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Autore: LaMicheCoria    09/12/2016    4 recensioni
“Non ti laverai la coscienza, Rogers. Non così. Non così.” Ripete il magnate. Il polso gli trema, sembra voglia fermarlo, tappargli la bocca, agguantare le parole e ricacciarle indietro prima che arrivino dall’altra parte “Sarebbe troppo facile, troppo semplice. Non credere di poterti salvare così, non credere di poter avere il mio perdono con qualche chiacchierata telefonica e un sospiro di sollievo. Non funziona così, ragazzino del ghetto, non è una marachella che una stretta di mano ed un cioccolatino possano far dimenticare. Io non dimentico.” I denti stridono l’uno sull’altro “Quindi lascia perdere tutta questa robaccia da teen-movie. Non c’è nessuna canzone di Avril Lavigne a fare da sottofondo, niente flash-forward, niente salto temporale a quando io e te mangiamo gelato seduti sul molo, al tramonto. La vita non funziona così, io non funziono così. Posso portarti rancore per tutta la vita, se necessario, anche solo per ripicca, anche solo per farti entrare nella tua dannata zucca di Brooklyn quanto tu sia stato stupido e idiota e maledettamente bastardo a farmi questo.
[Stony] [Post-Civil War]
Genere: Generale, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Steve Rogers/Captain America, Tony Stark/Iron Man
Note: Lime, Movieverse | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Cause Nobody Wants To Be The Last One There :.'
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Disclaimer: I personaggi non mi appartengono

La storia è scritta senza fine di lucro.

 

 

 

 

 

 

 

Unlock The Door

 

 

 

 

Non ci sono parole.
Non si sentono, non veramente, non in maniera tangibile, non c’è tra loro alcun legame, nessuna connessione: solo il silenzio, dalla parte all’altra della cornetta, e Tony che si passa la lingua sulle labbra screpolate dalla sete, dalla sete inestinguibile della bottiglia di vodka ancora intonsa che lo chiama e lo reclama; e Steve apre appena la bocca, il fiato si alza nella gola e rimane sospeso, aggrappato alla lingua, lì, in equilibrio fra dire e non dire.
Forse è passato troppo o troppo poco e i numeri sul display non segnano che una manciata di secondi prima che la chiamata si chiuda.

 

Il giorno non finisce che allo scoccare della mezzanotte.
Ventiquattro ore, millequattrocentoquaranta minuti, ottantaseimilaquattrocento secondi, una cascata gorgogliante di numeri che scorrono, scivolano via, scrosciano schiumando dall’alba oltre il tramonto ed è un tormento guardarli, osservarli dalla finestra, fissare la luce che cambia e il sole che balzella sui festoni e la notte che si accende di strisciate bianche e rosse e blu e anche quando si acquietano e tacciono e cade ogni rumore e sembra che i festeggiamenti siano finiti, la giornata non è conclusa del tutto, c’è ancora tempo, un minuto, cinquantanove secondi, il cellulare, quaranta, il numero, trenta, squillo, ventinove, squillo, ventotto, rispondi, venti, Tony?, labbra secche, schiocco della lingua contro il palato e voce che si incastra nella carotide, dieci, schiarirsi di gola, nove, Beh, otto, Tanti auguri vecchio, cinque, Grazie.
Zero.

 

“Tanti auguri.”
Lo dice senza mezzi termini, perché sa che se si ferma a pensare, a riflettere, a far scorrere il tempo, le parole si incastreranno nella gola e allora sarà del tutto inutile anche solo schiacciare il tasto di avvio. Non inizierebbe mai, né si concluderebbe dandogli la speranza di un nuovo inizio.
“Il mio compleanno è già passato.” Gli fa notare Steve e il rumore del traffico, in sottofondo, non è in grado di mascherare il sorriso che sa essersi posato sulle sue labbra “Perché mi fai gli auguri?”
“Perché oggi è il giorno in cui ti hanno ritrovato.”

 
“Ti disturbo?”
Una simile cortesia, pensa Tony, è piuttosto sconveniente. Non è una galanteria costruita sulla base di regole e buone maniere, è una vera e propria sottesa preoccupazione che il magnate giudica troppo precipitosa –Non è ancora trascorso abbastanza, la ferita sanguina ancora, forse anche perché non smette di morderla e roderla, irritandola costantemente.
“No.”
“Ti lascio tornare in riunione, te lo prometto.”
“Chi ti dice che sono in riunione?”
“Mi fai sempre aspettare tre squilli prima di rispondere, per non far capire che hai voglia di sentirmi.”
I tempi verbali sono sbagliati e dall’abbassarsi progressivo della sua voce, Tony capisce che Steve se n’è accorto quando ormai è troppo tardi –E’ sempre troppo tardi per tutto, tra loro.
“Lo facevo.”
Eccolo, il bisogno di affondare il coltello e staccare la crosta e far uscire il sangue.
Puntualizza il dolore, pungola la rogna, lo sai il perché: perché vuoi farlo soffrire, vuoi fargli provare il tormento, perché non vuoi essere solo, perché hai bisogno di stabilire una relazione di sofferenza reciproca e rimpianti condivisi –Non avete più nient’altro.
“Lo facevi.” Conviene il Capitano e da come gonfia le lettere, deve aver preso un enorme sospiro prima di ammetterlo.
“Non mi disturbi, comunque.”
Deve essere la conversazione più lunga da mesi, quasi un anno, e Tony non sa proprio come gestirla: non ha dimenticato come si fa, ma quella era un’altra vita e imparare di nuovo, adesso, significa far posto nel database.
Esistono file che ancora non vuole cancellare.
“Volevo soltanto farti tanti auguri.”
“Non è il mio compleanno. E poi, sai che odio che mi si facciano gli auguri di buon compleanno. Quindi, visto che non è il mio compleanno e anche se lo fosse ti odierei per avermeli fatti, non capisco---“
“Oggi ti ho stretto la mano per la prima volta.”

