8° Capitolo
La mattina successiva, quando le iridi
d’ambrosia si aprirono al nuovo giorno, incontrò il letto sfatto e vuoto; non
vi trovò nemmeno il calore restante. Si chiese da quanto tempo fosse andato
via.
Passarono due giorni prima che poté
adocchiarlo, sabato e domenica, ed un altro ancora per condividere le stesse
mura.
«Sei tornato» disse Erica con una nota onirica,
sul penultimo gradino che conduceva agli spalti prediletti dal figlio dello
sceriffo.
Stiles sollevò la testa dal libro di economica
su cui stava scribacchiando, aggiungendo annotazioni varie e bigliettini
colorati ed adesivi che ampliassero l’argomento, attaccandoli meticolosamente
nei posti corretti. «La routine mi reclamava» enfatizzò con un sorriso
affabile.
Erica lo guardò di traverso, inclinando appena
il capo e scrutandolo attentamente, era sicuro che potesse sentire ciò che
l’animava dentro. «Non ho avuto occasione di farlo, ma ti ringrazio per quello
che hai fatto per Derek».
Un brivido gli attraversò tutta la colonna
vertebrale e le immagini di quei tre giorni l’assalirono immediatamente,
insieme alla conferma di ciò che lei era ed erano forse anche tutti gli altri
che giravano intorno a Derek proprio come un branco. «Non ho fatto nulla».
«Hai fatto molto, più di quanto credi»
rettificò la bionda, certa e fiera delle sue parole. «Noi… non avevamo capito
in che condizioni fosse» appariva quasi rammaricata e combattuta, con una nota
speziata di risentimento verso se stessa.
«Sta bene» disse soltanto il sedicenne,
scacciando le brutte emozioni che la ragazza stava provando, prendendosela con
la sua stessa persona. «È un lupetto acido sorprendente».
Fu immediato, i loro occhi che si posarono
sulla figura che adempiva ai suoi allenamenti programmati, senza saltarne uno e
continuando ad essere d’ispirazione per la sua squadra; era tutto nella norma.
«Ai suoi occhi qualcun altro è sorprendente» Erica non si astenne dallo
spostare l’attenzione su di lui.
Stiles la percepì bene quell’attenzione nei
propri riguardi con una sfumatura che gli avrebbe tolto il fiato se non
l’avesse scacciata dalla mente. «La sua àncora funzionerà?» sviò con abilità,
incentrandosi su qualcosa che lo incuriosiva e preoccupava molto.
La lupa sgranò gli occhi e le pupille si
dilatarono coprendo quasi a metà le iridi castane. «Sai anche di quello?» che cos’altro sai? Quanto conosci?
Stiles riusciva a sentirle.
«Non dubito di Derek ed ho piena fiducia in
lui» così tanta da rimanere tutta la notte legato a lui, con la sua forma mezza
incompleta e con gli occhi blu che Derek tanto odiava. «Ma la sua àncora è
abbastanza forte?» l’aveva visto perderla, allentarsi e soffrirne per non
riuscire a prenderla, ad afferrarla, costringendosi a causarsi dolore fisico
per sostituirla e richiamarla. Forse quello che causava maggior dolore al
licantropo era la separazione che si stava creando con essa.
«L’àncora di Derek è tra le più forti
esistenti» dichiarò Erica con una profondità devastante, avvicinandosi di un
passo e concentrandosi su di lui, vedendolo tramutarsi. «Dubiti di questo?».
«Credo sia collegata ad una persona» al ricordo
di Paige? Alla sua persona speciale? «E non so quanto sia funzionale» non era
mai un bene quando un’àncora era legata ad una persona, l’aveva letto tante
volte nei suoi libri, era maledettamente facile che sfuggisse via.
La sorpresa in Erica era molto evidente, senza
che riuscisse a nasconderla e lo guardava per la prima volta con occhi nuovi.
«È vero, è così» confermò senza giri di parole, accostandosi a lui. «Ma è molto
più di questo. È quello che prova per quella persona, insieme al suo desiderio
di proteggerla» proteggerla dal mondo,
dal dolore e da lui stesso, Stiles riusciva a percepire la spiegazione che
continuava nel silenzio perpetuo. «Ma anche se è così forte, rendendola
speciale ed unica, può tentennare se si è in conflitto con se stessi ed aveva
solo bisogno di qualcosa che sanasse quella discordia» la voce soave gli invase
tutto l’apparato uditivo, arrivandogli dritta come una lama nel cervello.
«Aveva bisogno di te».
Le iridi di ambrosia si legarono a quelle della
lupa ed il sospetto crebbe così tanto che faticò notevolmente per cacciarlo
nelle retrovie, per non illudersi e cadere in qualcosa che in realtà non
esisteva.
Si sentì un tonfo più alto del solito, un
passaggio che Boyd stava mancando – e non ne mancava mai uno, creando il duo
perfetto Boyd-Hale – e l’attenzione di entrambi gli spettatori si incollò alle
due figure che si allenavano e all’ostinazione di Derek di non voltarsi,
irrigidendo le ampie spalle.
Boyd mandò un’occhiata di rimprovero alla bionda,
invitandola caldamente a tacere come se avesse parlato troppo e rimandando la
palla al capitano; lei non sembrò scomporsi, ma batté in ritirata. «Solo…»
provò prima di andarsene, indecisa e pensierosa, incidendosi il labbro
inferiore calcato di rossetto rosso. «Averti intorno gli fa bene, spero possa
ancora beneficiarne».
Stiles tamburellò sul libro con la parte
superiore della penna che teneva in mano, ondeggiando ad un ritmo preciso e
sconosciuto, appuntandosi qualcosa ad un angolo della pagina che stava
studiando. «Sa quello che deve fare».
Le pupille nere di Erica serpeggiarono dall’uno
all’altro, cercando chissà quale segreto tra loro che le stavano omettendo e
poi fu colta da un dettaglio che fino a quel momento aveva scartato. «Non hai
paura di noi» era tornato dopo che aveva scoperto la natura di Derek, che aveva
dato per scontato anche quella di chi lo circondava, non si reprimeva né li
evitava ed invece, instaurava delle vere e precise interazioni con loro, mettendo
in campo le nozioni che possedeva sulla licantropia. Manteneva il segreto e si
lasciava circondare dalla loro presenza.
Il figlio dello sceriffo era quasi sicuro di
aver affrontato quell’argomento, di aver già rassicurato chi gli aveva posto un
simile quesito, ma d’altronde si era dedicato solo a Derek su quel fronte.
«No».
La certezza e la sicurezza dell’umano le
alleggerirono il cuore ed una sorta di speranza crebbe esponenzialmente. «Non
potevi essere che tu» disse più a se stessa che al suo interlocutore, curvando
le labbra scarlatte in un sorriso incoraggiante, voltandogli le spalle nello
stesso medesimo momento e scendendo le scale degli spalti, ritornando a
bordocampo.
Stiles non aveva idea di cosa stesse parlando.
