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Autore: Stella Dark Star    12/11/2016    1 recensioni
Delfina, figlia del banchiere Andrea de' Pazzi, ha solo quindici anni e nessuna vita sociale quando viene incaricata dal padre di entrare nelle grazie di Rinaldo degli Albizzi per scoprire ogni suo segreto e sapere in anticipo ogni mossa che farà in campo politico. Lei accetta con riluttanza la missione, ma ancora non sa che il destino ha in serbo per lei molto di più. Quella che doveva essere una semplice e innocente conoscenza, diventa ben presto un'appassionata storia d'amore in cui non mancano gelosie, sofferenze e punizioni. Nonostante possa contare sull'aiuto della madre Caterina (donna dal doppio volto) e della fedele serva Isabella (innamorata senza speranze di Ormanno), Delfina si ritroverà lei stessa vittima dell'inganno architettato da suo padre e vedrà i propri sogni frantumarsi uno dopo l'altro.
PS: se volete un lieto fine per i protagonisti, non dimenticate di leggere il Finale Alternativo che ho aggiunto!
Consiglio dell'autrice: leggete anche "Andrea&Lucrezia - Folle amore (da Pazzi, proprio!)" per vivere assieme ai protagonisti un amore impossibile.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: Missing Moments, Movieverse | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo tre
E giacque sul mio grembo
 
Strinsi le mani l’una nell'altra per impedirmi di reagire, per non mandare tutto a monte o addirittura essere colpita. Mi sentivo come una bestia che veniva esaminata prima di essere portata al mercato per la vendita e, quel che era peggio, era che il mercante era il mio stesso padre. Aveva ordinato che indossassi un abito più provocante di quelli che portavo solitamente, qualcosa che mettesse in risalto i miei seni ma che mi donasse grazia e così la mia fedele dama di compagnia aveva accomodato un vecchio abito di mia madre, composto di stoffe del bianco più puro e ricamate in oro. Infine mio padre aveva voluto che i miei capelli restassero sciolti e semplicemente abbelliti da un nastro bianco allacciato attorno al capo come una fascia. Era stato molto chiaro: niente gioielli.
Dopo avermi esaminata con la massima attenzione, soffermandosi su ogni minimo particolare e facendo più volte il giro attorno a me, disse sintetico: “Va bene così.”
Mi porse il braccio al quale mi aggrappai con leggera riluttanza. Amavo mio padre, ma a volte sembrava davvero fare di tutto per avere il mio disprezzo.
Uscimmo dal palazzo e ci incamminammo verso quello degli Albizzi. Una passeggiata tutt’altro che benefica visto che il cielo prometteva pioggia torrenziale da un momento all’altro.
“Sei una fanciulla intelligente, so che agirai per il meglio. Voglio solo rammentarti che lo stai facendo per me e per il nome della nostra famiglia. Una tua distrazione creerebbe il disastro, se Rinaldo scoprisse il gioco, tra le nostre famiglie sarebbe guerra aperta.”
“Lo so, padre, non fai altro che ripetermelo.” Risposi a denti stretti, non riuscendo a trattenermi.
Sul viso di mio padre affiorò un sorriso, il suo sguardo vagò verso il fondo della via dove ci stavamo dirigendo. All’improvviso sentii un forte dolore al polso, quello che lui stava stringendo con forza da sotto la sua manica. Soffocai un gemito trattenendo il respiro e un attimo dopo sentii la voce di mio padre parlarmi con finta tranquillità: “Vedi di non farmi perdere la pazienza, Delfina. O te ne pentirai.”
Lasciò la presa e io ripresi a respirare. La rabbia in me svanì all’istante, mi sentii in colpa per aver mancato di rispetto. Sollevai lo sguardo con curiosità, eravamo arrivati.
