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Autore: Elphie94    11/12/2016    4 recensioni
«Devo essere pazza per seguirti. Secondo te lo sono?» gli chiesi con voce appena udibile oltre il flusso inondante dei miei pensieri.
Si voltò verso di me – nel buio, i suoi occhi erano come stelle sulla distanza.
«Mia cara, tu sei sana di mente quanto me.»

Meg è la figlia di Madame Giry, la migliore amica di Christine Daaé, un'anonima ballerina di fila. Quando il giornalista Gaston Leroux la rintraccia trent'anni dopo gli strani accadimenti dell'Opera Garnier, lei - vedova di un barone, senza figli - gli racconta la sua versione, in cui è finalmente protagonista. Insieme a un uomo che era diverso da tutti gli altri...
[Correntemente in fase di revisione.]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Erik/Il fantasma
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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xxxii.
viaggio di ritorno



I festeggiamenti continuarono per giorni, addirittura – seppi in seguito – settimane. La notizia che la Resistenza aveva vinto la sua battaglia si sparse in tutto il mondo grazie ai media giornalistici. 
«Non ci faranno mai dimenticare questa avventura, neanche quando saremo di nuovo in Francia» commentò Erik, arricciando il naso – se ne avesse avuto uno, ossia – dinanzi a una marea di articoli in prima pagina sui quotidiani persiani. Io ero d'accordo, ma compresi i motivi di quel festeggiamento: non c'era stata la libertà di parola, scritta o parlata che fosse, da quasi due decadi. 
Tutto il Paese celebrò fino alla preparazione del nostro viaggio di ritorno, che era imminente. Non avevamo più niente da fare, lì, ed Ezzat e Roshak ci concessero graziosamente di rimetterci in sesto e partire con una nave della loro flotta. Anzi, della flotta di Darya e Amir, che furono lieti di accompagnarci in quell'ultima traversata. 
Era l'alba del primo luglio, il sole gettava lance oblique sul mio viso, malgrado l'ombra offerta dalle palme di deliziosi datteri che circondavano il balconcino della mia camera. O meglio, della camera a mia disposizione fino a quel momento. Ne afferrai uno da un ramo più basso, e addentai il frutto succoso. Peccato che fosse troppo maturo. Lo sputacchiai con un'imprecazione che fece ridacchiare delicatamente una presenza alle mie spalle. 
«Non sai ancora distinguere quelli acerbi da quelli troppo maturi, vero?» sorrise Selene, avvicinandomisi. Mi ripulii la bocca con una manica e sorrisi, sperando che non mi fossero rimasti dei resti di quel maledetto dattero tra i denti, ma la mia amica non mi disse nulla al riguardo. 
«E tu non sapresti riconoscere un plié da un arabesque. Così siamo pari.»
«Ehi, questo si chiama barare.»
«No, è pura logica.»
Ridacchiammo insieme e – lo sapevamo – per l'ultima volta. I suoi occhi si riempirono di lacrime. Io deglutii un po' troppo rumorosamente. Mi gettò le braccia al collo prima che avessi l'opportunità di impedirglielo. 
«Per Allah, mi mancherai tanto» fece lei, soffocando un lieve singhiozzo nella mia esile spalla. Le accarezzai il capo velato con la maggiore gentilezza possibile. 
«Anche tu.» Mi feci coraggio. «Potrai scrivermi quando vorrai. Indirizza le lettere all'Opera Garnier. Quella è la mia casa.» Non mi sarei certo trasferita nell'appartamento in cui mia madre era stata brutalmente uccisa.
«Mi piacerebbe tanto vederla. Il tuo Paese deve essere bellissimo.»
«Lo è anche il tuo. Solo che l'ho visitato in maniera – e in un tempo – poco appropriati.» Scossi la testa gravemente. «Non credo vi rimetterò più piede. Lo sai, vero?»
Lei annuì, gli occhi ancora liquidi. Povera Selene. Dirle addio era la cosa più difficile. 
«Vienimi a trovare» la incoraggiai. 
«Se i miei doveri me lo permettono, lo farò con grande gioia. Solo…» chinò lo sguardo, per un attimo indecisa. Poi si fece più ferma. «Non uccidere più, Meg. Me lo prometti?»