Stiles trafficava dentro il suo armadietto
personale, spostando libri da una parte all’altra e vari quaderni pieni fino
all’ultima riga, comprese le copertine dal lato colorato, e buttando gli
oggetti senza importanza dove capitava; non era mai stato tanto disordinato, ma
per quanto cambiasse le loro posizioni, prendendoli in mano ed esaminandoli,
mettendoli di lato e trovandogli nuove ubicazioni, non riusciva a trovare
quello che stava cercando e ci aveva lavorato così tanto il giorno prima –
giusto mezz’oretta scarsa con interruzioni varie e distrazioni annesse, ma a
Stiles bastava eccome ‒ e non poteva proprio inimicarsi troppo il
professore di economia, nonché coach della squadra di lacrosse, perché ne
avrebbe risentito durante gli allenamenti, in qualche modo; aveva abbastanza
pensieri per la mente e gatte da pelare per tenere testa anche a lui.
«Sei proprio un disastro ambulante» disse una
voce con vile sarcasmo, irrompendo nella sua ricerca e distraendolo così tanto,
prendendolo alla sprovvista, da tentare con scarso successo di non far cascare
tutto quello che teneva in bilico dentro il suo armadietto; alla fine perfino
il suo zaino messo precariamente su una spalla raggiunse il pavimento
dell’istituto scolastico e ricevette un’occhiata che confermasse quanto detto
prima.
«Smettila di attentare alla mia vita, Derek!»
esclamò piccato e con risentimento, afferrando tutto quello che era riuscito a
bloccare con la caduta della cartella, infilando tutto alla meno peggio dentro
l’armadietto.
Derek se la rise sotto i baffi, compiaciuto e
fiero di se stesso, allungandogli un libro a cui Stiles non aveva nemmeno
rifilato uno sguardo. «Se proprio devi studiare in palestra, non disseminarla
delle tue cose».
Stiles lo guardò senza capire, abbassando gli
occhi verso il tomo che gli veniva offerto e che la sua mente registrò
immediatamente, riconoscendo l’oggetto della sua faticosa e lacera ricerca.
«Sono salvo» proferì con sollievo, accettando il libro di economia che gli
veniva riconsegnato e guardandolo ancora con incredulità.
«Il tuo posto fisso come scaldapanchina
è assicurato» lo derise con sopraffino divertimento, quello nascosto sotto la
sua facciata impassibile e che concedeva a pochi eletti; ergo Stiles Stilinski.
Il figlio dello sceriffo gli rifilò un’occhiata
torva e poco amichevole, aprendo il volume e facendo scorrere le pagine sotto
le dita, prendendo quella da cui aveva studiato il pomeriggio prima durante gli
allenamenti di basket e ritrovandola esattamente come l’aveva lasciata, con le
sue annotazioni ed i foglietti colorati incollati con gli ulteriori
approfondimenti. Era un lavoro minuzioso e prezioso, com’era tutto quello che
faceva. «Quindi dov’era, tra gli spalti?».
«Sì» confermò il lupo mannaro, poggiando appena
una spalla all’anta di metallo che confinava con quella di Stiles. «Non è la
prima volta, dovresti fare più attenzione alle tue cose».
Mh, era vero, nell’anno precedente ed in quello
attuale spesso dimenticava le cose in palestra, esattamente nel posto nel quale
aveva studiato durante le ore in cui si radunava la squadra di basket, ma
solitamente era Erica a riportarglieli indietro, quella svolta aveva
dell’incredibile e gli metteva una nuova pulce nell’orecchio. «Erica tende a
distrarmi» si giustificò, come se quello contenesse tutte le spiegazioni del
mondo e fosse legittimo che accadesse.
«Ho una vaga idea di quanto ti distragga» lo
fulminò sul posto il licantropo, con una sfumatura pressante ed allusiva.
L’umano arrossì senza controllo, ben
consapevole che quel pomeriggio lui ed Erica si fossero concentrati
esclusivamente sulla persona del playmaker, dando vita a parole e fatti che
dovevano rimanere secretati ed aveva il vago sentore che il suo attuale
interlocutore li avesse ascoltati. «Scusa».
Derek si accigliò, guardandolo con fare
interrogativo. «Perché ti stai scusando?».
Il sedicenne spostò lo sguardo da lui al suo
libro di economia, stringendoselo di riflesso al petto. «Abbiamo parlato di
te».
«Quindi?» incalzò il capitano, innalzando un
sopracciglio con eloquenza.
«Forse abbiamo parlato troppo e sono emerse
cose che magari non volevi emergessero» annunciò in una cavalcata di parole
agitate, una sopra l’altra, facendo nascere nuovo scompiglio dentro di sé.
«Non sono responsabile di ciò che dice o fa
Erica» rivelò spensierato il lupo, per nulla turbato da quel fiume di parole
accidentate.
Stiles inghiottì un groppo in gola con disagio,
alzando nuovamente le iridi di miele in quelle di giada e trovandole in attesa
di lui; continuava a fare male. «Ha risposto solo a delle mie domande».
«Non mi aspetto che tu non faccia domande,
soprattutto se trovi qualcuno così bendisposto con te» disse con semplicità il
diciottenne, corrispondendo il suo sguardo e conoscitore della sua curiosità.
Forse era vero, d’altronde l’ultima notte di
luna piena, quando Derek aveva accettato di raggiungerlo a casa per affrontarla
insieme, gli aveva dato quasi carta bianca su quel fronte e qualsiasi altro e
lui aveva rimandato ad un futuro prossimo. «Dovrei farlo con te» forse era
disposto a condividere certe realtà con lui, rispondere ad ogni curiosità che
gli veniva alla mente e stemperare la sua sete di sapere, ma non toccava ad
esterni quel compito.
Derek espirò forte nella sua pacatezza, come se
dovesse prendere un profondo respiro per riuscire a gestire ciò che Stiles
rilasciava ai quattro venti. «Lo farai» hai
così tante cose da chiedermi continuò per lui il figlio dello sceriffo,
mentre il mannaro faceva schioccare due dita della mano destra a contatto con
la sua fronte, pizzicandolo e rendendo frivole le sue preoccupazioni,
alleggerendogli l’animo.
Stiles la scostò da sé prima che il braccio
dell’altro ricadesse al suo fianco, bloccandola a mezzaria e stendendo del
tutto le falangi incurvate, dedicando un’attenzione scrutatrice al palmo
aperto, studiandolo meticolosamente e trovandolo perfetto, senza alcuna
cicatrice o ricordo delle notti precedenti, senza alcuna ferita che si era
autoinflitto con i suoi stessi artigli, mettendo ancora una volta in mostra la
verità della sua natura sovrannaturale. «Stai bene?».
Derek lo osservò dall’alto della sua posizione,
mentre l’umano era concentrato a studiare la sua mano, sfiorandogli con la
punta delle dita il palmo steso da lui stesso. «È evidente».
L’umano rialzò le iridi ambrate, tentando di
leggere l’autenticità di quella risposta. «Intendevo in generale».