Fummo accolti prima da una guardia armata all’ingresso e poi da un servitore che ci fece attendere nello studio personale di Rinaldo. Se non fosse stato per il maltempo, quella stanza sarebbe stata piena di luce e assolata. Uno spazio ampio e ordinato, sulle cui pareti erano appesi quadri ritraenti avvenimenti biblici. Il tavolo intagliato e personalizzato con lo stemma di famiglia era stato posizionato nel punto più luminoso della stanza. Nel silenzio che ci circondava, sia io che mio padre voltammo il capo verso la porta ancor prima che qualcuno la aprisse. L’eco dei passi aveva anticipato l’arrivo di Rinaldo. Non appena lo vidi mi sentii più serena. Il suo aspetto era trasandato, pur sapendo che saremmo arrivati sotto suo invito. I capelli non erano stati pettinati, per cui i riccioli quasi biondi si muovevano in totale libertà, mentre la giacca aperta lasciava vedere ampiamente la camicia sottostante e il colletto slacciato.
“Vi chiedo perdono per il mio aspetto, non mi sono reso conto dell’ora.”
Camminò fino al tavolo e prese posto sulla sua poltrona in legno, quindi fece un cenno con la mano affinché anche noi ci accomodassimo sulle sedie di fronte.
“Se preferite possiamo rimandare l’incontro.” Suggerì mio padre.
Rinaldo scacciò quella proposta con un movimento della mano: “No. Non è importante. Non oso immaginare per quanti giorni continuerò a torturarmi.”
Mio padre inarcò un sopracciglio: “E’ per via di Medici?”
Lo sguardo tagliente di Rinaldo fu una risposta sufficiente.
“Dovreste esserne lieto, a parer mio. La guerra è finita, Lucca non è più sotto assedio.”
Rinaldo si protese in avanti, lo sguardo sempre più torvo: “Non sopporto l’idea che sia avvenuto per merito suo. Mio figlio ha combattuto sul campo di battaglia, io stesso l’ho affiancato dandogli tutto l’aiuto che potevo. Ho chiesto io i fondi per sostenere questa guerra e sempre io ho formato l’esercito. E poi all’improvviso si presenta alla Signoria lo stesso Sforza per annunciare la fine della guerra! Non potete nemmeno immaginare il disprezzo che ho provato quando quei due si sono scambiati un cenno d’intesa. Cosimo con…” Si fermò per cercare le parole e le sputò fuori assieme a qualche schizzo di saliva: “Con il suo sguardo annacquato come quello di un neonato quando si sveglia per la poppata. E quell’aria compiaciuta che finge di nascondere. Lo odio!” Sbatté un pugno sul tavolo per dare maggiore enfasi a quelle ultime parole.
“Non è giusto che perdiate il sonno per questo. Sono certo che troverete un altro modo per screditarlo. E per farvi valere.” Era incredibile il modo in cui mio padre riusciva a dire tutto ciò che pensava usando poche parole e senza variare il tono di voce.
Rinaldo si lasciò ricadere sulla poltrona e gettò la testa all’indietro, esausto dalla nottataccia che aveva passato.
Vidi mio padre alzarsi dalla sedia: “Delfina, andiamo. Lasciamo che Messer Albizzi riposi.”
Quella frase mi colse alla sprovvista: “Cosa? Siamo appena arrivati!” Un dubbio mi affiorò alla mente, il sospetto che per quel giorno avesse ottenuto le informazioni che voleva e che perciò non avesse bisogno del mio aiuto. Non mi opposi quando mi afferrò per un braccio per farmi alzare, ma qualcun altro lo fece per me.
“Aspettate, Andrea.”
Entrambi voltammo lo sguardo su Rinaldo, ancora nella sua posizione di abbandono. Attendemmo che si riprendesse, stropicciandosi gli occhi con le dita e scotendo il capo per schiarirsi la mente. Quando il suo sguardo si posò su mio padre, era tornato perfettamente lucido: “Se voi avete urgenza di andare, non vi tratterrò, ma vi sarei grato se poteste concedermi la compagnia di vostra figlia per qualche ora.”
Mio padre soppesò il suo sguardo e poi lanciò un’occhiata a me.
“Volete la sua compagnia? Vi avviso che questa ragazza ha parlato più coi muri che con le persone da quando è nata!”