 

“Se proprio devi chiamarmi, potresti farlo tenendo il volume basso?”
Il fastidio sottende al riso e Tony, sedendosi davanti al bancone, fa cenno al barista di versargli la più generosa dose di analcolico che ha –Persino la sua espressione perplessa lo diverte e si chiede cosa ci sia di così divertente e dove trova il coraggio di vedere del divertente nel mondo che gli è attorno, lì, tra le luci di un pub qualunque di Brooklyn. Nessuno fa caso a lui o, se lo fanno, è lui a non far caso a loro.
“Ah, scusami, il tuo apparecchio acustico fischia?”
“Non sei divertente.”
“Sì che lo sono, ma tu sei un vecchio azzimato e orgoglioso e non vuoi ammetterlo.”
Touché.”
Stark non vuole dargli la soddisfazione di sentirlo ridere, così per disturbare il suono sposta il cellulare a conchiglia nell’incavo della spalla, giustificando il gesto con la necessità di girare meglio il succo di frutta in cui non c’è niente da mescolare.
“Tu cosa hai ordinato?”
“Un Mr. Pibb.”
“Sei scandaloso.”
“Sarebbe stato scortese ordinare qualcosa di alcolico, se tu non puoi bere.”
“Avresti potuto non dirmelo.”
“No. Ho smesso con certe cose.”
La cannuccia sbatte contro il bicchiere e la vibrazione risuona lungo le dita come la mandibola fracassata contro la manopola dell’armatura.
“Come mai hai voluto che ci chiamassimo da dentro un bar?”
“Per festeggiare.”
Ora si sente stupido e il bancone gli sembra troppo sporco, il barista troppo unticcio, ha gli sguardi della gente su di sé e l’aria ristagna, lo preme da ogni parte, lo schiaccia, lo soffoca.
“La nostra prima birra analcolica?”
“La nostra prima birra analcolica.”
Respira, ora, le luci illuminano di nuovo un locale ampio e i sorrisi delle persone e il felice menefreghismo, la gioiosa indifferenza verso l’uomo col cappello a visiera attaccato al telefono e con in mano un analcolico all’ananas e mela.
“Alla salute, Rogers.”
“Alla salute, Stark.”

 

“Dico solo che poteva essere gestito meglio.” Tony si toglie la giacca di pelle, lancia le scarpe da qualche parte, cammina a piedi nudi sul pavimento e le luci di Manhattan gli bagnano le dita, infrangendosi dalle vetrata contro le caviglie “Non lo so, è come una sensazione.” Si siede sulla sponda del letto, affonda sul materasso, tiene gli occhi al soffitto “L’atmosfera, forse. Non mi ha convinto.”
“Perché?”
“Non mi dava l’idea di essere negli anni Trenta.”
“Non puoi dirlo. Non hai mai vissuto negli Anni Trenta.”
“Ma tu sì.”
“Quindi?”
“Quindi era l’atmosfera degli Anni Trenta?”
“All’epoca avevo tredici anni e pensavo più a non soffocare per l’asma che al bel mondo di Hollywood. E poi, vivevo nel Lower East Side: gli attori famosi li vedevamo soltanto sui cartelloni pubblicitari. Da lontano.
“E i gangster con le bretelle?”
“I gangster con le bretelle cosa?”
“Dai, Rogers, non dirmi che non ne hai mai incontrato uno!”
“Beh, c’era un tale…”
“Davvero? E aveva il cappello? Si tirava le bretelle? Fumava il sigaro e nascondeva le sue vittime nel cemento armato?”
“Detta così, sembra un incrocio tra un film noir ed una puntata di CSI.”
“A proposito di CSI, l’episodio di settimana scorsa…?”
“Non l’ho visto. Ero…fuori.
In missione. Da qualche parte. Lontano dalla realtà.
Lontano dalla sua vista.
“L’ho registrato.”
“Davvero?”
“Sì.”
“Perché?”
“Ero fuori.”
Sul balcone, a far dondolare il telefono tra le dita.
“Hai voglia di farmi da telecronista?”
“Vado ad accendere il televisore.”

 

“Lo sapevi.”
“Sì.”
Le luci sono tutte spente. A lutto.
Come ogni anno, da tanti anni.
“Mi dispiace.”
“Sta’ zitto.”
“Volevo solo…”
“Taci.”
Silenzio.
“Vuoi che riattacchi?”
“No.” Occhi chiusi “Solo…Stai zitto.”
C’è solo la luce del cellulare, raggomitolata sul suo volto.
Il nome di Steve sul display.

