Libri > Il fantasma dell'Opera
Segui la storia  |       
Autore: Elphie94    06/11/2016    3 recensioni
«Devo essere pazza per seguirti. Secondo te lo sono?» gli chiesi con voce appena udibile oltre il flusso inondante dei miei pensieri.
Si voltò verso di me – nel buio, i suoi occhi erano come stelle sulla distanza.
«Mia cara, tu sei sana di mente quanto me.»

Meg è la figlia di Madame Giry, la migliore amica di Christine Daaé, un'anonima ballerina di fila. Quando il giornalista Gaston Leroux la rintraccia trent'anni dopo gli strani accadimenti dell'Opera Garnier, lei - vedova di un barone, senza figli - gli racconta la sua versione, in cui è finalmente protagonista. Insieme a un uomo che era diverso da tutti gli altri...
[Correntemente in fase di revisione.]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Erik/Il fantasma
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

xxx.

danza macabra

 

 

 

Quella notte fui preda di sogni inquieti che non si dissolsero al baluginio della candela sul comodino. Mi svegliai ansante, stravolta, il viso striato di lacrime. Mi scostai una ciocca di capelli dalla fronte. Ansimavo, il cuore traboccante di ricordi non voluti, non cercati.

Ammiccai e mi passai una mano sulla fronte. Non feci in tempo ad alzarmi che udii un lieve bussare alla porta. Deglutii. «Chi è?» chiesi con voce rauca.

«Sono io» mi rispose una voce dolorosamente familiare. Sussultai.

«Erik» sospirai. «Cosa…?»

«Ti ho udita urlare. Posso?»

Assentii, ed egli fece il suo ingresso, abbigliato in modo molto simile all'uso persiano, ma non privo della sua inseparabile maschera nera, che gli copriva la maggior parte del volto devastato. Sulla soglia, appariva stranamente esitante. Mi rabbuiai. «Mi spii spesso mentre dormo?» chiesi in tono di dura disapprovazione. Lui si aprì in una smorfia che da lontano – forse – si poteva definire sorriso. «No. I miei appartamenti sono nell'ala affianco.»

«Ho urlato davvero? E che cosa ho detto?»

«Niente di comprensibile.» Avanzò di qualche passo, giacché io gli facevo segno di avvicinarsi. Ero ancora nascosta tra le pregiate lenzuola di seta azzurra – un cambiamento non da poco, visto come avevo dormito in quelle ultime settimane. Tutto, nella mia stanza, era azzurro: sembrava un pezzo di cielo sereno, ma mancava la luce del sole. Ora la notte inghiottiva ogni cosa. Ricordai quanto l'oscurità mi fosse sempre sembrata più accessibile, più vicina alla mia personalità. E anche a quella di Erik. Siamo uguali. Il pensiero era spaventoso.

Lui si accostò al mio capezzale e si sedette sul bordo del letto, sempre esitante, quasi si aspettasse che da un momento all'altro gli urlassi di sparire dalla mia vista. Cosa che non sarebbe accaduta, naturalmente. Quante notti avevamo trascorso l'uno accanto all'altra, balsamo reciproco delle nostre pene?

«L'hai sognato di nuovo, vero?»

Non c'era bisogno che rispondessi. Mi conosceva troppo bene. Mi asciugai le guance con un movimento brusco: non volevo farmi vedere in lacrime, era umiliante. Ma con lui riuscivo ad essere me stessa e a mostrare anche le parti più vulnerabili del mio io, la me stessa che soffriva in silenzio, digrignando i denti con il volto nascosto nel cuscino.

«Ogni volta che chiudo le palpebre, lo vedo. Il cadavere di mia madre. Quello di mio padre. Il sangue degli uomini che ho ucciso.»

«Se la cosa ti tormenta tanto, allora perché continuare? Perché uccidere ancora?»

Si chiedeva perché non gli lasciassi campo libero. Volevo una vendetta: ebbene, perché non attuarla tramite le sue mani già fradice di sangue? Avevo un assassino esperto a mia disposizione, e mi aveva promesso un cuore.

«Non voglio essere in debito con te. Il pensiero mi è insopportabile» dichiarai con ostinazione, ed era vero. Era una faccenda che dovevo risolvere da sola, se ero abbastanza donna da affrontarla. Lui annuì. Aveva capito.

«C'è qualcos'altro.» Non era una domanda. Non sapevo come, ma riusciva a leggermi nella mente come nessuno mai. Era quasi inquietante.

Inchiodai i miei occhi scuri nei suoi. Strinsi le ginocchia al petto, consapevole di indossare solo una camicia leggera sotto la quale ero nuda. Lui sedeva al capezzale del mio letto, ben contento che le lenzuola coprissero il mio (inesistente) pudore. Ricordai quanto si era sforzato di distogliere gli occhi dal mio corpo nudo il giorno del bagno, e mi morsi un labbro per reprimere un sorriso. Talvolta era un tale bambino.

«Io voglio uccidere. Ne sento il bisogno. Mi tormenta, mi ossessiona, ma non riesco a smettere.» Avevo parlato in quel che era poco più di un sussurro flebile. Mi coprii una mano con la bocca, ingoiando un fiotto di nausea improvvisa. «Mi chiedo che razza di creatura io stia diventando. Dove andrò a finire. Non è solo la vendetta che voglio, è che… sono così arrabbiata. Sono accecata dalla rabbia. Ho paura di perdermi, Erik.» Lo guardai con occhi pieni di un'immensità eclatante. Nei suoi trovavo il mio riflesso. Mi osservava, ascoltando in silenzio. Ecco una qualità che apprezzavo: nei momenti seri, sapeva quando tacere. Il silenzio era un sudario piacevole su di noi. Vi erano molte parole non dette, tracciate nell'aria tutt'intorno come pulviscolo invisibile. Erik riusciva a leggerne il codice segreto alla perfezione.

«Anche per me era così. Quando ero molto giovane, molto più giovane di te. E più solo.» Fece per accarezzarmi una spalla, un gesto di tenera rassicurazione che avrebbe sciolto l'inverno nel mio cuore, ma si raggelò. Nessuno dei due era abituato a simili manifestazioni di… affetto. Affetto, sì. C'era affetto tra noi. Amicizia. Avevamo affrontato così tante vicissitudini insieme che non potevamo non essere legati. E il cordone che stringeva le nostre anime in una sola era molto resistente.

«Sei una brava persona, Meg. L'oscurità ti tenta, ma alla fine seguirai sempre la tua strada. Sei troppo forte perché tu soccomba ad essa.»

Chinai lo sguardo. «Non lo credo.»

«É vero, invece. Sei la persona più forte che conosca. E sei anche insopportabile, ostinata, impudente, indisciplinata, sfacciata…»

«… Ehi, ora basta con gli insulti.»

«… E arguta, divertente, affascinante…»

«No, ho cambiato idea, continua pure.»

Lui sorrise. Lo imitai.

«Anche tu hai un certo fascino, quando vuoi essere piacevole» aggiunsi, sogghignante. Mi dondolai sui talloni con aria saputa. «Ma sei anche il più grande bastardo che abbia mai conosciuto.»

