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Autore: Il_Signore_Oscuro    04/12/2016    1 recensioni
Ragnar'ok Wintersworth un giorno sarà l'Eroe di Kvatch, colui che salverà Tamriel dalla minaccia di Mehrunes Dagon, principe daedrico della distruzione, con il fondamentale aiuto di Martin Septim ultimo membro della dinastia del Sangue di Drago. Ma cosa c'è stato prima della storia che tutti noi conosciamo? Chi era Ragnar prima di essere un Eroe? Lasciate che ve lo mostri.
[PAPALE PAPALE: questa storia tratterà delle vicende di Ragnar. Non sarò fedelissimo al gioco ma ne manterrò le linee generali, anche se alcuni avvenimenti saranno cambiati o spostati nel tempo. Non ho altro da dirvi, se non augurarvi una buona lettura!]
BETA READER: ARWYN SHONE.
Genere: Avventura, Fantasy, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Eroe di Kvatch, Jauffre, Sorpresa, Un po' tutti
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Incompiuta
Capitoli:
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Chapter eighteen – The old lucky lady

I giorni trascorsi nella Città Imperiale furono forse i più felici e spensierati di quell’ultimo periodo, del resto prima di allora non mi ero trovato che di fronte ad assurdi complotti e missioni che avevano messo a repentaglio la mia vita. Era bello rivivere un po’ di quella “normalità” che tendevo a dimenticare nel mio vagare per Cyrodill e le sue città. Ogni giorno nella Capitale era una festa di nuove scoperte, racconti di vecchie storie e bevute nelle osterie più in voga. Nella capitale era ogni giorno una novità: nelle osterie più in voga c'era sempre un via vai di viaggiatori pronti a raccontare di vecchie e nuove storie con cui intrattenere gli avventori facendogli vivere, attraverso l'immaginazione, meravigliose avventure.  Quasi ci si dimenticava del lato più oscuro della città, nascosto dietro quel clima festoso, se ci si lasciava trascinare da quel vortice di sfarzosa mondanità.
Ben presto la mia amicizia con Claudius e sua sorella Sabine si rafforzò. Sapevo che non avrei mai più dimenticato quelle persone, che mi avevano accolto con tanta gentilezza all’interno della loro casa. Sabine, poi, mi sarebbe mancata più della città stessa, dati i miei sentimenti, ma chissà, forse un giorno ci saremmo ritrovati entrambi fra le mura circolari dell’Università Arcana.
Come tutti i tempi felici anche questo giunse al termine e, che potessi rendermene conto, era arrivato il momento di partire.
I fratelli Arcadia furono gentili, accompagnandomi fino al porto e aspettando fino all’ultimo istante prima che la nave partisse. Mi congedai da loro con gli occhi pieni di lacrime, stringendo forte entrambi, promettendo che avrei scritto loro una lettera non appena fossi sceso a Bravil. Li ringraziai per tutto ciò che avevano fatto per me durante quei giorni e mentre la nave si allontanava, lungo il fiume Nibenay, vidi le loro mani alzarsi e muoversi in un gesto di saluto, fino a quando le loro figure non si fecero così piccole da non essere neanche più visibili.
Come avrei scoperto più in là, la “Boccia Fluente”, questo il nome della nave, era una sorta di locanda che si muoveva sull’acqua. Si spostava di città in città durante la bella stagione: partiva dalla Capitale, faceva scalo a Bravil e poi attraccava a Leyawiin, prima di ripetere il percorso in ordine inverso.
Quando durante l’inverno le intemperie rendevano pericolosa la navigazione, la Boccia Fluente sostava nella zona del porto della Città Imperiale: protetta dalla perenne calma delle acque del Lago Rumare. Per quanto forti potessero essere i venti e le correnti del fiume, niente poteva smuovere quella superficie immobile che avvolgeva nel suo abbraccio la Capitale. Ormil, l’altmer proprietario della Boccia, aveva avuto di certo una buona idea: il pensiero di poter vivere per un po’ come i marinai o i pirati che percorrevano le acque, ma senza i rischi che simili mestieri comportavano, doveva stuzzicare la fantasia e la curiosità di molti a Cyrodill: in particolare le comitive di ragazzi annoiati che non sapevano in cosa spendere il tanto e denaro e tempo che avevano e gli avventurieri che non avevano più l’età per mettersi in viaggio, che forse nel legno che fendeva le acque e nel vento che gonfiava le vele rivivevano qualche barlume della loro giovinezza ormai passata … immaginando di gettarsi in un’ultima gloriosa impresa.
Se Ormil gestiva la Boccia Fluente come un qualunque esercizio commerciale, non era lui a guidarla attraverso il fiume Nibenay. Difatti mi rivelò che di navigazione lui non ci aveva mai capito nulla, ma in compenso aveva sempre avuto  abbastanza denaro da non preoccuparsi di ciò che non sapeva fare (e queste erano parole sue): poteva pagare qualcun altro per farlo al suo posto. A guidare la Boccia e il suo equipaggio, per assicurare un viaggio senza intoppi alla nave e ai suoi passeggeri, era il capitano Petrus Calamai: un attempato imperiale con la pelle inspessita dalla salsedine.
Io adoravo ascoltare storie e Calamai sembrava quel tipo di persone a cui piaceva raccontarle. Appoggiato alla balaustra, sul ponte di comando, fumavo la mia pipa, mentre lo osservavo avvolto intorno al timone: erano un unico corpo, la nave e l’uomo che la guidava, e si muovevano come fossero uno l’estensione dell’altro. Socchiudeva le ciglia spesse per scrutare l’orizzonte con gli occhi lattiginosi.