L’arto si curvò appena intorno a quello di
Stiles, sfiorandogli le falangi ed il sedicenne accarezzò le sue di
conseguenza. «Sì».
Stiles non apparì molto convinto della cosa e
percorse ancora la conca del palmo ricurvo, incontrando solo pelle liscia. «La
tua àncora è la tua persona speciale?».
«Ti piace proprio chiamarla così» realizzò il
mutaforma con una cadenza speziata.
Il figlio dello sceriffo tentò di trattenere il
nuovo imporporare che minacciava di tingere i suoi zigomi. «È un modo per darle
un nome» si giustificò girandoci intorno, imbarazzato più che mai. «Nel caso
dovessimo parlarne per richiamare la tua àncora o qualsiasi altra cosa».
«Ho tutto quello che mi serve» rivelò il lupo
mannaro con una profondità disarmante, bucandogli il timpano e Stiles non
riusciva a capire se si riferisse a qualcosa di astratto o alla concretezza che
stringeva tra le mani e si sentì incredibilmente male quando si accorse di
quanto i loro arti si attirassero rispettivamente.
«Mi dirai se c’è qualcosa che non va?» chiese
l’umano con moderazione, ma con vera preoccupazione e voglia di conoscere.
«Ancora così ostinato a volermi nella tua vita»
non era una domanda, non risuonava come tale, anche se era abilmente camuffata,
ma era qualcosa a cui bisognava dare risposta.
«Scherzi?» esalò Stiles con gli occhi giganti e
le iridi che brillavano di eccitazione e contentezza. «Ho sempre voluto
incontrare un lupo mannaro e adesso ne ho uno di fronte a me, con cui
interagire – più o meno; diciamocelo, Derek, non sei il miglior conversatore
del mondo – e tormentarlo con tutto quello che mi passa per la testa. È tipo il
sogno della mia vita».
Derek roteò gli occhi per niente sorpreso,
investito totalmente dall’entusiasmo del ragazzino iperattivo che non aveva
limiti. «Attento a ciò che desideri».
Stiles lo guardò stralunato, per nulla
intenzionato a lasciarsi scoraggiare dal lupone
accigliato e brontolone che si prendeva gioco di lui con leggerezza ed abilità.
«Sei proprio un sourwolf» dopo tutti i vari vezzeggiativi, Derek meritava un
soprannome che lo identificasse in pieno.
Il lupo gli rifilò un’occhiata giudicante e
Stiles sorrise trionfante, lasciando collidere ed intrecciare le loro dita,
lambendo l’anello che lo richiamava a sé, che continuava a chiamarlo da quando
arbitrariamente si era depositato, incastrandosi perfettamente, sul suo anulare
sinistro e di cui lui persisteva a
cacciare via la sensazione. «Me lo dirai?» ritentò con più parsimonia,
lasciandosi vezzeggiare dalla sua temperatura corporea.
Derek lasciò che le loro falangi si
incontrassero e rispose in egual misura alla sua stretta, senza rivelare niente
di sé. «Ti dirò tutto ciò che vuoi sapere».
E gli anelli gemelli presero a scaldarsi.
Stiles era da solo seduto ad uno degli ultimi
tavoli della mensa, quelli più lontani e riservati, mentre scribacchiava e
riempiva le pagine di un foglio protocollo, con un libro aperto da un lato ed
un altro a facilitargli la scrittura, sbirciando al suo interno di tanto in
tanto e spostandolo a seconda della sua comodità.
Non vi era alcuna traccia dei suoi compagni
d’avventura.
«Sei troppo pigro per metterti in coda?»
domandò con malcelato interesse il capitano della squadra di basket che si era
avvicinato al luogo del delitto con passo silenzioso e felpato, poggiando il
vassoio pieno di leccornie sulla lastra di legno e sedendosi senza chiedere il
permesso.
Il figlio dello sceriffo curvò le labbra
sapientemente, in un ghigno camuffato, continuando la sua stesura senza alzare
il capo. «Devo terminare questo saggio entro la prossima ora» spiegò spicciolo
e con tranquillità, azzardando un’occhiata alla fila che persisteva a sostare
davanti al banco della mensa, non annunciando il suo termine. «Scott dovrebbe
occuparsi del mio pranzo, ma probabilmente sarà un miracolo se si ricorderà di
se stesso» tra l’altro di Scott non c’era nemmeno l’ombra.
Derek non disse nulla e non emise nemmeno un
fiato, ma allungò un piatto ricolmo di patatine fritte – aveva un che di
déjà-vu –, mettendolo proprio vicino al suo interlocutore, accompagnato da
alcune bustine gialle contenente maionese. «Prendi» disse soltanto come unica
spiegazione ai suoi occhi ambrati allibiti e confusi.
Stiles dovette metterci alcuni momenti per far
riprendere a girare i suoi ingranaggi e metabolizzare ciò che era appena
accaduto, la reazione che aveva ottenuto dopo che implicitamente aveva fatto
capire che probabilmente quel giorno non avrebbe addentato un granché e quello
strano allarme che riecheggiava nella testa con l’aspetto di patatine fritte e
maionese.
Maionese. Niente Ketchup nascosto sotto piatti o tovaglioli o qualsiasi altra cosa
potesse esserci. C’era solo maionese. Bustine singole di plastica gialla
contenente un intruglio di bianco sporco e giallastro. «Cosa dovrei farci?» domanda stupida, Stiles.
«Mangiarle» proferì con ovvietà il lupo
mannaro, innalzando giudicante un sopracciglio nero e folto; stava
probabilmente rivalutando la sua intelligenza e perspicacia.
«Insieme a te?» chiese con la stessa sfumatura
e oddio, suonava davvero molto male.
Derek lo guardò in modo strano, probabilmente
stava ancora rivedendo quella cosa sulla perspicacia e l’intelligenza, non era
molto lusinghiero. «Puoi tenertele».
«Non ne vuoi nemmeno un po’?» domandò il
sedicenne di rimando, perplesso da quel modo di fare.
«No» sillabò il mannaro con tono asciutto ed
inflessibile.
«Perché?» chiese l’umano di conseguenza,
rifiutandosi ancora di appropriarsi del piatto.
«Non sono di mio gusto» riferì il diciottenne
con distacco, con la pazienza che pian piano scemava.
Stiles lo guardò senza capire, osservando le
gustose ed untuose patatine fritte e le bustine gialle, erano troppo evidenti per
poterle ignorare. «Perché le hai prese allora?».
«Stiles, mangiale e basta» ringhiò tra i denti,
dissolvendo completamente il suo grado di tolleranza e lanciandogli un’occhiata
di rimprovero.
L’aria intorno a loro divenne improvvisamente
pesante e Stiles si tirò quasi indietro, una retrocessione impercettibile delle
spalle e gli occhi di miele che rimanevano legati a quelli di giada.