«Detto dalla tua voce da cornacchia, è un complimento.»

«Almeno io ho un naso.»

Erik fece una smorfia e me lo pizzicò delicatamente, mentre io me la ridevo.

«Sei davvero invidioso del mio naso.»

«Taci, piccola insolente.»

Risi ancora, mentre lui scuoteva il capo, con l'aria di un genitore che abbia a che fare con un marmocchio d'indole irreparabile. Mi immaginai come dovesse essere stato da bambino. Mi si strinse qualcosa nel petto: un tale genio in un corpo così piccolo e magro… senza amore. La violenza aveva plasmato il suo mondo fin dalla più tenera età, e di lui, del bambino che era stato – innocente, intelligente oltre ogni limite, solo – aveva fatto un mostro.

Le nostre risate si affievolirono. Puntai gli occhi sulla sua gola bianchissima, la pelle traslucida al lucore della luna.

«Resta.»

Lui sapeva a cosa mi riferivo. Gli feci comunque cenno di stendersi al mio fianco, sotto le lenzuola odorose.

Si mosse, a disagio.

«Non credo sia appropriato…»

«Non temere, non ti mostrerò le mie grazie come il giorno del bagno.» Lui s'imporporò, e io sogghignai al ricordo. Imbarazzarlo a volte era facilissimo.

«Resta. Ti prego.» Non farmelo ripetere.

Lo immaginai alzare un sopracciglio inesistente sotto la maschera. «É un ordine?»

«Sì. Sei mio prigioniero.» Gli afferrai un polso e feci finta di ammanettarlo.

Lui sbuffò. «Divertente.»

«Non avevi detto che lo ero?»

Il silenzio ci inondò per qualche istante di trepidazione. Aspettavo la sua risposta, ma non dovetti attendere a lungo.

«D'accordo.»

S'inerpicò sotto le coperte, probabilmente terrorizzato al pensiero che qualcuno della servitù potesse entrare nella stanza senza preavviso e scoprirci in quella posizione compromettente. Io lo trovavo divertente, lui non condivideva la mia opinione.

«Parla di qualcosa.»

«E cosa dovrei dire?»

«Una storia del tuo passato. Una canzone. Mi piace il suono della tua voce, ma mai quanto piace a te.»

«Questo cosa vorrebbe dire?»

«Che hai un ego più grosso di Parigi.» Ridacchiai quando lui mi fece il solletico a un fianco per zittirmi.

«Non iniziare con il solletico, ti avverto che sono letale in questo genere di lotta.» Ricordai le battaglie con Christine a quel gioco infantile, quando rimanevo a dormire a casa Valerius e ci divertivamo a scagliarci i cuscini addosso come due ragazzine. Quanta semplice gioia in quei momenti… Mi mancava come il sole.

Frattanto, Erik aveva sollevato le mani in un gesto di muta resa. «Come desideri, Madamoiselle.»

Si accorse del mio improvviso mutismo e incrociò le braccia al petto. «Cosa pensi?»

«A tempi migliori.» Mi accoccolai accanto a lui, la testa sulla sua spalla. Era ossuto e scomodo e freddo, ma non m'importava. Non avrei abbandonato quella vicinanza per nulla al mondo.

«Canta.» Chiusi gli occhi. Lo udii sospirare e dischiudere le labbra.

Quel che ne seguì fu un sussurro melodioso che mi fece rabbrividire di piacere in ogni fibra. Se fossi stata in piedi, le mie ginocchia avrebbero ceduto e mi sarei liquefatta sul pavimento. Era un incanto. Sperai che non si accorgesse dell'effetto che aveva su di me, ma era vano. Era ben consapevole del potere della sua voce divina.

«Oh, Erik…» mormorai, il naso nella sua spalla. Inspirai forte il suo odore. Non trascorse molto tempo prima che Morfeo mi accogliesse tra le sue braccia.

 

 

Solo la notte ci avrebbe cullati in quel modo lieve, intimo, segreto. Erik mi lasciò prima del sorgere dell'alba, di modo che la stanza fosse vuota quando Selene fosse venuta a svegliarmi. Non voleva che qualcuno ci scoprisse insieme così – io, nella mia vestaglia da notte, aggrappata a quell'uomo che sembrava giunto da un altro mondo. No, decisamente no, avrebbe detto lui. E potevo comprendere il perché.

I preparativi per la partenza verso il palazzo di Mazenderan occuparono un giorno intero. Partimmo all'alba del giorno dopo, una carovana che lasciò quasi deserta la città. Infatti solo le donne, i vecchi e i bambini erano rimasti a salutare i mariti, i padri e i figli che facevano parte della Resistenza e andavano a ingrossare le fila dell'esercito di Roshak ed Ezzat. Stendardi col loro simbolo garrivano al vento. Il sole picchiava sui veli dei soldati, che li indossavano per ripararsi il capo. Il trottare di cavalli e cammelli riempiva il deserto come un incendio, e la sabbia si levava al cielo.

Io cavalcavo con Erik, che a sua volta era alle calcagna della regina. Quest'ultima era vicina al figlio, serrati entrambi da un invalicabile cerchio di guardie. Darya e Amir erano alla testa del loro esercito, Monsieur Nadir accanto a noi.

Quando, affacciata alla finestra, vidi per la prima volta quella compagine di armati riunirsi fuori e dentro le mura del palazzo, mi si mozzò il fiato in gola. Non avevo mai visto tanta gente in un unico posto.

«Quanti soldati ci sono?»

«Più di quelli del nemico» rispose Erik, vago. Il cappuccio nero gli copriva la testa, ma forse sarebbe stato meglio se si fosse vestito di bianco. Il colore nero attirava maggiormente la luce del sole, e tratteneva il calore corporeo. Malgrado la temperatura fosse più alta di quanto potessi mai aspettarmi a Parigi, le mani di Erik erano ancora fredde. Qualche volte le stringevo per rinfrescare le mie, e mi divertivo a sentirlo sbuffare e lagnarsi che lo stavo usando come refrigeratore personale.

«L'esercito di Assiye e Naser sta avanzando proprio dinanzi a noi» osservai. Saremo sopravvissuti a uno scontro in campo aperto?

Erik intuì la mia domanda rimasta muta. «Le nostre legioni sono più numerose, e questo il nemico lo sa. Inoltre, hanno me dalla loro parte.»

Gli lanciai un'occhiataccia dal basso. «Sempre così pieno di te. Mi stupisco che tu non esploda da un momento all'altro.»

«Sono un genio, lo so.»

Tu odi te stesso, pensai, rabbuiata. Ti sei sempre odiato.

«Per essere un cadavere vivente, mi trovo francamente spassoso.»

«Sei un tale imbecille.» Lo colpii a un braccio con il mio piccolo pugno, ma non tanto da fargli male sul serio. Lui fece una smorfia irrisoria.

«Erik» proseguii, questa volta seria, «ci stanno venendo addosso.»

