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Autore: SamuelCostaRica    10/12/2016    0 recensioni
Un nuovo mondo.
Antichi nemici.
Ma il mondo è davvero nuovo e i nemici sono davvero antichi o è il contrario?
Genere: Avventura, Azione, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Violenza
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Mentre tutti si rifocillavano nei locali sotto la sala comando, il Colonnello si diresse, furtivamente, nella zona delle armi.
L’astronave era nascosta in una ben specifica zona del settore B, ma raggiungerla era un bel problema: doveva ricordarsi dove era l’acceso al sistema viario sottoterra della zona e Omnia non poteva aiutarla.
Per motivi di sicurezza, al computer era stato affidato, dai suoi costruttori, il sistema di difesa, ma era stato tenuto all’oscuro della posizione delle navi di salvataggio: la salvezza dei costruttori era a loro discrezione e un computer avrebbe potuto decidere il loro allontanamento dal pianeta anche senza una reale situazione di pericolo da parte del nemico, che magari poteva essere distrutto.
Il Colonello continuava a ricordare a fatica i particolari del posizionamento di accessi e di altri riferimenti a lei necessari, ma la memoria gli tornava a mano a mano che girava per quell’enorme sito.
Era meglio non rimanere troppo lontana dai suoi sottoposti, per cui ritornò indietro, con la promessa di venire lì tutti i giorni a cercare il modo di arrivare all’astronave: chiuse le paratie della sala comando e andò nel locale sotto di esso.
L’aria era allegra e distesa.
Tutti scherzavano sul mangiare che il replicatore aveva prodotto: i cibi e le bevande erano molti gustosi, anche se per i terrestri quelli di quel pianeta non sapevano proprio fare da mangiare.
Il Tenente Closser si accorse che il Colonnello era rientrato dopo un po’ di tempo, ma fece finta di niente.
I giorni trascorsero lentamente, tra i feriti che venivano curati, tra il controllare la sala comando e nell’attesa che il fall-out atomico terminasse.
Il Colonnello, con varie scuse, andava e veniva dalla sala comando, e incominciava a ricordare particolari, a riconoscere punti di riferimento solo a lei noti e avvenimenti che erano accaduti tempo addietro su quel pianeta.
Il Tenente Closser, alle volte, la seguiva, silenzioso, per vedere cosa combinava.
Più di una volta aveva corso il pericolo di essere visto, ma il Colonnello era troppo occupato a ricordare da accorgersi dell’uomo che la seguiva.
Erano passati ormai trenta giorni, il personale militare aveva ripreso, per necessità e per noia, ad occupare il tempo allenandosi nell’enorme hangar delle armi, tenendo gli orari rigidi e che seguivano un orologio elettronico che Omnia aveva fatto apparire su di un monitor gigante, all’inizio della sala comando.
Gli scienziati continuavano a fare domande ad Omnia, che rispondeva per quanto gli era possibile o conosceva o gli era stato permesso di dire dal Colonnello.
Fuori, all’aperto, improvvisamente, piovve.
Tutti erano agli schermi a vedere cosa succedeva, tranne il Colonnello e il Tenente, che la stava seguendo nella sua giornaliera esplorazione del posto.
L’hangar della armi, lungo non più di due kilometri, era chiuso, sul fondo, da un muro in cemento armato.
Le armi presenti occupavano non più della metà del sito e il resto del pavimento, di color grigio chiaro, era pieno di botole, linee a strisce oblique gialle e nere, che delimitavano zone numerate, altre linee colorate che collegavano varie zone e di cui, alcune, si fermavano improvvisamente contro il muro in fondo all’hangar.
Il Tenente aveva visto più volte il Colonnello scendere in una particolare botola di fronte al muro, per risalirne alcune ore dopo.
Come le altre volte, il Colonnello aprì una botola, l’unica che era riuscita ad aprire senza l’aiuto di nessuno, e vi si infilò.
Se fosse stata via come le altre volte, il Tenente avrebbe avuto tutto il tempo di studiare il muro.