Il figlio dello sceriffo distolse l’attenzione
dal suo interlocutore e la dedicò al piatto che si presentava davanti a lui,
ancora fumante e caldo – erano state preparate appositamente? Aveva aspettato
che arrivasse l’ultima sfornata? –, richiamato prepotentemente da quelle
singole bustine giallo acceso che sostavano ad un soffio dalle proprie dita.
«Maionese, eh» non sapeva nemmeno perché lo stesse sottolineando tanto.
«L’ho trovata» pronunciò il mutaforma con
immediatezza, allontanando quella reazione fuori controllo che era scattata.
Stiles allungò le dita, toccando le bustine e
prendendole tra loro, conversandovi silenziosamente per conoscere il loro
segreto. «Non si trovano quasi mai qui, si avvicinano alla rarità».
«Lo so» e Stiles non poteva ignorare quella
retrovia che parlava per lui: ti lamenti
sempre di questo. Nessuno, quasi nessuno, eccetto Scott, che tendeva a
dimenticarlo, ed Allison accompagnata da suo padre, conoscevano l’amore
incondizionato che provava per quella strana accoppiata creata dal connubio
perfetto di patatine fritte e maionese, che la maggior parte delle genti del
mondo disdegnava. Era qualcosa che proprio non riusciva a rimandare nelle
retrovie del suo cervello per scappare a quella rivelazione disturbante, a
quell’aspetto così palese che si mostrava davanti ai suoi occhi e che era
firmata e controfirmata. E bollata con cera calda e rossa con annesso di
sigillo reale.
«Stiles, hai finito?» chiese la bionda fragola
che si avvicinava lungo il corridoio creato dal posizionamento ordinato dei
tavoli, priva di qualsiasi vassoio o simile. «Jackson ha preso un tavolo con
gli altri, Scott sta terminando ed Allison si è occupata del tuo pranzo».
«Sia benedetta quella donna» esclamò entusiasta
e rincuorato il figlio dello sceriffo, tamburellando contento con le dita e
trascrivendo una nuova frase nel suo saggio. «Ultimi ritocchi e vi raggiungo».
«È maionese quella?» domandò Lydia una volta
giunta davanti alla lastra di legno a cui erano seduti Stiles e Derek,
impegnati in attività del tutto differenti ed improvvisamente consapevole di
aver interrotto una delle loro interazioni che si contavano sulla punta delle
dita, notando le bustine monoporzione della salsa creata dall’emulsione di
tuorli d’uovo ed olio. «Non sapevo nemmeno ce ne fosse».
Stiles interruppe a metà la parola che stava
scrivendo, lasciando la penna sospesa ad un millimetro dal foglio e quasi
restio ad alzare gli occhi verso la figura della ragazza, che implicitamente
aveva sganciato una nuova bomba. «Evidentemente non sei l’unica ad avere una
tresca con la cuoca» scherzò con leggerezza, dedicandole un occhiolino di
gioco.
Lydia lo guardò attenta, reclinando di poco la
testa e notando quanto i due ragazzi si stessero evitando intenzionalmente, ben
sapendo che fino ad un attimo prima erano impegnati in una conversazione o
qualsiasi cosa facessero; quella battuta non poteva essere riferita che al moro
dagli occhi verdi e Lydia realizzò soltanto in quel momento cosa ci fosse su
quel tavolo e cosa mancasse sul vassoio del diciottenne, chiaro segno lasciato
dalla circonferenza fantasma sul rettangolo di plastica. «Maionese, eh».
Stiles dovette trattenere un brivido che gli
avrebbe percorso la schiena, vertebra per vertebra, ignorando il tono lascivo
ed allusivo usato dalla bionda fragola e l’occhiata significativa che gli
lanciò prima di andarsene per sedersi accanto a Jackson.
Erano di nuovo loro due, solo lui e Derek,
piombati in un silenzio che non avrebbero rotto se non costretti ed era pesante
ed orribile e Stiles non sapeva gestire la mancanza di suoni.
Con un sospiro incastrato a metà trachea, si
apprestò a riporre uno dentro l’altro gli oggetti che stava utilizzando per
studiare, facendo schioccare la punta della penna verso il massimo esterno, per
ritrarsi dentro la sua corazza di plastica dura. Era finita, stava andando via
senza aver proferito una sola sillaba, lasciandoli al loro silenzio
schiacciante e privo di spiegazioni, con la prova evidente di quanto Derek
sapesse di lui.
Quando si fu alzato dalla sedia con quel
terribile peso sul cuore, mettendosi al lato del tavolo per raggiungere il suo
gruppo e sorpassarlo, indugiò, rimanendogli di fianco e tamburellando frenetico
ed indeciso sul legno liscio, con un ritmo fuori sincrono ed impercettibile.
Ributtò i libri uniti a formare un unico tomo
sul tavolo con un sospiro grave e combattuto, afferrando il piatto di patatine
fritte che stavano iniziando a raffreddarsi e poggiandolo sopra quel vassoio
improvvisato, sbracciandosi per prendere le bustine di maionese e mettersele in
tasca; non poteva lasciarle lì quando Derek le aveva prese per lui, facendosi
un turno che non doveva, rimanendo in fila ad aspettare che fossero pronte,
invece di proseguire ed andare avanti, gustarsi il suo pranzo senza troppe
attese e giri di parole poco graditi e scomodi.
Derek l’osservò nella sua pratica per tutto il
tempo rimanendo immobile, con le braccia abbandonate sulla lastra di legno ai
lati del suo vassoio ancora intoccato e Stiles con un movimento leggero e
calcolato, gli toccò le dita della mano destra, quella più vicina a lui,
accarezzandole con un tocco soave e morbido, di puro apprezzamento ed affetto.
«Grazie, Der».
Derek strinse le falangi tra le proprie in un
gesto appena accennato in risposta, frenetico e di sfuggita, prima che la trama
si sciogliesse e Stiles scivolasse via da lui.
Subito dopo Erica, Boyd ed Isaac lo raggiunsero
e Stiles dovette reprimere il suggerimento che quello non fosse altro che un
salvataggio disperato.
Stiles se l’aspettava.
Non poteva proprio negare che quella situazione
non si sarebbe ripresentata, ma certamente non immaginava che sarebbe accaduto
così presto.
Venne agguantato e sbattuto contro un muro, con
la testa che collideva all’indietro con la parete, creando un tonfo sordo che
riecheggiò nell’aria, lasciando i testimoni di quell’azione con gli occhi
preoccupati e le labbra socchiuse, mentre Stiles tratteneva il lamento di
dolore tra i denti, sbarrando le palpebre nel momento dell’impatto e serrando
la bocca, senza volerle lasciare quella soddisfazione.
«Hai ripreso a gironzolare attorno a Derek»
disse Kate Argent con astio e rimprovero, il veleno che le scendeva dalla
lingua biforcuta, gli occhi ostili e malvagi, pressandolo con forza contro il
muro che gli bloccava qualsiasi via di fuga.