«Hai paura? Sappi che se ne hai, è legittimo. Siamo tutti spaventati.» I suoi occhi si posarono sulla figura baldanzosa di Roshak. «Beh, quasi tutti» grugnì.

Scossi la testa. Il piano era semplice ma efficace: una volta arrivati a Mazenderan, la battaglia avrebbe avuto inizio. Una compagine di duecento uomini, guidata da Erik – con il Persiano come suo vice – si sarebbe distaccata dalla gran parte dell'esercito per compiere una via trasversale che avrebbe poi portato alle fogne del palazzo e ai passaggi segreti per entrarvi. Sgominate le guardie nemiche, avrebbe aperto le porte agli alleati dall'interno. Secondo Roshak, avevamo la vittoria in pugno: quello era il miglior piano strategico mai congegnato, e ovviamente il merito di quella trovata sarebbe ricaduto sul principe in persona, il futuro giovane Shah. Sua madre, cauta com'era, non dava sfogo al proprio entusiasmo. Era seria e terribile come una valchiria, anche se su insistenza dei generali sarebbe rimasta nelle retrovie, al sicuro. La madre dello Shah avrebbe avuto una protezione degna del suo lignaggio.

Il primo litigio della giornata fu quando, al calar della sera, ci accampammo nel mezzo del deserto. Avrei dovuto condividere una tenda con Selene e le altre poche ancelle che seguivano la regina dovunque come ombre, il che non importava. Il peggio fu quando mi accorsi che effettivamente tutti mi trattavano come fossi parte della servitù – anzi, con maggior indifferenza. Mi infuriai. Essere sottovalutata in quel modo, come una bimba da nulla, mi dava alla testa.

Eravamo riuniti nella tenda di Nadir – lui, io, Erik, Amir e Darya – quando quest'ultima mi riferì che Ezzat aveva dato ordine che facessi parte della sua guardia e che rimanessi al suo fianco durante i combattimenti. In poche parole, ne sarei rimasta fuori.

«Ciò che ho imparato da te non è stato per difesa» ringhiai ad una Darya più inflessibile che mai.

«É un ordine. Meg, è molto rischioso.»

«Mi avevi detto che ero pronta! Ho bisogno di scendere in battaglia!» Il richiamo del sangue era troppo forte. Temevo che alla lunga mi avrebbe fatta impazzire (come mio padre) e che avrei finito per sgozzare qualcuno dei miei camerata.

«Vuoi forse morire? Così sarai più al sicuro. Se le cose si mettono male, scappa, mettiti al riparo. Le guardie penseranno a te e alla regina» insistette Amir.

«Non voglio che altre persone pensino cosa fare di me» ribattei, picchiando il pugno sul tavolo. Nadir sobbalzò, e mi pose una mano sul braccio. «Calmatevi, Meg. So che siete sconvolta, ma state esagerando.»

Erik rimaneva muto, le braccia incrociate al petto come una cariatide vestita di notte.

«Loro mi hanno tolto tutto.» Strinsi i denti e ringraziai il cielo per la fermezza che ancora conservavo nella voce. Mi resi conto di fare la figura della bambina capricciosa.

«Tutto a parte la vita. Conservala» fece Darya, più dolcemente.

Scossi il capo. Non capivano. Nessuno capiva. Non ho più nessuna vita. Mi hanno tolto l'identità, i capelli, mia madre. Mi hanno strappata al mio Paese. Se voglio vivere, devo conquistarmela, la vita: col sangue. È il prezzo da pagare. Li farò soffrire tutti – tutti – come hanno fatto soffrire mia madre. Devo ucciderli. Devo…

Uscii fuori dalla tenda, le mani sulle tempie. Stavo impazzendo, lo sentivo. Stavo diventando un vampiro assetato di sangue. Non ero più in me. Che realizzazione terribile.

Udii dei passi alle mie spalle, e li riconobbi dal loro incedere felpato. Erik. Percepii le sue mani sulle mie spalle e diedi in un brivido. Era così vicino a me che potevo tranquillamente poggiare la testa sul suo petto. Ma non lo feci. Alla fine, non facevo mai nulla. Mi limitavo a desiderare, a crogiolarmi nella mia follia. Perché era una follia, senza dubbio. Non avrei mai abbattuto il ponte che ci separava, così esteso da straziarmi.

«Meg» mi sussurrò all'orecchio. «Pensa a cosa avrebbe voluto tua madre per te.»

«Di certo non questo» risposi, e inghiottii un singhiozzo malformato. Lui posò il mento sul mio capo, le labbra tra i miei capelli. Quale calma mi pervadeva nel suo abbraccio… Malgrado le insidie che dovevo affrontare a breve, mi sentivo sicura, protetta. La salvezza era nelle nostre presenze vicine, nel filo indissolubile che ci legava.

«Ti prometto che avrai giustizia, Meg. E che farai la tua parte.»

Capiva che il sentirmi inerme mi faceva rabbrividire fin nelle viscere. «Non mi serve una promessa da te. Tu non puoi nulla sulle mie decisioni. È una cosa che debbo conquistarmi da sola. E lo farò, te lo posso garantire.»

Mi voltai e gli rivolsi uno sguardo determinato. Il suo, invece, era astuto e attento come sempre.

«Resterò al mio posto, se è ciò che Sua Maestà vuole» sottolineai con grande sarcasmo.

«Meg, promettimi che non ti caccerai nei guai.»

«Quando mai ho infranto una promessa?»

«Meg.»

Sapeva che eravamo entrambi dei gran bugiardi. Sbuffai e gli diedi una pacca rassicurante sulla spalla.

Lui si massaggiò le tempie, come se avesse davvero a che fare con un'adolescente turbolenta.

«Mia cara, sei terribile. Mi chiedo come quei santi dei tuoi genitori siano riusciti ad allevarti.»

«Mi hanno allevata splendidamente. E poi, avresti dovuto conoscermi da bambina. Ero molto più pestifera di adesso.» Sogghignai e lo lasciai solo a rimuginare sulle mie parole, e sulle azioni che intendevo compiere.

 

 

In realtà il mio intento era semplice: se recarmi alla spedizione capitanata da Erik nelle fogne del palazzo della Khanum era impossibile, sarei davvero rimasta nelle quinte. In allerta, pronta a difendere Ezzat e attenta a udire ogni ronzio sulla posizione della sorella Assiye. Una volta che fosse stata catturata, o perlomeno localizzata, non importava quanti uomini o quante miglia ci distanziassero: sarebbe stata alla mia mercé. Non anelavo altro.

Era tutto pronto per la spedizione: Erik, Nadir e i loro uomini; l'avanguardia di Roshak; la retroguardia che proteggeva Ezzat, di cui avrei fatto parte anch'io, nel ruolo di guardia del corpo. Sapevo che, tuttavia, quella era solo una scusa per tenermi buona e lontana dal pericolo, e avrei dovuto ringraziare la regina ed Erik e Darya e chiunque avesse pensato a me in questo modo, ma non ero dell'umore giusto. Il sangue mi ribolliva nelle vene: il richiamo barbarico della guerra mi suonava nei timpani e non riuscivo a metterlo a tacere. Volevo combattere. Volevo uccidere. Ero diventata una bestia, la mia peggior paura.