Il muro, di sicuro di un materiale simile al cemento armato, era stato spostato, tempo fa: lo si evidenziava da delle strisce nere lasciate sul pavimento.
Il Tenete si avvicinò e lo toccò.
Morbido.
Dannazione non era duro, era morbido.
E al tocco il muro emise come … un sospiro.
Il Tenente decise di guardalo non di fronte, ma di sbieco: non era la prima volta che gli capitava che guardare le cose in prospettiva diversa davi risultati stupefacenti.
E così accadde e poté vedere cosa il muro nascondeva.
Sembravano gabbie per animali.
E all’interno vi erano degli animali, enormi e vivi.
Vivi!
Dannazione!
Il Tenete vide il Colonnello, che non degnò di uno sguardo gli animali, anche se questi si agitarono e cercarono di rompere le gabbie per scappare.
Ma in realtà non erano gabbie, ma c’erano delle specie di luci dal basso verso l’alto, o viceversa, che formavano un cerchio intorno ad ogni singolo animale, costringendolo, con scosse che gli arrivavano dalle luci, a stare in mezzo alla gabbia.
Il Tenente tentò di passera quel muro, ma per quanto fosse morbido al tatto, risultava inamovibile e impenetrabile al suo tentativo, qualsiasi sforzo lui facesse.
Il tenete lasciò stare e seguì con l’occhio il Colonnello che si addentrava in quella parte di edificio.
“Che ci sarà là in fondo o sotto il pavimento delle gabbie?” Pensò.
Ma quello che lo preoccupava era gli animali. Come potevano essere ancora vivi dopo così tanto tempo?
Quel posto era vuoto forse da secoli e quegli animali sembravano in forza, pronti ad agire, con uno standard di vita superiore al tempo passato in quel posto.
Il Tenete voleva passare dalla botola lasciata aperta del Colonello, ma ci ripensò.
Proprio in quel mentre il Colonnello ritornò: nel guardarla vide che era spaventata e molto circospetta.
Il Tenete corse a nascondersi e attese che il Colonnello se ne fosse andato.
Doveva scoprire il più possibile di quello che lei aveva visto.
Il Colonnello ripassò la botola, si guardò intorno, nella speranza che nessuno l’avesse visto, e ritornò alla sala comando.
Entrando in sala capì subito che qualcosa non andava, senza che Omnia gli dicesse niente.
Gli scienziati e i militari guardavano i monitor e quella pioggia, strana, un po’ oleosa, che scendeva di traverso, sospinta da forti venti.
In lontananza alcuni uragani riempivano lo sfondo, ma non si insinuarono nel deserto.
Il livello di radiazioni nell’aria diminuiva, ma si alzava quello a terra.
Era impossibile che tutte quelle radiazioni se ne fossero andate via così e da lì bisognava andar via, in fretta, per non lasciare al nemico niente da utilizzare contro di loro.
Quando fuori il buio incomincio a prendere il posto della luce, con il cielo squarciato da lampi di colori blu elettrico o verde evidenziatore, tutti ritornarono al locale sotto la sala comando.
Il Tenente seguì gli altri, ma aveva una ferita al braccio sinistro che dovette farsi medicare da una donna scienziata con lineamenti orientali chiamata Sue Lee.
Il Colonnello era troppo pensieroso per accorgersi del tipo di ferita del Tenete e rimase lì, nella sala comando.
Il tempo sul pianeta era cambiato, dopo tutta quella distruzione, e quella pioggia si trasformò, con un uragano che si infilò tra le due catene montuose.
Il deserto, che avevano calpestato durate la loro fuga, era chiuso tra due alte catene montuose, distanti migliaia di kilometri, con direzione nord-sud, in cui i venti si infilavano, dopo aver scavalcato un’altra catena montuosa posto a nord, che sembrava voler fermare l’avanzata del deserto.
L’urgano rimase lì, senza potersi muovere, bloccato dalla catena montuosa del nord, scaricando tutta la sua incontrollabile furia.
Se non fosse stato per le telecamere esterne di quel tempaccio, dentro al bunker, nessuno dei suoi occupanti se ne sarebbe accorto.