 

“Non riesci a dormire?”
“No. Ho calcolato il fuso orario, lì da te dovrebbe essere mattina.”
“E’ notte anche qui. Non puoi calcolare il fuso orario se non sai dove sono.”
“C’era un’alta percentuale che tu fossi dall’altra parte del mondo. Sai, come fanno le persone normali quando si nascondono dal Governo.”
“Le persone normali, di solito, non devono nascondersi dal Governo.”
“Okay, allora diciamo che sono persone interessanti, non normali.”
“Quindi pensi che io sia interessante?”
“Non intendo dare a questa conversazione una simile piega.”
“D’accordo.”
“Già.”
“E comunque è un cliché.”
“Cosa? Il fatto che al telefono le conversazioni prenderanno sempre una piega sospetta e facilmente fraintendibile?”
“Il fatto che per nascondersi dal Governo ci si debba rifugiare dall’altra parte del mondo.”
“Era la mia seconda opzione.”
“Non è vero.”
“Come vuoi. La terza.”
“Non vuoi proprio ammettere di essere caduto nel banale, Stark.”
“Allora dove dovresti stare, di grazia, per nasconderti dal Governo senza cadere in facili e banali cliché?”
“Dove tutti possono vedermi e nessuno mi cercherebbe mai.”
“Rogers, mi stai dicendo che ti sei nascosto sotto il tappeto?”
Un sorriso.
Da entrambe le parti.

 

“Devo farti una domanda.”
“Riguardo a cosa?”
“Non cosa. Chi.”
“Ah.”
“E’ tutto quello che hai dire?”
“No.”
“Hai capito a chi mi riferisco.”
“Sì.”
“Rogers, non sono un dannato dentista. Non ti strapperò le parole con le pinze, quindi faresti meglio a dirmi subito se…”
“No.” Uno schiarirsi di gola “Mai.”
“Mai?”
“Mai.”
“Bene.”
Un rapido concantenarsi di pensieri e subito Tony si affretta a precedere la risposta dell’altro.
“Bene, ma non ci sarebbe stato niente di male. Prima sì. Insomma, dopo la storia con Pepper e tu e io e…Era prima. Ora è diverso. Se tu avessi...Con lei. Ora.” Il cervello, in un attimo di ripresa delle comunicazioni, è in dovere di fargli notate la totale assenza di verbi all’interno delle frasi –I verbi sono azioni, rendono vero un fatto nel compiersi e nel suo essersi compiuto.
Non c’è scampo ai verbi.
“Mai.”
“Insomma.” Non pare nemmeno averlo sentito, preso com’è a seguire il rotolio confuso e accozzagliato dei pensieri, nel tentativo di tenerli insieme, stringerli al petto, salvare il salvabile “Non ho mica diritto esclusivo sulla tua bi-curiosità e lei è una donna piacente---“
“Stark.”
“Cosa?”
“Per l’ultima volta. Non c’è stato niente tra me e Sharon.”
“Ci avete provato?”
“Perché lo vuoi sapere?”
“…Devo andare.”

 

“E’ la prima volta che chiami tu.”
“Sei rimasto in silenzio radio per settimane.”
“Prima è stato per mesi. Cos’è cambiato, ora?”
Una serpe nervosa che avvelena le viscere e il desiderio insano, la brama di distruggere, riportare ad una condizione di squilibrio ogni cosa: una situazione dove non ci si può ferire, dove non c’è nessuno da perdere e nessuno per cui soffrire.
“Solo perché ogni tanto ti ho concesso di alleviare il senso di colpa facendoti sentire la mia voce? Cosa credi, Rogers? Cosa pensi che stia succedendo? Pensi davvero che stiamo ricucendo qualcosa? Sei ancor più ingenuo di quanto mi ricordassi. Anzi, di più. Sei penoso.
Le ha sempre tenute dentro la bocca, quelle parole. Non ha mai osato pronunciarle, non sa se per timore della loro verità o della rabbia che le ha sconvolte, ritorte, avvelenate. Ora gli risalgono l’esofago e le vomita sulla cornetta, immagina il flusso acido mentre si avvinghia all’etere e prova un piacere perverso nel disegnare la mano dell’altro serrarsi attorno al cellulare, fino a crepare lo schermo –Lui lo sa, lo sa eccome della rabbia e della verità. Sa che ha ragione, sa che ha torto. Sa che sta soffrendo, sa che è per colpa sua.
“Non ti laverai la coscienza, Rogers. Non così. Non così.” Ripete il magnate. Il polso gli trema, sembra voglia fermarlo, tappargli la bocca, agguantare le parole e ricacciarle indietro prima che arrivino dall’altra parte “Sarebbe troppo facile, troppo semplice. Non credere di poterti salvare così, non credere di poter avere il mio perdono con qualche chiacchierata telefonica e un sospiro di sollievo. Non funziona così, ragazzino del ghetto, non è una marachella che una stretta di mano ed un cioccolatino possano far dimenticare. Io non dimentico.” I denti stridono l’uno sull’altro “Quindi lascia perdere tutta questa robaccia da teen-movie. Non c’è nessuna canzone di Avril Lavigne a fare da sottofondo, niente flash-forward, niente salto temporale a quando io e te mangiamo gelato seduti sul molo, al tramonto. La vita non funziona così, io non funziono così. Posso portarti rancore per tutta la vita, se necessario, anche solo per ripicca, anche solo per farti entrare nella tua dannata zucca di Brooklyn quanto tu sia stato stupido e idiota e maledettamente bastardo a farmi questo. A farci questo, se proprio vuoi metterla in un’ottica sentimentale o da terapia di gruppo, non mi interessa. Non mi interessa più niente. Non mi importa più niente. Non mi importa---Cristo Santo, Rogers, come diavolo hai potuto?”
Ora la sua voce ha un tono di supplica, che subito muta in ira e poi scivola nel risentimento e si bagna di dolore.
“Come diavolo hai potuto?”
E forse se lo chiede ancora una volta avrà la risposta che ha cercato per mesi, su cui ha sprecato giorni e ore e settimane e visite mai ricevute e chiamate senza risposta e lunghi momenti a guardare il muro e il mondo oltre le vetrate, lì, in attesa che Rhodes arrivasse, accompagnato dal medico, a continuare l’ennesimo esercizio di una serie di esercizi tutti uguali e tutti inutili in un susseguirsi di giorni tutti inutili tutti uguali, tutti in serie, tutti a domandarsi, a chiedere, a odiare, ad amare, a urlare, a restare in silenzio aspettando una voce a sciogliere il freddo della stanza.
Ne è valsa la pena?” sibila “Dimmi, Rogers, ne è valsa la pena?”
Non riceve risposta.
Non gli ha dato il tempo –La paura della risposta, alle volte, è peggio della risposta effettiva. Il dubbio torce, il dubbio dilania, ma la conferma uccide.
Il cellulare è per terra.
Immobile.
Nero.