Selene mi rivolse uno sguardo amico, al mio fianco alla destra della regina. Quest'ultima si limitò ad osservare l'insoddisfazione, la fame sul mio viso.

«So che cosa vuoi» mi disse in francese. Io, ancora stupita che mi rivolgesse la parola, poiché il suo rango era tanto più elevato del mio, la osservai di rimando.

«Sono anni che rimango nelle retrovie, ad aspettare che i miei uomini ritornino sani e salvi dalla guerra. Prima mio padre, poi mio marito, e infine mio figlio… Eppure sono sempre rimasta qui, nell'ombra, a tessere la mia ragnatela senza che nessuno se ne avvedesse.» I suoi occhi erano onice lucida. «Ci vuole coraggio anche per questo. Per aspettare. Troverai il tuo posto, ragazza di tenebre.»

Annuii, ringraziandola a mezza voce per il consiglio. Selene, che aveva ascoltato tutto, mi riservò uno sguardo incuriosito, ma non disse nulla.

 

 

Seppi qual era il mio posto quando per prima si staccò un'avanzata di esploratori dal nostro esercito. Col senno di poi, non fu una delle mie idee più brillanti, ma insistetti perché non ero più in grado di stare ferma. Il mio animo si tendeva verso la guerra in maniera inconcepibile. Come esploratrice avrei potuto sostenere un ruolo comunque più attivo del solito, e non sarei rimasta con le mani in mano. Avrei ottenuto una parte in questa tragedia.

«É il mio posto» dissi alla regina, sapendo che lei avrebbe capito. Ezzat corrugò la fronte, poi annuì. «Andrai con gli altri soldati ad esplorare il terreno circostante in cerca di avanguardie del nemico. Selene verrà con te, in qualità di interprete.» Sussurrò parole di incoraggiamento alla ragazza, che obbedì senza paura. O perlomeno, senza mostrarla.

Gli altri soldati del mio gruppo sembravano solo leggermente infastiditi dalla mia presenza e da quella di Selene. Eravamo donne, e pertanto un peso. Io la pensavo diversamente.

Il saluto di Erik fu il più straziante. Si limitò a stringermi una mano, e fu un bel gesto perché stava a significare che mi considerava sua pari. Mi mormorò un: «Resta viva» che profumava di tutte le cose che non ci eravamo detti ancora, i momenti che non avevamo ancora vissuto e quelli che non avremo esplorato mai insieme. Sapevo che sarebbe venuto con me se ne avesse avuto la possibilità.

«Tornerai presto» mi assicurò Darya, anche se non sapevo se voleva convincere più me o se stessa. Salutai gli amici che mi ero fatta in quelle settimane incredibili.

Solo che tutto aveva più che altro il retrogusto acido di un addio.

 

 

«Attenta a non pestarmi i piedi, donna» disse il soldato accucciato davanti a me, in un sibilo aspro che era inconfondibile alle mie orecchie, sebbene Selene mi traducesse le sue parole con maggior garbo. Gli lanciai un'occhiataccia.

«Scusa tanto, uomo» mugugnai con astio. Non ci fu bisogno che Selene traducesse. Ci scambiammo sguardi in cagnesco, ma la discussione terminò lì, con grande sollievo dell'interprete di corte. Non le piaceva il conflitto, eppure aveva seguito la sua regina in guerra senza discutere. Il suo coraggio silenzioso mi ricordava quello di un'altra mia vecchia e cara conoscenza, amata e perduta: Christine. Se avesse potuto vedermi adesso, non mi avrebbe riconosciuto nella giovane donna spigolosa e sarcastica che era stata la sua migliore amica ai tempi dell'Opera. Ora ero una piccola furia di male e ossa, ossessionata dall'idea della vendetta. Solo l'amicizia quieta di Erik mi faceva ricordare chi ero davvero. Mi stavo perdendo del tutto? Avrei oltrepassato il punto di non ritorno? Avevo già ucciso; uomini innocenti, per di più, anche se per legittima difesa – eccetto per Senza Nome. Ero macchiata a vita: in qualunque modo ne sarei uscita fuori, non sarei più stata la stessa comunque. Mi chiesi se un giorno Christine mi avrebbe rivista per leggere i segni del male sul mio viso. Sarebbero stati tanto evidenti? L'avrei rivista davvero?

Se vuoi farlo, devi uscire viva da questa situazione. E così avrei fatto.

«Non c'è nessuno. Possiamo tornare indietro» annunciò il capitano della spedizione. Eravamo una dozzina, e tutti sembravano più o meno lieti di tornare con l'esercito e alla marcia. Fu quando ci voltammo che ci cascarono addosso.

Si erano nascosti in un nugolo di alberi vicini e ci stavano osservando da chissà quanto tempo. Il simbolo della rosa rossa era brillante sui pettorali delle loro armature, e mi fece ribollire il sangue. Solo allora mi ricordai che io non indossavo che un'armatura di fortuna, una corazza per coprirmi il cuore, i polmoni e le costole molto leggera, regalatami da Darya, che ne aveva trovato – forse per miracolo – una della mia taglia minuta. Mi andava ancora un po' grande, ma questo non mi impedì di estrarre la spada e difendermi dal fendente di un uomo grosso il doppio di me, ma resistetti. Lottammo ferocemente – io che danzavo all'indietro per evitare i suoi affondi, proprio come mi aveva insegnato Darya, con la mia velocità sviluppata – e gli affondai la punta dell'arma nella fessura sotto l'ascella. Zampillò sangue, e l'uomo ululò di dolore. Un sasso in testa lo fece crollare a terra una volta per tutte: con mia grande sorpresa, notai Selene che, dietro di me, aveva lanciato quel sasso. Mi aveva aiutata.

«Grazie» le urlai nel caos di sangue e membra spezzate che era lo scontro. Le feci segno di non lasciare il mio fianco, ed ella si affrettò a seguire il suggerimento, tremante e ancora incredula di ciò che aveva fatto per darmi una mano. Come si vedeva, e malgrado la mia indipendenza, accoglievo di buon grado un po' di man forte.

Mi accorsi che lo scontro non stava andando bene per la nostra fazione: eravamo rimasti in sei, e gli altri – l'odiato nemico – erano in vantaggio numerico. Mi avvidi anche che ad alcuni non venivano inflitte ferite mortali, ma solo quel tanto da stordirli e catturarli. Cominciarono a legarli con delle corde e a trascinarli verso una meta sconosciuta.

«Oh, no… Non di nuovo…» Non mi sarei fatta intrappolare di nuovo come un mero topo. Caddi a terra quando qualcuno mi colpì forte la testa con l'elsa della lama. Mi pestarono la mano della spada, confiscandomi l'arma, e guaii di dolore. Ovviamente i miei propositi erano andati a farsi benedire.

«Selene…!»

