza, “Mi sposto ogni dieci anni, per evitare che qualcuno si accorga… hai capito, no?”
Lucas annuì, desolato.
“Succederà solo un po’ in anticipo sulla tabella di marcia”, concluse Henry.
“Però…”, Lucas sospirò, “Mi mancherai, Henry. Senza di te al lavoro non sarà lo stesso.”
“Anche tu mi mancherai, Lucas”, ammise Henry un po’ riluttante, “Ma non è un addio, solo un arrivederci. Appena tutto sarà finito, ti scriverò per farti sapere dove ci troviamo. E ci potrai venire a trovare, se vorrai”.
Di fronte a quella promessa Lucas si rincuorò un po’.
“Allora sarò qui ad aspettarti, stasera”, disse, alzandosi in piedi. “Non ti invidio, sai? Fa un freddo cane”.
“Lo so”, concordò Henry, “Detesto morire di inverno”.
     
Henry aveva studiato accuratamente l’edificio dove si trovava l’ufficio del senatore Elliott e aveva calcolato di riuscire a smontare e rimontare la grata della ventola di aerazione in quaranta secondi. Dal momento in cui sarebbe scattato l’allarme, le guardie avrebbero impiegato circa sessanta secondi per uscire dalla guardiola, salire tre piani, percorrere il corridoio e raggiungere l’ufficio del senatore. Gli rimanevano quindi venti secondi abbondanti, più che sufficienti per ingoiare la pasticca di cianuro che si era portato indietro. Il servizio di sicurezza del palazzo era molto efficiente, come aveva appurato durante i suoi appostamenti nel corso della settimana: si poteva eludere forse in entrata, ma non in uscita. Soprattutto per quanto riguardava l’ufficio di Elliott, che si trovava in fondo al corridoio, in una zona senza uscita. La cosa positiva e che tornava a vantaggio di Henry era che lui non aveva nessuna intenzione di uscire, almeno non attraverso le vie canoniche.
Penetrò nei sotterranei dell’edificio attraverso la cantina del negozio di fronte, in cui era entrato semplicemente scassinando la porta sul retro. Erano dei vecchi passaggi, costruiti nel XIX secolo per facilitare lo scambio delle merci. Sulla pianta dell’edificio quel passaggio non era segnalato, ma grazie al cielo lui aveva una buona memoria e si ricordava perfettamente del suo amico Halliday che aveva abitato in quell’edificio ed era appassionato di costruzioni. E gli aveva raccontato nel dettaglio la conformazione di quel quartiere.
Arrivato di fianco al locale caldaia, trovò la centralina elettrica. La aprì con un cacciavite gentilmente fornitogli da Liz e, seguendo le istruzioni che lei gli aveva dato, recise il cavo che alimentava il server centrale dell’edificio. Gli allarmi avrebbero continuato a funzionare, ma le telecamere sarebbero state disattivate, ed era quello che a lui interessava. Le guardie, secondo il protocollo, avrebbero effettuato una diagnostica di rete prima di inviare qualcuno alla centralina a controllare che tutto fosse a posto. Questo gli avrebbe fatto guadagnare altri sessanta secondi, prima di varcare la soglia dell’ufficio del senatore e far scattare l’allarme.
Henry iniziò a correre, senza perdere nemmeno un secondo. Ringraziò mentalmente la propria attenzione alla salute: riuscì a raggiungere il terzo piano in meno di un minuto, e con ancora abbastanza fiato in corpo. Si prese mezzo secondo di raccoglimento, e prima di aprire la porta fece partire il cronometro al polso: sessanta secondi.
L’ufficio era esattamente come lo aveva memorizzato studiando alcune foto ricavate dai giornali. In alto sulla parete, a sinistra, c’era la grata di ventilazione. Henry spostò la poltrona, vi si arrampicò, svitò le due viti inferiori. Quarantacinque secondi. Aprì la grata quel tanto che bastava per inserire al suo interno il cellulare che Liz gli aveva dato. Trentotto secondi. Ripose al suo posto la grata, la riavvitò velocemente grazie alla sua mano ferma da chirurgo, scese dalla poltrona. Ventisette secondi. Rimise la poltrona al suo posto davanti alla scrivania, amalgamando con il piede i segni lasciati sulla moquette. Ventitré secondi.
“C’è qualcuno?”, sentì gridare dal corridoio. La luce di una torcia si rifletté sulle pareti del corridoio. Ventun secondi. Henry scostò ad arte un paio di fogli sulla scrivania e aprì un cassetto di qualche millimetro. Diciotto secondi.
“Sicurezza, mani in alto!”, urlò qualcuno a qualche metro dalla porta.
Henry prese la pasticca di cianuro e con un morso deciso la ruppe. Fu colto da un unico, doloroso e intenso spasmo, come se avesse inghiottito dell’acido. Scorse (o forse credette di scorgere), il profilo di un uomo al di là del vetro della porta, con la pistola sfoderata. Poi, il freddo.
Quando emerse, annaspando, nel fiume, vide Lucas che lo aspettava poco più avanti sulla destra, con la sacca della palestra in una mano e due caschi nell’altra.
 
Nonostante la sua intenzione di rimanere sveglia ad aspettare Henry, Jo si era appisolata. Quando sentì la porta aprirsi, Jo sobbalzò, e il suo sguardo corse all’orologio: erano appena scoccate le 21.
La prima cosa che notò era che Henry non era vestito come al solito: indossava un paio di pantaloni scuri e un giubbotto grigio, niente sciarpa né cappotto. Ai piedi, un paio di scarpe da ginnastica. Henry entrò nella stanza rabbrividendo e la prima cosa che fece fu avvicinarsi al calorifero, dove posò le mani per scaldarsi.