 

 

Non dorme.
È notte.
Le vetrate sono oscurate.
Non una luce all’interno.
Non una parola.
Solo silenzio.
Silenzio.
Un battito.
Lo schermo che si illumina.
Una pozza azzurra, il nero divelto, il soffitto tagliato da un alone quadrato che continua a lampeggiare fino a quando, a piedi nudi, Tony non si china a raccogliere il cellulare.
Le dita rimangono sospese –Un messaggio ricevuto.
Fuori filtra l’alba, quando decide di aprire la piccola busta telematica.

Non è valsa la pena.

 

“Dici che se provo a mandarti un MMS con questa paccottiglia antica innesco il sistema di autodistruzione?”
“Rispetta la vecchia tecnologia, Tony. E’ praticamente il trisavolo del tuo Padd.”
“…Che hai detto?”
“Cosa? Andiamo, non può essere più di un trisavolo---“
“Mi hai appena chiamato Tony.”

 

“E’ caduta la linea.”
“Ah, guarda. Il vegliardo si è appena ricordato come si cercano i numeri in rubrica.”
“Ascolta—“
“Un vuoto di linea di tre giorni non è un po’ troppo? Eri nel triangolo delle Bermuda?”
“Ero in Bielorussia.”
“…Davvero?”
“Beh, ci sono stato. Forse non proprio in questi ultimi tre giorni, ma ci sono stato.“
“Ci sentiamo, Rogers. Credo proprio di star entrando in una galleria che sospenderà la linea più o meno per—“
“No, aspetta.”
“Che vuoi?”
“Non era te.”
“Chi?”
“Sharon.”
“Grazie tante. Informazione fondamentale e vitale. In effetti mi era sorto qualche dubbio vista l’effettiva mancanza di fluenti capelli biondi, per non parlare del doppio petto che indossa da mattina a sera.”
“Non hai capito.”
“Rogers, se non sei in grado di spiegarti dovrò chiamare un esperto di esegesi, incrociarlo con un dentista e poi chiedergli di svelare la crittografia dei monosillabi metaforici che mi stai propinando invece di costruire una frase sensata con soggetto, verbo e complemento.”
“Non era te, per questo non ha funzionato.”
“Scusami. Galleria.”

 

