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Autore: simocarre83    24/11/2016    2 recensioni
Può una telefonata cambiare la vita di una persona? Dipende dalla telefonata. Il problema è che spesso non sappiamo quale sarà quella telefonata. Potessimo saperlo, la registreremmo per ricordarcela, o non risponderemmo neanche. Ma non lo sappiamo. E quando ce ne accorgiamo è troppo tardi e possiamo solo sperare che la vita cambi. In meglio.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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ANGELO
Sabato 21 Giugno 2000. Non dimenticherò mai quella data. Fu l’inizio, spiacevole e spaventoso, della settimana più importante, dolorosa, emozionante ed avventurosa della mia vita.
Eravamo d’accordo che saremmo andati al mare alle dieci. Ma a causa di quello che era accaduto la sera prima, e volendo a tutti i costi conoscere i particolari delle ragioni che mi avevano spinto ad uscire di testa, alle 8 Michele si era alzato e aveva accolto i miei amici in casa mia. Io, per la prima volta mi svegliai dieci ore dopo essermi addormentato e feci appena in tempo per sentire l’aroma invitante del caffè che inondava la casa. Mi alzai. Il mal di testa mi era passato. Non sentivo più lo stordimento ed effettivamente, grazie a quel colpo, ero finalmente riuscito a riposarmi per bene.
La colazione era pronta e, il tempo di sciacquarmi un attimo la faccia, quando uscii erano già tutti pronti a sentire la mia spiegazione. E a questo punto loro non potevano proprio sapere nulla, perché una cosa del genere non l’avevo mai raccontata. A nessuno. Neanche ai miei migliori amici, presenti, peraltro, proprio in quella stanza in quel momento. Fu Giuseppe ad esordire.
“Scusaci per ieri! È che ci hai spaventato. Sia per quello che avresti potuto fare a noi in quel momento, sia per quello che avresti potuto subire da Angelo” disse.
Lo guardai storto; guardai storto anche Emanuele che immediatamente abbassò lo sguardo. Poi mi calmai definitivamente, anche per quello che mi avevano fatto.
“Sono io a dovervi chiedere scusa” dissi “per quello che ho fatto ieri. State tranquilli che se mi aveste lasciato andare non avrei fatto nulla di male, a nessuno di voi, sempre che sia in grado di farlo. E vi devo ringraziare, perché se mi aveste lasciato andare, probabilmente a quest’ora non saremmo qui a parlarne serenamente e tranquillamente, ma avrei subito lo stesso trattamento già riservato a Michele, se non di peggio. Quindi vi devo ringraziare per avermi impedito di fare quella cosa”.
L’atmosfera si rilassò definitivamente. Ma nessuno aveva voglia di sorridere e di chiacchierare amabilmente. Io non avevo neanche voglia di parlare, ma sapevo che era essenziale farlo. Troppi segreti erano rimasti tali in quella storia. Dovevo parlare. E dovevo farlo subito. Quando avevamo aspettato a farlo, io o gli altri, avevamo messo inutilmente in pericolo tutti. Mi costrinsi, e incominciai.
“Si! Come potete ben immaginare, e come avevamo indubbiamente già capito da un paio di giorni, conosco Angelo. E no! Non si chiama Angelo. Si chiama Marco. È incredibile come solo ora mi rendo conto che tutti i particolari dei quali siamo venuti a conoscenza mi avevano, in qualche modo, già condotto da quella parte. Solo che non potevo immaginare che quella fosse la verità. Pensate, la prima volta, l’anno scorso, che mi avete parlato di Cosimo e dei Tre Fratelli, istintivamente, gli ho dato un volto. Quello di Marco. È vero anche quello che ci ha raccontato Michele: ha veramente un anno più di noi, quindi tre anni più di Giuseppe”
Stavo procedendo per strade tortuose e assolutamente inedite per me. Raccontare una cosa del genere, una cosa che, in pratica, neanche io ricordavo così bene, era difficile e doloroso per me. Sarebbe stato doloroso anche per loro ascoltarmi, soprattutto per uno. Guardando Michele mi venne in mente una precisazione necessaria.