Lui non gironzolava intorno a nessuno, ma
doveva essere un concetto piuttosto complicato e complesso per le ragazze di
Derek Hale. «Ancora con questa storia, Kate?»
si burlò con il suo stesso veleno, guardandola del tutto indifferente, come se
tutto quello non lo toccasse minimamente e gli fosse estraneo.
Kate aumentò la presa, spingendolo maggiormente
ed in malo modo sulla parete, rifilandogli un’occhiata da pazza omicida. «Eri
stato avvisato, Stilinski».
«Eri stava avvisata anche tu» sopraggiunse
spietata e calcolatrice la voce maschile che proveniva da dietro di lei e Kate
la riconobbe subito, costringendosi a voltarsi per incontrare le gemme di
smeraldo che la guardavano con disapprovazione e per nulla propense al perdono.
Erano pericolosi quegli occhi e facevano male, soprattutto se accorrevano per
Stiles Stilinski.
«Vieni a salvare la tua donzella in pericolo?»
domandò la ragazza con malvagia ironia e perfida allusione annessa,
regalandogli un ghigno infame.
Derek la guardò dall’alto in basso, senza mai
distogliere le pupille da lei ed il suo sguardo rimaneva inflessibile e non
turbabile. «Non ti darò un secondo avviso».
Cavolo, faceva sul serio e Stiles, dalla sua posizione non tanto vantaggiosa, da
dove aveva un pessimo punto d’osservazione, poteva vedere quella battaglia di
sguardi che si stavano scambiando, la lotta che stavano sostenendo ed una
guerra silenziosa e micidiale che avrebbe mietuto molte vittime.
Kate allentò la presa, sciogliendo le dita che
si erano aggrappate alla maglia sformata del sedicenne, abbandonandolo
completamente e scostandosi da lui. Nel momento in cui lo fece, benché Derek
rimanesse una macchia di espressioni inesistenti e restasse immobile nella sua
posizione, notò quanto si stesse trattenendo dal correre dal sedicenne per
accertarsi delle sue condizioni. Nessuno era riuscito a smuoverlo tanto in
quegli anni.
«Se non vuoi che lo salvi» articolò il lupo
mannaro quando lei era già diretta verso la direzione opposta. «Smettila di
dargli il tormento».
Era chiaro, era un ragionamento logico e
facile, quasi meccanico e non faceva acqua da tutte le parti, non serviva un
genio per arrivare a quella conclusione, ma tutto quello veniva messo nel
dimenticatoio quando si veniva sconfitti ancor prima di iniziare a gareggiare.
«Magari fosse così semplice».
Stiles intercettò subito quella strana cadenza,
quel tono che lasciava trapelare più di quanto volesse dire, le implicazioni
nascoste e mute che non venivano rivelate e la vera natura che faceva muovere
Derek Hale verso di lui.
Non saprebbe dire se Kate Argent avesse
finalmente cominciato a lasciarlo in pace, ma era certo che lei non si
riferisse alle sue stesse azioni, ma alle priorità del mannaro, in qualsiasi
situazione.
«Stai bene?» chiese il lupo quando la maggior
parte del pubblico si fu dissolto, insieme alla creatrice dello spettacolo.
«Magnificamente» esclamò con finto entusiasmo
il figlio dello sceriffo, mostrando un sorriso a trentadue denti sbarazzino. «È
sempre un’esperienza fantastica avere così tante attenzioni dalle tue ragazze».
Derek l’osservò di sbieco, dedicandogli
un’attenzione falsamente disinteressata. «Non posso controllarle».
Stiles sgranò le iridi d’ambrosia, scostandosi
dal muro e guardandolo fisso. «Non devi farlo, va bene così» ed improvvisamente
le labbra si curvarono in una piega soave, ridipingendo tutto l’ambiente
circostante. «Un po’ le capisco, sai. Vado dietro alla stessa ragazza da otto
anni; confrontate a me, le tue ragazze sono delle vere dilettanti».
«Non hai mai torturato nessuno» precisò il
licantropo, mettendo in evidenza la chiara distinzione che esisteva tra lui e
loro, il differente modo di agire e la correttezza del modo di fare. Certamente
non aveva mai rincorso qualcuno per estorcere informazioni legate a quella
specifica persona ‒ quelle riusciva benissimo a reperirle da solo, senza
nemmeno farsi scoprire ‒, non aveva bersagliato qualcuno con atti crudeli
e denigranti e non aveva messo nessuno all’angolo, sbattendolo contro un muro
per arrecargli dolore fisico.
«Ehy, con la mia
parlantina potrei stendere un elefante» o
un lupo, esclamò l’umano fintamente provato, indispettito dalla mancanza di
riconoscimento delle sue incredibili doti e dall’inesorabile e disturbante
potere di cui si lamentavano tutti quelli che lo circondavano.
Derek lo ignorò come se non avesse proferito
alcuna parola, del tutto immune a quel decantato potere a cui alludeva ed
allungò un braccio verso di lui, portandolo dietro la sua testa separata di
qualche centimetro dalla parete e toccando la parte lesa, da cui Stiles si
scostò, avvertendo il risveglio di quel dolore lieve e quasi inconsistente, che
sarebbe sparito nel giro di pochi minuti.
Fu costretto ad avvolgergli il polso in
risposta, impedendogli di avvicinarsi ulteriormente. «Niente vene nere, Der»
non c’era alcun motivo per cui Derek avrebbe dovuto assorbire un dolore
inesistente; non c’era alcun motivo per cui Derek avrebbe dovuto assorbire
qualunque cosa in qualunque momento.
L’arto del mutaforma rimase a mezzaria,
bloccato dalla mano di Stiles e Derek lo ritirò ed il suo sguardo sembrava
dirgli: sai anche questo? «Non
accetti ancora il mio aiuto?».
Il tono del mannaro era ferito ed oppresso e
Stiles riusciva a sentirlo così bene che una parte di lui soffrì di riflesso.
Derek credeva davvero nel suo perpetuo rifiuto ed era come se lo stesse
respingendo concretamente. «È solo un mini bernoccolo che avrò dimenticato tra
due secondi» chiarì cauto e con una nota dolce, poggiando il pollice sulla vena
più grande che pulsava vigorosamente. «Non sprecare i tuoi doni lupeschi per
così poco».
Gli occhi del mannaro caddero sulla presa che
aveva creato l’umano e che persisteva a mantenere, entrando in possesso
dell’accesso al suo battito cardiaco. «Non andrebbero sprecati».
Stiles pressò sulla vena in evidenza in
automatico, senza nemmeno rendersene conto ed incapace di controllarsi; Derek
Hale l’avrebbe fatto ammattire. «Sourwolf, così non mi aiuti» disse laconico e
sbuffando lievemente, lasciando scivolare la mano verso le sue dita,
abbandonando il polso ed intrecciandole appena, senza chiudere la stretta. «È
un segreto. Il nostro segreto» e di tutto
il tuo branco e dei licantropi mondiali. «Non puoi svelarlo a nessuno. Non
puoi mostrarlo a nessuno» tanto meno ad
un corridoio gremito di adolescenti che credono a qualsiasi cosa.