“Ma che…?”, chiese Jo, prima di rendersi conto che lui aveva i capelli appiccicati alla fronte. Perché erano ancora umidi.
“Henry! Non sarai…?”
“… morto?”, completò Henry sarcastico, “Sì. Purtroppo in questa stagione l’acqua del fiume è gelida. Mi ci vuole sempre un po’ per riscaldarmi”. Dopo essersi scaldato abbastanza, si tolse il giubbotto e mise a bollire un po’ d’acqua usando il bollitore di plastica in dotazione alla camera. “Ti dispiace se mi cambio, nel frattempo?”
“No… fai pure”, rispose Jo, seguendolo con lo sguardo mentre scompariva oltre la porta del bagno.
Quando ritornò, indossava la sua solita camicia e panciotto. Si versò una tazza di thè, si sedette accanto a lei sul letto e allungò le gambe, appoggiando la schiena alla testata del letto.
“Com’è successo?”, chiese Jo dopo che lui ebbe bevuto qualche sorso di thè.
“Tutto secondo i piani”, disse Henry, “Ho sistemato il telefono con cui registrerò la conversazione nell’ufficio di Elliott.”
“Come hai fatto a entrare?”, esclamò Jo, stupita.
“Dai sotterranei, passando dal negozio di fronte”, spiegò Henry, “Sono passaggi che non compaiono nelle planimetrie moderne. Sono riuscito a fare tutto prima che la sicurezza mi sorprendesse.”
“E per uscire…”
“… ho usato la via più breve”, rispose Henry con un occhiolino per sdrammatizzare. Jo però non riuscì a calmare la propria inquietudine. Allungò una mano e gli sfiorò i capelli ancora umidi, con tenerezza.
“Henry”, iniziò con un groppo alla gola, “Non riesco a sopportare che tu stia facendo tutto questo per togliermi dagli impicci, io…”
“Jo, farei qualunque cosa, per te”, la interruppe Henry, prendendole la mano che ancora indugiava sul suo viso, “Qualunque cosa. E visto che ci siamo, sappi che domani partiamo. Quindi riposati, e tieniti pronta.”
“Partiamo? E per dove?”
“Casa mia”, disse lui fissandola negli occhi, “Non hai paura dei fantasmi, vero?”
“Non ho paura di niente, se tu mi sei di fianco”, rispose Jo sinceramente, “Ma per casa tua intendi… Inghilterra? Come faremo a lasciare il paese?”
Per tutta risposta Henry si alzò, e raggiunta la tasca del giubbotto recuperò una busta sigillata, che le porse.
“Con questi”, le spiegò, “Nuovi passaporti e nuovi numeri di previdenza sociale. E spero che non ti dispiaccia, ma ho fatto un piccolo… cambiamento, al tuo status”.
Jo fece scivolare i documenti fuori dalla busta e aprì il proprio passaporto: Josephine Morgan, recitava la scritta sotto a una sua foto che però era stata rintoccata, perché sembrava avere i capelli più corti e il viso più magro. Quel tanto che bastava a creare un’altra persona.
“L’ho fatto solo perché nel caso qualcuno non sia ancora convinto della tua morte, e ti cercasse, cercherebbe una donna sola… non una coppia sposata”, si giustificò Henry.
Jo non rispose. Fissò ipnotizzata quelle due parole, Josephine Morgan, e percepì uno strano groppo allo stomaco.
“Josephine Morgan. Jo Morgan”, ripeté tra sé e sé, “Suona bene”.
“Davvero?”, le chiese Henry con uno di quei suoi sguardi che sembravano perforare la parete.
Jo si sentì arrossire. “Sì”.
“Jo, lo sai come la penso su di te che stai con me, no?”
“Intendi il fatto che se fosse per te ti rintaneresti in cima a una montagna senza parlare con nessuno, che secondo te tu non mi meriti, che sarei più felice con un altro uomo, eccetera eccetera?”, lo rimbeccò Jo.
“Sì. E…”
“… E sai anche come la penso io, al proposito”, lo interruppe immediatamente Jo.
“E non c’è possibilità di farti cambiare idea, vero?”, le chiese Henry.
“Assolutamente no”, Jo lo fissò dritto negli occhi per trasmettergli la propria determinazione.
Henry si lasciò sfuggire un sospiro.
“In questo caso…”, esordì, “… visto che sei determinata a rovinarti la vita, forse sarebbe il caso di farlo… di farlo in maniera ufficiale”.
Jo sentì uno sfarfallio nello stomaco tale che provò l’impulso di scattare in piedi.
“È… è una proposta?”, chiese, con la voce che un po’ le tremava per l’emozione.
“Forse”, rispose Henry prudentemente, “Più avanti, quando le cose si saranno sistemate… se tu vorrai, ovviamente, e magari in un luogo e situazione più consoni, se…”
“Sì”, lo interruppe Jo con forza.
Henry si voltò a guardarla, gli occhi accesi di stupore.
“Sul… sul serio?”
“Sì”, ripeté Jo sempre più convinta.
“Saresti così pazza?”
“Sì”, disse ancora Jo, e rotolando sul fianco sinistro si sporse verso di lui e lo baciò. Quando lui rispose al bacio e l’abbracciò, Jo sussultò sentendo una fitta di dolore al fianco destro.
“Scusa”, mormorò Henry, e dolcemente l’aiutò a risdraiarsi sulla schiena. “Come va la ferita?”