“Vi prometto che qualsiasi cosa vi stia per dire, è assolutamente vera e non fa riferimento a voi o a cose che abbiamo già chiarito; ma vi sembrerà incredibile vedere quanto la mia e la nostra storia possano assomigliarsi” dissi, non ancora pienamente compreso dai miei amici, anche se un lampo negli occhi di Michele mi fece capire che aver ritrovato quell’amico era stato un gran bel colpo.
“Avevo iniziato la prima media, e nel farlo, avevo lasciato tutti i miei compagni di classe. Quindi dei nuovi compagni non conoscevo nessuno. Il primo giorno entrai in classe e mi sedetti nel primo posto disponibile, vicino ad un altro ragazzino che aveva ripetuto la prima media. Era un ragazzino come tanti altri. Un po’ introverso e timido, ma simpatico, socievole, insomma, si stava bene con lui. Si chiamava Marco. Col tempo facemmo un po’ più conoscenza e, ad esempio, venni a sapere che le sue origini erano molto simili alle mie, essendo la madre di Milano e il padre di Stigliano. Verso novembre incontrai durante l’intervallo degli altri studenti, di terza, che incominciarono a prendermi in giro. Finché, un giorno, si presentarono mentre stavo chiacchierando con Marco. Incredibilmente, nonostante la differenza di età, Marco riuscì a difendermi. Da quel momento in poi divenimmo inseparabili. Studiavamo insieme, i miei nonni ancora se lo ricordano, quando lo invitavo a pranzo a casa, uscito da scuola e passavamo il pomeriggio a studiare. Marco non aveva più i genitori e viveva con una zia. Ogni tanto mi invitava anche lui a mangiare. Insomma stava nascendo una buona amicizia. Finii l’anno a dicembre convinto di aver trovato un amico vero. A Gennaio, però, tornati dalle vacanze, mi accorsi subito che qualcosa era cambiato”.
“Non ho mai saputo cosa potesse essere successo in quelle vacanze. Ma appena incominciata la scuola, dopo solo qualche giorno, mentre tornavamo a casa, incominciò a farmi dei ragionamenti strani. Mi confidò di sentirsi a disagio con gli altri compagni di classe. Mi disse che sembrava quasi che noi fossimo, come disse, migliori degli altri. Migliori di tutti. Io ero bravissimo a scuola, lui era più forte degli altri. Mi disse che, secondo lui, meritavamo più rispetto da parte dei nostri compagni. Purtroppo, dopo qualche altro giorno, dalle parole passò ai fatti, esigendo quel rispetto con atti di bullismo nei confronti dei miei compagni di classe. Non so per quale motivo, ma mi lasciò in pace, almeno per un mese. La cosa strana era che con me si comportava sempre in maniera assolutamente rispettosa, tranquilla e simpatica”.
“Poi, però, un giorno, verso i primi di marzo, sulla strada di casa, incontrammo quei ragazzini che mi avevano insultato l’autunno prima, quando mi aveva difeso. Avvicinandosi, iniziarono a prendere in giro entrambi. Marco si lanciò su quei ragazzi e fecero a botte. Le prese. A quel punto cercai di separarli, ma mi presi anche io un pugno e piegato a terra dal dolore mi misi a piangere. Per tutta risposta, appena gli altri ragazzini se ne furono andati, Marco prima mi rinfacciò di non averlo difeso, poi mi diede del codardo e del debole per non essere riuscito a picchiarli. Quella stessa domenica, verso le undici mi chiamò e mi disse che doveva parlarmi. Io, anche se con riluttanza, visto quello che mi aveva detto, accettai. Quando ci vedemmo, prima di tutto mi chiese scusa per come si era comportato con me. Poi mi chiese se potevamo rimanere amici. Io accettai, quasi felice per averlo visto cambiare. Poi mi chiese se considerassi importante la sua amicizia, e gli risposi affermativamente. Mi disse che era disposto a fare qualsiasi cosa per me. Ne fui felice. Poi, però, mi disse che anche io dovevo essere disposto a fare qualsiasi cosa per lui. E qui qualcosa che non andava iniziò ad esserci. Gli chiesi di parlare chiaro e lo fece”.