La noia, all’interno del bunker, incominciò a prendere il sopravvento.
L’uragano non scemava, il duplicatore rendeva tutti contenti, forse troppo, e nulla si muoveva.
O almeno ai più così pareva.
Il Tenente decise di porre fine a questa lagna, precedendo, un giorno, il Colonnello nella botola.
La sorpresa del Colonnello, quando entrò nella botola, fu totale, o almeno così diede a credere.
«Tenente, cosa ci fate qui?» La voce sembrava sorpresa, ma il corpo no.
Il Tenente, dopo anni di allenamento, aveva imparato a vedere ogni singolo movimento del corpo che desse il minino segnale differente da quanto che diceva la voce.
E quel movimento del corpo gliele diede la prova, quel impercettibile strano movimento delle braccia e capì che era meglio scoprire le carte, a modo suo.
«Quando mi sono tradito, Colonnello?» Disse, calmo, quasi in modo distaccato.
«La ferita. Non ci avevo fatto caso, all’inizio, ma non rimarginava, per cui lei è stato in un posto in cui non doveva andare. E poi, miracolosamente è guarito, e quindi è stato in un altro posto in cui non doveva andare. Le coincidenze, se si sommano, danno un solo risultato: lei mi ha seguito. Non sono sicura fino a dove, ma di certo ha superato questa botola!» Il Colonnello indicò, con la mano destra il buco sopra di lei e, finita la frase, si incamminò nella passaggio, passando davanti al Tenete, spostandolo da parte, in modo brutale, per farsi largo in quel piccolo cubicolo, pieno di tubi e cavi che arrivavano da chissà dove e andavano a qualche stana destinazione.
Il Tenente si scostò e la seguì.
Lei uscì dall’altra botola, seguita dal Tenente, e si diresse verso il fondo del resto dell’hangar, mentre quegli strani animali rumoreggiavano pericolosamente.
Ma le sbarre luminose gli facevano paura e loro, dopo alcuni tentativi di distruggerle, si rimisero calmi nel mezzo della loro gabbia.
«Parecchio stupidi! Non sono abituati ad imparare dai loro errori?» La domanda del Tenente finì nel nulla.
Il Colonnello seguì la strada di tutte le altre volte: in fondo all’hangar, un’altra botola e una scala che scendeva in una stanza, illuminata a giorno, di forma circolare, da cui si diramavano diverse gallerie, anch’esse ben illuminate: il Tenente le contò, osservandole attentamente.
Il Colonnello ne aveva segnate sette su dodici.
«Dove portano quelle che ha già esplorato?» Chiese il Tenente.
«Non dove vorrei!» Rispose secco il Colonnello.
Il Tenente bloccò il Colonnello, prima che si infilasse in un'altra galleria, e gli indicò gli strani simboli sopra ogni apertura.
«Pensa che non gli abbia già notati, ma non dicono il vero!» Disse il Colonnello, cercando di scappare via dalla mano destra del Tenente che le tratteneva il braccio sinistro.
«Tenente, mi molli…!» Ma il Tenente non diede retta al Colonello.
«Si calmi!» Gli disse il Tenente, tirandosela a sé.
«Lei dice che non dicono la verità, ma quindi ci sono delle trappole al loro interno. E lei le ha individuate e le ha fatte scattare.» Il Colonnello si calmò.
Il Tenente aveva indovinato.
La lasciò andare, allontanandola da sé, e comincio a guardare i simboli posti sopra la galleria: non tutti erano esattamente sopra l’arco della volta.
Alcuni erano spostati, di poco, a destra, altri a sinistra.
Solo due erano perfettamente al centro.
E uno era già stato visitato dal Colonello.
«Lì cosa ha trovato?» Disse il Tenente, indicando la galleria e alzando la testa per vedere meglio il simbolo.
«Nulla di particolare!» Il Colonnello, scocciata, si massaggiava il braccio.
«E l’altra non l’ha ancora visitata?»