“Sta diventando snervante.”
Tony è steso sul letto e guarda il soffitto. Conta uno, due, tre, le parole non dette, le parole che non sa dire, le parole che non ha pensato di pronunciare, le parole che non ha il coraggio di sussurrare nemmeno a se stesso.
“Sai, la cosa per cui io ti chiamo, parliamo e poi la conversazione assume una piega strane e io incontro gallerie e tu fenomeni cosmici dall’alto potere distruttivo e chiudiamo così, scappando con la coda tra le gambe.”
“Se vuoi, la prossima volta posso dire che devo andare ad incipriarmi il naso.”
“Rogers, ma non fai nemmeno lo sforzo di stare al passo coi tempi?”
“Cerco di stare al passo con te, vale comunque?”
Un sorriso sulla bocca.
“E’ una battaglia persa in partenza.”
“Forse dovremmo parlarne.”
“No, fidati. Non c’è storia.”
“Mi riferisco all’incipriarsi il naso e a fuggire non appena le cose cominciano a diventare ambigue.”
Se cominci a fuggire non ti fermi più, giusto?”
“Esatto.”
Il magnate si umetta il labbro superiore e avverte un nodo allo stomaco gorgogliare attraverso le viscere. Spera tanto sia la fame o la voglia di caffè o chissà cos’altro, qualcosa che non involva Rogers, dall’altra parte della cornetta, ed una resa dei conti che non sa proprio se è già in grado di affrontare o meno.
“Cosa volevi dire?” domanda a bruciapelo, prima che il buonsenso –O l’istinto di sopravvivenza- prenda il sopravvento “Quando dicevi che con Sharon non ha funzionato perché non era me?”
L’altro sta raccogliendo le idee, lo capisce dal suono umido trasmesso dalla linea: la lingua che si solleva a sfiorare l’arco del palato, poi batte sugli incisivi, come a voler modulare un suono, ma poi ci ripensa e si ritrae verso la gola. Deglutisce e schiocca di nuovo la lingua sul palato –Ecco, le ha trovate.
“Le mie mani.” Sussurra, perché soltanto lui lo senta, perché sia soltanto una cosa loro, nella loro intimità, nella loro languida segretezza “Le mie mani non sono fatte per il corpo di nessuno, se non il tuo.”
Il brivido diventa liquido nella spina dorsale di Stark: è come una goccia di lava che scivola lenta fino alla base della schiena e si solleva sull’inguine, sul basso ventre, nello stomaco, si espande finanche dentro di polmoni.
“Adulatore inveterato.”
“La sua pelle profumava di bergamotto.” Continua ed è come averlo vicino, all’orecchio, come sentire il fiato la gola e lo stacco del collo “Non era la tua. Non era il tuo odore. Il tuo odore---Quanto mi faceva impazzire il tuo odore. Avrei potuto riconoscerlo ovunque, era un sovrapporsi mille frammenti della tua anima, della tua personalità.”
“Ah, sì?”
“Sì.” Il sibilo dell’affermazione fa tremare Tony, la sente vibrare ronzando dentro la carne, trasformandosi, mutandosi in un gemito trincerato dietro la bocca “Sì. Sapevi di Armani, di profumo costoso, di grasso di motori, di minuscoli barbagli di fiamma ossidrica, di caffè, di take away. E poi…” il fiato si taglia e Stark capisce quanto sia terribile l’astinenza ora che la sua sola voce lo ha mandato in fibrillazione “Sapevi di me. Del mio odore. Mi ritrovavo su di te, come un marchio.”
“I tuoi dannati morsi.” La voce è roca, si sgretola contro le pareti del collo “Non hai idea di quanto faticassi a coprirli.”
“Adoravo affondare i denti nella tua carne. Nella gola, dove potevo vedere il battito cardiaco. Aprivo la bocca e avvertivo il calore della tua pelle prima sulle labbra, poi la tenevo, la succhiavo tra i denti per sentire il tuo gusto dentro di me, sulla lingua, riempiendomi interamente, completamente.”
“Dio—“
“Era un assaggio.” 
Eccoli di nuovo, i suoi dannati, adorati, maledetti denti e l’inguine pulsa al punto da costringerlo a coprirlo coi palmi, a dargli un contatto, a concedergli un attimo di respiro, di rilascio elettrico sulla punta delle dita “La prima portata di un sapore più forte, assolutamente tuo, che sarei arrivato a gustare piano, morso dopo morso.”

 

 

“Già.”
“Cosa?”
“Niente.”
“Appunto.”
“Cosa?”
“Mi ricorda la prima volta che…”
“Ancora con questa storia?”
“Mi hai preparato un quantitativo di frittelle tale che pensavo si sarebbe presentato Deadpool alla nostra porta chiedendoci se poteva prendercene un paio.”
“Esagerato.”
“A cena ne avanzavano ancora.”
“Okay. Allora forse ho sfogato la mia tensione sulla cucina.”
“Cosa hai preparato adesso?”
“Come?”
“Dopo questa nostra splendida sessione di appagante sesso telefonico, cosa hai deciso di cucinare?”
“Niente.”
“Come niente?”
“Non avrebbe senso.”
“Perché?”
“Perché le frittelle le avevo preparate per noi due.”
“…Ah.”
“Galleria?”
“Galleria.”

 

“Se mi chiami tu deve esserci sicuramente qualche parola disastrata che ti ho rivolto senza accorgetene e di cui tu, ora, vuoi sapere il significato.”
“Non…Esattamente.”
L’allarme manda in tilt i sensi di Tony e ringhia nei nervi, li alza, li tende, li strofina tra loro creando scariche elettriche sempre più forti, che si accavallano, si mescolano, si agitano tutte insieme, l’una sulle altre, all’infinito.
“Che succede?”
“Non…Dio, quanto sono…Stupido.”
“Questo è un dato di fatto di cui tutti sono a conoscenza, non è il momento di rivangarlo! Che succede?”
“Ci hanno scoperto.” La voce dell’altro pare arrivare da una radio mal sintonizzata e non riesce ad assestarsi su una tonalità percettibile per la maggior parte delle parole, obbligando Tony a schiacciare il telefono contro l’orecchio per sentire. “Un attacco. Un…” un ansito, una stilettata di dolore che affonda nel costato del magnate.
“Dimmi dove sei! Dimmi dove sei!”
“No—E’ pericoloso per te venire qui.”
“E allora perché diavolo mi hai chiamato, dannato idiota? Dimmi dove sei, posso raggiungerti, posso venire da te, posso fare qualcosa, permettimi di fare qualcosa!”
“Rimani con me.”
“Rogers, maledizione…”
“Rimani con me. Sono…Sepolto. Ci sono macerie ovunque e sono riuscito a creare una specie di bolla d’aria, ma…Sono stupido, Tony. Stupido a chiamarti per nome, stupido a cercarti.”
“Avresti dovuto chiamare aiuto.”
“L’ho fatto. Ho chiamato te.”
“Se non mi dici dove sei, non posso aiutarti.”
“Tony, ho spazio a stento per muovere testa e braccia. Ho composto il tuo numero col naso. Credo di essere ben al di là di un possibile aiuto.”
“Ora tu mi devi spiegare come accidenti hai fatto a salvare il telefono e non pensare ad un posto sicuro dove piazzare il tuo culo a stelle e strisce.”
“E’ stupido, vero? Ho solo…Pensato che se si fosse distrutto non avrei più potuto parlare con te.”
“Probabilmente ci sono più cellulari che pesci al mondo e tu—“
“Lo so. Lo so.” Può sentire il fiato fischiare nei polmoni “Lo so. Ma questo…Questo è l’unico legame che mi è rimasto con te. Non potevo permettere che finisse in pezzi.”
“Penso tu sia l’unica persona in grado di mettere in pericolo la propria vita per una metafora. Ragiona, Steve. Dimmi dove sei. Lascia che venga a prenderti.”
“Ah.” Quasi lo vede il sorriso sulla bocca enfia, insanguinata e gli occhi pesti che si illuminano tra gli sbuffi di polvere “Mi hai chiamato Steve.”
Poi crepe. Cigolii. Un’esclamazione soffocata.

