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Autore: heather16    19/11/2016    1 recensioni
"La stanza vuota, la luce bianca, il tavolo spoglio. Sulla sedia, in divisa arancione, un uomo. Le spaventose testate su quel folle terrorista erano apparse sui giornali per mesi interi. Il viso, iconico per quella densa crema bianca che lo ricopriva, era struccato e pulito. I capelli, sporchi, ricadevano sugli occhi. Il capo era reclinato verso il basso."
ecco il prequel della mia storia "Midnight in Gotham"... spero vi piaccia!
Genere: Dark, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Harley Quinn, Joker
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'The Joker'
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-Era lei al telefono, non è vero?- Harleen non si sedette nemmeno. I suoi capelli erano scompigliati, il viso stanco e struccato, la camicia candida stropicciata, lo sguardo pieno di sentimenti che non sarebbero dovuti trasparire.
Davanti a lei il Joker. Lui sorrise, si sfregò le mani.
-Non so di cosa lei stia parlando, dottoressa Quinzel.-
- Come ha contattato quegli uomini perché mi aggredissero? Non le è permesso fare telefonate.-  Harleen sapeva che quello era un atteggiamento sbagliato,ma si illudeva che con un tono più rilassato non avrebbe tolto la sua maschera di professionalità. Si sedette finalmente al tavolo. Dall’altra parte lui, accasciato e apparentemente di ottimo umore, non smetteva di guardarla negli occhi.
- Nessuno Le ha mai detto di non accettare consigli da uno sconosciuto? E poi- le si fece più vicino, abbassando il tono di voce- con quel bel vestitino nero non mi stupisco che lei abbia incontrato dei brutti ceffi.-
-Volevi che io morissi, mi stai perseguitando!- Harleen si pentì immediatamente delle sue parole. Come aveva potuto essere così antietica e poco professionale? Ritornò composta sulla sua sedia, preparando una scusa. Doveva ridurre al massimo il danno di quell’uscita. Fece per parlare, ma il clown la interruppe. Il suo tono era rabbioso:-No Harleen, io ho fatto esattamente quello che mi hai chiesto tu! Non volevi forse conoscermi? Non volevi entrare nella mia mente? Lo hai fatto, ormai non si torna più indietro!-
-è forse una minaccia?-
-Una constatazione Harleen. Tu vuoi sapere da dove viene la mia testa. C’è un filosofo, non ricordo il suo nome; per lui il mondo esiste quando l’Amore e l’Odio sono forze che si equiparano. Altrimenti è tutto Sfero e Caos, l’assenza di vita e di realtà. Quando l’Amore agisce sull’Odio, nascono creature mostruose permeate di realtà, e poche di loro riescono a sopravvivere nel mondo.-
-Quindi lei si considera un mostro reduce dal Caos che è riuscito a sopravvivere come un emarginato in un mondo dominato da suoi dissimili?-
Il Joker rise. –Assolutamente no. Volevo solo vedere che conclusioni avrebbe potuto trarre. E lo sai Harley, non mi hai deluso neanche un po’.-
Harleen si sfregò gli occhi. Forse il dottor Arkham aveva ragione. Forse quello era davvero un caso incurabile. Non c’era niente da fare. Eppure lei non se la sentiva di lasciar perdere. Inoltre, da quando era entrata nella stanza, era sorta in lei una strana sensazione. Una fitta in mezzo al torace, in prossimità della bocca dello stomaco, che la faceva sentire svuotata. Una fitta di dolore.
-La sorveglianza aumenterà. Non le è più concesso avere contatti con membri al di fuori dello staff di Arkham.-
-Come se fosse diverso da come sono trattato ora, zuccherino.-
-La prego di rivolgersi a me come “dottoressa”. non è la prima volta che glielo chiedo.-
-Prima era un po’ più accondiscendente, dottoressa.- Il clown rivolse il capo verso l’alto, fissando il soffitto. La gola chiara era piena di macchie di colore bianco. Una cicatrice dal mento arrivava fino al pomo d’adamo. –Stanotte ho fatto un sogno.-
Harleen tentò di concentrarsi, di scacciare il disagio. voleva, doveva sapere di più sull’aggressione, ma riuscì solo a domandare con una voce troppo acuta “cosa?”
-Ho sognato una ragazza. Doveva guadagnarsi da vivere, ma non era nè bella né intelligente. Andò in un locale, serviva ai tavoli. Ogni sera guardava quelle bambole vestite di perle che danzavano sui tavoli, acclamate da maiali in foia, con le cravatte troppo strette per quei colli grassi da impiegatucci sedentari e mediocri. Si chiedeva perché quelle ballerine potessero attirare tutti gli sguardi, far aprire tutti i portafogli. Le disse una vecchia: “Quelle non sono donne; solo pezzi di carne.” La poverina era sciocca, voleva solo essere ricca e ammirata. Così si staccò tutta la faccia. E allora sì che la guardavano tutti. Nessuno l’ha mai fatta sentire come un pezzo di carne, dottoressa?-
“Sì, e poi la facciamo ballare davanti a tutti, così lo vedrà cosa vuol dire essere guardata davvero come un misero pezzo di carne!”
Quelle parole riecheggiarono nella testa della giovane donna, che non riuscì più a controllarsi.
-Farò aprire un’indagine!-
-Fai pure, ma non credo che ti servirà a molto. Non hai alcun tipo di prova. E poi pasticcino, se so organizzare uno scherzo come quello vuol dire che qualcuno che gioca dalla mia parte in questo lurido buco c’è, e ti assicuro che non ti piacerebbe avere problemi al lavoro. I dissidi con i colleghi sono davvero scoccianti, figuriamoci poi quando uno sa bloccare ascensori e maneggiare coltelli.-
-Che senso avrebbe uccidermi? Cosa ti ho fatto?-
Il Joker sorrise, si alzò e guardò negli occhi azzurri di lei:-Dolce Harleen, è proprio perché mi piaci che voglio farti scoprire come suona l’Inferno!-
Harleen si sollevò, facendo cadere con un rumore assordante la sua sedia di plastica sul pavimento liscio. Le gambe tremavano. Si girò, camminando verso l’uscita.
-Aspetta, dottoressa! Non vuoi sapere come me le sono fatte queste cicatrici?- mentre la porta sbatteva, la risata del clown si fissava nella mente della donna.
Harleen si mosse, camminò, corse fino allo studio del dottor Arkham. Vietò al paziente l’ora d’aria, i contatti con gli altri detenuti, impose che non gli venissero dati i cosmetici che tanto chiedeva. Doveva pagare. La vendetta non era professionale, ma lei era un essere umano. E lui no.
 