Il Colonnello non disse niente, continuando a sfregarsi il braccio, indolenzito, e abbassando gli occhi.
Il Tenente capì.
«Tutta questa sceneggiata per tenerci nascosto un modo di scappare! Non mi sono mai fidata di lei, fin dal primo momento che tutti l’hanno voluta svegliare! Non mi sono mai fidato. Il simbolo sul suo sarcofago non era come quello degli altri. Il Generale lo sapeva e mi ha convinto a starle alle calcagna. E ora questo. Chi diavolo è lei?» La voce del Tenente divenne dura e il Colonnello cedette, sedendosi per terra e piangendo.
«Non lo so! Non me lo ricordo!» Tra mille singhiozzi, smise di strofinarsi il braccio e lo avvicinò, mettendosi in posizione fetale seduta.
«Ricordo cose a sprazzi, vanno e vengono! Dormo in mezzo a incubi, tra gente che brucia tra le fiamme e palazzi pieni di persone ben vestite e ricchezze di ogni dove! Mi ricordavo di una nave, che qui c’era una nave per scappare e non la trovo! Saremo scappati insieme, ve lo giuro!»
Il Colonnello spinse la testa tra le gambe.
Il Tenente controllò attentamente che il Colonnello non mentisse.
Nella posizione in cui si era messo il Colonnello, non riusciva a capire se mentisse, ma la cosa non lo convinceva.
Ma più i là non poteva andare, per paura di scoprirsi più del necessario, e il Generale non voleva.
«Va bene! Vediamo dove arriva questa galleria, ammesso e non concesso che lei non l’abbia già percorso!» Disse il Tenente, amorevolmente, aiutandola ad alzarsi.
Le goccia del pianto smisero di scendere sul viso del Colonnello, anche se un lampo, di un millesimo di secondo, percorse gli occhi del Colonello.
Il Tenente lo notò, proprio per caso.
“Tu non me la racconti giusta, bella rossa! E se fossi in te starei attenta! Anch’io ho un piccolo segreto, che potrebbe non piacerti!”
I pensieri del Tenente corsero veloci, mentre aiutava il Colonnello ad inoltrarsi nella galleria dal simbolo dritto sopra l’arcata.
La galleria era ampia, all’inizio, poi curvava verso destra, per poi girare subito a sinistra e proseguire dritta.
La luce era quasi abbagliante, ma non dava troppo fastidio.
Camminarono per circa dieci minuti, per arrivare davanti ad una porta a due ante in acciaio.
«Perché non è riuscita a proseguire?» Chiese il Tenente.
«Non c’è tastiera. L’ho cercata, ma non c’è modo di trovarla! Ho provato di tutto: sfiorato le pareti, la porta, il telaio, niente! Questa maledetta non si apre!» E infuriata, il Colonello diede un calcio alla porta.
Il rumore metallico rimbombò nella galleria.
Niente.
Il Tenente pensò, passando le dita, leggermente, intorno alla porta.
Si allontanò dalla porta e prese, con la mano destra, da una tasca interna del giubbotto militare, uno strano aggeggio.
Il Colonello stava per parlare, ma il Tenente la fermò con la mano sinistra e appoggiò lo strano aggeggio alle labbra, soffiandoci dentro.
Lo strumento emise un suono, che inizio a modularsi da solo: la porta ebbe un sussultò e poi si aprì, mostrando all’interno un locale, grande almeno dieci metri per dieci, tutto in acciaio riflettente, alto non più quattro metri.
«Assomiglia ad una cabina di un ascensore, non vi pare, Colonello?»
L’uomo si girò e vide ancora quel maledetto lampo sul volto del Colonello, subito nascosto da una faccia sorpresa per la perspicacia del Tenente.
“Ancora!” Il Tenente incominciava a preoccuparsi: di certo lei non poteva sapere nulla del Tenente, ma quello sguardo era tremendo e preoccuparsi, per il Tenente, era cosa normale.
Salirono titubanti sull’ascensore dove, a sinistra dell’ingresso, vi erano solo due simboli, con delle frecce, più che esaustive: su o giù.
