Anime & Manga > Le bizzarre avventure di Jojo
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Autore: JustAMermaid    06/12/2016    1 recensioni
- Josuke, sono l’Oracolo, non un matchmaker!
Dove un certo semidio figlio di Efesto di alza nel cuore della notte per chiedere all’Oracolo una profezia. Più o meno.
{ JosuYasu | PercyJackson!AU | Scritta per la #josuyasuweek2016 su Tumblr, prompt ‘AU’ | Parte della serie ‘JoJo and the Olympians’ | FigliodiEfesto!Josuke, FigliodiNemesi!Okuyasu, Oracolo!Rohan, FigliadiAfrodite!Yukako, Satiro!Koichi | Quando ami un’AU troppo for your own good RIP }
Genere: Fluff, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Altri, Josuke Higashikata, Okuyasu Nijimura, Rohan Kishibe
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'JoJo and the Olympians'
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Un paio di note su quest'AU per chi non è familiare con Percy Jackson:
- Nel mondo di PJO, gli dei greci (e non solo loro) esistono ancora grazie al cosidetto "faro della civiltà". Dove gli umani crescono e si evolvono, la mitologia li segue. In questo caso, il "faro" è in America.
- Il Campo Mezzosangue è il campo dove vengono cresciuti i figli di dei e mortali (semidei, appunto). Qui vengono protetti da mostri che cercano di ucciderli e altri pericoli, allenandosi a combattere per portare a termine delle imprese dategli dagli dei.
- Ho attualmente nei piani di scrivere tutte le parti di JoJo incastrate in quest'AU perché ci sono fin troppe possibilità di character development e situazioni varie. Sappiate solo che questa è una missing moment ambientata nel mezzo della Parte 4 (che scriverò, lo giuro sullo Stige) e i fatti citati come "l'arco di Artemide" e "la manticora" verranno spiegati quando scriverò il tutto. Ho comunque cercato di rendere l'insieme il più chiaro possibile.
- Josuke, Okuyasu, Koichi e Yukako hanno 15 anni, Rohan ne ha sui 16 o 17. Gli Eroi di Manhattan citati qui sono gli Stardust Crusaders. Visto che Josuke è figlio di un dio, qui Joseph è solo suo padre adottivo.


Josuke aprì la porta circolare della casa numero nove, pregando a suoi padre e tutti gli Olimpi che non facesse rumore. Si levò del fumo nell’aria dal dannato marchingegno, che andò a disperdersi nell’aria di quella serata – o forse meglio mattinata, dopo tutto era mezzanotte passata – di Agosto. Il 18 Agosto, precisamente. L’ottavo anniversario dalla sconfitta dell’armata dei Titani. Questo significava due cose per Josuke: collaborazione tra la casa di Efesto e quella di Ermes per i fuochi d’artificio e… be’, la festa in generale. Festa che sarebbe stata in spiaggia, festa alla quale doveva andare con qualcuno. Qualcuno al quale Josuke pensava da un po’ di tempo ma al quale non aveva ancora chiesto niente, accidenti.

Era da un po’ che Okuyasu aveva ricevuto un segno dal proprio parente divino, Nemesi. Non si era molto abituato allo stare con i suoi fratellastri – “Amico, quelli sono troppo fuori! Non ce la faccio!” – ma sapeva che l’altro era stato molto felice di sapere finalmente l’identità di sua madre. Ok, c’era sempre il discorso della profezia data quella stessa sera e del fatto che qualcuno aveva rubato l’arco e le frecce di Artemide, ma poteva aspettare. Avevano trovato il nuovo Oracolo, questo era abbastanza per entrambi da decidere di prendersi una ben meritata pausa quell’estate, soprattutto l’uno in compagnia dell’altro. Per Josuke tutto avrebbe potuto aspettare, in effetti, se Okuyasu fosse stato vicino a lui.

Josuke si era reso conto della cosa da molte settimane. Ogni volta nella quale decideva – e anche Okuyasu lo seguiva a ruota – di non partecipare alla Caccia alla Bandiera se la casa di Efesto e quella di Nemesi erano l’una contro l’altra, ma di buttarsi nella mischia appena sapevano di essere alleati. Ogni volta nella quale si lanciavano lunghe occhiate dal rispettivo tavolo del genitore divino durante pranzi e cene come a dire “ehi, tra poco potremo di nuovo parlare”. Ogni volta nella quale ad allenamento facevano sempre coppia e sbaragliavano tutti per come erano affiatati. Ogni volta nella quale camminavano vicini sul bordo della spiaggia e Okuyasu buttava in acqua Josuke per poi fare lo stesso e divertirsi come matti. Ogni volta nella quale, per la foga di imparare qualche nuovo trucco, le loro mani si sfiorassero per prendere l’elsa della spada che avevano adocchiato entrambi. Ogni volta nella quale sedevano sulla collina, vicino al pino degli Joestar con i propri amici, ma alla fine si guardavano sempre l’un l’altro.

Ogni volta, ogni istante, Josuke si sentiva sempre più innamorato di Okuyasu. E non si era mai sentito più felice di così.