Io mi sentii offesa, ovviamente, e fui lieta di sentire la risposta di Rinaldo in mia difesa: “Dunque è giunto il momento di introdurla nella civiltà, non credete?”
Vidi il mezzo sorriso di mio padre e capii che non avrebbe insistito oltre. Mi lasciò il braccio: “Ripasso a prenderti tra due ore precise. Vedi di comportarti ammodo.”
Mi affrettai a rispondere: “Certo, padre. Sarò impeccabile.”
Scambiò un cenno di saluto con Rinaldo e uscì dalla stanza senza guardarsi indietro.
Inizialmente entusiasta e felice per essere rimasta sola con l’uomo che da giorni occupava i miei pensieri, man mano che i minuti passavano iniziai a chiedermi perché mi trovassi lì. Dal momento in cui mio padre era uscito, Rinaldo aveva puntato lo sguardo sul tavolo, aveva tamburellato le dita sul ripiano e sfiorato i bordi di alcune carte, ma non aveva detto una parola. E nemmeno mi aveva guardata.
Un po’ per la delusione e un po’ per ricordagli la mia presenza, emisi un sospiro. Vidi la sua testa scattare e il suo sguardo puntarmi severo.
Deglutii: “Perdonatemi, Messere. Non volevo interrompere la vostra…ehm, meditazione.”
In tutta risposta lui ridacchiò e il suo sguardo si fece più limpido: “Temevo non saresti venuta. Dopo la tua fuga improvvisa ho pensato di aver mal interpretato i tuoi segnali.”
Avevo fatto davvero una magra figura quella sera! Mi stropicciai le mani in grembo per l’imbarazzo: “Ormai dovreste aver compreso quanto io sia inesperta nell’interagire con altre persone.”
“E’ per questo che ti ho voluta qui. Nei tuoi occhi non ho visto ambizione, non ho visto intrighi, non ho visto menzogna.” Si alzò dalla poltrona e  camminò attorno al tavolo per arrivare a me. Allungò un braccio e posò una mano sotto il mio mento per sollevarmi il viso. Riprese: “Ho visto solo te. I tuoi occhi viola con pagliuzze dorate. La trasparenza di una giovane pura e semplice.”
Scostò la mano e si lasciò scivolare sul pavimento, ai miei piedi. Posò il capo sul mio grembo e una mano sulle mie ginocchia. Sembrava così innocente, come un bambino in cerca di conforto.
Parlò con voce rauca per la stanchezza: “Nessuno può capire quello che provo. L’odio profondo che nutro per Cosimo.”
“Perché me lo state dicendo, Messer Rinaldo?”
Sentii il rumore di una risatina, subito coperta da un sospiro: “Perché non ho nessun altro a cui dirlo. Nessuno a cui importi.”
La mia mano si sollevò, rimase sospesa a causa della mia esitazione. Volevo farlo ma temevo di apparire troppo sfacciata. Perché poi? Lui non si era fatto problemi a parlarmi con familiarità e a comportarsi di conseguenza. Ci eravamo incontrati solo due volte e già si sentiva libero di aprirsi a me. E sentire il calore del suo viso attraverso la stoffa dell’abito, sentire il peso della sua testa sulle mie cosce, era un’emozione che non avevo mai provato. Ritrovando sicurezza, abbassai la mano e andai ad intrecciare le dita nei suoi capelli morbidi. Presi una ciocca arricciata e la lisciai tra il pollice e l’indice. Un gesto naturale, qualcosa di cui non provavo vergogna. Riposi la ciocca al suo posto e presi ad accarezzare la capigliatura con delicatezza, come avrei fatto con la pelliccia di un gatto.
Presa com’ero dalla situazione, mi accorsi solo di sfuggita che il respiro di Rinaldo si era fatto più pesante e più lento. Un sorriso mi sfiorò delicatamente le labbra, per la tenerezza. Mi chinai sul suo orecchio e sussurrai: “Dormite sereno, veglierò io su di voi.”
Pur sapendo che non poteva sentirmi nel sonno, avevo comunque sentito il bisogno di dirglielo.
  
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