“Mi ha detto Natasha che al centralino dell’ospedale stavano impazzendo.”
“Ah, sì?”
Non mostrare interesse. Sii distaccato. Torna sulla tua posizione superiore, arroccati sul tuo fortino rancoroso, dove niente ti tocca –E niente puoi toccare.
“Sì. Un certo signor Stank ha chiamato tutti gli ospedali, di entrambe le Coste, per sapere se avevano in cura un paziente che corrispondeva perfettamente alla mia descrizione.”
“Di gente strana è pieno il mondo.”
“Grazie per esserti preoccupato.”
“Farò presente al signor Stank. Anche se non lo conosco.”
“Tony.”
“Che vuoi?”
La rabbia sale. E’ preoccupazione, questa? E la preoccupazione che ribollendo nello stomaco assume la consistenza amorfa della rabbia? Oppure è soltanto rabbia, pura e semplice furia, l’ira che strappa battiti al cuore e allo sterno?
Forse è rabbia e forse è preoccupazione e forse è amore, l’amore pazzo, l’amore che ha i tratti disfatti della follia: l’amore che tiene svegli fino al mattino, l’amore che obnubila il buon senso e spinge a chiamare, pensare di trovarlo in un ospedale, credere di poterlo salvare, temere di perderlo. È l’amore degli stupidi e dei sognatori, che lascia inebetiti e sfiancati, l’amore di chi non si rassegna, di chi ha perso tutto e vuole riavere, senza soffrire e per questo soffre, perché si costringe a non avere.
Pensava davvero di trovarlo in un ospedale. Lì, in America. Un ricercato che dopo un attacco presumibilmente o forse no del Governo si fa ricoverare in un ospedale…! Che idiozia. Un gesto illogico, privo di tattica, strategia. Colmo unicamente di terrore e orrore e disperazione.
“Perché lo stiamo facendo, Tony? Perché continuiamo questa guerra contro noi stessi? Perché…?”
“Perché io non posso dimenticare.”
È schietto.
Ed è vero.
Non può dimenticare niente, nulla, non un istante, non un singolo momento, non il suo corpo intabarrato nel ghiaccio, non il suo sorriso, non la sua sfrontatezza così retrò, non i suoi occhi, non il suo tradimento, non la sua schiena che si allontana, non il suo silenzio, non la sua risata, non il suo profumo, non la sua scelta.
“Fa così---Male, Rogers.” Così male che alle volte preferirei non respirare, che spesso vorrei morire pur di smetterla, di farlo smettere, di farti smettere. Tu hai---“ arriva, sì, dietro le palpebre serrate e dentro le ossa, il ricordo, la paura, la visione. “Tu hai idea di cosa mi ha fatto vedere la nostra streghetta rossa, quando ancora militava tra i bad guys? Voi. Morti. Quell’idiota di Barton e Vedova Nera e—Tu.”
È un’accusa.
Un dito puntato: come ti sei permesso di entrare nella mia vita, di entrarmi talmente dentro da essere la mia paura più grande, il mio sprone, il mio senso di colpa? Vita e morte?
“Sono corso da te. Prima di correre da ogni altro. Il mondo sopra di noi era rovesciato e ricordo il cielo che vomitava stelle e sangue nero e sono corso da te, da te, tra tutti. La mia paura più grande. Perdervi tutti. Perdere ogni cosa. E tu, tu---“
Continua a ripeterlo, flettendo sul pronome quanta più anima possibile, spingendovi sopra la voce, la mente, se stesso, fino allo stremo, fino alla completa disgregazione.
“Tu eri l’esemplificazione stessa della mia paura. La morte del sogno. La morte del sogno. Il mio sogno. Il nostro sogno. I Vendicatori…” un sorriso ironico, rapido, piange sulla sua bocca “Lo sai come mi chiamavano prima, vero? Il  Mercante di Morte. Era il mio lavoro e lo facevo così bene da non avere rivali –Rivali che non potessi eliminare con uno schiocco di dita, almeno. O un bell’assegno. Mi sono convinto per anni di non essere altro, di non portare altro che la morte. Mi andava bene.” Ammise “Mi era facile. Mi riusciva. Era qualcosa che capivo, la morte. Sai? La mia vita era un tendersi distruttivo fino all’ultima meta: vivevo così tanto ogni giorno unicamente per avvicinarmi alla morte. Ogni sbronza di cui non ricordavo che il vuoto ed il nero e la testa spaccata; ogni donna che mi uccideva tra le sue gambe; ogni dado era un proiettile ben piazzato sulla roulette della mia esistenza. Vivevo picchi di esistenza tanto febbrili da rasentare l’annullamento. Vivevo al punto di morirne. Ogni giorno sempre più, spezzandomi le ossa per cadere, crollare, franare sempre più veloce, sempre più rapido, esultando---“
Deve fermarsi.
Il cuore ha stretto alla gola e adesso è un tamburo tra le tempie. Preme contro la fronte, si ingrossa di vene e di sangue contro il cranio; le palpebre schizzano di colori rubizzi e vortici lividi tale è la forza con cui serra i denti.
È in ginocchio.
Non si è nemmeno accorto di aver ceduto e adesso il pavimento è freddo e ancor più freddo è lui, perso dentro se stesso, soffocato da se stesso, condannato ad essere se stesso.
“I Vendicatori erano vita. Erano la prova che, in fondo, anche da una mela marcia come il sottoscritto poteva nascere qualcosa di buono. E stavamo crescendo. Quel qualcosa cresceva e i rami si alzavano e diventavano più ampi e più numerosi ed io ero così accecato dall’orgoglio, dalle foglie e dai fiori e dai frutti da non accorgermi del puzzo di putrefazione, dei vermi dentro la polpa, degli insetti che divoravano la corteccia direttamente dal suo ventre: sono stato così stupido da non rendermi conto quanto il nostro alberello fosse malato, Steve. E la malattia ero io.”
Si arresta. Non sa se dargli il tempo di replicare, allungare una mano, curare le sue ferite con una carezza ed un sorriso –Le sue braccia emergevano dalle ombre della notte, tra le pieghe delle lenzuola e lo traevano da un incubo infinito, un continuo circolo vizioso di paure e di dubbi, e contro il suo cuore non c’era più niente, niente tranne il suo calore e in quell’attimo, in quell’istante perfetto dentro una bolla fragile e bellissima, persino lui trovava il proprio posto nel mondo.
“Dicono che il male non possa vincere, perché ha già in sé il germe dell’autodistruzione.”
“Tu non sei il male, Tony.”
Un sorriso beffardo. Ironia gelida cristallizzata sulla bocca.
“No? Sei tu l’esperto di arti della guerra, Rogers.” Gli ricorda “Due parti contrapposte, ai lati di una trincea. Per forza qualcuno doveva essere il male o non sarebbe mai successo nulla e tu saresti ancora qui, a leggere il giornale alle sei del mattino, dopo non so quanti kilometri di corsa.”
“Non era una questione di bene e di male. Non c’entrava niente il bene o il male. Era---“
“Era uno scontro tra teste dure. Te ne sei reso conto anche tu, no? Alla fine, i grandi ideali dietro cui ci siamo nascosti sono diventati polvere, hanno perso colore e significato: siamo rimasti noi. Siamo sempre stati noi. Dal principio alla fine. Era la nostra guerra  personale. È per questo che abbiamo cominciato a riallacciare i rapporti, no? Perché ammetterlo allora era difficile, da vigliacchi, da bambini e ora, invece, trascorsi mesi di stallo e stasi, ora sembra così adulto, così saggio. Seppellire l’ascia di guerra e stringersi la mano. Quanta bontà d’animo! Quanta maturità! Che magniloquente pantomima!”
La risata è finta, gli brucia la gola. Getta indietro la testa, strizza le palpebre, il peso dei giorni gli ricade sul costato, buca lo sterno, i polmoni. Pensare, accettare, capire, comprendere una guerra e le ragioni celate oltre la cortina della guerra è troppo per un uomo solo, per una notte sola.
Il silenzio dall’altra parte della cornetta è tale che Tony spera sia caduta la linea o direttamente a il telefono, a terra, sull’asfalto; spera che l’apparecchio si sia rotto, spera che tutto sia finito, perché sarebbe talmente penoso ricominciare, rincorrersi di nuovo, di nuovo trovarsi, di nuovo perdersi, perché lo perderà, sì, il germe dell’autodistruzione, lì, cresce, muta, avvinghia, soffoca, porterà via anche il Bimbo Ragno, sì, lo ha già preso, sa che accadrà, lo porterà alla distruzione, lo farà a pezzi, e sarà colpa sua, colpa sua e del suo terrore ossessivo della solitudine. Non vuole essere solo, gli slanci di vita a preludio della morte lo spaventano, da solo, è meglio avere qualcuno con sé, qualcuno da abbrancare e portare in cima, all’apice, nascondendo a se stesso e all’altro la violenza della caduta, l’orrore e disperarsi, quanto è inutile disperarsi, quando l’inghiottitoio li avvinghia, il Profondo li attanaglia, aprendo le fauci e maciullandoli, a volte piano, a volte forte, a suo gusto, a suo desiderio, a seconda della spinta con cui Tony ci si è gettato, trascinando un’altra vittima sacrificale con sé.
“Lui è ciò che rimane della mia vecchia vita.”
La voce di Steve arriva da lontano, oltre la nebbia, oltre la mente ottenebrata dal senso di soffocamento e dal senso di colpa.
Per la prima volta dopo mesi, non ha il coraggio di interromperlo. Non vuole interrompere il suo flusso di pensieri: vuole dargli la possibilità di spiegarsi e fare i conti con scelte e conseguenze su cui probabilmente non ha riflettuto abbastanza. Probabilmente avrebbe fatto troppo male rifletterci sopra, stare fermo e pensare, accettare, capire, comprendere una guerra e le ragioni celate oltre la cortina della guerra.
È troppo per un uomo solo.
“Peggy è…Peggy se n’è andata.“ trema ancora, al ricordo “Peggy aveva vissuto la sua vita. Si era allontanata da me. È normale.” Puntualizza “Non le sto facendo una colpa. Era giusto che si facesse una vita, che mi dimenticasse. Gli Howlers se ne sono andati tutti prima di lei. Lei ha resistito. Arnie, il mio vicino di casa. I miei commilitoni. Lentamente la vita ed il tempo li hanno sgranati via, come un rosario. Uno ad uno sono scivolati tra le mie dita, si sono sparsi a terra e io li ho persi.”