Josuke sapeva di non essere come gli altri figli di Efesto. Molti di loro erano migliori con le macchine che con le relazioni tra persone, a differenza sua. Suo padre gli aveva donato il potere di riparare qualunque oggetto toccasse, e questo gli bastava per sentirsi a suo agio tra i suoi fratellastri. Certo, gli piaceva lavorare alla forgia e aggiustare spade e lance rotte soltanto con un tocco delle dita, ma per quanto ridesse e scherzasse con loro durante quelle attività andava a bazzicare anche tra i ragazzi delle altre case. Aveva stretto molte amicizie durante quelle estati al Campo Mezzosangue. Ma la cosa era diversa con Okuyasu. Era il suo migliore amico, sì, non gli aveva mai nascosto niente… Tranne il fatto di essersi irrimediabilmente cotto di lui. Non si era mai sentito così spaventato di ammettere qualcosa. E se avesse detto di no? E se la loro amicizia si fosse distrutta grazie a ciò? E poi cosa avrebbe dovuto vederci Oku in lui? 

…Va bene, i suoi capelli erano piuttosto fighi e avrebbero fatto cadere ai suoi piedi milioni e milioni di persone, ma Oku aveva degli standard, per l’Olimpo! Cosa avrebbe dovuto dire?

Aveva così chiesto aiuto a Yukako e Koichi, che comunque erano in una relazione da più di un mese. Josuke era grato di avere loro come amici, soprattutto perché Yukako era figlia della dea dell’amore in persona, mentre Koichi era il satiro che aveva avuto il compito di portare i fratelli Nijimura al Campo. Il figlio di Efesto si era presentato pochi giorni fa davanti alla casa numero dieci, bussando con uno “Yukako, ti prego, è un emergenza!” e lei era stata così gentile ad accoglierlo dentro e lasciargli spiegare il problema. Aveva ignorato il perché anche Koichi fosse lì dentro e lo aveva invitato ugualmente a partecipare alla discussione. 

La figlia di Afrodite aveva ascoltato con le mani in grembo, incalzando Josuke ogni qual volta si interrompeva e a fine discorso lei e Koichi si erano guardati come se la risposta fosse stata ovvia. Era stato il satiro a rispondere, però. “Ehm… Tra poco c’è l’anniversario della Battaglia di Manhattan, Josuke. Potresti invitarlo a ballare o vedere i fuochi d’artificio sulla spiaggia”. Yukako aveva annuito energicamente, rispondendo con “Il mio Koichi ha ragione come sempre! Credo che sia la scelta più ovvia.”

Josuke aveva scosso la testa. “E se dice di no? Devo sapere in qualche modo cosa dirà!”

Koichi, di risposta, aveva guardato per terra, alzando le spalle come a proteggersi da un eventuale sfuriata. “Be’, sappiamo tutti che se c’è qualcuno che può dare previsioni sul futuro nel Campo è… Lo sai…”

Josuke aveva assottigliato lo sguardo per poi rendersi conto di chi stava parlando.

“Oh no!” aveva quasi urlato il figlio di Efesto. “No! Non lui! Preferisco essere mangiato dal Minotauro! Che Zeus mi fulmini, tutti ma non lui!”

Josuke avrebbe ancora detto molto di lui, ma dovette smettere quando vide lo sguardo assassino che Yukako gli stava riservando. Ovvero il famoso urla-ancora-al-mio-fidanzato-e-ti-spacco-la-testa.

E così Josuke se ne era andato dalla casa di Afrodite ed era tornato in quella di Efesto, rimuginando tutta la sera se davvero ne valesse di pena di andare da quel gradasso e chiedergli una cosa del genere. Soprattutto se c’era la sua vita amorosa in ballo.

Ma lo doveva fare. Per Okuyasu.

Perciò si era svegliato, vestito velocemente senza svegliare nessuno dei suoi fratelli, ed aveva messo piede fuori dalla casa numero nove senza destare sospetti. Non faceva freddo, dopotutto il direttore Kujo poteva decidere il clima all’interno del Campo grazie alla barriera magica che lo difendeva dai mostri. Almeno così era potuto restare in pantaloncini corti e maglietta del Campo Mezzosangue.

La caverna – ah no, pardon, Grotta dell’Oracolo, come lui si ostinava a chiamarla – si trovava al confine tra le case degli dei e la foresta dove i semidei giocavano a Caccia alla Bandiera. Era di fronte al fiume che divideva sempre le due squadre ogni qualvolta si giocava, e non ci voleva molto a raggiungerla a piedi. In cinque minuti Josuke si trovò davanti a quello che sembrava solo un grande masso poco più alto di due metri che scendeva in profondità, se non fosse stato per due tendine color viola e decorate da una fila di lire d’oro che coprivano l’entrata. La caverna scintillava di una strana luce argentata alla luna, che dava al tutto un aria piuttosto mistica, insieme all’odore di giacinto che proveniva da dentro, stesso fiore che decorava i piedi della caverna. La conosceva bene, il design era stato progettato dai figli di Atena e messo in pratica dai figli di Efesto insieme all’aiuto di alcuni semidei della casa di Demetra. Sarebbe stata abbastanza suggestiva se non fosse stato per una stonatissima voce dall’interno della caverna che cantava e la forte luce che illuminava il tutto.

Josuke camminò a passi lenti verso l’entrata, sospirando rumorosamente. Doveva proprio? … Sì, doveva. Dannazione.