«Se intendi dire che dovrò trattenermi dall'infilzare Erik, allora te lo giuro.»
Lei rise e tirò su col naso. «Sei una persona fantastica.»
«Anche tu. Non speravo di incontrare qualcuno come te in questo viaggio orribile.»
«Mi dispiace che tu abbia dovuto vedere il mio Paese in questo tempo tempestoso e mortale.»
«Credo mi sia bastato per una vita intera.» Mi fermai un momento. «Grazie» mormorai poco dopo, quasi incredula che quella parola sgorgasse dalle mie labbra. Selene mi gettò un'occhiata stupita.
«E di cosa?»
«Di avermi fatto capire che a una donna non serve una spada per essere coraggiosa.»
Lei sorrise, i denti perlacei che contrastavano con la carnagione di bronzo. «Figurati.»
Mi accompagnò fino al cortile del palazzo, dove ci attendevano alcuni servi, e Darya, Amir, Nadir ed Erik con le nostre cavalcature. Il porto non era vicino. Ci sarebbero serviti molti altri giorni di viaggio. 
«Scrivimi» le ripetei.
Lei annuì. Io mi strinsi a Darya sul nostro cammello, inspirando il suo profumo – mi chiesi se mai l'avrei dimenticato, una volta tornata in Francia – e mi guardai alle spalle finché Selene non fu un puntino lontano sulla distanza. Un minuscolo raggio di luce nell'alba che si sollevava all'orizzonte. Ero destinata a non rivederla mai più, né a risentire la sua dolce voce. L'ennesimo fantasma nella mia vita di reliquie.


Non ce ne andammo senza prima essere ricevuti nella splendida Sala del Trono dalla Khanum e lo Shah di Persia. Ci augurarono un buon viaggio, quest'ultimo più distaccato della madre, la quale mi rivolse in francese queste esatte parole: «Riponi la spada, ragazza di tenebre. Ora è il momento di tornare a danzare.» Gli occhi d'onice le scintillarono. «Mi piacerebbe vederti sul palco.»
«Se verrete a far visita a Parigi, ne avrete la possibilità.»
«Sì… mi piacerebbe. Se posso. Ho tanto lavoro da fare.» Scoccò un'occhiata grondante affetto al figlio, che la ricambiò. «Ricostruiremo questo Paese insieme. Tu torna a riposare… giovane ballerina.»
Annuii. «Grazie, Madame.»
Sorrise quando – per l'ennesima volta – mi rifiutai di chiamarla col suo titolo di regnante. Scosse il capo con aria divertita. «Sei davvero impertinente. Non so come faccia il nostro Erik, qui, a sopportarti.»
Il suddetto fece per rispondere con una delle sue battute al vetriolo, ma io lo interruppi prima ancora che potesse proferire parola: «Con tutto il rispetto, Madame, sono io che sopporto lui. Non sapete quante ne ha combinate all'Opera.» Ci sarebbe voluto troppo tempo per spiegarle effettivamente il come e il perché. 
Lei rise, deliziata, mentre lo Shah la guardava come a chiederle cosa ci fosse di tanto divertente nella nostra conversazione. La madre fece un gesto noncurante al figlio, per distoglierlo da quei pensieri. 
«Allora andate. Ci risentiremo.»
Non era vero. Non avrei mai più visto la bellezza e la saggezza splendente di Ezzat, né l'ardore tutto giovanile di Roshak. Non li avrei rivisti mai più. Ma anche del loro destino parlerò oltre. Adesso non è tempo.


«Come diavolo…?» 
Guardai prima Erik, poi la scacchiera. Poi di nuovo Erik. 
Lui mi mostrò un sorriso tutto denti e arroganza – quell'odiosa consapevolezza della sua intelligenza che lo faceva sembrare un bambino vanitoso e che avrei voluto levargli a suon di schiaffi.
«É semplice, davvero. Direi elementare.» Incrociò le braccia al petto, con quell'aria da sapiente che mi faceva ribollire il sangue nelle vene. 
Mi aveva battuta a scacchi per la quarta volta di fila. In circa dieci minuti. E sospettavo fosse stato anche generoso nel concedermi così tanto tempo – sbuffai al pensiero – per contrattaccare alle sue mosse precise e letali. 