Tic. Toc. Tic. Toc.
Il suono dei grani del rosario. Delle lancette. Del tempo che scorre.
“Mi sono ritrovato solo. Bucky---Lui era il mio migliore amico. È morto per colpa mia. Ho la possibilità di fare ammenda. Di proteggerlo. Di proteggere il mio passato. Il nostro passato. Ho bisogno di lui per non impazzire. Per non sentirmi…Solo.”
“Con me ti sentivi solo?”
“Sai cosa voglio dire.”
Lo sa. Lo ha visto nei suoi occhi molte e molte volte, ad ogni funerale di più, ad ogni goccia di pioggia. La vedeva, la sua solitudine, una patina traslucida come la polvere che si posa di giorno in giorno sui mobili.
Su una vita intera.
“Siamo entrambi sabotatori inconsapevoli del nostro futuro.” Gli fa notare Stark “Potrebbe persino piacerci, è questo che ci fa paura e ci fa fare a marcia indietro. Stiamo così bene nella nostra torre d’avorio: è il nostro rifugio, come il fortino di cuscini di quando eravamo bambini. È sicuro, lì. È il posto migliore dove stare, senza scegliere, senza pensare. È un posto facile, creato tanto tempo fa da un ragazzino di Brooklyn ed un supergenio nemmeno adolescente che leggeva i fumetti di Capitan America mentre preparava la tesi sperimentale per il MIT. Bisognerebbe scendere a giocare, di tanto in tanto, e affrontare il mondo e noi stesso ed il futuro con uno scudo di legno ed un’armatura di cartone.”
“Perché io sono soltanto il Ragazzino di Brooklyn e tu il supergenio?”
“E’ la dura verità, Rogers, accettala.”
Un secondo. Due. Tre.
Poi inizia. È come un murmure, il vibrante incresparsi della superficie, il borbottio argentino dell’acqua che dal fondale vortica e sale, fino ad un’esplosiva risata di schiuma, bianca, opalescente, che illumina il bruno oceano circostante.
Steve sta ridendo.
Ridendo così forte che persino Tony si unisce, ridendo talmente a lungo da non riuscire più a distinguere, ad un certo punto, la risata dal pianto.