Derek lo sapeva bene, Stiles ne era
consapevole, non aveva bisogno di ricordarglielo e di mettergli in mostra la
realtà del mondo in cui vivevano, il mannaro apparteneva a quell’universo da
sempre per quanto ne sapesse e lui non era altro che un ragazzetto appassionato
di sovrannaturale, fantasy e fantascientifico che aveva appena mosso un passo
in punta di piedi. Derek non aveva bisogno della sua voce, ma a volte aveva
l’impressione che il lupo avrebbe fatto di tutto per lui, incurante di
qualsiasi conseguenza, ed era estenuante e pericoloso e Stiles non riusciva
davvero a capire come si sentisse a riguardo.
Il playmaker annuì di riflesso, un gesto quasi
invisibile ed il figlio dello sceriffo gli sorrise incoraggiante e contento,
azzerando quasi il divario che li separava e sfiorandogli la fronte con la
propria; se fossero stati soli, lontani da occhi indiscreti e fantasiosi, le
avrebbe congiunte. «Bravo il mio lupone».
Derek chiuse definitivamente la trama delle
loro dita.
Erano passati quattordici giorni da quando
Derek Hale aveva dormito con lui l’ultima notte di luna piena e non pensava di
vederlo tornare quanto prima, al contrario credeva che non si sarebbe più fatto
vivo, che avrebbe tentato di tagliare i ponti con lui, ma erano quasi due
settimane che si incontravano ogni giorno, scambiandosi un mezzo saluto o solo
un accenno, intavolando conversazioni vere e proprie e passando quei dieci
minuti insieme; l’ultima cosa che Derek voleva era separarsi da lui.
Ma valeva anche per la condivisione dello
stesso letto?
Derek sostava davanti alla finestra quasi del
tutto chiusa, se non fosse stato per quello spiraglio da cui fuoriusciva l’aria
e Stiles si spaventò e preoccupò nel vederlo così sconfitto ed addolorato, un
pallido riflesso di se stesso.
Abbandonò tutti i suoi molteplici evidenziatori
di vari colori e il libro di storia, fiondandosi verso l’imposta e spalancandola,
facendo entrare tutto in una volta il freddo di metà novembre; fu colpito in
pieno dal gelo, ma l’unica cosa che gli importava era accertarsi delle
condizioni del lupo. «Derek, che succede? Va tutto bene? Stai bene? Entra
immediatamente».
Ma il lupo non si mosse, restò impalato
esattamente dov’era, rigido ed estraneo a qualsiasi cosa lo circondasse, con
gli occhi vitrei e spenti.
Stiles dovette quasi uscire completamente dalla
finestra a ghigliottina per afferrarlo e portarlo dentro con sé, prendendogli
la mano ed aspettando che l’accettasse; sembrò rendersi conto della sua
presenza soltanto quando il calore umano entrò a contatto con la sua pelle.
«Non posso tornare a casa» rivelò monocorde,
atono e frammentato nel momento in cui Stiles lo condusse all’interno della sua
camera di adolescente, lasciando la finestra ad un lontano ricordo, insieme al
freddo polare che vi entrava.
Stiles non l’aveva mai visto così distrutto
come in quel momento, così piegato ed incapace di reagire; non aveva nulla a
che vedere con la battaglia a cui aveva assistito quando la prima luna piena di
quel mese si era mostrata e Derek aveva combattuto per non cedere alla sua
parte animale; erano due cose che non si sfioravano nemmeno e che mostravano la
complessità di cui era composto. Derek non si sarebbe mai eclissato in quel
modo senza una motivazione valida, cedendo allo sconforto e al dolore. «Rimani
qui. Puoi rimanere qui» pronunciò a raffica, tirandogli la maglietta
all’altezza delle spalle, suggerendogli concretamente quanto quello fosse
possibile. «Questo è il tuo porto sicuro».
Derek indirizzò il suo sguardo intenso verso
gli occhi d’ambrosia pura e la mano destra, da cui era visibile l’anello che li
accomunava, come se le fosse impossibile separarsi, si immerse nel lato
sinistro dei suoi capelli castani, tenendogli morbidamente ferma la testa e
lambendogli la fronte aperta con le labbra bollenti ed asciutte, accarezzandola
con il respiro infuocato e sostituendo quel contatto fantasma con la
congiunzione delle loro fronti, dalle temperature corporee completamente differenti.
Sembrava dirgli grazie e sei tu il mio porto
sicuro e Stiles si sentì morire dentro.
Fu complicato aspettare che Derek si lasciasse
guidare da lui, che gli permettesse di toccarlo a sua volta e gli desse il
consenso di liberarlo dalla giacca di pelle nera, posandola sulla spalliera
della sedia, e di togliergli le scarpe una volta arrivati al letto senza aver
compreso bene come.
Dovette salire sul materasso, rimanendo sulle
ginocchia e prendendolo per mano per incitarlo ad imitare il suo comportamento,
invitandolo a stendersi accanto a lui – aveva già fatto una cosa simile due
settimane prima, ma in quel caso era stato di una facilità disarmante – e Derek
ancora lontano da lui e con gli occhi persistentemente persi, lo lasciò fare,
senza emettere un solo respiro di dissenso.
L’attenzione del mannaro, una volta che si
distese sul materasso, fu catturata nuovamente dal soffitto bianco ed
immacolato, senza mostrare alcun segno che gli suggerisse che Stiles fosse lì
con lui.
Stiles non sospirò, non diede vita ad alcun
fiato e cercò di controllarsi il più possibile, ben sapendo che Derek poteva
sentire tutto quello che si agitava in lui e tutto lo scompiglio che avvertiva
dentro doveva rimanere fuori da quella situazione ingestibile, senza urtarlo e
dargli nuovi impicci.
Rimase lì, con la schiena ricurva e poggiata al
muro, le ginocchia piegate e strette al petto, le braccia allacciate tra loro
senza sapere cosa farci, se gli fosse stata data la possibilità di toccarlo o
se potesse indisporlo ulteriormente. Non gli rimaneva che aspettare un
qualunque segno, uno anche solo accennato che gli suggerisse cosa fare.
«Il branco periodicamente si riunisce con gli
alleati» rivelò Derek in un momento imprecisato con voce grave, rimanendo
imperturbabile nella sua posizione e quello sembrò bastargli, come se avesse
terminato e lì fosse compresa la risposta ad ogni domanda silenziosa del figlio
dello sceriffo, ogni spiegazione possibile e l’umano seppe che quello sarebbe
stato tutto ciò che avrebbe lasciato trapelare.
Stiles non fece domande.
Quando la mezzanotte fu scattata e la
stanchezza ed il sonno di Stiles si fecero più evidenti e pressanti, allungò un
braccio per afferrare il suo cuscino libero, portandoselo sopra le ginocchia
ancora piegate e stringendolo forte a sé, immergendoci la testa e traendo un
beneficio fulmineo; avrebbe anche potuto addormentarsi così se fosse stato
necessario, lasciando tutto il letto al licantropo ed accontentandosi di quel
quadrato ristretto; lui riusciva a dormire in qualsiasi posizione.