«In fondo è normale. Sei solo una principiante. Io gioco a scacchi da una vita.»
«Fammi capire, mi stai dando della stupida?»
«No, credo che tu possegga un'intelligenza del tutto nella norma.»
Gli lanciai uno sguardo di fuoco e per poco non gli scaraventai addosso la scacchiera e tutti i pezzi, ma sarebbe stato un peccato rovinarla, visto che era di Amir. Quasi cambiai idea quando vidi quest'ultimo che se la rideva beatamente dello strano duetto tra me ed Erik. 
«Il nostro uomo in maschera sa come corteggiare una donna» sogghignò il capitano tra sé e sé. 
Non ne hai idea, pensai, con la mente rivolta a tutti i guai che aveva combinato all'Opera mesi prima, ossessionato com'era da Christine.
Mi alzai in piedi di scatto e mi diressi nella mia cabina, pestando la suola delle scarpe sulle travi di legno della nave.  Poche settimane e tornerò a casa, pensai. Mi scoprii spaventata all'idea. Non ero più la stessa di un tempo. Non ero più come Juliette, Fabienne e Louise, le mie vecchie amiche e compagne di ballo. Loro erano giovani, semplici, spontanee; io no. Forse non lo ero mai stata. Forse non ero mai stata adatta al mondo, alla vita…
Mi raggomitolai tra le lenzuola, le ginocchia nodose strette al seno. Non piansi. Prima non ero mai stata una persona facile alle lacrime, ma ora la rabbia esacerbava ogni cosa. L'infelicità era un cancro che mi intossicava il sangue. 


Trascorsero un paio d'ore quando venni svegliata da una voce familiare. 
«Meg. Meg.»
«Mmmh.»
«La cena è pronta. Vieni a mangiare. Jasper ti aspetta.» 
Ma certo, il piccolo mozzo con cui avevo stretto amicizia al viaggio d'andata. Dischiusi lentamente le palpebre. Erik era seduto al mio capezzale e seppi dal tremito quasi impercettibile delle sue lunghe dita bianche che mi aveva scosso per le spalle – toccata, quindi – per destarmi. Ammiccai.
«Vai a quel paese.»
Sbuffai e affondai la faccia nel cuscino. 
Erik sospirò, troppo stanco per rimbrottarmi. «Sei ancora arrabbiata con me perché hai perso a scacchi e involontariamente ti ho dato della stupida? Beh, sappi che molti sono stupidi in confronto ad Erik.»
«E pochi hanno il medesimo ego.»
Lui sorrise, gli occhi brillanti nella penombra. La marea ci cullava dolcemente; il cielo fuori doveva essere un miracolo di stelle. 
«Scusa.»
«Non sono arrabbiata con te. E non certo per una sciocchezza simile.»
«Tu detesti perdere, Meg.»
«Come te.»
Mi scostai la frangia dagli occhi e lo soppesai.  «Erik…»
«Di cosa vuoi parlarmi?» Lui sembrava aspettarsi una sorta di ultima, disperata confessione da parte mia. Le nostre chiacchierate notturne non si erano concluse. 
Perché?, mi chiesi. Perché lui e non qualcun altro? Avrei potuto incontrare e legarmi a chiunque, ma tra i tanti mi era capitato proprio quell'uomo dal vissuto incredibile. D'altronde, era diverso da tutti gli altri, questo dovevo riconoscerlo.
«Sai che non sono avvezza a parlare di emozioni.»
«Non lo sono neanche io, se è per questo.»
«No, in effetti tu le emozioni le fai divampare e basta.»
Lui si rabbuiò. «Aspetta un attimo. Cosa vorrebbe dire?»
«Che sei una botte di polvere da sparo pronta a esplodere.»
Lui sbuffò e scosse il capo. «Erik ha molta, molta pazienza. Soprattutto con sciocche, piccole impertinenti di nostra conoscenza.»
«Non sei mai stato un uomo paziente.» 
Lui rise – non era davvero arrabbiato, questo ormai lo sapevo. Riconoscevo al volo i suoi stati d'animo: mi bastava notare la lieve inclinazione del capo quando era incuriosito o pieno di disappunto, e capivo. Ora si stava solo beffando di me… non in modo differente dal solito, quindi.
Dopo, divenne improvvisamente serio. «Continua il tuo discorso. Perdona l'interruzione.»