Il telefono lampeggiava nella borsa. Tre messaggi da Clare, una chiamata persa. Forse voleva solo chiarimenti, ma Harleen non se la sentiva di parlare con nessuno. In quel momento aveva soltanto bisogno di essere abbracciata, protetta; sentiva il bisogno di nascondersi fra le braccia del suo fidanzato. Ma quale? John non c’era più: “non erano fatti per stare insieme” diceva lei, “Harleen era troppo stressata” sicuramente spiegava lui, “non era alla tua altezza” le mentivano gli amici. La verità è che Harleen non era fatta per stare con nessuno. Tutte le sue relazioni erano state un fallimento. Ogni volta che lei riusciva a fidarsi davvero, ogni volta che si apriva rivelando la sua insicurezza e i suoi sentimenti finiva per allontanare gli altri. harleen lasciò che la ventola dell’auto le facesse tornare la sensibilità ai piedi, mentre il motore si scaldava borbottando. Chiuse gli occhi, e quelle braccia di cui tanto sentiva il bisogno cominciarono a formarsi intorno all’immagine del proprio corpo. Ma poi, con un agghiacciante sorriso, su un collo pallido e magro si reggeva quella testa, di quel pazzo terribile. La bionda aprì gli occhi sussultando. Il piede schiacciò con foga l’accelleratore.
Il suo appartamento era caldo, profumava di casa. Harleen si tolse la giacca, la sciarpa, le scarpe. Per un attimo intravide il suo viso stanco e sciupato nello specchio, e ne ebbe ribrezzo. Davanti alla porta della cucina vide un biglietto. Era un piccolo cartoncino bianco, delle dimensioni di un biscotto. A caratteri eleganti, una sola lettera: “J.”
Harleen non ci badò troppo. Poteva essere qualunque cosa, una strana pubblicità caduta da un giornale, o una sorta di appunto che si era dimenticata di aver preso. Quando aprì la porta della cucina un odore acre la fece retrocedere. Accese la luce, e guardò dentro: sul tavolo c’era un’immensa cesta di rose. Potevano benissimo essere cento, così rosse e lucenti.1 Quell’odore persisteva nell’aria. Harleen non capiva chi poteva essere stato. Non era il suo compleanno, ma era quasi arrivato il 14 di febbraio. Forse suo padre aveva pensato di farle una sorpresa e portarle in anticipo le rose che le regalava sempre ogni San Valentino. Quell’odore intenso ammorbava l’aria. Harleen si avvicinò al tavolo. Quelle rose erano così rosse e lucenti che sembravano finte. Sfiorò un bocciolo, e uno strano liquido appiccicoso le rimase sulle dita. Harleen arretrò accasciandosi alla parete.
Tutto era chiaro, il biglietto, l’odore e le rose. Quel rosso che poteva sembrare finto, quelle dita sporche, quel bocciolo che dove era stato toccato ora sembrava aver perso colore. Quelle rose non erano rosse:
era soltanto sangue.
 
 
1= riferimento alla scena del fumetto “mad love”, dove apparve per la prima volta Harley Quinn.
  
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