«Amavo davvero Paige» disse Derek ad un tratto,
senza aver lasciato alcun segno che indicasse l’intenzione di voler iniziare
una qualsiasi conversazione. «L’amavo come un quindicenne assolutistico e pieno
di sé poteva fare».
Stiles fu richiamato immediatamente
all’attenzione, scacciando il sonno ed alzando la testa verso di lui,
abbassando il guanciale per poterlo guardare meglio, senza avere barriere che
potessero impedirglielo o offuscarlo.
«Desideravo ardentemente averla con me sempre,
senza che nessuno potesse separarci» continuò il lupo, completamente sordo a
ciò che lo circondava. «Avevo scelto per lei la vita che avremmo dovuto
percorrere, la decisione di trasformarla senza interpellarla, senza che lei
avesse il minimo cenno della mia reale natura» Stiles trattenne il fiato e
Derek persistette a non guardarlo. «C’era quest’Alpha, Ennis,
che aveva appena perso un membro del suo branco ed era in cerca di uno nuovo;
io la vidi come una buona opportunità e, benché fossi diviso a metà, gli
proposi Paige e lui accettò. Accettò anche di lasciarci stare insieme» si
zittì, socchiudendo le labbra e chiudendo per un attimo le palpebre. «Mia madre
non avrebbe mai accettato, Ennis era l’unico Alpha a
cui potessi rivolgermi» chissà perché,
Stiles riusciva a sentire l’amara ironia che tratteneva nel suo racconto, le
labbra che si piegavano appena in una smorfia; Derek avrebbe sofferto sempre
per quello. «Quando arrivò il fatidico momento e capì di aver commesso un
enorme sbaglio, li cercai dappertutto, mi scontrai con Ennis
per impedirgli di toccarla, ma era troppo tardi e lei non stava reagendo bene
al morso» Derek trattenne il sospiro opprimente che gli torturava l’esofago,
mordendosi le labbra. «La portai dove riuscì ad arrivare e lei stava soffreddo
ed agonizzando, non riuscivo a toglierle il dolore in alcun modo, non riuscivo
nemmeno ad allievarlo, non ero abbastanza forte. Stava morendo per colpa mia,
in un concentrato di dolore e stava rassicurando me, perdonandomi, nei suoi
ultimi momenti» l’aria nella camera si fece più pesante ed il dispiacere
dilagava in entrambi, ma Stiles rimaneva immobile. «Sapeva chi ero, proprio
come te, ma non aveva mai detto niente, mi accettava e basta» gli sarebbe bastato,
Stiles era quasi sicuro di quello, ma la crudeltà della vita non glielo aveva
permesso. «Mi ha chiesto di aiutarla, di risparmiarle tutto quel dolore. Mi ha
chiesto di aiutarla a morire» Derek tacque e Stiles morì ancora un po’ dentro
di sé. Aveva letto quel rapporto quando fu stilato e lo rilesse qualche giorno
prima, cercando qualcosa che confermasse il suo credo smisurato nel licantropo,
la certezza della sua innocenza e la realtà dei fatti.
Contusioni, graffi causati da artigli, morsi
animali vari su tutto il corpo ed uno davvero brutto, proprio sul fianco, che
le aveva portato via parte della carne. Il reperto tossicologico non aveva
riscontrato nulla di identificabile, ma era certo che qualcosa la stesse
uccidendo dall’interno, come un parassita o un virus. Il reperto parlava dello
spezzamento del collo, causa finale della morte; un atto di carità o d’amore,
era l’unico modo in cui poteva essere classificato ‒ non aveva mai saputo
se Derek fosse stato perseguibile. «Dovevo scegliere se vederla morire
agonizzare, lentamente ed atrocemente o liberarla» liberarla, amandola fino
alla fine, quella era la risposta giusta. Scegliere di macchiarsi per sempre le
mani e rinunciare alla propria innocenza; lasciare che il colore dei propri
occhi cambi, permettendo che parlino da soli, creando pregiudizi senza che
nessuno sappia la verità. «Sono rimasto con lei finché non ci hanno trovati».
Derek aveva stretto il corpo senza vita della
ragazza che amava per ore, nel gelo della notte e non stava aspettando nulla;
semplicemente era così vuoto ed in balia di se stesso che non aveva notato il
trascorrere del tempo, la realtà che era caduta su di lui e la devastazione che
l’aveva accompagnata. Era soltanto lui con un corpo morto e Stiles stava
soffrendo, perché non poteva fare niente.
«Non è stata colpa tua» esalò il figlio dello
sceriffo nel silenzio della camera da letto, frastornato da tutto quello che il
ragazzo idolatrato dall’intero liceo aveva passato, le emozioni che aveva
vissuto e l’anima che si era spezzata.
Derek si voltò verso di lui ed era la prima
volta che lo guardava da quando l’aveva condotto su quel materasso, aiutandolo
a distendersi. «L’ho uccisa nel momento in cui ho preso quella decisione».
Un tuffo al cuore lo colpì, investito dall’odio
verso se stesso che il lupo stava provando, quello che provava da quel fatidico
giorno e che con il trascorrere del tempo peggiorava, logorandolo e
cambiandolo; cosa sarebbe rimasto con tutto quell’accanimento verso la propria
persona? «Hai fatto una scelta azzardata, egoistica, ma avevi quindici anni,
Derek; nessuno pensa lucidamente a quindici anni ed hai capito il tuo errore,
hai cercato di rimediare. È stata una tragedia, è questo il suo nome».
Derek lo fulminò all’istante con quella
tempesta boscosa che aveva negli occhi e Stiles deglutì con difficoltà. «Tu non
l’avresti fatto».
Stiles fu colpito in pieno, perché quell’uscita
nascondeva più di quanto in realtà volesse comunicare e celava un passato, uno
studio meticoloso dietro e qualcosa su cui non doveva proprio indagare. Sai com’ero a quindici anni, Der? «Non
puoi saperlo, prendo anch’io delle pessime decisioni».
«Nelle sciocchezze, nelle piccole cose che poi
dimentichi, ma mai nelle decisioni importanti» replicò il lupo mannaro,
rimettendolo al suo posto e guardandolo bene. «Hai più buon senso di me,
perfino adesso».
Porca miseria, perché doveva sempre sapere tutte quelle cose su di lui? «Derek» proferì
in una nota soffusa e decisa, snodando le lunghe gambe e scivolando verso il
mutaforma. «Non è stata colpa tua» disse di nuovo ad un passo dal suo corpo,
prendendogli il viso tra le mani e facendo incontrare le iridi dorate con
quelle di giada. «Non è stata colpa tua» ripeté ancora con morbidezza e
determinazione, scandendo bene le parole tra loro e permettendo alle loro
fronti di congiungersi e respirare l’uno nella bocca dell’altro. «Avevi
quindici anni, a quell’età tutti si credono immortali e tu hai più ragioni di
sentirti in quel modo; credevi che per Paige fosse lo stesso, che poteva
funzionare, che l’avrebbe accettato per l’amore che provava per te, che sarebbe
stata più forte e meravigliosa, brillante e fiera» Derek lo guardava con gli
occhi sgranati ed incandescenti e Stiles aumentò semplicemente la presa.