 

Il cielo è azzurro, oltre la vetrata.
Tony sta osservando i tetti delle case che si affastellano e si affaccendano gli uni sugli altri, tagliandosi la strada a vicenda, sfidandosi a chi è più alto, a chi è più grosso. Nelle strade brulicano persone di ogni genere, ciangottano parole di ogni tipo, si inseguono esistenze di ogni tenore, si intrecciano, si uniscono, si sfiorano un istante e quello dopo già sono opposte, lontane, si guardano appena, si sorridono, si amano e si odiano. C’è chi passerà insieme cinque minuti, chi tutta la vita; chi aspetta per lavoro, chi non sa di aspettare, chi ha smesso già da un po’.
È un mosaico multicolore in continuo mutamento e Tony lo osserva dall’alto, intoccato ed intoccabile, con la spalla appoggiata al vetro ed un caffè tra le mani. Gira pigramente la tazzina contro la bocca di ceramica e ascolta il silenzio.
Non lo infastidisce, questa. Il silenzio si è sostituito alle loro chiamate in maniera naturale: è scivolato a colmare il vuoto della loro distanza simile ad un corso d’acqua che s’accomodi nell’alveo.
Sono dieci giorni, ormai, che i giorni vanno avanti senza notizie di sorta, senza messaggi o quant’altro, e a Stark va bene così. Una dolceamara rassegnazione: si sono raccontati e svelati troppo in una notte sola, hanno toccato il fondo e hanno cercato di risalire, certamente più leggeri di quando hanno iniziato.
Non si stupisce che Steve non l’abbia richiamato. Rispetta il suo silenzio.
Non ci sono più non-detti tra loro –Tranne uno. Non è un vero non-detto. È un sentimento passato che, Tony lo sa, prima poi diverrà un ricordo e sarà dolce guardarlo, muoverà il cuore e farà nascere sul volto un sorriso e un pizzico di malinconia.
Sta per sorbire un sorso di caffè sull’onda di quelle riflessioni, quando un avviso di chiamata illumina d’azzurro l’auricolare che tiene all’orecchio destro.
“Sì?”
Non ha neanche controllato chi è. Data l’ora del mattino, sarà sicuramente il Bimbo Ragno che lo avverte di un qualche criminale sbarbatello che lo ha fermato per strada mentre andava a scuola.
Per questo quasi sputa il caffè sulla finestra, nell’accogliere la voce dall’altra parte.
“Il supergenio nemmeno adolescente che leggeva i fumetti di Capitan America mentre preparava la tesi sperimentale per il MIT può scendere a giocare?”

 

 

 

 

 

   
 
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