Pregò Apollo che il suo prescelto non svenisse o iniziasse a farneticare nuove profezie e chiamò l’Oracolo a gran voce.

- …Rohan?

- …Give me the thing that i love! Put your hands up, make ‘em touch! Che genio!

Josuke si trattenne dal non entrare e trascinare l’altro fuori, limitandosi solo a sbattere ripetutamente il piede per terra. Ancora si chiedeva perché lo spirito dell’Oracolo avesse scelto qualcuno come Rohan Kishibe per ospitarlo. Non poteva optare qualcuno meno pieno di sé?

- Rohan, odio dirlo ma… Senti, esci e basta! – disse Josuke a voce alta.

- Per gli Olimpi! – si lamentò l’Oracolo. Il figlio di Efesto sentì dei passi provenire da dietro la tenda e, quando si aprì con un violento gesto, si ritrovò faccia a faccia con un Rohan dai capelli spettinati e un pigiama fatto da pantaloncini neri e la maglietta arancione del Campo Mezzosangue – che lui aveva ammesso di odiare perché non si sarebbe abbinata a niente –, un album da disegno sotto l’ascella e una matita inforcata dietro l’orecchio. Aveva in mano un IPod – pur sapendo che gli apparecchi elettronici erano severamente proibiti al Campo poiché attiravano mostri – e solo una cuffietta nelle orecchie, l’altra penzolava. A quanto pare stava ascoltando ‘Applause’ di Lady Gaga.

- Chi osa disturbare il sommo Oracolo nella sua ora di riposo? – chiese Rohan con voce solenne, facendo finta di assumere un viso stanco.

Poi aprì gli occhi e si rese conto di trovarsi davanti un Josuke Higashikata piuttosto annoiato.

Si squadrarono a vicenda.

- Oh, sei tu – fu tutto quello che disse Rohan prima di chiudere la tenda e cercare di tornare a… fare qualunque cosa stesse facendo.

- Rohan, torna qui, devo chiederti di… uhm… Una profezia molto importante.

Rohan riaprì la tenda leggermente per sporgere solo il viso.

- Senti Higashikata, non ho tempo. Torna domani, le Muse hanno deciso di benedirmi togliendomi il blocco che avevo da settimane.

- Ma puoi continuare…

- Sh, sh, shhh! – lo zittì l’Oracolo. – Lo senti questo? E’ il suono di io che continuo con la mia attività.

- No, ora tu mi ascolti - lo bloccò Josuke. Come avrebbe dovuto spiegargli la faccenda? Non avrebbe mai ammesso di aver bisogno di uno come lui, lo avrebbe potuto giurare sullo Stige. Rohan storse il naso, poi sospirò.

- Allora? Sono tutto orecchi. Vuoi per caso…

- Non lo dire…

- …Il mio aiuto?

Josuke alzò gli occhi al cielo, spostando Rohan dall’entrata ed mettendo piede nella grotta. Al centro un braciere acceso fatto d’oro che scaldava il tutto era poggiato per terra e proiettava ombre sulle pareti. C’era una scrivania bianca molto simile a quelle della casa di Atena sulla destra, mentre dietro il braciere si trovava un letto ad ‘L’ rovesciata, di quelli che si potrebbero vedere nell’ufficio di uno psicologo, solo viola e decorato da cuscini ricamati alla perfezione. Sopra il letto erano stati appesi bozzetti in bianco e nero o colorati che mostravano scene di vita quotidiana al Campo Mezzosangue: il tramonto sul mare, ragazzi che cantavano all’anfiteatro, una scena di vincita a Caccia alla Bandiera e molte altre.

- Ehi, è proprietà privata! – si lamentò Rohan, seguendo Josuke a ruota. – Si può sapere cosa vuoi?

Josuke si sedette semplicemente davanti al braciere, dando le spalle a Rohan.

- Una profezia. Secondo te ti avrei cercato perché mi andava?

L’Oracolo sembrò pensarci su. – No, per niente.

Rohan sistemò il blocco da disegno e la matita sulla scrivania fischiettando un’altra canzone e togliendosi la cuffietta dall’orecchio rimanente, Josuke che continuava a guardarsi intorno. E certo che era stato così pretenzioso da volere un alloggio del genere tutto per lui. Anche se, a sua discolpa, era stato Apollo a consigliarlo. E perciò la caverna era stata decorata con simboli del dio della profezia stesso, come la piuma di cigno e il giacinto che Rohan aveva ora tra le mani.

Si sedette davanti a Josuke, dall’altra parte del braciere, e soffiò sulla piuma e sul fiore, per poi recitare qualche strana rima in greco antico. 

- Avevi detto che il Campo Mezzosangue non ti piaceva – interruppe Josuke.

- …Come? – disse Rohan alzando lo sguardo.

Josuke sorrise leggermente. – Voglio dire, guarda quanti schizzi hai fatto! – e indicò i disegni sulle pareti.

Rohan sbatté le palpebre per due secondi, confuso, per poi scuotere la testa. – Quelli non sono niente! Sono solo bozzetti a caso, allenamenti!