Avevano legato anche lei, e la trascinavano di forza, anche se ella sembrava non aver opposto troppa resistenza – quel tanto da non farsi ferire gravemente, a differenza della sottoscritta. Qualcuno mi afferrò per le gambe e mi trasportò di peso per una strada sabbiosa, fino a rinchiudermi in un carretto insieme a tutti gli altri – quelli che erano rimasti. Erano tutti storditi e feriti, ma vivi.

«So cosa vogliono fare. Me l'hanno già fatto una volta» borbottai a Selene, che tradusse agli altri. Non sapevo se mi avrebbero ascoltata o meno, ma almeno avrei tentato.

«Vogliono portarci al palazzo della Khanum e farci svelare i nostri piani sotto tortura» disse il comandante della spedizione. Aveva indovinato perfettamente. Annuii quando Selene mi tradusse le sue parole.

«Siamo spacciati. Ci chiuderanno tutti nella camera delle torture!» disse un altro, terrorizzato.

Eravamo tutti impauriti e sanguinanti, chiusi in quel carro senza che la luce morente del sole ci bagnasse. «Non credo» dissi io. «La camera delle torture di Erik impiega troppo tempo a fare il suo effetto, e loro non hanno tempo. Troveranno altri modi per torturarci.»

«Non una parola sui piani di Sua Maestà» ordinò il comandante della spedizione. «Anche a costo delle nostre vite e del nostro senno, noi li difenderemo.»

«Anche quando sarete – anzi, saremo – sotto tortura? Conosciamo tutti i metodi di Assiye. E suo figlio non sembra avere più pietà.»

Il capitano mi rivolse un'occhiata ponderata. «Siamo soldati. È quel che facciamo, signorina. Combattere fino alla morte.»

«Questo non è combattere» sussurrai tra i denti, ma feci cenno a Selene di non tradurre le mie parole. Non volevo rovinare l'umore a tutti con il mio cinismo, non se avevamo una speranza di mantenere segreti i piani di Ezzat e Roshak fino al loro arrivo. Anzi, fino all'arrivo di Erik, Nadir e la loro truppa. Cosa stavano pensando, non vedendoci tornare? Sicuramente dovevano aver capito che eravamo stati catturati dal nemico in una sortita a sorpresa. Dovevano aver intuito i loro piani.

Maledetti. Maledetti bastardi…

La vista mi risultava ancora un po' sfocata dopo la botta in testa. Mi lacrimarono gli occhi, ma finsi che fosse per la ferita che mi bruciava la nuca. Nessuno fece un commento. Eravamo tutti sulla stessa barca.

Lanciai un'occhiata a Selene. Era tutta colpa mia se era stata catturata – non sarebbe mai andata con i soldati dell'esplorazione se non fosse stato per la mia cocciutaggine. Era tutta colpa mia se ora veniva torturata. Avevo il sospetto che fosse di granito sotto quell'aria gentile e delicata, perché era cresciuta al fianco di Ezzat e, nell'anima, aveva assunto un po' del metallo della sua regina.

Quando ci fecero scendere dal carro, trascinandoci a forza di spintoni fino al palazzo di Mazenderan, le scagliai un'occhiata colma di vergogna. Ma lei non sembrò notarla e continuò ad avanzare coraggiosamente, sebbene la disperazione cominciasse a crescere nel suo sguardo scuro. La disperazione divenne terrore quando ci portarono all'interno del palazzo, che finalmente potei ammirare in tutto il suo splendore. Il capolavoro architettonico di Erik. Era simile a quello di Teheran, ma ancora più maestoso e magnifico, e i suoi segreti dovevano essere migliaia. Capii perché Assiye aveva tanto bisogno di Erik per svelarli, e perché volesse ucciderlo per tenergli la bocca chiusa. Era orribile, la caccia che gli aveva dato. La caccia che tutti gli avevano dato. Come aveva detto, una volta? Sono il mezzo con cui vincere una guerra. Pertanto più prezioso e più facile a morire di qualunque altra creatura vivente.

Attraversammo l'androne principale, luminoso di mosaici costellati da mille gemme e colonne altissime, imponenti. Mi parve che ci volle un'eternità per condurci alla Sala del Trono, dove ci stavano aspettando. Notai che questa volta vi erano due scranni posti su una pedana rialzata: su uno di essi sedeva un ragazzo più giovane di Roshak, dai sottili capelli neri e gli occhi di un verde incredibile, socchiusi come quelli di un gatto. Naser, il piccolo Shah. Piccolo per modo di dire, poiché, sebbene adolescente, per gli standard orientali era già un uomo: eppure ecco la madre, Assiye – finalmente la incontravo – ritta al suo fianco. Di una bellezza prepotente, ferina e così dissimile da quella di Ezzat (eppure qualcosa di uguale si incarnava nei lineamenti delle due sorelle, entrambe dedite al gioco del potere quasi come a quello della vita), era la Khanum di Persia. Poteva essere di qualche anno più giovane di Ezzat, la pelle di una perfezione quasi marmorea e gli stessi occhi che il figlio sembrava aver ereditato. Era una visione imponente. Si capiva il suo carattere dominante dalla posa felina delle sue membra, dei suoi occhi. Ci guardò con grande soddisfazione, e disse qualcosa ai soldati che ci avevano condotto fin lì che non compresi, e che Selene non ebbe possibilità di tradurmi. Sarebbe stata uccisa se avesse aperto bocca nel momento sbagliato. Naser applaudì, deliziato. Disse qualcosa che fece ridere la madre, la quale fece cenno ai suoi uomini di portarci via, probabilmente diretti verso la sala delle torture. Poi i suoi occhi si fermarono su di me.

«Aspetta, aspetta» disse in francese, e ancora una volta il suono della mia lingua madre tra le labbra di un sovrano di Persia mi stupì.

«Non sei un ragazzo. E neanche di qui. Devo dedurre che Azrael ti ha condotto nel mio Paese dal suo.»

Aveva occhi acuti come quelli della sorella, ma brava.

«Devi essere la piccola baldracca che gli andava dietro, giusto? Com'è stato il viaggio?»

«Delizioso. Ho ucciso personalmente uno dei tuoi luridi emissari.»

Assiye si incupì. Fece cenno a una guardia, e questa mi rifilò uno schiaffo che mi diede le vertigini. Scossi il capo per schiarirmi le idee dopo il colpo.

«Hai la lingua tagliente come il tuo amico mascherato.» Assiye si sedette sul trono, mentre il figlio guardava dall'una all'altra, irritato dal suo non capire. La madre gli rivolse un gesto che voleva dire: “pazienza, mio caro, e vedrai.”

«Non è l'unica cosa che abbiamo in comune. Siamo entrambi assassini.»

Lei scoppiò a ridere – una risata melodiosa che mi fece sanguinare le orecchie.

«Erik era un maestro della morte. Non te l'ha mai detto? Uccidere era la cosa che lo divertiva di più, ai suoi tempi. Quando era giovane e mio.»

«Non è vero. Ora è cambiato, è…»

Lei scosse il capo, divertita. «Uomini come lui non cambiano così facilmente.»