“Ritirò fuori il modo in cui mi aveva difeso e mi disse che sarebbe stato disponibile a difendermi in quel modo sempre e comunque. Però dovevo dimostrargli di essere all’altezza di ricevere la sua protezione. Feci buon viso a cattivo gioco e gli chiesi in che cosa consistesse quell’‘essere all’altezza’. E lui mi rispose. Mi disse che dovevo dimostrargli assoluta ubbidienza. Facendo qualsiasi cosa lui mi chiedeva. In particolare, mi disse che la mia ubbidienza sarebbe stata messa alla prova quanto prima. E che se non avessi ubbidito, avrebbe fatto in modo di farmi passare le stesse cose che faceva ai nostri compagni. Come rubarmi i soldi, umiliarmi davanti agli altri, eccetera. E senza lasciarmi neanche parlare se ne andò”.
“Passò qualche giorno come se tutto fosse tornato alla normalità. Poi, una mattina, a scuola, mi chiese definitivamente quello che avevo scelto. Io ovviamente gli risposi che non trovavo giusto quello che mi aveva chiesto e che non sarei mai stato disposto a scendere a quel livello con lui. E con chiunque altro. Lui sembrò incassare il colpo e se ne andò. Dopo un paio di giorni incominciò con gli atti di bullismo anche nei miei confronti. Mi scomparve per almeno due volte il portafoglio, che ritrovai sul mio banco, senza una lira. Fu lui il primo a chiamarmi ‘lecchino’ e, probabilmente con la forza, costrinse tutta la classe a farlo. Fece anche altre cose che però preferisco non dirvi, perché sono cose umilianti e non aggiungono molto alla storia. Fatto sta che, in più di un’occasione, sottovoce, mi disse che facevo meglio a schierarmi dalla sua parte giurandogli ubbidienza che continuare a subire, e che le cose sarebbero peggiorate. Io cercai sempre di non reagire e lasciar passare. Per più di un mese fui l’obiettivo di continue prese in giro e soprusi. Tornare a casa reprimendo le lacrime non era una cosa che mi veniva bene, e questo, da una parte fece preoccupare i miei nonni e mio padre, dall’altra mi attirò ancora di più le prese in giro di altri compagni, compresi quelli di terza che ripresero a maltrattarmi.  Arrivai addirittura al punto di implorare Marco di lasciarmi in pace, senza però nessun successo. Verso la fine di Maggio, poi, cambiò qualcosa. Iniziai a pensare che qualsiasi cosa mi avesse chiesto di fare, non sarebbe stata comunque peggio di quello che mi stava facendo subire. Decisi quindi di dirgli che ero disponibile a fare qualsiasi cosa mi chiedeva. Qualche giorno dopo mi disse che l’ora della verità era venuta e che il giorno dopo sarebbe stata messa alla prova la mia ubbidienza”.
Dallo sguardo che avevano gli altri miei amici compresi che pendevano completamente dalle mie labbra. Ancora una volta mi chiesi se fosse veramente necessario continuare quel racconto. Ma tutto quello che era successo, tutto quello che avevo sofferto in passato e tutto quello che avevamo vissuto nell’ultimo anno, erano cose che, evidentemente, avevano un legame. Erano collegate, e nasconderle ai miei amici era ormai impossibile. E poi stavo sentendo l’effetto curativo dello sfogo. E questo mi faceva stare molto meglio. Erano cose personali, che non avevo voglia di raccontargli. Avevo già saltato il racconto di certe cose, che potevo tranquillamente tralasciare, ma sapevo quanto sarebbe stato importante, per tutti noi, comprendere chiaramente che tipo di persona era Marco. Così, anche se non avevo più niente contro di lui, non potevo risparmiare Michele dalle conseguenze derivanti da sentire la continuazione di quel racconto.