Il Colonnello voleva premere il giù, ma il Tenente la fermò.
«Non è detto che sia la scelta migliore!» Disse il Tenente.
«Solo la più logica!» Disse il Colonnello, stizzita, e senza pensarci troppo schiacciò il pulsante con la freccia in giù.
Le porse si chiusero, scricchiolando, forse ferme da tempo: la cabina ebbe un sussultò e si mosse verso il basso.
Il Colonnello si ristrinse tra le braccia, mettendosi in mezzo alla cabina.
Il Tenente vide il movimento, e si girò, notando che la donna guardava verso l’alto.
Ormai non aveva dubbi: era una persona abituata a comandare, a farsi rispettare, a sottomettere qualsiasi individuo a lei inferiore e il guardare verso l’alto indicava che lì c’era quello che lei cercava.
Era furba, troppo furba, e inquietante.
Si preparò a tutto: alla fermata della cabina sarebbe successo qualcosa.
Il Tenente si spostò, lentamente, verso il lato destro della cabina, con la mano sinistra sulla fondina della pistola e la destra dentro la tasca dei pantaloni della mimetica, pronta a sguainare un oggetto lungo circa quaranta centimetri e sottile, che lui mosse sotto il pantalone.
La cabina rallentò e si fermò con una scossone.
Tutte e due gli occupanti persero un po’ l’equilibrio, ma si ripresero subito.
La porta della cabina, questa volta, si aprì di colpo e il Colonnello scappò verso l’esterno, da cui proveniva una luce violentissima.
Il Tenente dovette mettersi gli occhiali da sole, appese alla tasca sinistra del giubbetto, ed estrasse la pistola, coprendosi il volto.
Uscì, con la pistola pronta al fuoco, ma rimase lì, come il Colonnello.
Muro.
Un muro di roccia li accolse.
Nessuna via di uscita.
Il Colonnello si guardò intorno, stavolta realmente spaventata.
Aveva sbagliato zona o la memoria era stata ancora una volta fallace?
“Fregata!” Pensò il Tenente, con un sorriso cinico rivolto al Colonello, puntandogli la pistola.
Lei si girò, vide quel sorriso, la pistola e lo sconforto la avvolse, come una coperta.
«Hai vinto, maledetto!» Il Colonnello aveva, stavolta, lo sguardo sconvolto e stravolto nonché inferocito.
Ritornò nella cabina, stizzita, e il Tenente la seguì, premendo l’altro pulsante.
La cabina risalì, sferragliando un po’.
Forse lì dentro non tutto era stato mantenuto ben oliato e l’ascensore ne era un ben degno rappresentante.
Si fermò ancora una volta al piano dove erano saliti prima dello scherzo del Colonello: il Tenente, senza mollare lo sguardo dal Colonnello, ripremette il pulsante su e la corsa riprese.
Il Colonnello guardava ancora in alto, pensierosa e preoccupata.
Il Tenente non mollò per un solo attimo il Colonnello, girandogli intorno e mettendosi alle sue spalle, con la pistola sempre spianata e la mano destra nella tasca.
La cabina rallentò e, sferragliando ancora, si fermò.
Quando le porte di aprirono la luce era meno intensa di prima, più tenue.
Il Tenente si tolse gli occhiali e il Colonnello, lentamente, uscì nell’atrio.
L’atrio, in realtà, era una piattaforma in ferro circondata da una enorme vetrata.
Quando il Tenente uscì dall’ascensore, quattro enormi occhi, uno di fianco all’altro, lo guardavano.
Il Tenente stava per aprire la bocca, quando, con la coda dell’occhio, noto lo strano movimento del Colonello.
“L’importante è non arrendersi!”
Il Tenente pensò e si mosse in una sola frazione di secondo.
Afferrò il Colonnello, mi mise la mano destra dietro il collo e il Colonello svenne: che se ne fosse accorta o no, al Tenente non importava.
Ora giaceva lì, svenuta, hai suoi piedi.
“Ecco, adesso mi tocca portarla a spalla fino alla sala comando!”