“Sto molto meglio, davvero”, rispose Jo sinceramente, “Ma se la premo fa ancora male, tutto qui”
“Jo, io…” Henry si adagiò accanto lei, “Sei sicura della scelta? Perché ci sono così tante cose che non sai di me…”
“Prima o poi me le racconterai tutte”, lo rassicurò Jo, “Mi fido di te.”
“Ma ci sono cose del mio passato… cose che ho fatto…”
“Che cosa avrai mai fatto di male, tu?”, Jo gli accarezzò il viso posizionandosi di nuovo sul fianco sinistro per poterlo vedere in faccia.
“Cose di cui non vado fiero”, ammise lui con un sussurro.
Jo continuò a carezzargli la guancia, aspettando che lui continuasse. Henry abbassò gli occhi, incapace di guardarla in faccia.
“Una volta abbandonai una donna che avevo promesso di sposare”, confessò, “Era il 1893. Suo padre in punto di morte mi fece promettere di prendermi cura di lei, che sarebbe rimasta senza dote e senza mezzi. Io promisi. Non la conoscevo bene… ma era una donna dolce, onesta. Le volevo bene, a modo mio, ma dopo Nora non riuscivo più ad affezionarmi. Era troppo pericoloso, troppo doloroso. Credo che lei fosse innamorata di me, ma all’epoca ero troppo codardo per adempiere alla promessa che avevo fatto. Così scappai. È stata la cosa più disonorevole che abbia mai fatto”.
Jo attese qualche secondo, ponderando quella rivelazione. In realtà, scoprì di non provare nulla. Né gelosia, né stupore, né si sentiva di giudicarlo. Forse era perché lo amava veramente tanto, o perché era così certa di conoscere l’Henry del presente che non le importava quello che l’Henry del passato poteva aver fatto.
“Dimmi cosa pensi, Jo”, le chiese Henry dopo altri secondi di silenzio, “Lo so, è stata una cosa imperdonabile. Non ti biasimo se mi stimerai di meno, per questo”.
“Non ti stimo di meno, Henry”, ribatté Jo, “Stavo solo riflettendo. Sì, forse non è stata la cosa migliore che tu abbia fatto, ma… nessuno è perfetto. E forse è perché sono una donna del XXI secolo e infrangere una promessa di matrimonio non mi sembra la cosa peggiore del mondo… comunque no, non cambia la mia opinione su di te. Il fatto che tu ancora ti senti così in colpa per quella faccenda mi riconferma che tu sei esattamente l’uomo che penso che tu sia”.
“Ma avrei potuto farlo”, mormorò Henry, “Con il senno di poi… non era necessario che sapesse. Avrei potuto sposarla, darle un cognome e una rendita, e poi morire, e andarmene. Almeno avrebbe avuto la rendita da vedova, e una vita agiata.”
“Non eri tu quello che diceva che i rimpianti non servono?”
Henry sospirò. “Sì, hai ragione. È solo che… era una ragazza così innocente. Spero di non averla fatta soffrire”.
Henry si voltò sulla schiena, fissando il soffitto. Jo fece lo stesso, e rimasero entrambi in silenzio per un po’.
“Hai altro da dirmi, Henry?”, domandò Jo, “Intendo, delle cose che tu credi siano gravi”.
“Ho aiutato una condannata a morte a scappare”, ammise Henry all’improvviso, senza guardarla.
Questa notizia colpì Jo più di quella precedente. Non si aspettava proprio che Henry potesse essere capace di agire contro la legge… a parte il necessario per nascondersi, ovvio. Tornò a stendersi su un fianco:
“Racconta”.
“Si trattava di Elizabeth. Te la ricordi, no? Quella che avevo portato a teatro”. La voce di Henry si fece più grave. “Credo di averla amata, nel profondo. Forse l’unica altra donna che abbia veramente amato, a parte Abigail e te. Ma all’epoca ero giovane… non sapevo cosa fosse l’amore”.
“Ma… tua moglie, Nora?”, chiese Jo cercando di reprimere il disagio che provava nel nominare il suo nome, “A parte quello che ti ha fatto… prima, voglio dire, non l’amavi?”
Henry sospirò come se trovasse difficile trovare le parole giuste per esprimersi.
“Le volevo bene, ma non credo di averla mai amata sul serio. Mio padre mi disse di sposare Nora Grey e io lo feci. Era quella che si diceva un buon partito: figlia di un rinomato pastore anglicano, bella, istruita, con una buona dote. All’epoca mi ritenevo fortunato: era una donna piacevole con cui vivere, spiritosa, una buona padrona di casa. Un matrimonio di affetto e rispetto reciproco era già molto più di quello in cui speravo”.
Henry si fermò e deglutì, travolto dai ricordi.
“Elizabeth la conoscevo fin da quando eravamo piccoli. Ci siamo realmente parlati solo quando eravamo adolescenti, quando abbiamo inscenato quella pagliacciata a teatro. Ma con lei era diverso. Con lei potevo parlare sul serio, e anche lei si confidava con me. Il fatto che fosse una cosa sconveniente forse aggiungeva un po’ di fascino alla questione.”
“Sconveniente perché lei era una serva?”, lo interruppe Jo, “Scusami, ma per me è difficile immaginare quel contesto, sai?”
“Sì. Già di per sé la società di quell’epoca era molto rigida… quella inglese poi viveva di reputazione. La reputazione era la cosa più importante”, spiegò Henry, “Elizabeth poi era veramente bella. Ed essere bella, per una serva, poteva essere rischioso. Non fraintendermi, in casa nostra non è mai successo nulla del genere”, aggiunse in fretta, “Io e mio padre non andavamo d’accordo, ma se non altro lui non avrebbe mai permesso che in casa sua succedessero quelle cose”.