«Figurati. Dicevo… Mi è difficile esprimere quello che provo, specialmente a parole. Ma con te è diverso.» Arrossii e chinai lo sguardo, sperando che non si avvedesse del mio imbarazzo. Ma lui notava sempre tutto. Era acuto e percettivo, solo che spesso non sapeva decifrare i segni che coglieva negli altri, data la sua mancanza di esperienza col mondo complesso delle emozioni umane. «Ma ho sognato spesso, in questi giorni, di… Insomma, mi chiedo cosa accadrebbe se rimanessi qui con Darya e Amir. Potrei diventare un pirata. Una mercenaria. Finirei per farmi uccidere in qualche guerra e, se non imparassi a nuotare, affogherei in mare durante una tempesta, augurando comunque alla Sole Nero un tragitto sempre sicuro, ma… avrei il mondo nel palmo della mia mano.» Sospirai, acquietandomi per un istante.
«Ci hai pensato sul serio o mi stai solo prendendo in giro?»
«No, ci ho riflettuto. Voglio dire, è un pensiero che mi è passato per la mente, e uno non può controllare la propria mente, giusto? Io dovrei saperlo.»
Lui annuì. «Anche io.»
«Appunto. Ebbene… Ci ho pensato. Perché ho creduto che non mi rimanesse nulla, che anche ritornare a casa mi sarebbe stato doloroso. Che vivere e basta sarebbe stato doloroso. Ma poi mi è venuto in mente che… cosa ho se non la danza? La musica è tutto ciò che mi riporta alla mia famiglia, e io devo tornare alla musica. Se mi rimane ancora qualcosa, è questa. Non più l'innocenza, se mai l'ho avuta. Né penso che potrò mai più essere davvero felice.»
Erik sollevò una mano per fermarmi. «Aspetta.»
«No, fammi finire.» Lo guardai di sottecchi. Non potevo dirgli che, malgrado l'ossessione di cadere in un'oscurità eterna in cui la gioia mi sarebbe stata per sempre preclusa, questo timore si scioglieva come neve al sole quando lui mi era vicino. Perché la sua presenza, in effetti, mi allietava come non mai. Sarei pazza a dirglielo. Per poco non arrossii di nuovo. Invece tossicchiai.
«Devo danzare. Forse così sarò di nuovo felice. È ora di tornare a casa.»
Lui sorrise leggermente. «Meg, tu sei giovane, bella e di talento. E non sei del tutto imbecille, sebbene…»
«Non sono bella. Ma molto intelligente, questo sì.»
Lui sbuffò. «Hai una quanto mai bizzarra considerazione di te stessa. Tu sei tutto questo e molto di più. Hai una vita davanti, soprattutto. Hai trascorso momenti terribili, esperienze che non molti tuoi coetanei francesi supererebbero. Sei stata torturata, in tutti sensi – ti hanno quasi uccisa. Eppure sei ancora qui. Hai vinto, Meg. Hai vinto contro tutti i tuoi nemici, contro ogni aspettativa, e te stessa. Mi hai salvato la vita, piccola ballerina.» Per un attimo vidi un lampo di qualcosa – non saprei dire cosa – nei suoi occhi. Era gratitudine, forse? So solo che mi fece rimanere con la gola secca.
«Non c'è bisogno di aggiungere altro.» 
Si alzò dal mio capezzale e si allontanò dalla mia figura rannicchiata sulla branda, le lenzuola come un muro divisorio tra noi due. Mi fece un cenno con le dita cadaveriche. 
«Vieni, adesso. Devi mangiare.»
«Non puoi darmi ordini.»
«Non è un ordine, è un consiglio.»
Questo mi riportò alla memoria una certa discussione di molto tempo prima… Sogghignai. «Nessun deja-vù a queste parole?»
«Hai buona memoria. In effetti…» Socchiuse gli occhi. «Ricordo. In un'occasione ben diversa, ti dissi che avevi bisogno di nutrirti per recuperare le forze.»
«Già. E io ti risposi che non potevi darmi ordini.»
«Io ribattei che si trattava solo di un consiglio, sì.»