«Tu non sai niente di lui. Niente

Un altro schiaffo potente. Mi bruciava la guancia destra.

«Chiamami Sua Maestà. La tua piccola cotta per l'Angelo della Morte non ti salverà. Pensi che verrà lui ad uccidermi come tanto desideri? Perché lo vedo, quel desiderio. Nei tuoi occhi. È sempre stato nei miei.» Si alzò e mi si avvicinò. Mi dimenai quando mi sollevò il mento con una mano. Fui abbastanza intelligente da non sputarle in faccia, anche se lo avrebbe meritato.

«Non ho nessuna piccola cotta per lui! È mio amico!»

«Uomini come lui e donne come me non hanno amici. È la legge della natura. Ci ha fatto entrambi predatori, e nel suo caso mostri. Diversi da tutti gli altri. E tu sei patetica nella tua convinzione.»

«É per questo che vuoi il trono? Ti credi tanto differente dagli altri? Sei solo una serpe pronta a tutto pur di avere un briciolo di potere!»

Questa volta ricevetti un pugno nello stomaco. Non ero riuscita a trattenermi.

«Mi odi tanto: perché? Cosa ti ho fatto? Non ti conosco neppure.» Questa volta riconobbi un'ombra di curiosità nella sua voce di velluto.

«Per colpa tua sono finita in questo mare di sangue. Per colpa tua sono stata torturata. Per colpa tua ho ucciso. Per colpa tua hanno ucciso mia madre!» Sputai queste parole con un tale odio da farle sgranare prima gli occhi, poi costringerla ad una risatina irritante.

«Non è meraviglioso? Una mia parola, e la vita di molta gente può cambiare senza che neanch'io lo sappia.»

«Ci provi gusto, non è vero?»

«Oh, sì. Eppure sei una donna, dovresti capire. Quante volte ti hanno detto no, per colpa del tuo sesso?»

«Il mio sesso non è una colpa. È per me un vanto.»

«Questo è un mondo di uomini. Ma io sono al di sopra di loro. Al di sopra di tutti. Anche di mio figlio, ma lui non lo sa.» Lanciò un'occhiata affettuosa a Naser, che continuava a guardarci, perplesso.

«Essere una donna non significa alzarsi al di sopra del livello degli uomini, ma dimostrare che loro non possono dettare legge sul nostro corpo, sulla nostra mente, sulla nostra anima. Così penso io, così pensa tua sorella.»

Il suo volto assunse una smorfia molto spiacevole.

«Mia sorella… Pensi che sia tanto diversa da me?»

«Lei non uccide innocenti. Non li tortura solo per divertimento.»

«Innocenti… Sono vittime sacrificabili! Tutto è sacrificabile, per il potere!»

«Anche tuo figlio?»

Questa volta fu lei a schiaffeggiarmi, con non meno forza della guardia. Ne stavo prendendo parecchie, nel giro di dieci minuti. Un record. Erik avrebbe alzato gli occhi al cielo per quella che avrebbe definito: “La mia ennesima imprudenza.” Ma sapevo che sarebbe stato fiero del mio impavido coraggio dinanzi a un mostro come Assiye.

«Via di qui.»

«Prenderò il tuo cuore. È una promessa.»

«Tu sei completamente pazza, piccola baldracca.» Poi disse due parole in persiano che stavano a significare: “Portatela via!”

Ansioso di sapere come andò a finire quella nostra prima conversazione? Oh, vi dico solo che non fu l'ultima, Monsieur Leroux. Non lo fu affatto.

 

 

Urtai di nuovo la grata con una spallata. Niente da fare: era inutile, e lo sapevo. Non sarebbe mai andata giù.

«Meg, così vi farete solo del male. Venite qui, accanto a me» disse Selene con il suo tono più dolce e convincente.

«Per aspettare che torturino anche me e te in questa prigione? Non ci penso proprio.»

Ci avevano chiusi nei sotterranei, ed avevano già cominciato i supplizi. Dalla gattabuia, sentivamo le urla del capitano, che dovevano riecheggiare – con grande gioia di Assiye e Naser – per tutto il palazzo. Forse gli stavano tagliando una per una le dita delle mani e dei piedi.

Selene si coprì le orecchie, e così feci anch'io.

«Impazziremo tutti se non facciamo qualcosa. E, soprattutto, moriremo.»

Guardai i miei compagni: erano in cinque, sporchi di sangue e melma e altre cose a cui preferivo non pensare, ma sui loro visi vigeva la rassegnazione. Una morte dolorosa e lenta sacrificata ad un eroismo che nessuno avrebbe ricordato.

No, non potevo permetterlo…

Fu allora che rammentai.

«Ma certo!» Mi colpii la fronte con una mano. «Quanto sono stupida! Come ho fatto a non pensarci prima?» Scossi il braccio di Selene come se ne andasse della mia stessa vita. Lei mi fissò quasi fossi pazza.

«Cosa succede? Meg?»

Gli altri non comprendevano una parola del mio biascicare allegro, ma avevano scorto il mio sorriso e si chiedevano se non stessi ammattendo.

Erik, sei un fottuto genio. No, che dico: io sono un fottuto genio.

«Il passaggio segreto, Selene! Passa per le fogne» dissi a bassa voce. «E l'entrata delle fogne è nelle prigioni dei sotterranei! Non capisci?»

Lei sbatté le palpebre, poi comprese. Tradusse in fretta agli altri le mie parole, al che tutti si fecero più attenti.

«Sì, ma come facciamo a uscire dalla gattabuia? Ci hanno imprigionato. E ci sono due guardie, lì fuori» disse un uomo della compagnia, con una vistosa cicatrice di guerra sulla fronte.

«Noi siamo in cinque. Possiamo sopraffarli» disse un altro.

«Senza armi?» chiese Selene, prima in persiano e poi in francese.

Sorrisi. «Forse qualcosa lo abbiamo.» Sotto il velo, scostai dai capelli ricciuti dell'ancella una forcina, senza delicatezza alcuna. Lei si grattò nel punto in cui le avevo tirato via la forcina – e un ricciolo disordinato.

Gli uomini scoppiarono a ridere.

«Cosa vuoi farci con questa, ragazza?»

«Aspetta» disse uno, il più giovane, guardandomi attentamente. «Forse non ha tutti i torti.»

Mi fece segno di proseguire. Il più silenziosamente possibile, infilai la forcina nella serratura e ruotai. Ci volle un po' di tempo, ma alla fine ce la feci. Era un trucco vecchio quanto l'amicizia tra me e Luc. L'avevamo appreso insieme quando portavo ancora le trecce.

«Adesso silenzio. Preparatevi alla lotta.» Uscimmo furtivamente dalla gattabuia, in fila indiana. L'ingresso per le fogne era proprio lì, lo notammo a pochi metri da noi. Dovevamo solo non farci scoprire dalle guardie.

Cosa più facile a dirsi che a farsi, naturalmente. La porta per le fogne era proprio dietro una delle due sentinelle.