“Per quelle cose intendi…?”
“… Intendo padroni che si approfittano delle serve”, confermò Henry con tono freddo, “Ed Elizabeth era esattamente quel tipo di bellezza che avrebbe potuto attirare attenzioni indesiderate. Inoltre era intelligente, più intelligente e buona di molti rampolli dell’aristocrazia, ma lei purtroppo era nata da una cuoca e non da una lady. Quando mi sposai, la presi a servizio nella nostra casa. Volevo… volevo proteggerla, volevo che continuasse ad avere una vita agiata. Casa nostra era piccola, con pochi servitori, e io la nominai governante. C’era una specie di patto silenzioso, tra noi due. Quando nessuno ci vedeva, rompevamo i protocolli, e magari bevevamo insieme un bicchiere di vino, io semplicemente Henry e lei semplicemente Elizabeth. Era appassionata del mio lavoro… non come Nora, che sopportava a stento i miei turni in ospedale.” Come ogni volta che nominava Nora, la sua voce sembrava emanare rabbia. Jo non disse nulla e attese che continuasse. “Quando morii, e poi ritornai a casa, Elizabeth non c’era più. Nora disse che si era licenziata, ma solo più tardi scoprii che era stata lei a licenziarla, perché temeva che noi…”
“… aveste una relazione?”, completò Jo al posto suo.
“Sì”, disse Henry quasi a fatica, “Ma non era mai successo nulla, e mai sarebbe successo. Magari io e Nora non eravamo la coppia dell’anno, ma non l’avrei mai tradita. Poi… successe quello che sai. Anni e anni dopo, mentre lavoravo in ospedale, mi giunsero delle voci su un certo lord Blackwood.” Anche solo a pronunciare quel nome, la voce di Henry si indurì. “Non aveva una buona reputazione, tra la servitù. Anzi, si diceva che avesse più figli bastardi che legittimi, non so se mi spiego. Dopo che Elizabeth fu licenziata, fu presa a servizio in quella casa”.
Jo, da quelle premesse, cominciò a intuire quello che era successo dopo.
“Le successe qualcosa di brutto, vero?”, Jo non riuscì a dire ad alta voce le parole violenza o stupro.
“Sì. Non ci volle molto prima che lord Blackwood mettesse gli occhi su Elizabeth. Ne abusò per anni, e lei non poteva opporsi perché aveva bisogno di denaro per mantenere sua madre, né poteva andare a lavorare da un’altra parte”, aggiunse a beneficio di Jo, perché capisse meglio il contesto, “Perché bastava una cattiva parola di lord Blackwood, dire che lei era una ladra o beveva durante il servizio, e la sua reputazione sarebbe stata rovinata per sempre”.
“Bastardo”, commentò Jo condividendo la rabbia che trapelava dalla voce di Henry.
“E la cosa peggiore era che io non potevo fare nulla, anzi non sapevo nulla, perché in quel periodo ero in manicomio. Tutto quello che ti sto raccontando lo seppi solo in seguito”. Henry sospirò per nasconder il tremolio della propria voce. “Elizabeth rimase incinta, e lord Blackwood la picchiò talmente forte da provocarle un aborto. Lei pensò che, se non altro, dopo quell’evento l’avrebbe lasciata in pace, e si sarebbe trovato una nuova serva di perseguitare. Ma lui non la lasciava in pace. Forse perché Elizabeth, alla fine, non si era mai sottomessa davvero. Era troppo fiera, troppo orgogliosa per lasciarsi schiacciare. Sopportava in silenzio, ma non si abbandonò mai alla disperazione. Restò sempre a testa alta. Tutto questo lo so perché ho letto il suo diario”, spiegò Henry, “Un giorno però ci fu la goccia che fece traboccare il vaso. Elizabeth reagì e… pugnalò lord Blackwood al collo con un tagliacarte”.
Jo trattenne il respiro, in attesa del seguito.
“Alle urla e al rumore, la servitù accorse. Tutti sapevano cosa faceva lord Blackwood alle giovani serve, ma non c’era modo per aiutare Elizabeth: era ricoperta di sangue, e aveva ancora il tagliacarte in mano. L’arrestarono, la processarono e la condannarono per omicidio”.
“Ma le violenze?”, obiettò Jo indignata, “Non costituivano un’attenuante? Non poteva invocare la legittima difesa…?”
“Era una serva che aveva ucciso un Lord, punto”, commentò Henry, “Nessuno avrebbe trascinato il nome Blackwood nel fango. Chiunque poteva sostenere che Elizabeth era consenziente, che lo faceva per ottenere favori dal padrone. Lei non aveva scampo”.
Jo mise a tacere la sua indignazione per ascoltare il seguito.
“Io seppi tutto proprio il giorno in cui fu pronunciata la sentenza. La morte di lord Blackwood aveva fatto scandalo, soprattutto per le circostanze in cui era avvenuta. Nessuno lo diceva apertamente, ma tutti sapevano. Io stesso sapevo che era stato ucciso da una serva, ma ignoravo che fosse Elizabeth. Quando seppi che era lei e che era condannata all’impiccagione…” Henry scosse la testa come a voler scacciare il ricordo, “… mi si spezzò il cuore. Forse fu solo allora che mi resi conto che l’amavo, o che comunque provavo per lei più affetto di quanto ne avessi mai provato per chiunque altra. Avevo solo tre giorni di tempo, dovevo fare qualcosa”.