- “Salve, mi chiamo Rohan Kishibe e sono l’Oracolo!” – iniziò Josuke, squittendo leggermente. – “Dico che il Campo Mezzosangue non mi piace ma segretamente lo disegno ogni volta!”

- Vuoi questa profezia o no? – tagliò corto Rohan, stringendo nella mano destra i due oggetti.

Josuke rise leggermente. – Va bene, va bene!

- Finalmente.

Rohan riprese a canticchiare in greco antico, buttando la piuma di cigno nel braciere, che si disintegrò subito agli occhi di Josuke, un turbinio di scintille gialle che si levarono alte fino al soffitto della grotta. Stessa cosa successe al giacinto.

- Ehm, Apollo sa che stai bruciando i rimasugli del suo amante morto? – chiese il figlio di Efesto. – Voglio dire, io mi offenderei un po’.

Rohan, semplicemente, lo ignorò. Mise una mano sul cuore, per poi chiudere gli occhi. Josuke si sentì stranamente inquieto per qualche secondo, come se non fossero più solo loro due all’interno della caverna.

- Io sono lo Spirito di Delfi, portavoce delle profezie di Febo Apollo, uccisore del possente Pitone – annunciò Rohan, scandendo ogni parola come se stesse recitando un rito funebre. – Avvicinati, cercatore, e chiedi.

- Bene, ecco… 

Josuke non sapeva davvero cosa dire. Aveva la possibilità, per una volta, di chiedere davvero di tutto. Considerando poi a chi si trovava davanti insieme a cosa stava chiedendo le parole gli si fermarono in gola. Sentì le sue guance iniziare a riscaldarsi. Sperò fosse il fuoco.

- Ecco… Come dire… - Il figlio di Efesto ingoiò della saliva. – Domani, cioè oggi, cioè… Hai capito, no? Ci sarà la festa, e tutti balleranno e staranno insieme e… Volevo invitare Okuyasu a vedere i fuochi d’artificio perché ho realizzato un paio di cose. Cosa dirà? Sì o no? Lo so che è stupido venire qui per chiedere solo questo, ma devo sapere.

Ecco, lo aveva detto. Josuke abbassò il capo, stringendo i pugni. Era la cosa che voleva sapere di più al mondo.

Per pochi secondi non ci furono rumori se non il crepitare del fuoco e i grilli, più qualche grugnito di mostri lontani. Poi Rohan inalò profondamente, mordendosi il labbro. Il suo petto iniziò ad abbassarsi e alzarsi velocemente. Josuke inarcò un sopracciglio, una velata nota di speranza negli occhi.

- Allora?

Peccato che tutte le possibili risposte dello Spirito di Delfi alle quali Josuke aveva pensato furono completamente sotterrate quando la risata di Rohan riecheggiò per la caverna e dintorni.

Il figlio di Efesto non aveva mai capito perché alcuni ragazzi della casa di Atena e Ares si portassero sempre spade e pugnali dietro. Adesso sì. Quanto avrebbe voluto rendere Rohan uno scolapasta umano.

- Cosa c’è di così divertente? – chiese Josuke, le braccia incrociate al livello del petto.

Rohan respirò profondamente per un paio di secondi, agitando una mano vicino al viso per farsi aria. – E’ solo che… Non ci credo…! Voglio dire, credevo fossi venuto qui per qualcosa di pertinente alla scomparsa dell’arco di Artemide e… ! Ahahaha! 

- E’ una cosa seria! Stiamo parlando dei miei sentimenti qui!

Rohan incrociò le mani sullo stomaco, prendendo una grande boccata d’aria. Aveva gli occhi lucidi e ancora rideva leggermente. – Josuke, sono l’Oracolo, non un matchmaker!

- Però hai visto qualcosa, no? – lo incalzò il figlio di Efesto.

- Difficile dirsi – ammise l’Oracolo, mentre si strofinava l’occhio destro. Se fosse stato per sonno o per asciugare le lacrime Josuke non lo sapeva. – Lo Spirito di Delfi mi mostra ciò che è di massima importanza per chi chiede, ma non mi sta dando segni. Anche se forse…

Josuke si sporse in avanti. – Forse…?

- Sai cosa facevano le sibilline, le ancelle di Apollo? – chiese Rohan. 

Il semidio si ricordava di qualcosa raccontatogli da Joseph quando ancora era piccolo, ma solo memorie distanti.

- Più o meno – ammise. – Scrivevano le risposte sulle foglie, no?

- Esatto – disse Rohan, alzandosi con pochissima fatica. Raggiunse di nuovo la scrivania, prendendo la matita e un paio di foglie di acero da una pila che aveva accatastato sopra con massima cura. Probabilmente se le teneva da parte per “emergenze” simili. Si risedette al posto di prima con tutta la calma del mondo.

- Si affidavano al vento, come hai detto. Scrivevano delle parole sulle foglie e lasciavano che la natura facesse il suo corso. Credo che sia il modo migliore per vedere se questa... profezia sia avveri.

Josuke voleva davvero credere che l’altro l’avrebbe aiutato senza chiedere niente in cambio, ma era pur sempre Rohan Kishibe, dopotutto.

- Okay, cosa vuoi che faccia per ripagarti? – chiese il semidio, curvando la schiena. – Devo ripararti qualcosa o…?