Dopo un iniziale silenzio fu lui a rivolgermi per primo la parola, chiedendomi da dove venissi e dove fossi diretto; la mia storia gliela raccontai in breve, evitando di scendere in particolari, e approfittando della sua domanda, gliela rivolsi a mia volta: sapevo, o forse intuivo, che non vedeva l’ora di raccontare la sua di storia.

Un tempo Calamai aveva servito nella sezione della marina militare della Legione Imperiale. Dopo una gavetta durata dieci anni, durante i quali dimostrò le sue notevoli capacità strategiche e un’innata attitudine al comando, Calamai era stato nominato primo ufficiale dell’ammiraglia Andrea Doria.
Questo nome, “Andrea Doria”, risuonava familiare a tutta la gente dell’Impero. Ai tempi delle scorrerie aldmeri sulle coste occidentali, l’Andrea Doria era stata il gioiello della Marina Imperiale: anche il più ardito e impavido pirata del tempo fuggiva a gambe levate non appena vedeva il vessillo del drago sventolare all'orizzonte, fiero, sugli imponenti alberi maestri del galeone e dell'esigua flotta che la seguiva.
A Calamai lacrimavano gli occhi mentre parlava della sua nave, come fosse una vecchia amica ormai perduta: un gigante di legno, con tre alberi maestri, un ponte lungo tre volte quello della Boccia Fluente; uno scafo con una fila di cinquanta arpioni per lato, con tanto di sportelli richiudibili; una prua rinforzata in ebano, recante la testa del Dio-drago Akatosh, e una chiglia prolungata sotto il velo dell’acqua, forgiata con metallo daedrico: capace di speronare e precipitare nel fondale qualunque nave le fosse passata troppo vicino.
La costruzione dell’Andrea Doria aveva richiesto tre anni e un dispendio in termini di denaro tale da far indebitare l’Impero con Hammerfel e alcuni privati cittadini particolarmente facoltosi. L’equipaggio era composto da centocinquanta uomini, selezionati fra i migliori nei ranghi della Marina Imperiale.
A pochi mesi dalla sua messa in mare aveva spazzato via la minaccia dei pirati aldmeri, affondando una dopo l’altra le loro flotte. Quel gigante di legno era stato l’orgoglio dell’Impero e del Capitano che la guidava. Calamai mi raccontò della sua ultima battaglia, al largo delle coste di Anvil, contro la Stockholm, il galeone guidato da Varnez mano di bronzo, ultimo dei pirati aldmeri. Ogni altra nave delle rispettive flotte giaceva ormai nel fondo del mare. Solo le due ammiraglie erano rimaste in piedi. Gli ordini di Calamai prevedevano di schiacciare il nemico con un ultimo arrembaggio, ma i suoi uomini erano sfiniti, inoltre Varnez poteva contare sui potenti stregoni presenti nella sua ciurma. L’allora giovane capitano poteva solo immaginare cosa sarebbe successo se gli altmer si fossero impossessati dell’Andrea Doria.
Ponderò attentamente il da farsi: sapeva che dopo quell’ultima battaglia, la sua nave sarebbe stata smantellata e i suoi pezzi venduti per ripagare almeno in parte il debito che l’Impero aveva contratto.
-L’Andrea Doria non meritava di finire così – mi disse – se doveva andarsene, doveva farlo in mare: in un’ultima, gloriosa battaglia.
Ordinò al suo equipaggio di abbandonare i propri posti e riversarsi nelle scialuppe, dirigendosi verso il porto sicuro di Anvil. Per ultimo scese anche lui, guardando la Doria dirigersi, a vele spiegate, verso la sua fine: si schiantò contro la Stockholm, squarciandone il ventre legnoso. I due giganti di legno furono inghiottiti dalle acque del mare.
Il Comando fece pagar caro a Calamai il suo orgoglio: fu espulso dalla Legione e multato pesantemente, la sua casa venne confiscata insieme a tutti sui beni, dovette anche scontare alcuni anni di reclusione nelle Prigioni Imperiali. Petrus concluse la sua storia dicendomi che era venuto a trascorrere i suoi ultimi anni di vita nel Porto della Capitale, quando aveva incontrato Ormil. In lui aveva visto riaccendersi la speranza di rivivere, anche se ridimensionati, quei giorni ormai lontani della sua passata giovinezza, che tanto ancora amava.