Jo attese, trepidante.
“Raccolsi tutto il denaro di cui potevo disporre, corruppi l’ufficiale addetto all’impiccagione e il medico incaricato di accertare la morte dopo l’esecuzione. Al suo posto, andai io. Elizabeth fu attaccata a un’imbracatura supplementare che impedì alla corda di spezzarle il collo. Lei non sapeva nulla del mio piano, ma capì che stava succedendo qualcosa, e quando si accorse che non stava morendo fece comunque finta di essere morta, in attesa di scoprire che stava succedendo. Io mentii quando mi sottoposero il cadavere per l’accertamento, e dissi che era morta. Lei continuava a fingere in tal senso, ma sono quasi certo che riconobbe la mia voce, quando mi sentì parlare”.
“Ma non ti vide in faccia, quando la dovetti esaminare?”
“Gli impiccati hanno un sacco sulla testa, Jo, non riescono a vedere nulla. Mi presi carico del corpo per portarlo all’obitorio cittadino, e invece la portai via, in un rifugio in campagna che avevo affittato. Quando le tolsi il sacco dalla testa, rimasi sconvolto nel vedere quanto era cambiata”, le confidò, la voce che si abbassò impercettibilmente, “Era ancora indubbiamente bella, ma il suo viso era solcato dalla sofferenza. Era magra, patita, gli occhi scavati. Non dimenticherò mai finché avrò vita le parole che mi disse quando mi vide e mi riconobbe: La padrona mi aveva detto che eravate morto! Puoi immaginare come questo abbia aumentato il mio odio già profondo per Nora. Poi mi abbracciò, e mi disse: non sapete quanto ho pianto sulla vostra tomba. Io ero paralizzato. Da una parte avrei voluto fuggire con lei, ma dall’altra c’era la mia condizione, che avevo appena cominciato a gestire. Gli anni del manicomio erano appena dietro l’angolo e non ce l’avrei fatta a sopportare altre ferite. Così le diedi tutto il denaro che potei, vestiti, un cavallo e un falso certificato di nascita che la eleggeva a Lady Smallwood”. A quel nome, Henry sorrise per la prima volta da quando aveva iniziato quel racconto. “Lei all’inizio rifiutò. Non voleva essere in debito, non voleva fuggire. Ma doveva fare i conti con la realtà, non poteva più stare a Londra. Così alla fine fece come le avevo detto, montò a cavallo e si rifugiò in Scozia.”
“… e poi? Che ne fu di lei?”, chiese Jo dopo qualche secondo di silenzio.
“So che si rifece una vita, che sposò un proprietario terriero scozzese. Non so altro”.
“Ogni tuo racconto è sempre una sorpresa, Henry Morgan”, disse Jo per sdrammatizzare. “E lo sai cosa? Solo tu avresti potuto fare una cosa del genere”. Si voltò verso di lui e seguì il profilo del suo viso con un dito. “E stai facendo lo stesso, adesso, per me. E ti amo, per questo.”
“Adesso dormi, signora Morgan”, la incitò Henry cercando di adottare un tono leggero. Evidentemente quel racconto del suo passato l’aveva stancato e fatto sprofondare in una nube oscura di ricordi. Allontanò la mano di Jo e le diede un affettuoso bacio sulla fronte. “Domani è il giorno della grande fuga”. 
 
Jo, quella notte, si girò e rigirò nel letto. La storia di Elizabeth prese vita nella sua testa e si immaginò una donna bellissima, che nella sua fantasia era bionda e con gli occhi azzurri, che veniva trascinata al patibolo e impiccata. Il suo corpo in preda alle convulsioni si trasformava e diventava il suo, mentre veniva aggredita e quasi uccisa nella propria cucina. Cercando di liberarsi dalle mani che nel sogno la ghermivano e la spingevano, scalciò e mosse le braccia. Percepì la presenza di Henry al suo fianco, che le diceva: “Non ti preoccupare, Jo, è tutto a posto, è solo un sogno…”, ma non si svegliò. Continuò a vagare nella propria mente, recuperando spezzoni del proprio passato che agli occhi dell’inconscio assumevano un nuovo significato. Vide Henry con un braccio ferito, che avanzava ponendosi davanti a lei e diceva: spara a me. Sentì la voce di Abe al telefono, preoccupata: non so che fine abbia fatto, sono sicuro che è successo qualcosa, stasera c’era un evento importante e non sarebbe mai mancato… e poi di nuovo Henry, che si lanciava su di lei urlando: no, Jo, non andare lì! Fermati!
Jo si svegliò all’improvviso, sudata e con il respiro affannoso. Una debole luce mattutina filtrava attraverso le tende e il rumore di clacson e automobili era ancora scarso.
Henry stava dormendo: si era addormentato con addosso gli stessi vestiti che aveva la sera prima. Jo rimase a osservarlo per un po’, rimuginando su tutto quello che lui le aveva raccontato. Non c’era niente da fare: non riusciva ad avere una cattiva opinione di lui, in nessun caso. Non capiva come lui potesse biasimarsi per cose che agli occhi di Jo non avevano alcun significato, o comunque non quel significato cattivo che lui vi attribuiva. Forse dipendeva dal fatto che lui era pur sempre nato in un’altra epoca, rifletté Jo. Cos’è che aveva detto? La reputazione era la cosa più importante. Il che spiegava perché Henry era sempre così fissato con l’abbigliamento e il contegno. Era stato educato così, ed era difficile staccarsi dalla propria educazione, anche con il passare dei secoli.
“…Jo?”, Henry si svegliò, stiracchiandosi la schiena, “Stai bene, tutto ok?”