Il Tenente poté guardare con calma gli occhi che lo guardavano.
Più che occhi, erano sicuramente i motori di una nave.
Ma da quella posizione ben poco si poteva guardare.
I motori occupavano tutta la vetrata.
Il Tenente, per natura sospettoso, iniziò a pensare ai tunnel e dove portavano.
Se quello che avevano preso li aveva portato lì, gli altri dovevano portare ad altre parti della nave.
Era inutile pensarci: senza il “flauto”, come lo chiamava il Tenente, il Colonello non poteva accedere agli ascensori e alla nave.
Si mise il corpo del Colonnello sulle spalle, ma un rumore metallico attrasse la sua attenzione.
L’uomo si girò e lo vide.
“Dannata donna!”
Per terra, un “flauto” rifletteva la luce della stanza, illuminando i pensieri del Tenente.
Lasciò cadere poco garbatamente la donna per terra e raccolse l’oggetto.
Lo controllò con il suo.
Identico.
“Meno male!” Pensò.
Il pensiero che ne possedesse uno diverso lo aveva preoccupato.
No, aspetta.
Il for di uscita del suono non era lo stesso: sembrava predisposto perché gli venisse inserito qualcosa d’altro.
Si chinò sulla donna e ne controllò le tasche.
Eccolo.
Era un pezzo, simile al flauto, un po’più piccolo, con l’incavo per inserirlo dento al fratello maggiore.
Il Tenente si rialzò dal corpo inerme, e ora contuso, del Colonnello.
Pensò, il più velocemente che poteva.
«Spegni le luci!» Disse.
Le luci dell’atrio si spensero, le porte dell’ascensore si chiusero e il buio lo avvolse.
I quattro occhi erano ancora lì, ma una luce proveniva da dietro a loro.
Cercò di vedere meglio, ma la visione era bloccata da quei quattro maledetti occhi.
Da quanto si ricordava della nave trovata e semi distrutta, le tenui luce sembravano venire dalla sezione guida e comando, uno dei ponti più alti.
Aveva provato ad andarsene, ma se la memoria le era stata fallace, sarebbe stato un bel problema trovare i codici per avviare la nave ed andarsene.
Per il Tenente bastava così.
Si ricaricò il corpo sulle spalle, si avvicinò alla porta dell’ascensore, fuori della quale vi era, questa volta, un pulsante con simboli e freccia, e scese per tornare alla sala comando.
Trascinarsi il corpo del Colonnello lungo le scale e le botole fu un vero disastro: anche se atletico e allenato, il Tenente, più di una volta, fece sbattere il corpo della donna, che non si svegliò, neanche quando fu scaricata su di un letto della zona sotto la sala comando.
«Tenente…» Una della donne scienziati aveva incominciato a parlare, che il Maggiore la zittì.
«Penso, Tenente, che avrà una buona ragione per tutto ciò!» Disse il Maggiore.
«Già. Ci stava tradendo. E lo farà ancora, se non ricorriamo a misure drastiche! Dottoressa Ruon, veda se il replicatore può darle un sonnifero per farla dormire e tenerla buona, intanto che interroghiamo Omnia. Qualcosa di forte!» Il Tenente alzò gli occhi dal Colonello all’altra donna, che sembrava sconvolta.
La dottoressa ebbe un tentennamento.
«Vi darò io quello che serve!» Omnia aveva parlato senza essere interrogato.
Dal replicatore apparve una siringa pneumatica, con una boccetta per più dosi.
«Fategli una puntura. Basta per circa, dato il suo peso, dieci giorni. La seconda dose glielo darete un’ora dopo che si sarà completamente svegliata e che si sarà dimenata un po’, in modo tale che la seconda dose faccia subito effetto. Dopo dieci giorni si risveglierà e basterà dargli un’altra dose dopo due ore e così via.  Ma non credo che resterete qui per così tanto tempo.» Disse Omnia.
Il Tenente e tutti gli altri non risposero, più interessati a tenere calma il Colonello e a vedere di andarsene da quel posto.
   
 
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