Così, fra le storie del capitano Petrus Calamai e le notti passate sul ponte, a riempirmi gli occhi con le stelle del firmamento, trascorsi i due giorni di viaggio dal porto della Capitale alle mura sgangherate di Bravil. Situata su una protuberanza di terra che si sporgeva nelle acque del Nibenay, Bravil era considerata la città peggiore in cui vivere di tutta Cyrodill: l’aria era umida e malsana, il terreno limaccioso intorno alle mura era la culla in cui proliferavano insetti e malattie d’ogni genere. All’interno della città le baracche si ammassavano le une sulle altre, in un dedalo confuso di vicoli, porte e scale. Gli scantinati delle abitazioni dimenticate erano diventate il rifugio di pantegane grandi come cani da compagnia. Nella desolazione delle strade la gente girava con un alone scuro negli occhi, mentre fra le ombre si nascondevano gli spacciatori di skooma che lì avevano trovano un terreno fertile per i loro affari. Per qualche strano scherzo del destino il simbolo della città era una statua, situata al suo centro, che gli abitanti chiamavano “La vecchia signora fortunata” forse un ultimo appiglio a cui si aggrappavano in cerca di speranza. Varcata la porta cominciai ad avvertire una sensazione di profondo disagio, la stessa che mi aveva colto quando a Cheydinhal avevo posato gli occhi sulla casa abbandonata. Sentivo dei sussurri chiamarmi, come in sottofondo a quel silenzio che dominava su ogni cosa. Cercai di non pensarci e camminai, camminai fino a raggiungere la statua: la vecchia signora aveva il viso gentile, eppure c’era una così profonda malinconia nel suo sguardo di pietra, nei lineamenti scolpiti. Sotto i piedi sentivo qualcosa che si agitava, come se volesse emergere dalla terra, afferrarmi per le caviglie e trascinarmi giù.

Abbassai lo sguardo e accanto alla mia ombra ne vidi comparire un’altra: le spalle larghe, cinte forse da un’armatura, una testa ricolma di fluenti capelli da cui sfilavano sinuose due lunghe corna. Sgranai gli occhi, riconoscendo all’istante quella sagoma. Misi mano alla spada e mi voltai di scatto, ritrovandomi di fronte la pelle violacea e gli occhi di lava ardente di un dremora. Sulla sua bocca vedevo chiaramente una smorfia di disgusto. “Cosa ci fa qui?” mi chiesi, ma la risposta seguì poco dopo la domanda.
-Riponi la tua arma mortale, reco un messaggio dal mio evocatore.
Dunque quella creatura era stata portata qui da un mago, sospirai sollevato.
-Capisco, di che si tratta?
Mi consegnò un rotolo di carta, prima di svanire in una nube di fumo e scintille, così come era apparso.

Superato l’iniziale stupore, srotolai con le mani tremanti il messaggio e lessi, scivolando con lo sguardo fra le righe.

“Caro associato,

è con un macigno nel cuore che ti scrivo questa lettera. Vorrei che tu rimanessi all’oscuro di tutto, perché la tua vita potesse continuare senza l’ombra che ora grava sulla mia. Tuttavia so’ che prima o poi lo verrai a sapere, ed è giusto che sia io a dirtelo, in quanto tuo superiore e responsabile di ogni persona all’interno della nostra amata Gilda.
Quest’oggi, in un abitazione nei pressi di Talos Plaza, è stato rinvenuto il corpo di una giovane donna. In quanto importante membro della comunità della Città Imperiale, sono stato chiamato per effettuare il riconoscimento. Non saprei descrivere l’orrore che ho provato quando in quel viso bianco, rigido negli ultimi istanti di terrore prima della morte, ho riconosciuto le fattezze di Sabine Arcadia. Ho già provveduto personalmente a informare suo fratello dell’accaduto. Sembra che la ragazza sia stata strangolata in seguito a un tentato stupro. La Legione sospetta che sia stato il proprietario dell’abitazione in cui è stato rinvenuto il corpo, un certo Rufio, misteriosamente scomparso prima della triste scoperta. Io stesso, insieme ad alcuni compagni della Gilda, gli stiamo dando la caccia e ti prometto che prima o poi riusciremo a trovarlo e consegnarlo alla giustizia. Sono amareggiato per la tua perdita, ma adesso quella dolce ragazza è nelle mani degli Dei. Sarai distrutto dopo questa notizia ma spero che, con il tempo, riuscirai ad andare avanti come vorrebbe anche lei. Ti faccio le mie più sentite condoglianze…

Un abbraccio,
Raminus Polus”


NdA
Cari lettori, come vi avevo preannunciato questo non è stato un capitolo allegro. Se mi odiate sappiate che la mia ragazza e la mia beta reader mi hanno cazziato potentemente per la fine che ho fatto fare alla povera Sabine. Ammetto che mi è dispiaciuto, ma la sua morte aveva un suo fine preciso e forse più in là lo scoprirete. Per quanto riguarda l’Andrea Doria e il capitano Petrus Calamai mi sono ispirato al comandante Pietro Calamai e al transatlantico italiano che affondò negli anni sessanta. Li ho voluti celebrare con un piccolo raccontino inserito.

Un abbraccio,
NuandaTSP

 
   
 
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