“Sì, Henry, tutto ok”, rispose Jo, “Sei proprio sicuro di volerlo fare, Henry?”
“Te l’ho già detto, Jo. Sì. Ormai non si torna più indietro”, si alzò dal letto e fece qualche passo per sgranchirsi le gambe, “Alle sette e mezza di stasera Abe ti verrà a prendere e ti porterà all’aeroporto. Il nostro aereo parte alle dieci. Io ti raggiungerò lì quando sarà tutto finito”.
“Quando hai intenzione di incontrare Elliott?”
“Verso le sette. So che stasera sarà nel suo ufficio, ha una conference call alle sei e mezza.”
“Henry, hai considerato la possibilità che… che insomma, che non funzioni? Che non confessi? E se non ti spara? In fondo, è nel proprio ufficio. Non sarà così imprudente da commettere un omicidio lì.”
“La rabbia rende imprudenti”, commentò Henry, “Comunque sì, Jo, ho considerato tutte le possibilità, come in una partita a scacchi. Se non confessa, non importa. Me ne vado e ti raggiungo all’aeroporto. Troverò un altro modo. Se non mi spara, lo stesso. Ma credo che lo farà proprio perché è il suo ufficio. Lì è il suo mondo, si sente potente. Le guardie sono sue amiche. I suoi dipendenti non oserebbero mai mettersi contro di lui. E per ottenere un mandato ci vorrebbe tempo, e lui potrebbe ripulire tutto. Se l’ho capito bene… vedrai che andrà come previsto”.
“Se lo dici tu, Henry”, sospirò Jo, “Fino a stasera, che intendi fare?”
“Riposare. Ricontrollare gli ultimi dettagli. Perché, hai altre proposte, detective?”
Jo gli lanciò uno sguardo malizioso. “Dimmelo tu, dottore”.
 
Henry entrò dalla porta principale. Liz era riuscita a craccare il sistema in modo che agli addetti alla sicurezza risultasse un appuntamento tra Henry e il senatore alle 19, mentre tale appuntamento non compariva sull’agenda personale di Elliott. Lo scopo di Henry era duplice: cogliere il senatore di sorpresa, anche se sapeva che non sarebbe bastato a farlo crollare, ma soprattutto avere un video registrato del proprio ingresso. Se poi tutto fosse andato come previsto, Elliott avrebbe avuto due possibilità: confermare che lui era venuto e poi se n’era andato, oppure negare che lui fosse venuto e provvedere a rimuovere il nastro di sorveglianza, o almeno cancellarne una parte. In entrambi i casi, il suo comportamento sarebbe stato sospetto e avrebbe suscitato delle domande.
“Avanti”, disse bruscamente Elliott quando lui bussò alla porta del suo ufficio.
Per un istante, gli occhi di Elliott si accesero di stupore vedendolo entrare.
“Dottor Morgan”, lo accolse, ricomponendosi con un sorriso di circostanza, “Che cosa ci fa lei qui? Come ha fatto a entrare?”
“Dall’ingresso”, rispose cordialmente Henry come se non avesse capito la vera natura della domanda. Senza attendere un invito, si sedette comodamente nella poltrona di fronte alla scrivania. Elliott lo guardò per qualche secondo, palesemente irritato, ma anche incuriosito. Come Henry aveva predetto, Elliott era una personalità vanitosa. Provava irritazione ma anche attrazione nei confronti di ciò che lo stupiva e lo prendeva in contropiede: era la sua occasione per giocare una partita di astuzia e dimostrare all’avversario quanto lui fosse intelligente.
Seguendo l’esempio di Henry, anche il senatore si sedette. Incrociò le mani in grembo e assunse un’espressione di cordiale benevolenza.
“Allora, dottor Morgan, cosa la porta qui?”
“Credo che lei lo sappia perfettamente”, rispose Henry calmo, scegliendo con cura le parole, “Sono venuto qui per una risposta”.
“Una risposta di che genere?”, sorrise Elliott pacatamente.
Henry fece una pausa ad effetto per lasciare al senatore il tempo di azzardare qualche ipotesi.
“Perché ha fatto uccidere la detective Martinez?”
Elliott non smise di sorridere, ma un lampo attraversò i suoi occhi e scavò qualche minuscola ruga di apprensione ai margini della sua bocca. Sempre in tono benevolo, come se si stesse comportando in maniera accondiscendente con uno scocciatore che non voleva saperne di andarsene, disse:
“Dottor Morgan, non so a quale gioco lei stia giocando, né che cosa voglia insinuare con la sua domanda. Non ho idea di che cosa lei stia parlando.”
“Io non sto giocando nessun gioco”, continuò Henry pacatamente, “Né sto insinuando nulla: la mia è una certezza. Credevo che ormai avesse capito”.
“Capito cosa?”, chiese Elliott stringendo un poco gli occhi.
“Che ormai aveva vinto”, rispose Henry. “Lei è un uomo furbo, e intelligente. Per questo sono venuto qui a chiederle, per pura curiosità personale, come mai ha fatto una mossa così stupida come far uccidere la detective Martinez”.
Una nuova ombra passò sul viso del senatore, e questa volta lui non si premurò di nasconderla. Il sorriso gli si congelò sulle labbra.
“Lei trova che sia stata una mossa stupida?”
Perfetto, pensò Henry. Elliott era furbo e ovviamente non aveva ancora ammesso nulla, ma se non altro lo stava irritando mettendo in dubbio la sua intelligenza.
“Mi sembra ovvio, no?”, lo stuzzicò Henry senza dargli la soddisfazione di rispondergli subito.