Rohan scrollò le spalle. – Niente.

Va bene, ora la faccenda si faceva davvero strana.

Niente – ripeté Josuke, come ad assaporare la stranezza di quella parola in quello specifico contesto. – Tu non vuoi niente in cambio.

- Be’, sì – ammise Rohan. – Tu ed Okuyasu mi avete salvato da quella manticora a Broadway, e ora non sarei qui se non vi foste mostrati. E’ il minimo che possa fare.

- Va… Va bene – disse Josuke, grattandosi la testa. – Sembra molto strano conoscendoti, ma va bene.

Rohan prese la matita in mano e scrisse qualcosa sulle sue foglie, mostrandole poi a Josuke. – Su una ho scritto ‘sì’, sull’altra ‘no’.  Le metterò all’entrata della caverna e domani quella che si avvicinerà più al mio letto sarà la risposta definitiva.

Josuke sgranò gli occhi. – Domani? Mi prendi in giro! Lo devo sapere ora!

- La festa inizia all’ora di cena. Ti verrò a cercare appena prima per dirti i risultati. Aspettami alla spiaggia, d’accordo? 

- Ma…

- Niente ma! – lo interruppe l’Oracolo. – Non puoi dare fretta a queste cose, Higashikata. 

Josuke sbuffò rumorosamente, guardando di sottecchi Rohan. Non aveva ragione, assolutamente no, ma il concetto aveva senso. Avrebbe dovuto davvero aspettare fino a domani. Sentì lo stomaco improvvisamente svuotarsi, come se ci fosse un buco al centro. 

- Vabbè, ho capito – si lamentò il semidio. Si alzò e si avvicinò all’ingresso della caverna, Rohan che lo guardava.

- ‘Notte, comunque – disse il figlio di Efesto, cercando di sembrare solo leggermente stanco.

L’Oracolo non rispose, e Josuke giurò di vederlo sorridere genuinamente prima di voltarsi e ritornare alla casa numero nove.

 
***

L’indomani fu un giorno di ordinaria amministrazione al Campo Mezzosangue, solo con qualche svago in più.

Josuke si alzò con la stanchezza nelle ossa e la minaccia di cadere a terra ad ogni passo. Per tutta le sera era rimasto a guardare il soffitto dalla sua cuccetta di metallo attaccata al muro, le mani dietro il capo. Non sapeva ancora cosa dire o cosa fare, il ché era estraneo persino a lui, di solito pensava sempre a qualcosa, anche al volo. Avrebbe dovuto improvvisare ancora una volta. E il fatto che fosse preoccupato di parlare al suo migliore amico lo impietosì. “Datti una regolata, Josuke!” fu quello che gli urlò il cervello per tutta la mattina. Anche dopo essersi alzato e andato al bagno subito – stando chiuso lì per una ventina di minuti, tanto i suoi fratelli erano abituati – per sistemarsi i capelli nel solito pompadour, passò una buona manciata di secondi a guardarsi nello specchio. – Che Afrodite mi aiuti – sussurrò tra se e se prima di uscire e dare finalmente spazio agli altri.

A colazione il direttore Kujo e gli altri tre Eroi di Manhattan – così chiamavano i cinque che avevano salvato l’Olimpo da Dio, anche se Joseph Joestar, il nonno di Kujo e padre adottivo di Josuke, non era presente – tennero un discorso mattutino dove ringraziarono i semidei per la loro presenza e il loro supporto, annunciando come sempre che l’orario del Campo sarebbe stato modificato per lasciare che i ragazzi si dedicassero ad altre attività. In poche parole, Caccia alla Bandiera fino ad ora di pranzo e party selvaggio fino alla mattinata dopo a cena.

Josuke bevve un sorso di succo di frutta dalla sua coppa d’argento al tavolo numero nove della mensa all’aperto, circondato dai suoi fratelli. Al tavolo numero dieci, davanti a lui, Yukako mangiava silenziosamente i suoi cereali a distanza dagli altri ragazzi della sua casa, Koichi di fianco a lei, le piccole corna caprine che gli spuntavano appena dai capelli grigi e gli zoccoli da satiro che non arrivavano nemmeno al pavimento. Rohan era impegnato a tenere con la mano sinistra una forchettata di pancake e a disegnare con la destra sul suo album da disegno, alcuni ragazzi del tavolo della casa numero sette, quella di Apollo, che ogni tanto si sporgevano per vedere cosa stesse disegnando, e lui che li guardava male ogni qual volta cercassero di allungare lo sguardo.

Solo Okuyasu non si vedeva. 

Josuke si voltò verso il tavolo numero sedici, quello della casa di Nemesi. Una dozzina di ragazzi e ragazze parlucchiavano tra loro e con qualche altro satiro, ma dell’altro nemmeno l’ombra. Il semidio sperò che non si fosse messo nei guai quella sera.

Poi vide qualcuno correre da lontano urlando un “arrivo!” e improvvisamente il figlio di Efesto si sentì il cuore meno pesante.

Okuyasu arrivò correndo al tavolo dei suoi fratelli con la maglietta arancione sfatta e i pantaloni corti tenuti bassi, capelli spettinati e fin troppe occhiaie sotto gli occhi. Si infilò tra due semidei e iniziò a prendere dei waffle da un piatto nel mezzo, scusandosi per il ritardo con tutti.