«Sarebbe andato tutto bene e lei sarebbe stata per sempre con te, con la
sicurezza che lei potesse difendersi da sola e superare tutto quello che per
gli umani è più difficile e complicato; nessun graffio, nessuna infezione,
niente che potesse arrecarle dolore e che te la portasse via prima del tempo.
Era stupendo e straordinariamente facile e tu avevi tutto a portata di mano,
non avevi alcun motivo di credere che per lei non andasse bene, che potesse
rifiutare o che non potesse farcela. Non potevi sapere che il veleno dell’Alpha
sarebbe stato deleterio per lei» Derek tremò, leggero e quasi impercettibile,
ma Stiles teneva le mani su di lui, la fronte che premeva in una carezza per
tenerli uniti e poteva sentire tutto quello che si ostinava a tenere per sé,
quel controllo disumano che non crollava mai; poteva sentirlo disfarsi sotto le
sue dita. «Lui, in quanto Alpha, in quanto adulto, avrebbe dovuto dissuaderti,
rifiutare la tua offerta, farti capire il perché e il pericolo, il dolore, che
sarebbe nato. Invece si è approfittato di te, ha colto l’occasione al volo e
non gli è importato di nessuna conseguenza. Chi è che ha sbagliato, Der? Chi è
il vero colpevole che possiede le mani sporche di sangue innocente?».
Derek espirò sulle sue labbra, agganciando le
mani intorno ai suoi polsi ed allontanandoli dal proprio viso. «Lui è qui» disse
soltanto, interrompendo il contatto che il figlio dello sceriffo aveva creato,
ma tenendo gli arti vicini e sospesi in aria, mantenendo la presa su di loro.
«Ogni volta che lo sento arrivare devo allontanarmi il più possibile. Potrei
scoppiare e non finirebbe bene».
Stiles comprese il perché Derek si trovasse lì,
che cosa significasse il branco
periodicamente si riunisce con gli alleati e lo stato comatoso ed
irriconoscibile con cui se l’era trovato dinnanzi; si riduceva sempre in quelle
condizioni quando vi era una riunione tra branchi? Era così distrutto ed
ingestibile, abbandonato a se stesso? Nessuno notava la sua assenza o
semplicemente facevano finta di nulla? «L’hai dimenticato? La mia porta è
sempre aperta. O nel tuo caso, la finestra» gli ricordò con un sorriso
sopraffino, facendogli un occhiolino di complicità e divertimento. «Non hai dei
limiti, non hai dei giorni definiti; hai carta bianca, hai ogni singolo giorno
dell’anno, hai la mia completa disponibilità ogni volta che ne avrai bisogno».
«Sei davvero assurdo» dichiarò il mutaforma,
nemmeno tanto impressionato, ma quasi arreso; era un dato di fatto. «Dopo
quello che ti ho raccontato, dopo tutto quello che sai di me, tu mi vuoi ancora
qui».
«Forse non ho tutto questo buon senso»
rettificò sarcasticamente e con ironia delicata, piegando le labbra in una
curva scaltra.
Derek pizzicò la fronte del sedicenne con lo
schiocco dell’indice e del pollice, innalzando gli occhi al cielo e Stiles
agguantò quella mano, legando le loro falangi come facevano ormai troppo
spesso. «Vuoi andartene?».
«No» certo
che no, Stiles sentiva anche
quello nella voce della creatura della notte, come la stretta che lo
ricambiava.
Stiles si coricò al suo fianco, costringendo
Derek a seguirlo di nuovo, che a sua volta tirò le coperte per coprirli e la
mezzanotte era passata da un pezzo ed il padrone di casa aveva riacquistato
tutta la sua sonnolenza ed aveva un peso più leggero sul petto, con Derek che
era pronto a schernirlo come d’abitudine; non stava bene, ma era un segno di
ripresa, un segno che il lupo stava uscendo dalla caterva di sentimenti
burrascosi che l’aveva accompagnato per tutta la sera.
«Non era lei» proferì Derek nel cuore della
notte, con Stiles che era sempre più vicino a cadere tra le braccia di Morfeo
più che incline a ciò che lo circondava.
L’umano aprì le palpebre, rivelando occhi
ambrati umidi portati dalla sonnolenza e nelle iridi verdi vedeva Derek
riflettersi nelle proprie e la sua domanda era lì.
«Se avessi aspettato, l’avrei saputo» disse il
lupo mannaro, rispondendo alla sua domanda inespressa, senza realmente dire
nulla, ma per Stiles si aprì il cielo ed una nuova consapevolezza lo investì
come un treno in corsa, sprovvisto di freni funzionanti. La persona che
reclamava il suo cuore? Colei con cui avrebbe voluto passare il resto della sua
vita? La compagna e l’amore con cui avrebbe voluto conoscere il mondo?
Non era lei.
Per la prima volta Stiles si chiese per cosa realmente si colpevolizzasse
Derek: di aver contribuito alla morte di Paige o di aver scelto la ragazza
sbagliata, condannandola senza alcuna motivazione.
Credo che in questo capitolo si accaduto di
tutto.
Abbiamo avuto un incontro consapevole tra
Stiles ed Erica che mette tutto nero su bianco, come se l’avessero sempre fatto
e non ci fossero segreti e proprio perché parliamo di Erica, lei non ha peli
sulla lingua e sa sempre come colpire per lasciare il segno.
C’è da chiedersi se sia Stiles che non sappia
stare lontano da Derek o se sia una cosa inversa; magari anche reciproca. Ma
tra questi due, quando si incontrano, nascono costantemente delle strane
conversazioni di promesse solenni ed è tutto molto più pesante, più reale, come
se esistesse qualcosa che conoscono solo loro, ma che non riveleranno mai a
nessuno, nemmeno all’altro.
E poi accadono avvenimenti in cui il nostro
lupetto preferito si allarga anche un po’ troppo e si scopre quanto in realtà
sappia di Stiles, anche nelle piccole ed insignificanti cose che quasi nessuno
conosce. E Stiles è talmente combattuto che non sa cosa dovrebbe fare e cerca
di non ferire nessuno e fare uscire interi entrambi. Anche se parliamo
semplicemente di patatine fritte e maionese.
Ed infine le bolle scoppiano e ci sono cose che
nemmeno Derek Hale può controllare e che lo conducono in una strada ben
precisa, venendo accolto a braccia aperte dall’unico figlio dello sceriffo.
C’è tanto, c’è davvero tanto di cui parlare.
A venerdì,
Antys