“Il giorno seguente, al termine dell’ora di ginnastica, eravamo negli spogliatoi a cambiarci. Marco mi si avvicinò e mi sussurrò in un orecchio che era giunto il momento di dimostrargli la mia ubbidienza. Con modi di fare a dir poco militari, mi urlò di mettermi sull’attenti. Io pensai che, se si fosse trattato solo di quello, di problemi non ce ne sarebbero stati. Assistendo a quella scena i miei compagni concentrarono tutta la loro attenzione verso noi due, osservando in silenzio quello che seguì. A quel punto Marco si rivolse a loro, dicendogli che io avevo deciso di mostrargli l’ubbidienza che meritava. E che loro avrebbero dovuto imparare da me e seguire il mio esempio, piuttosto che opporsi a qualcosa che comunque sarebbe stato inevitabile. Fu solo lì che, ingenuamente, incominciai a capire che qualcosa non andava. Cosa c’entravano i miei compagni? Aveva forse fatto anche a loro la stessa proposta? E perché loro gli avevano risposto di no? Perché si erano opposti? Forse perché non erano abbastanza amici con lui da accettare una condizione che ancora mi sembrava particolarmente leggera, pensai. Ero ancora fermamente convinto del fatto che quella potesse essere solo una dimostrazione di amicizia da parte mia nei suoi confronti. Niente di più”.
“Marco mi sorrise e quel sorriso non mi piacque per niente. Mi disse che per mantenere quell’amicizia dovevo prima essere disposto a subire l’umiliazione e la vergogna, ordinandomi, immediatamente dopo, di spogliarmi e rimanere completamente nudo”.
Non avrei voluto farlo, ma fu più forte di me. Ed effettivamente, immediatamente dopo aver detto quello, anche Giuseppe fece la stessa cosa. Entrambi guardammo Michele. Che, sentendosi osservato e mai come prima in imbarazzo, abbassò immediatamente lo sguardo. Stava capendo perché era successo quello che era successo l’anno prima, al termine forzato del nostro gioco del nascondino al contrario.
Ma continuai.
“In quel momento si fece il silenzio nello spogliatoio. Tutti mi stavano guardando per vedere la mia reazione. Stupidamente, solo a quel punto capii che, con Marco, l’amicizia non contava. Voleva solo qualcuno da umiliare e maltrattare. E in quel preciso istante capii che uscire da quella situazione si poteva. Ma andava contro alle regole che, man mano che stavo crescendo, mi avevano imposto di osservare. Dapprima provai con le buone e pregai, implorai Marco di non farmi fare una cosa del genere. Ma lui mi urlò contro e mi disse che se volevo continuare a essere suo amico dovevo ubbidirgli e fare quello che mi era stato ordinato. A quel punto, gli dissi semplicemente e fermamente che non avrei mai fatto una cosa simile. Lui mi si avvicinò e mi urlò a pochi centimetri dal viso, di ubbidire. Io ero pietrificato dalla paura. Quando vidi che stava prendendo l’elastico dei pantaloni della tuta per abbassarmeli, feci una cosa che mai avrei immaginato di fare. Strinsi i suoi polsi e lo costrinsi a levare le mani dai miei pantaloni. Lui si liberò bloccandomi la mano sinistra con la sua mano destra. Riuscii a non farmi prendere anche la destra, con cui gli tirai un pugno sul naso. Tra le urla liberatorie generali, Marco mi lasciò andare, cercando di fermare con tutte e due le mani il sangue che a quel punto uscì copiosamente dal suo naso. E corsi via mettendomi a piangere. Effettivamente alzare le mani su qualcuno mi ha sempre fatto quell’effetto”.