- Ehi, Oku! – gridò Josuke da lontano, agitando le mani.

Okuyasu alzò gli occhi dal piatto, un pezzo di dolce ancora in bocca. Per un momento il figlio di Nemesi sembrò vacillare tra il tornare a concentrarsi sul cibo e salutare il proprio amico, ma optò per l’ultima cosa. – J-JoJo! – disse a bocca piena, inciampando un po’ sulle parole. Stava per caso arrossendo?

Per gli Olimpi, certo che però era carino con i capelli che gli cadevano leggermente sulla fronte, pensò Josuke. Troppo carino. 

Finita la colazione, gli allenatori dissero a chiunque aveva intenzione di fare qualche match nella foresta di seguirli dopo aver preso l’attrezzatura nell’armeria. Josuke ed Okuyasu si incontrarono sulla strada.

- Allora, dormito bene? – chiese il figlio di Efesto, mentre la fila diminuiva lentamente.

- Nah - ammise Okuyasu, - non molto. Troppo casino nella foresta…

Josuke sentì la schiena irrigidirsi. – Oh, sì. Allora non sono l’unico che l’ha sentito, eh?

- Amico, sembrava più il suono di un gattino morente che altro! O qualche mostro, che ne so. 

Josuke sorrise. – Oppure era Rohan che cantava.

Okuyasu rise di gusto, poggiando una mano sulla spalla dell’amico. – Ehi, potrebbe!

- Volete muovervi? – li incalzò un ragazzino della casa di Ermes dietro di loro. – Siete i prossimi per le armi e le armature.

Okuyasu e Josuke guardarono prima lui, poi i loro sguardi si incrociarono, complici.

- La lancia di bronzo celeste è…

- …Mia, bello!

Entrarono nell’armeria correndo l’uno di fianco all’altro, mentre i semidei alle loro spalle si guardarono straniti.

Sarebbe stata una bella mattinata, profezia o non.

 
***

Non vinsero a Caccia alla Bandiera, ma a Josuke andò bene così.

Dopo le partite e altre attività, verso ora di cena, cercò Rohan in giro per il Campo per sapere della risposta definitiva data dalle foglie, ma non lo vide da nessuna parte. Anche Okuyasu sembrava essere sparito, e questa volta non tornò in ritardo a mensa. Aveva chiesto dei due a tutti: da Tonio Trussardi, il capo casa figlio di Demetra, a quello strano ragazzino indeterminato, Mikitaka Hazekura. 

Così si era diretto alla spiaggia, mentre il sole già iniziava a tramontare, rendendo il mare di un colore violaceo e il cielo rosato. Rohan aveva detto la sera prima che lo avrebbe raggiunto lì. Il semidio si lasciò cadere sulla sabbia. Dietro di lui, alla mensa, tutto era già iniziato: i ragazzi del Campo parlavano tra di loro mentre i satiri distribuivano il cibo, e insieme ballavano intorno al fuoco dove erano state bruciate le offerte per Estia, la dea del focolare. Lontano, all’anfiteatro, i suoi fratelli figli di Efesto e i semidei della casa di Ermes stavano sistemando le ultime cose per i fuochi d’artificio. Circondati da ragazzini nuovi e vecchi per sapere cosa si sarebbero inventati questa volta, gli Eroi raccontavano dell’impresa sul Monte Otri e della Battaglia di Manhattan, modificando come ogni anno gli avvenimenti per prenderli un po’ in giro. 

Lo stomaco di Josuke brontolò leggermente, distraendolo. Avrebbe tanto voluto mangiare qualcosa, ma doveva restare lì ad aspettare. 

Sentì dei passi dietro provenire da dietro, leggermente attutiti dalla sabbia. Si voltò, trovando Okuyasu in piedi dietro di lui. 

Josuke sgranò gli occhi, cercando comunque di apparire rilassato. Stessa cosa non si poteva dire per l’amico. Okuyasu sembrava fin troppo teso.
Poi la realizzazione colpì improvvisamente il figlio di Efesto: avrebbe dovuto fare tutto senza la profezia. Non aveva altro tempo.

- Oh, ciao! – lo salutò Josuke, alzandosi da terra. 

Okuyaso lo guardò stranito. - Cosa... ci fai qui?

Josuke strofinò il piede per terra per scaricare la tensione. - Ehm, stavo aspettando una persona.

- Anche io – ammise Okuyasu. Sembrava… strano. In tutto. Aveva il viso fin troppo pulito e i capelli troppo pettinati per essere, be’, per essere l’Okuyasu che a Josuke tanto piaceva. Si mise una mano nei capelli, e Josuke giurò per un momento di vedere risistemarseli da soli, come se quasi avessero vita propria.

Il figlio di Nemesi guardò per terra, mordendosi leggermente il labbro. Josuke capì ben poco del perché si stesse comportando così. Era per caso successo qualcosa?

- Ecco, JoJo, ti volevo chiedere…

Oh.

Oh.

- Se volevamo andare a vedere i fuochi d’artificio insieme?

La domanda uscì dalla bocca di Josuke ad una velocità impressionante. Il semidio si sentì come sollevato per aria, leggero come una piuma. Sorrise senza accorgersene. Anche Okuyasu fece lo stesso, gli occhi che gli illuminarono.

