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Autore: Emmastory    25/11/2016    4 recensioni
Un mese è passato, e la povera Rain si scopre sola dopo la partenza per il pericoloso regno di Aveiron da parte del suo amato Stefan, che l'ha lasciata in compagnia della loro piccola Terra, di una promessa, e di una richiesta. Conservare l'anello che li ha uniti, così come i sentimenti che li legano. Nuove sfide si prospettano ardue all'orizzonte, e armandosi di tenacia e forza d'animo, i nostri eroi agiranno finchè un'ombra di forza aleggerà in loro. (Seguito di: Le cronache di Aveiron: Oscure minacce.)
Genere: Avventura, Azione, Dark | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Shoujo-ai
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Le cronache di Aveiron'
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Le-cronache-di-Aveiron-IV-mod
 
 
Capitolo XXVII

Catene spezzate

Eravamo ancora lì, in quel luogo così oscuro e tetro, impegnati a salire un numero imprecisato e quasi indefinibile numero di scalini. Seppur stanca, vi zampettavo con agilità, e non avevo alcuna intenzione di fermarmi, ben sapendo che ogni passo mi avrebbe avvicinata alla mia meta. Faticando a respirare, Terra mi arrancava accanto, ma era con me, e nonostante il suo spavento iniziale, tutto stava andando bene. Stefan le teneva la mano, ed io avevo fiducia. Quasi per istinto, guardai il pavimento, notando che quella lunghissima rampa di scale aveva ormai raggiunto la sua fine. Stanchissima, mi fermai per recuperare il fiato e le forze ormai perse, e mentre ero nell’atto di farlo, mi guardai attentamente intorno. Ci trovavamo in un lunghissimo e deserto corridoio, e il silenzio ci rendeva tutti sordi e nervosi. In preda a tale sensazione, mi convinsi che quella trafelata corsa non era servita a nulla. In quel momento, mi morsi la lingua al solo fine di evitare d’imprecare, e fu allora, che avvicinandomi ad una delle porte di quel corridoio, lo sentii. Un suono basso e soffocato, che al mio fine udito giungeva come un pianto. Rimanendo lì ferma ad ascoltare, diedi modo a mille ricordi di affollarmi la mente, e appena un attimo dopo, presi la mia decisione. Più pronta e decisa che mai, afferrai la maniglia di quella lignea e salda porta, scoprendola sfortunatamente chiusa. Data la situazione, non c’era tempo di ricorrere alle buone maniere, così scelsi di agire. Indietreggiando leggermente, avvisai anche gli altri. “State indietro, li ammonii, guardandoli con aria seria. Limitandosi ad annuire, i miei amici obbedirono, e solo allora, mi scagliai contro quella porta, riuscendo finalmente ad aprirla e arrivando quasi a sfondarla. Il mio gruppo riprese a seguirmi, e insieme varcammo quella soglia, scoprendo, in quella piccola e sporca stanza, illuminata solo da una polverosa lampadina occupata a oscillare proprio sopra le nostre teste, la presenza di tre ragazze. Tremavano di freddo, o forse di paura, ma a giudicare dall’espressione dipinta sui loro volti, avevano un disperato bisogno di aiuto. Camminando lentamente, Stefan si avvicinò a loro con le mani in alto, quasi a voler far loro capire di non essere pericoloso. Unendomi a lui, mossi qualche passo nella loro direzione, e fu allora che le rividi. Proprio lì, in quella stanza, rannicchiate e impaurite, c’erano Rachel e Samira. I loro vestiti ridotti a degli stracci, e i loro poveri corpi tremavano, ma le avevo riconosciute, e tentando di infondere in loro anche una sola stilla di sicurezza, sorrisi. Per pura sfortuna, il mio espediente parve non funzionare, poiché la stessa Samira si ritrasse. “Stammi lontano! Chi mi assicura che tu non sia come loro?” gridò, spaventata come una povera bestia cosciente del suo destino di preda. In quel momento, mi sentii mancare. Mi era incredibile, eppure la mia migliore amica non sapeva chi fossi. “Samira, cosa ti hanno fatto?” le chiesi fra le lacrime, che in quel frangente non tentai neanche di nascondere. “Come… come sai il mio nome?” azzardò lei, confusa e stranita. “Non ricordi? Noi due siamo amiche.” Risposi continuando a piangere ma riuscendo stavolta a ritrovare la mia compostezza. “Tu sei pazza! Io non ti credo, e non ti conosco! Fu la sua risposta, che raggiunse le mie orecchie ferendole gravemente. La stessa sorte toccò poi alla mia anima, che in quei momenti, parve andare in pezzi frantumandosi come vetro. Soffrendo in silenzio, piansi di fronte a lei, e tentando di aiutarla a rimettere insieme i suoi ora offuscati ricordi, frugai per alcuni attimi nella tasca della giacca che portavo, estraendone due oggetti che conservavo da lungo tempo. Ero certa che per lei avessero un significato profondo, e speravo ardentemente che vederli l’aiutasse a ricordare. “Dici di non conoscermi, ma se fosse così, come farei ad avere questi?” le dissi, rivolgendole tale domanda e mostrandole quei due oggetti, ovvero la stoffa del suo vestito e il bracciale che aveva perso in un giorno tanto nefasto quanto speciale. Muovendo la mano, glieli porsi, ed esaminandoli con la punta delle dita, quasi come se fosse cieca, lei li guardò a lungo, e solo allora, accadde il miracolo. Anche se a