Era incredibile come, anche in quel caso, il mio sguardo si era alzato nuovamente e avevo fissato Michele. Che si accorse di questo e capì fino in fondo la mia reazione di due giorni prima. Così continuai con l’ultima parte del racconto.
“Fu solo con l’intervento del professore che superai la crisi. A seguito di quello che raccontammo, io ed i miei compagni, Marco fu sospeso, cosa che probabilmente avrebbe pregiudicato l’anno scolastico. Lui si trasferì con sua zia. Io presi soltanto una nota sul registro. Che mi costò parecchio, visto che per quella nota litigai anche con mio padre. Ma non gli raccontai mai i motivi che mi avevano spinto a farlo. Come non avevo raccontato tutto il resto. L’ultima cosa che mi disse Marco fu che me l’avrebbe fatta pagare. All’inizio della seconda seppi che si era trasferito in un’altra città, ma mai avrei immaginato che fosse proprio questa la città. Tra l’altro, in quel primo anno di scuola media, gli avevo raccontato di Policoro e dei miei amici, quindi, in realtà, gli diedi anche il materiale necessario per iniziare a vendicarsi. Il resto lo conoscete perché me l’avete raccontato voi. Questo è quanto. La volta successiva che lo vidi, indossava un casco integrale ed era venuto qui dietro per consegnare a Giuseppe la lettera che ci ha fatti arrivare fino a questo punto”.
Dallo sguardo terrorizzato dei miei quattro interlocutori, compresi che avevano tutti quanti capito cosa stava succedendo. Che ci eravamo ficcati, senza neanche saperlo, in qualcosa che era grande, molto più grande di noi.
“Adesso capisco cosa intendevi quando l’altra sera ci hai detto che aveva messo in piedi una banda a sua somiglianza. Che vive solo per lui” disse Michele. “Ma vi rendete conto che, in un modo o nell’altro, è stata la stessa cosa che ha fatto Amaraldo con me? Ha sempre puntato sulla mia superiorità rispetto a voi, sulla mia preminenza e sul fatto che voi mi dovevate rispetto. E quando cercavo di superare i momenti brutti con voi cercando di autoconvincermi di quanto fosse necessario parlarvi e risolvere la situazione in maniera pacifica, passava alle minacce ed alle intimidazioni. E tutta quella banda è fatta così” disse Michele con la coscienza a pezzi per quello che lui stesso era arrivato al punto di volermi fare.
Quello che diceva Michele era vero. Peccato che, quando iniziai a rendermi conto che lui si stava proprio comportando così, per me il “problema Marco” si era risolto da due anni e non collegai le due cose. Ma effettivamente aveva fatto usare la stessa tecnica ad Amaraldo con Michele. E con Emanuele. Fu Giuseppe a riportarci al presente ed alla realtà.
“Ma tu, a questo punto, quanto ritieni pericoloso Marco?” chiese.
“Tanto! Tantissimo!” fu la mia risposta. Sincera. Anche perché, salvo per Maria, non avevo veramente più nessun segreto con loro. E anche quello di Maria, non sarebbe potuto rimanere tale ancora per lungo tempo.
“È vero che ha fatto tantissimi errori. Ma è astuto. Molto astuto. Ed incredibilmente determinato a raggiungere i suoi obiettivi. Pensate che negli ultimi cinque anni ha vissuto solo per questo. Ci si è messo a lavorarci con tutto se stesso. Ed è riuscito a fare tutto quello che ha fatto. Stroncare la mia amicizia con Michele, provare a farlo con Emanuele anche se non ha continuato, farci credere di lottare contro Michele, mostrarsi addirittura a noi, per due volte, senza che noi collegassimo le cose. Meriti, noi ne abbiamo avuto solo due: Emanuele l’ha colpito allo stomaco e quindi avete potuto riconoscerlo in spiaggia. E tutti, prima o poi, abbiamo avuto il coraggio di rimanere uniti e comunicare, invece di isolarci e allontanarci. E errori, lui, ne ha compiuti solo due: scendere da Giuseppe con il casco, e far torturare Michele da Amarlado. Se non fosse accaduto, io non avrei avuto quel dubbio e Michele non sarebbe stato qui. Non avremmo scoperto il ruolo fondamentale di Amaraldo e non sapremmo ancora nulla”
“Giusto! Solo che, a questo punto, dopo aver saputo tutte queste cose, che si fa?” chiese Francesco.