“Davvero?”, domandò il senatore a denti stretti. Stava freneticamente rivivendo nella propria testa il suo piano per vedere se aveva tralasciato qualche falla.
“È stata una mossa inutile e avventata”, spiegò Henry con un vago sorriso di superiorità che fece irritare Elliott ancora di più, “Che bisogno c’era di farlo? Dopo essere stato così astuto da far sparire ogni prova, aver convenientemente trasferito o promosso chiunque fosse coinvolto, e aver addirittura pagato qualcuno per trafugare il cadavere…” Henry allargò le braccia, come a voler dire sono proprio deluso da questa sua mossa sbagliata, “… era chiaro che il caso sarebbe caduto da solo. Senza contare le pressioni dall’alto che continuavano ad arrivare al distretto. La detective Martinez avrebbe rinunciato, o comunque sarebbe stata obbligata a farlo. Quindi glielo richiedo: perché l’ha fatta uccidere?”
Le spalle di Elliott si rilassarono, come se la conversazione si fosse di nuovo spostata su un terreno che lui poteva controllare.
“Oh, dottore, lei mi delude profondamente”, e questa volta fu lui a sorridere, “È venuto qui a provocarmi, sperando… sperando che cosa? Che io mi comprometta con qualche affermazione? Come se non sapessi che lei ha un microfono addosso. Senza contare che, ipoteticamente parlando, si tratterebbe di una confessione non valida in tribunale”.
“Oh, andiamo, senatore, lei crede davvero che io sia venuto con un microfono?”, Henry si alzò, e allargò teatralmente le braccia, “Mi perquisisca pure”.
Ci fu un attimo di esitazione, di dubbio, da parte del senatore. Poi riprese il controllo: “Non sarò io a farlo. Nick?”
Un uomo, probabilmente un ex soldato, a giudicare dalla corporatura, dal taglio di capelli e dal tatuaggio sul collo, fece il suo ingresso nell’ufficio. Elliott doveva avere un tasto per le chiamate di emergenza al di sotto della scrivania, come quelli che si trovano nelle banche. Ovviamente, quel tasto avviava una chiamata nei confronti di un suo scagnozzo personale. Non delle guardie di sicurezza ufficiali.
L’uomo che si chiamava Nick gli tastò le braccia e le gambe alla ricerca di armi, microspie, o qualunque altra cosa sembrasse sospetta. Alla fine, scosse la testa. “È pulito”, disse.
“Come le dicevo”, Henry si risedette tranquillamente, “La mia è una curiosità personale”.
Dopo aver appurato che non c’era la possibilità di essere registrati, Elliott si rilassò visibilmente. Sorrise, quasi genuinamente divertito, e si lanciò con ancora più fervore nel gioco di allusioni che avevano iniziato.
“Confesso che sono stupito”, ammise, come se gli stesse concedendo una grazia, “Ma la tolga a me, una curiosità: una volta ottenuta… come possiamo dire? Una volta soddisfatta la sua curiosità, dove crede di andare, esattamente?”
“Probabilmente sotto terra”, rispose semplicemente Henry.
Il sorriso di Elliott si allargò ulteriormente.
“Lo sapevo che lei era un uomo intelligente”, disse, “Anche se devo ammettere che continuo a non capire il motivo per cui lo sta facendo”.
“Che vuole che le dica? Devo risolvere sempre qualunque rompicapo, altrimenti non ci dormo la notte”.
“E quale rompicapo non riesce a risolvere?”
Lei”, rispose Henry, sporgendosi leggermente in avanti, “Come le ho già detto, lei è estremamente intelligente. Un sociopatico narcisista, probabilmente. È dotato di un’acuta intelligenza, capacità di analisi e di adattamento, ma è anche narcisista, egocentrico, manipolatore, con totale mancanza di empatia. Non riesco a spiegarmi come una personalità come la sua, così fredda e calcolatrice, si sia lasciata prendere dalla rabbia così facilmente”.
Gli occhi di Elliott mandarono lampi. Henry si interruppe, come se stesse pensando solo in quel momento al discorso che invece aveva preparato con molta cura, parola per parola: “Ma d’altronde, non è la prima volta. Forse soffre di scoppi d’ira improvvisi. Capita, anche ai sociopatici, soprattutto se perdono il controllo e si sentono vulnerabili.”
“Non so di cosa stia parlando”, sibilò il senatore risentito, “Non mi sono mai trovato in una tale situazione.”
“Oh, invece sì”, replicò Henry implacabile, “Con Sarah Conrad, no? Ucciderla così, a mani nude, è stato un gesto passionale. Una cosa da dilettanti, di qualcuno che non è in grado di controllarsi”.
Elliott si alzò di scatto dalla sedia, quasi emanando furia.
“Non sa di cosa sta parlando”, disse, “Non conoscevo Sarah Conrad.”
“Però era incinta di lei”, continuò Henry, “Prima che il suo cadavere sparisse ho fatto un’analisi del DNA del feto e l’ho confrontato con il suo. Corrispondono: era lei il padre del bambino.”
“Che diavolo sta blaterando?”, una vena cominciò a pulsare sulla fronte di Elliott ed Henry sorrise tra sé e sé, “Non ho fornito nessun campione di DNA. Lei non ha fatto alcun test”.
“Diciamo che il campione di DNA me lo sono procurato”, spiegò Henry, “Prendendo in prestito una delle sue gomme da masticare alla menta. Non dovrebbe masticarne così tante nel corso della giornata, sa? Rovinano lo stomaco. Ma immagino che l’aiutino a sopportare lo stress”, aggiunse Henry con una nota provocatoria.