«E adesso?» borbottò il più giovane dei miei compagni. Feci loro segno di stare a guardare, poi raschiai a terra e, malgrado le unghie che si scorticarono e divennero fradice di sangue, riuscii a divellere un chiodo dal pavimento. In punta di piedi, mi avvicinai alla guardia da dietro e, prima che l'altra avesse tempo di urlare un avvertimento, gli saltai alle spalle e gli conficcai il chiodo in testa. Lui urlò e cadde a terra, privo di vita. Un'altra morte innocente, ma necessaria, sulle mie mani fradice di sangue. Altro materiale per i miei incubi. Ma quello non era il momento giusto per pensarci.

Gli altri uomini della mia compagnia si gettarono addosso all'altra sentinella che, sebbene armata, non poté nulla – era uno scontro impari: uno contro cinque. Il soldato con la cicatrice sulla fronte lo sgozzò – sentii il gemito di Selene, che si era stretta alla mia veste – e alla fine aprimmo la grata che portava alle fogne.

Dopo una scivolata, cascammo tutti nell'acqua sporca che ci arrivava alle ginocchia.

«É un labirinto» disse uno degli uomini, ed era vero. La costruzione fognaria era maestosa quanto il palazzo che la sovrastava, colmo di botole, tunnel e trappole. Deglutimmo tutti all'unisono. Uscire di lì sarebbe stata un'impresa.

«Lui ha detto di andare sempre avanti, di ignorare le curve e ogni altra strada. State attenti ad eventuali trappole.»

Andai per prima, disarmata. Le spade e le daghe delle due sentinelle erano andate ai cinque soldati, e io non mi opposi, poiché sapevo che, sebbene avessi dimostrato di essere in grado di difendermi da sola come desideravo, loro erano molto più esperti di me. Inoltre, mi seguirono di buona grazia, eleggendomi quale loro leader ufficiosa, con Selene – sempre coraggiosa malgrado il lezzo delle fogne – al mio fianco.

Ci trascinammo nell'acqua per mezz'ora. «Sempre avanti, sempre avanti» dicevo io. «Non vi lasciate ingannare.» Una volta ci fermammo ad un incrocio e rimanemmo lì fermi per dieci minuti mentre litigavamo su quale strada prendere. Alla fine presi io in mano la situazione e decisi che sarei andata dritto, e chi voleva seguirmi poteva pure farlo, al diavolo. Finì che mi seguirono tutti.

Il labirinto ci faceva girare la testa. Avevo la nausea del lezzo di merda e di tutte quelle giravolte. Mi sembrava infatti di vorticare sempre a vuoto, malgrado andassi avanti.

Ormai dovevano essersi accorti da un pezzo della nostra fuga. Sperai che non intuissero la via per la quale eravamo scappati – avrebbe rovinato i piani di Ezzat e Roshak, e la sortita di Erik.

Erik, pensai. Se tutto andava bene, lui e Nadir ci avrebbero raggiunto con i loro soldati, prima o poi. Non eravamo in trappola, se continuavamo a sperare.

Sebbene fossi cinica per natura, non mi davo per vinta tanto facilmente. Continuai ad avanzare, e così i miei uomini – se ormai potevo definirli tali.

«Vedo una luce» disse Selene, ed era vero. Un fascio di luce lunare – o quel che pareva tale – si proiettò dinanzi a noi, sfibrati nel corpo e nell'odorato.

«Attenti» li avvertii, ma non ce ne fu bisogno. Era davvero l'uscita. Stavamo per scavalcarla quando un rumore di passi ci fermò.

«Aspettate» tuonai. «Chi va là?»

I miei compagni esposero le armi ai barbagli lunari, ma fu inutile. Avrei riconosciuto quel passo felpato ovunque.

«Erik!» dissi. «Sono io, Meg!»

Nel buio scorsi i suoi occhi di falco. Era insieme a Nadir, che salutai altrettanto calorosamente. Si accostarono a noi come se non credessero ai propri occhi.

«Vi pensavamo perduti» disse il Persiano, infrangendo il nostro abbraccio.

Erik non mi toccò. Si limitò a fissarmi da capo a piedi, e il suo sguardo si posò qualche secondo in più del necessario sulla mia guancia rossa per gli schiaffi, le mie unghie insanguinate. Si accostò a me quel tanto che potevo avvertire il suo fiato sulla mia bocca. Mi si mozzò il respiro in gola, ma riuscii a parlare tranquillamente: «Sto bene. Sono viva.»

«Avrei fatto di tutto per salvarti. Ancora e ancora, se me lo avessi permesso.»

«Ricordi? Io mi salvo da sola.» Gli rivolsi un sogghigno di familiarità. Lui sorrise – il primo, vero sorriso che vedevo sul suo volto da una vita.

«D'accordo, allora. Usciamo via di qui.»

Dopo che raccontammo loro com'eravamo fuggiti, ci dissero quel che era accaduto al campo. In seguito alla nostra scomparsa, avevano compreso che eravamo stati catturati, ma Ezzat e Roshak avevano deciso di andare avanti col loro piano. Che si era dimostrato glorioso: i duecento soldati di Erik e Nadir erano entrati dalle fogne all'interno del palazzo, sgominando il caos mentre la compagine di Mazenderan era impegnata con l'esercito di Teheran che attaccava ai cancelli del palazzo. Avevano aperto le porte del castello di Mazenderan ai compagni. Il palazzo era stato conquistato, la Khanum e lo Shah messi ai ceppi. Sorrisi quando lo venni a sapere. La mia conversazione con Assiye non era ancora terminata: prima avrebbe dovuto assaggiare il bacio della mia lama. L'ultimo frammento di incubo prima della fine. Dopo, forse, non sarei più stata me stessa, ma cosa m'importava? Cosa avevo da perdere? Eppure… negli occhi di Erik, così felice di vedermi viva e vegeta – sebbene non pronunciasse una parola al riguardo – lo vidi. Cosa avevo da perdere.

Non mi fu possibile pensare altrimenti che fummo raggiunti da una mezza dozzina di soldati di Mazenderan fuggiti via dalla battaglia. Per un attimo ci guardammo gli uni e gli altri, senza ben sapere cosa fare. Poi uno di loro estrasse una pistola e la puntò su Erik. Lo colpì a un fianco così velocemente che non riuscii neanche a sbattere le palpebre.

Il mio urlo angosciato si sommò a quello del Persiano quando Erik, dopo aver oscillato sui propri piedi per qualche secondo, crollò a terra. I miei cinque compagni si scagliarono contro i soldati di Mazenderan, così come Nadir, in un flusso crescente di stridori di battaglia.