“Non lo so! D’altra parte da quando hanno picchiato Michele non si sono fatti né vedere né sentire. Non vorrei che stessero architettando qualcosa”
“E allora perché non andiamo lì e non gli diamo una lezione una volta per tutte? A che ci serve sapere queste cose se non possiamo usarle ancora a nostro vantaggio?” si lamentò Francesco.
Stavolta però fu Giuseppe a intervenire.
“Calma! A noi queste informazioni servono sempre e comunque! Pensa a quello che ti è successo una settimana fa. Se avessi saputo da tuo fratello quello che era accaduto qualche anno fa, ti saresti comportato nello stesso modo? O ti saresti comportato come tuo fratello?”
“Mi sarei comportato come Emanuele! E allora?”
“Vedi che sapere le cose ti fa agire in maniera diversa? La stessa cosa vale con Marco. Se sapere qualcosa di più in tutta questa faccenda ci permettesse di comportarci in maniera diversa e forse non fare qualche brutto errore, sarebbe meglio, o no?”
“Potresti avere ragione” disse Francesco “ma allora perché non andiamo dai carabinieri a denunciarli?”
“Eh! Perché non abbiamo uno straccio di prova che possa collegare Marco a Angelo ai Tre Fratelli” continuò Giuseppe “Mentre se e quando faremo entrare di mezzo le autorità dovrà essere completamente chiara l’appartenenza di ciascuno alla banda dei Tre Fratelli e tutto quello che la banda sta facendo e ha fatto. Ad oggi i carabinieri potrebbero tranquillamente confondere i Tre Fratelli con un circolo letterario!”.
Giuseppe forse stava esagerando, ma era vero che se Marco aveva fatto tutto con l’attenzione che lo aveva caratterizzato negli ultimi giorni, non sarebbe stato difficile smontare le nostre accuse.
Il silenzio da parte di Francesco dimostrò a tutti che aveva capito il senso e a me una volta in più che Giuseppe era stata, anche in quell’occasione, la persona giusta al momento giusto.
Quindi io sapevo bene tutto quello che era successo in questi anni. Sapevo come si era comportato e come aveva agito Marco. Purtroppo, però, non avevo la più pallida idea di quello che dovevamo fare adesso. Cercai in tutti i modi di ipotizzare che cosa stessero facendo quegli altri. Ma obiettivamente avevo solo 17 anni. Non ci si poteva aspettare da me più di quello che ero riuscito a fare per mantenere quel gruppo e la quasi sua completa incolumità. Figuriamoci di più.  Cosa potevo fare di più? Soprattutto, cosa potevo fare adesso? Sapevo che anche gli altri non avevano altre idee. Però era anche vero che non potevo rimanere così. Ero certo che avrebbero fatto qualcosa. Più che altro ero sicuro del fatto che le azioni nei nostri confronti non si sarebbero limitate alle torture inferte a Michele. E, come quando sei a scuola e la soluzione ad un problema arriva esattamente quando meno te lo aspetti, esattamente dalla persona più improbabile di tutte, nel nostro caso, quella verità arrivò dal più piccolo del gruppo. Anche se non propriamente interpretato da tutti.