- S-sì! – balbettò.
 
- Amico, è come se avessimo le menti sincronizzate! – commentò Josuke.

- Già, fighissimo!
 
Non aveva bisogno di nessuna stupida profezia, alla faccia di quello che gli altri gli avevano detto. 

Josuke prese la mano destra di Okuyasu nella sua, stringendola e cominciando a correre a riva. Sapeva benissimo dove andare.

- Mi stai strattonando! Fai piano!

- Neanche per sogno!

Corsero sulla sabbia per pochi minuti, allontanandosi dalla confusione generale, mentre nel cielo ormai scurito iniziava a spuntare qualche stella solitaria. 

Arrivarono sulla striscia di spiaggia vicina alla foresta, solo loro due, nessun’altro a disturbarli. Le loro mani erano ancora strette l’una nell’altra.

Si sedettero sulla riva, il rumore dei festeggiamenti che riusciva comunque a raggiungerli.

- Scusa se non mi sono fatto vedere, - disse Okuyasu ad un certo punto – ma… Uhm… Avevo delle faccende da sbrigare, ecco.

- Non preoccuparti – disse Josuke. – Quello che dovrebbe scusarsi sono io. Non sai quanti problemi mi sono fatto per chiederti di venire con me.

Okuyasu rimase leggermente a bocca aperta. – Davvero? Anche io. Perché, scusa?

Josuke si girò a guardarlo negli occhi, sentendosi leggermente imbarazzato.

- Avevo paura dicessi di no.

Il figlio di Nemesi soffocò una piccola risata. – A chi lo dici, bello! Anche io credevo mi avresti detto di no.

- Oku, sono il tuo migliore amico! – disse il figlio di Efesto. – Non avrei mai rifiutato!

- Intanto non me lo hai chiesto…

- Giusto.

Stettero lì a parlare del più e del meno per un bel po’ di tempo mentre aspettarono l’inizio dei fuochi d’artificio. A quanto pare i fratelli di Oku erano aumentati di numero spropositato nell’ultimo mese. Da dieci ragazzi nella casa erano arrivati a sedici. Raccontò di come li avevano accolti e Josuke stette ad ascoltare senza interromperlo. Era sempre bello sentire la sua voce. 

Il cielo, finalmente, si iniziò ad illuminare di colori e scoppiettii appena la luna spuntò fuori, specchiandosi sull’acqua. Josuke indicò con un dito i fuochi d’artificio, ed Okuyasu seguì con lo sguardo i giochi di luce che piroettavano sopra le loro teste. Alcuni erano semplici, altri replicavano scene di battaglia e di miti. 

Josuke rimase a bocca aperta a vederli. Non aveva suggerito molti design quell’anno, e nemmeno dato una così grande mano con il progettarli. Avrebbe fatto tutti i complimenti possibili ai suoi fratelli una volta finita la festa.

- Sono bellissimi – commentò sottovoce Oku.

- Già – commentò Josuke, stringendo la mano dell’altro. – I fuochi.

Okuyasu si girò verso l’amico.

Ma Josuke non stava parlando dei fuochi d’artificio. E vide che l’altro lo capì appena i loro sguardi si incrociarono.

- Oh, smettila! – disse Okuyasu, spingendo leggermente l’altro con la mano libera.

Josuke l’afferrò al volo, avvicinando i loro visi.

- Che c’è? E’ la verita!

- Ti stai mettendo a fare il romanticone dopo aver ammesso che avevi paura a chiedermi di uscire, ecco cosa c’è!

Josuke rise, notando che sulla mano libera dell’altro semidio c’erano delle scritte fatte in pennarello nero.

- Uh? – disse, mentre cercava di leggerle. Erano quasi tutte andate via.

Okuyasu sgranò gli occhi, ritraendo la mano velocemente e portandosela al petto. – N-non è niente!

- Hai… Scritto delle indicazioni sulla tua mano?

Il figlio di Nemesi sospirò, abbassando lo sguardo.

- Sì. Non avevo idea di cosa fare. Anche io volevo invitarti, ma avevo troppa paura. Quindi sono andato dagli altri e ho chiesto dei consigli e…

Josuke inarcò un sopracciglio, e poi capì.

 – Fammi indovinare, hai chiesto una profezia a Rohan.

Oku annuì. – Uh, sì.

- Anche io.

Ci furono due secondi di silenzio nel quale i due si guardarono. Poi lentamente entrambe le loro labbra si incurvarono in un sorriso.

- Non ci credo! – rise Okuyasu.

- E io cosa dovrei dire? Hanno organizzato tutto! – disse Josuke, unendosi alla risata dell’altro. – E poi…

- Yukako mi ha dato una sistematina con i suoi poteri di figlia di Afrodite – ammise Okuyasu. – Sai, la benedizione e tutta quella roba lì.

Il figlio di Efesto annuì. – Bella mossa. L’avrei dovuto chiedere anche io.

- Non ne hai bisogno. 

Josuke smise di ridere, perché, diamine, gli aveva appena fatto un complimento. Okuyasu aveva detto che era bello. Era troppo per lui, stava sentendo il cuore scoppiare dopo tutte quelle scoperte.