Il senatore Elliott non replicò. Sembrava pronto a scagliarsi su di lui attraverso la scrivania, ma strinse i pugni e si trattenne.
“Ammesso che tale prova esista… Non è una prova valida in tribunale”, sancì alla fine.
“Non ho nessuna intenzione di portarla in tribunale”, Henry assunse un’aria sorpresa, come se fosse stupito che Elliott fosse arrivato a quella conclusione. Doveva continuare a tenere alta la sua attenzione, e a provocarlo. “Come le ho già detto più volte, io voglio solo capire. Immagino che il problema siano i suoi scoppi d’ira, vero? Non sopporta le provocazioni. E Sarah l’aveva provocata, vero? Magari voleva addirittura tenere il bambino, o pretendeva dei soldi per il mantenimento.”
“Quella stupida puttanella”, si lasciò sfuggire Elliott, perdendo per la prima volta il controllo, “Non aveva ancora capito come stanno le cose”.
“Così lei l’ha rimessa a posto, vero?” Henry lanciò un rapido sguardo alle sue spalle. Il tizio di nome Nick stava immobile in un angolo, ascoltando ogni parola. Probabilmente anche lui era coinvolto.
“Ho fatto ciò che un uomo nella mia posizione deve fare”, rispose Elliott sollevando il petto in un eccesso di orgoglio, “Un uomo come me non si abbassa certo a compromessi con una stagista”.
“Ma ancora non ha risposto alla mia domanda principale”, incalzò Henry approfittando del momento di debolezza del senatore, “Perché ha fatto uccidere la detective Martinez?”
“Perché quella stronza non avrebbe mai lasciato perdere”, sbottò Elliott abbandonando ogni ritegno. “Mi stava con il fiato sul collo, come se una detective qualunque potesse permettersi di minacciarmi. Doveva capire chi comandava.”
Henry annuì con un sorriso cordiale, come se avesse avuto esattamente la risposta che si aspettava.
“Bene, la ringrazio per la sincerità”, disse. Sembrava stesse ringraziando per aver ricevuto una tazza di caffè.
Dopo quello sfogo, lo sguardo acceso del senatore si calmò e sembrò riacquistare il controllo. Si sistemò il nodo della cravatta in un gesto automatico e sfoderò uno dei suoi sorrisi da telecamera:
“Sono lieto di essere riuscito a soddisfare la sua curiosità”. Il sorriso si trasformò velocemente in una smorfia di minaccia.
“Allora… chi avrà il compito di farmi fuori? Lo farà lei personalmente, o delegherà il compito al signor Nick qui presente?”, chiese Henry con la massima tranquillità.
“Lei è per me una continua fonte di stupore, dottor Morgan”, ammise Elliott quasi con ammirazione, “Non ha paura dell’aldilà?”
“Sono stato in posti peggiori”, rispose Henry enigmaticamente.
“Di solito è Nick che si occupa di queste cose”, spiegò il senatore come se stessero parlando di una transazione di affari, “Ma nel suo caso mi sembra giusto farlo personalmente. Si è guadagnato il mio rispetto, con la sua faccia tosta”.
“Quale onore”, commentò Henry ironicamente.
Il senatore Elliott aprì il cassetto destro della scrivania ed estrasse una pistola.
“Visto che siamo in vena di confidenze”, disse Henry mentre il senatore metteva il primo colpo in canna, “Come ha intenzione di sbarazzarsi del mio cadavere? Non è facile, uscire non visti da quest’ufficio. Ci sono le guardie all’ingresso.”
“Nick sa come fare, in questi casi”, rispose Elliott con tono quasi paternalistico, “Non è la prima volta che si sbarazza di un cadavere”.
“Spero che faccia un lavoro migliore di quello fatto con Sarah Conrad, senza offesa…”, ed Henry si voltò lievemente verso Nick, facendogli un cenno, “… ma quella messinscena della rapina finita male non ha convinto nessuno”.
“Beh, visto che ne è rimasto così deluso, chiederò a Nick di essere più creativo, questa volta”, disse Elliott puntandogli la pistola al petto. Ancora una volta Henry sorrise tra sé e sé. Il braccio del senatore era fermo, ma la sua mira lasciava a desiderare: da quella posizione, lo avrebbe colpito esattamente in mezzo al petto, evitando però il cuore e i polmoni. Sarebbero passati parecchi minuti prima che Henry morisse. Abbastanza affinché il signor Nick avesse il tempo di portarlo fuori da quell’edificio e abbandonarlo da qualche parte.
Il colpo di pistola risuonò fragrante nel silenzio dell’ufficio.
Henry non sentì neanche così tanto dolore. Forse perché aveva subito ferite peggiori, o forse perché era preparato. Come previsto, la pallottola penetrò nel petto mancando il cuore. La sottile guaina metallica che Henry aveva indossato al di sotto della camicia attutì il colpo abbastanza da non fargli perdere conoscenza. In ogni caso, si accasciò di proposito sulla poltrona e chiuse gli occhi, fingendosi già morto. Ci furono alcuni secondi di silenzio, durante i quali probabilmente il senatore Elliott meditò se sparargli un altro colpo o meno. Alla fine, un secondo sparo risuonò nella stanza.
“Sbarazzati del corpo”, disse, la voce tornata calma e pienamente in controllo di sé.
Sì, Nick, sbarazzati del mio corpo, pensò Henry, e si rifugiò in un angolo della propria mente mentre aspettava il momento giusto per morire. 
   
 
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