fatica, la mia amica si rialzò da terra, e camminandomi incontro, mi abbracciò forte. Nel farlo, mi chiamò per nome, e vedendola scoppiare in lacrime, la confortai. “Mi sei mancata.” Disse poi, ancora abbracciata a me e con il volto rigato di lacrime. “Anche tu, e non solo a me.” Risposi, scivolando poi nel silenzio e vedendola iniziare a brancolare nel buio dei suoi stessi dubbi. “Aspetta, cosa vuol dire?” chiese, apparendo ai miei occhi ancor più confusa di prima. “Lascerò che sia qualcun altro a spiegartelo. Dissi semplicemente, indietreggiando e facendo segno ad una persona ben più importante di avanzare. In quel preciso istante, i loro sguardi si incrociarono, e lei, ormai preda della gioia più grande e pura, chiamò il suo nome. “Soren!” gridò, gettandosi fra le sue braccia e considerandole come sempre un porto sicuro. Mantenendo il silenzio, lui la baciò, e accarezzandole i capelli, lasciò che si sfogasse. Non sapevamo cosa le fosse successo, né cosa avesse passato in tutto quel tempo, ma soltanto guardandola, notai i segni sulle sue guance, solchi lasciatile da troppo dolore e troppe lacrime versate. Aveva sofferto, ma ora era felice, e la luce nei suoi occhi ne era testimone. Silenziosa, la osservai sorridere in compagnia del suo amato Soren, e solo allora, la felicità ebbe la meglio su di me. Sorrisi leggermente, e volgendo poi il mio sguardo altrove, andai alla ricerca di Rachel. La scoprii seduta sul lercio pavimento della stanza, chiusa a riccio e quasi incapace di muoversi. Avvicinandomi con lentezza, la sentii pronunciare frasi sconnesse, e apparentemente prive di senso. “Rachel?” la chiamai, dubbiosa. Rispondendo a quella sorta di richiamo, mi guardò negli occhi, ma non disse una parola. “Sono io, Rain.” Le dissi, sperando segretamente che riuscisse a riconoscermi. Sfortunatamente, il suo mutismo si protrasse, venendo spezzato da una singola frase. “Non posso muovermi. Nessuna di noi può muoversi.” Sempre uguale, veniva pronunciata come un vedico mantra, e abbassandomi al suo livello, la guardai ancora. “Che stai dicendo?” le chiesi, scuotendola leggermente e avendo la ferma e precisa intenzione di liberarla da quella sorta di orribile trance. “La verità. Non possiamo muoverci, perché noi apparteniamo a Loro.” Rispose, con una calma e una serenità incredibili. “Cosa? Rachel, questo non è vero!” finii per gridare, alterandomi di colpo e sentendo la gola dolere a causa dello sforzo. “Sì che è vero. Noi apparteniamo a Loro, giusto?” ripetè, concludendo quella frase con una domanda e voltandosi verso la ragazza immobile al suo fianco. Muta come un pesce, questa non proferì parola, ma voltandosi, si limitò ad annuire, apparendo anche lei persa in quella sorta di ipnosi. Anche stavolta, ero attonita. Nulla di tutto questo mi appariva possibile, eppure era così. Quei maledetti l’avevano rapita e sottratta a colei che l’amava, e dopo averla imprigionata, l’avevano ridotta in quello stato. Un involucro vuoto, privo di ragione, di sentimenti o perfino di un’anima. Era orribile, ma ora lei non era che questo. “Rachel, ti prego, devi svegliarti. Ascoltami, tu non sei così, e non appartieni a Loro!” le dissi, urlando disperata e posandole entrambe le mani sulle spalle. Immobile e muta, non fece che guardarmi, e il suo stato, pietoso e catatonico, non mutò di una virgola. Notando i miei sforzi e la mia sofferenza, Stefan decise di aiutarmi, e facendo il suo ingresso sulla scena, mise in pratica lo stesso espediente utilizzato con Samira. Estraendolo dal mio zaino, prese in mano ciò che rimaneva della sua collana, e avvicinandosi, si accovacciò, e con estrema calma, glielo porse. “Cos’è questo? Te lo ricordi?” le chiese, facendo di nuovo appello a quanto appreso rubando il mestiere del padre con gli occhi. Stringendo il pugno, Rachel chiuse gli occhi, e rimase in silenzio. Per tutti noi, l’attesa fu snervante, ma finalmente, dopo un tempo che ci apparve infinito e indefinibile, lei aprì la bocca, e anche se titubando, si decise a parlare. “Lady… Lady Fatima.” Biascicò, riuscendo in quell’istante a ricordare i momenti precedenti al suo ignobile rapimento. Quasi istintivamente, le tesi una mano, e aiutandola a rialzarsi, decisi di parlarle. “Vieni, puoi tornare da lei ora.” Le dissi, offrendole in quel modo una possibilità di fuggire da quell’orrore e tornare a ricongiungersi con chi davvero l’amava. Seppur con riluttanza, lei accettò l’offerta, e nel momento in cui le nostre dita s’intrecciarono, sentii un enorme peso abbandonarmi il cuore. La nostra missione era ormai giunta al termine, e l’unica cosa ancora da fare era fuggire senza essere visti. La nostra presenza in quel luogo era malvista, ragion per cui non fu un’impresa facile, ma una volta fuori, tutti potemmo respirare profondamente, permettendo all’aria e alla speranza di riempirci l’anima e il corpo. La prigionia delle mie care amiche erano giunta al termine, le metaforiche catene ai loro polsi erano state spezzate, e grazie al nostro intervento, ora erano salve.“È fatta.” Pensai, non appena i miei piedi calpestarono il selciato.
   
 
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