- E cosa c’è scritto nelle indicazioni sulla tua mano? – chiese Josuke, con voce bassa. I loro visi erano ancora vicini.

Okuyasu sforzò di ricordarsi, per poi ricontrollare alzando la mano. – Qui c’è scritto ‘pagarlo’, ma credo sia…

- Baciarlo?

Okuyasu abbassò la mano, le gote visibilmente rosse. Josuke invece sorrideva dolcemente nella sua direzione.

- Sì, baciarlo.

Josuke fu il primo ad avvicinarsi. La brezza marina di quella sera aveva reso la pelle di entrambi fredda, ma quando appoggiò le sue labbra su quelle di Okuyasu non gli importò più. L’altro semidio ricambiò subito, buttandosi con la schiena sulla sabbia e portandosi il figlio di Efesto dietro. 

Rimasero lì, stesi sulla sabbia ad abbracciarsi, i fuochi d’artificio che continuavano a scoppiare nel cielo, sapendo che finalmente avevano avuto entrambi tutte le risposte alle domande che volevano. Qualunque mostro sarebbe potuto comparire dalla foresta e a loro non sarebbe importato. 

E per un momento non esistette nessun’altra profezia, se non il fatto che sarebbero stati insieme fino alla fine.

 
***

- Avanti, ho fatto la mia parte.

Koichi sospirò. – Va bene.

Il satiro allungò la scatoletta con i pennarelli della Copic, e Rohan la strappò dalle sue mani come se fosse la cosa più bella che avesse mai visto.

- Finalmente! I pennarelli più costosi d'America nelle mie mani! – esclamò l’Oracolo, stringendo il premio al petto. – Ah, sì. Ora sono felice.

Seduti ad uno dei tavoli della mensa, Koichi, Rohan e Yukako osservavano Josuke ed Okuyasu stesi sulla sabbia ad ammirare i fuochi d’artificio. Il piano era andato alla perfezione.

- Non perderli, ho fatto i salti mortali per trovarli – disse Koichi.

- Non potrei mai perderli! – rispose Rohan, sorridendo soddisfatto.

- Già, altrimenti l’avresti visto – disse Yukako, mentre si godeva i fuochi. – Però alla fine sarei un Oracolo migliore di te.

Rohan inarcò un sopracciglio. – Uhm, perché?

La figlia di Afrodite sorrise leggermente. – Avevi detto che non si sarebbero messi insieme, eppure…

Rohan alzò gli occhi al cielo, e Koichi ridacchiò.

Alla fine erano tutti e tre felici dei risultati. Volevano bene ai loro amici e vederli così era un piacere. Almeno per Yukako e Koichi. Rohan invece aveva occhi solo per il premio, ora. Però forse – solo forse, eh – era rimasto soddisfatto anche lui. 

- Continua, ti sto ascoltando – la incalzò Rohan.

- Mia madre lo ripete in continuazione – ammise Yukako. – L’amore vince sempre.

 
N.A
Solo io posso pubblicare prima del sin e poi del puro fluff. Good job me.
I don't even know, amo troppo quest'AU! Ci sono così tante possibilità per... per tutto. çwç
E amo anche la Josuyasu. Sono pucciosissimi insieme e adoro le loro interazioni in DIU e quanto ci siano l'uno per l'altro, in ogni situazione. 
Ho scritto questa storia per la #josuyasuweek, prompt AU. Eccerto che ne ho approfittato, non c'è bisogno che me lo diciate.
 - Josuke è figlio di Efesto per via del fatto che Crazy D può riparare oggetti rotti. All'inizio volevo farlo figlio di Apollo visto che è il dio della medicina, ma trovo che farlo figlio di Efesto sia più interessante. E ora il ruolo di figlio di Apollo è slittato su qualcun'altro ciao Giorno.
- Okuyasu è figlio di Nemesi perché ci sta, bona. Abbiamo bisogno di più figli di dei minori.
- Yukako è figlia di Afrodite perché il constrasto tra la sua personalità e come in generale sono visti i figli della dea porterebbe a un sacco di conflitto interessante.
- Koichi è un satiro perché i satiri in PJO e HOO SONO TROPPO BUONI PER STO MONDO.
- Rohan è un mortale con il dono della vista attraverso la Foschia (quindi può vedere situazioni e mostri che solo dei e semidei potrebbero vedere) e l'Oracolo. Lo so, l'Oracolo può essere solo una donna vergine, ma prendo questa come una libertà artistica. E poi anche l'Oracolo nei libri (Rachel Dare) è un artista e mi piace il parallelismo. E sì, ascolta Lady Gaga. Perché ce lo vedo. Ha senso, dite? Più o meno, ma la Parte 4 di quest'AU è ambientata praticamente nel 2014. 
Anyway, se gli Dei sono dalla mia parte riuscirò molto presto a pubblicare il prossimo capitolo di 'All demigods are destined to meet, somehow" per poi lavorare sulla prima full long di tutto sto casino. ADADTMS (???) alla fine è un po' un esperimento. E ora aspettiamo che arrivi un certo figlio di Ade a rovinare il tutto (questo conta come spoiler...?)
Le recensioni aiutano sempre!
Alla prossima, lovelies!
  
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