“Se io fossi Marco, a questo punto cercherei di fare qualcosa prima possibile. Giuseppe è quasi riuscito a smascherarmi. Farei qualcosa per punire lui. O perlomeno per metterlo fuori gioco”
“Ma grazie! Ma bravo! E perché dovrebbero colpire proprio me?” fu la reazione del ragazzo. Lo stress doveva essere parecchio alto, perché Giuseppe si alzò e si avvicinò con aria di sfida a Francesco. Lo stesso fece lui. Emanuele e Michele cercarono di bloccarli. Ma non ci riuscirono. Solo ad un certo punto, io mi presi una libertà sostanziale nei confronti di Francesco e presi la sua fionda. Emanuele, vedendo quello che stavo facendo, mi imitò. Ciascuno dei due si prese una scatoletta sul sedere con la fionda. Si bloccarono subito. La scatoletta che colpì Giuseppe era quella già usata le due volte precedenti. Cadendo a terra si ruppe. Sporcando tutto il pavimento.
“Bene! Ci mancava solo questa! Adesso potete scegliere: o vi chiedete scusa a vicenda immediatamente e pulite questo macello, oppure chiedete scusa un po’ più tardi e pulite da cima a fondo tutta la casa. Conto fino a tre prima di accettare come definitiva la seconda scelta”
I due ragazzi si guardarono in cagnesco, per poi voltarsi verso di me.
“Uno…”
I due continuarono a osservarmi, mentre io non davo segni di cedimento. Altre volte li avevo “costretti” con queste stesse minacce a chiedersi scusa a vicenda, ma spesso mi ero lasciato muovere a pietà.
“Due…”
Evidentemente questa volta non era una di quelle volte. Quello sguardo severo li colpì definitivamente.
“Scusa!” il primo fu Francesco.
“Scusa!” Giuseppe seguì immediatamente dopo.
Entrambi chiesero scusa a me e agli altri due. Io accettai prontamente e con un grande sorriso le scuse. Poi, nel pieno rispetto della coerenza e della considerazione per i sentimenti dei miei due amici più piccoli, gli passai lo straccio e lo spazzolone. Emanuele e Michele li osservarono divertiti.
“No! Simone! Non puoi costringerci a fare questo!” dissero entrambi sorridendo ma non molto convinti.
“Gli accordi erano questi! Avanti!” dissi seriamente.
“Beh! Però tu non puoi ordinarci a farlo!”
“Ordinarvi no! Ma sapete che su tutto vince il voto del gruppo e se chiedo il voto, finisce due contro tre! Scommettiamo?!”
Gli altri due, super divertiti, si misero a fare il tifo e urlare “Lavate! Lavate!”
Francesco e Giuseppe si guardarono. Presero lo spazzolone, il secchio e lo straccio e lavarono per terra.
Noi altri assistemmo divertiti.
“E la prossima volta che vi comportate così vi faccio pulire tutta la casa, così anche io riesco a godermi queste vacanze” dissi, ridendo.
Quella conversazione finì così. Erano 5 giorni che ero arrivato a Policoro. A parte pensare a cosa di brutto stessero facendo gli altri per farmela pagare, non avevo pensato a molto. Avevo voglia di divertirmi. Era sabato. Sopra ogni altra cosa un pensiero mi stava assillando da qualche giorno: sapevo che tutto doveva finire il più presto possibile. Lei stava per arrivare, anzi, guardando l’orologio mi accorsi del fatto che, più o meno a quell’ora, lei era già arrivata. E avevo talmente tanta voglia di starci insieme che quella situazione doveva risolversi subito. Con o senza un’azione da parte di Marco.
Peccato che, ingenuamente, tutti smettemmo di pensare all’idea di Francesco e la cancellammo dalla nostra mente, man mano che quei due cancellavano dal pavimento le tracce di tonno.

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NdA: Avevo voglia di postarlo, e l'ho fatto... ad ogni modo, finora la fine peggiore l'ha fatta la scatoletta di tonno. Ma, ovviamente, non è ancora finita...
Come sempre grazie per le vostre idee, i vostri pensieri, le vostre considerazioni, che mi danno la possibilità di capire se vi sta piacendo questo racconto oppure no.
Alla prossima (questa volta penso proprio lunedì)!! :)
  
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