Mi accasciai accanto ad Erik, ma un altro soldato nemico, rimasto più indietro degli altri, corse come un folle verso di noi, la spada puntata verso il mio amico a terra. Se fossi rimasta lì ferma, se fossi scappata, avrebbe colpito Erik, dandogli il colpo di grazia, e questi sarebbe morto. Lo sapevo come il sangue che mi scorreva tra le dita. Era, come esso, una certezza. Ma ero disarmata, maledizione, non potevo contrastarlo! A meno che…

Ebbi solo pochi secondi per pensare: Selene mi indicò un sasso lì a terra, che afferrai senza remore nel mio pugno e lanciai contro il nemico, e questa volta il cielo ebbe pietà di me. La mia mira fu efficace. Lo colpii in testa tanto forte da fermarlo, quel tanto da attirare l'attenzione di Nadir che gli impedì di avanzare una volta per tutte. Non si era neanche accorto del pericolo che correvamo: Selene mi aveva aiutata a salvare la vita ad Erik. Le sillabai un “grazie” prima di accasciarmi di nuovo al suolo di fianco al mio amico.

Sangue. C'era tanto sangue che per poco non vomitai. «Dobbiamo fermare il sangue» dissi come prima cosa, la mente affondata in tutto quel rosso che gli usciva dall'altezza delle costole. Mi affrettai a strapparmi la veste per tamponargli la ferita, ma c'era troppo rosso… Lui mi fermò la mano.

«Meg…»

Un soffio di voce.

«Stai fermo, dannazione! Non muoverti o uscirà altro sangue!»

«Meg.»

Ora la battaglia si era fermata. Nadir era di fianco a me, con una mano sulla mia spalla, ma non la sentivo. L'unico tocco che esisteva per me era quello delle dita gelide e livide di Erik strette alle mie.

«Mi hai salvato… la vita…»

«Idiota, stai morendo! Morirai se non…»

Lui scosse il capo e mi premette un dito sulle labbra. Sentii il sapore del suo sangue mischiato al mio e alle mie lacrime – non mi ero resa conto che stessi piangendo.

«Meg, tu sei la cosa più…»

Non seppi mai cos'ero. Svenne prima di finire la frase.

«No… No!» ringhiai, afferrandogli le spalle e sbatacchiandolo di qua e di là come fosse un pupazzo. Gli artigliai il petto. «Non puoi morire, brutto bastardo! Non osare lasciarmi qui da sola, tu, razza di…» Nadir mi fermò prima che potessi aggravare la situazione.

«Respira ancora.»

«Sì, e gli batte il polso» aggiunse Selene, accorsa vicino a me e a lui.

«Forse abbiamo ancora una speranza. Dobbiamo portarlo da un dottore. Presto, voialtri» si rivolse in persiano ai miei compagni “delle fogne”, che si affrettarono ad aiutarlo a prendere Erik di peso, per quanto disgustati dal contatto con una simile creatura. È un uomo, pensai. È un uomo, e sta morendo, e mi ha salvato la vita, e io vorrei tanto poter dire lo stesso…

Come sempre, Nadir – la voce della ragione – aveva vinto. Mi lanciò un ultimo sguardo prima che cedessi tra le braccia di Selene. Non mi sarei mai fatta vedere in quelle condizioni miserevoli da nessuno se non fosse stato per il fatto che ora l'uomo che… che io… beh, stava morendo e io non potevo fare nulla. Non potevo fare nulla.

Sono vittime sacrificabili! Tutti lo sono, per il potere! Aveva detto Assiye.

No, ti sbagli, lurida stronza, pensai con rabbia. Lui non lo era. Lui non lo era.




Note dell'autrice: Rieccomi a rompervi le scatole. Che ne dite di questo capitolo? Le scene di battaglia sono convincenti o semplicemente stupide? È tutto poco credibile? Se mi dite di sì, giuro che non mi offendo. Mi sa che lo è davvero, ma non sapevo proprio cosa inventarmi. E così mi è uscita fuori questa marea di stronz… voglio dire, baggianate.
Per quanto riguarda i miei affari personali, ho ricominciato a frequentare l'università. Ho anche comprato i libri che mi servono per i corsi dopo essermi fatta dare le fotocopie degli appunti delle lezioni a cui non mi sono recata. Per fortuna ho compagni molto gentili e disponibili. Mi sento francamente stupida nel non capire la linguistica (che sia italiana, tedesca o generale), ma sto stringendo i denti. Non mollerò così facilmente. Voglio essere forte come le eroine dei miei romanzi preferiti. Come Meg, Christine e tutte le altre. Se proprio non ce la faccio, cambierò facoltà, ma il momento della laurea arriverà anche per me. L'ho promesso sulla tomba di mia nonna e lo ribadisco qui. Bene. Adesso ho finito di lamentarmi dei miei affari, grazie a Dio.
Ora, le recensioni:

debbythebest: Mi fa tanto piacere che lo scorso capitolo ti sia piaciuto, e anche l'evoluzione di Meg, che in questo subisce un'altra svolta. In effetti, io vado lenta coi sentimenti dei due protagonisti perché non sarebbe credibile se si mettessero a sbaciucchiarsi dopo pochi capitoli. Erik e Meg hanno formato un legame fortissimo, ma ci vorrà un po' prima che si accorgano che forse può trattarsi di qualcosa di più che semplice amicizia. Certo, io ci sto mettendo una vita a far scoppiare la coppia (più di trenta capitoli!) ma sono fatta così. Spero che ti piaccia anche questo chapter e che non ti sembri stupido (a me ogni cosa che scrivo sembra stupida). Baci baci **

bibliofila_mascherata: La scena del bagno in effetti è ispirata a quella di Jaime e Brienne, sapevo che lo avresti indovinato. In realtà avevo in mente una cosa del genere da parecchio tempo, poi rileggendo A Storm of Swords sono incappata in quella scena e ho detto: sì, così è perfetta! XD Erik imbarazzato è il massimo, vuoi mettere? *__* Meg lo fa sudare freddo. È proprio una peste. XD
Come al solito le tue parole mi commuovono. Ho in mente di pubblicare qualche storia originale, se mai riuscirò a scriverle, e spero che mi seguirai anche in quelle future avventure. Sarà un piacere averti con me. :3
Hai analizzato molto bene il rapporto tra Heathcliff e Catherine in Cime Tempestose, che è stato il mio primo classico inglese (l'ho letto alla tenera età di quattordici anni) e quindi ci sono proprio affezionata. L'avrò riletto una decina di volte – sono un po' morbosa. XD Naturalmente il rapporto tra Erik e Meg è molto diverso, ma hanno la stessa affinità. Sono molto belle anche le tue parole sull'amicizia e sull'amore. Non considero infatti l'amicizia come meno importante dell'amore romantico, tutt'altro. Mia madre ha sposato il suo migliore amico (che poi sarebbe mio padre XD), quindi sono cresciuta con questa concezione e il sogno di trovare un compagno altrettanto speciale (piuttosto irrealistico, ma… dai, in fondo sono una romanticona XD).
E grazie a TE, mia cara. Anch'io vorrei che questa avventura non finisse mai, ma devo occuparmi anche di altri progetti. E, perché no, fare di nuovo una visitina a questo fandom. ^_^
Un bacione **

P.S. Per il Big Damn Kiss devi aspettare ancora un po', ma arriverà. E vi distruggerà. E io finirò per farmi uccidere da qualcuno di voi per il mio sadismo. MUHAHAHA.
   
 
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Il fantasma dell'Opera / Vai alla pagina dell'autore: Elphie94