Ci eravamo scambiati quelle frecciatine nel periodo in cui, malata, mi ero affidata alle cure di quell'uomo a dir poco bizzarro nell'appartamento sul lago. Sorrisi al ricordo. Era stato tutto più semplice, allora. E questo è ben dire.
Ciò che era avvenuto in seguito era un turbine di sangue e tragedia, di sogni spezzati e lacrime mai piante. E di sentimenti a stento colti nel bocciolo di un cuore che non riusciva a darsi ragione di quanto gli avveniva ogni volta che si ritrovava vicino a quello di Erik, palpitante al medesimo ritmo.
Avrei osato…? No, avevo ancora troppa paura per dare un nome a ciò che provavo per lui. Per non cedere alla follia, dovevo dimenticarlo. 
Pensavo a tutto questo mentre mi alzavo e lo seguivo sul ponte della nave, dove mi fu servita un'ottima cena. Rimasi seduta a gambe incrociate vicino a Darya, che mi raccontava tra un sorso di rum e un altro di come aveva conosciuto Amir e delle loro prime avventure insieme. 
Avevo sempre sognato di girare per il mondo, di vivere esperienze ineffabili… La mia esperienza si era rivelata del tutto diversa.
Quando rimanevo sola con i miei fantasmi, le immagini mi scorrevano davanti agli occhi come una pellicola bruciata: ritratti di morte e sangue che non riuscivo a spazzare via. Non piangevo, non più. Mi limitavo a stringere i pugni e i denti e ad affondare la testa nel cuscino, coperta come da uno scudo dalle lenzuola della brandina. Non mi confidavo con nessuno, nemmeno con Erik, benché sapessi che con lui sarei stata al sicuro: le nostre chiacchierate – nonché i frequenti battibecchi – mi aiutavano a decifrare le mie emozioni ingarbugliate in una miscela esplosiva di colpa, terrore e angoscia, lasciandomi libera di pensare senza per questo dover fingere di essere qualcuno che non ero. Non con lui, almeno. No, lui vedeva sempre attraverso di me, le mie parole, come fossi di cristallo. E io, allo stesso modo, vedevo lui.
Ad esempio, mi lanciava sempre fugaci occhiate furtive ogni volta che mi avvicinavo alla botte di rum speziato per riempire la mia coppa, perché sapeva che Claude Giry aveva cercato di annegare nell'alcol le sue ossessioni terrorizzanti, fallendo, e che io temevo di fare la sua stessa fine.
«Meg. Meg, lascia perdere.» 
Mi si avvicinò mentre, una sera in cui la luna brillava piena nel cielo di fuliggine, io ero intenta ad attingere alla botte di rum per l'ennesima volta – avevo perso il conto. Nella confusione sulla tolda, dove l'equipaggio tutto gozzovigliava e si abbuffava di pesce salato e cantava in una lingua a me ignota, nessuno ci notò. Tuttavia, forse Darya mi cercava. 
Erik mi fermò il polso con una mano mentre ignoravo il tono di rimprovero nella sua voce – odiavo essere trattata come una bambina che ha bisogno di cure per ogni minima cosa – e diedi uno scossone alla sua stretta sulla mia carne tenera. 
«Cosa c'è?» chiesi, le braccia incrociate al petto, gli occhi a fessura. 
«Voglio impedirti di fare una sciocchezza.»
«Non ho intenzione di ubriacarmi. Reggo bene l'alcol. E poi tu non sei mio padre. Chiaro?»
«No, infatti. Tu finirai come Claude Giry se continui così.»
Mi trattenni dal rifilargli una sberla. «Come osi…?» 
«Sei te stessa o l'ombra di tuo padre?» Rampicante o fiore?
Scossi il capo furiosamente, poi con un senso di dolente tristezza. «A volte le due versioni si confondono tanto che mi è difficile distinguerle l'una dall'altra. A volte mi sento più fantasma che donna.» Gli sorrisi, amara e mordace. «Sto diventando anch'io uno spettro, Erik. Non te l'aspettavi?»
Negli occhi dorati di lui vigeva un'espressione serissima. «Spiegami cosa ti sta accadendo.»
«Non posso, non qui.» Mi s'incrinò la voce, ma appena, solo un sospiro. «Vieni nella mia cabina quando tutti saranno andati a letto. Ti aspetterò, e potremo parlarne con riservatezza.» 
Lo lasciai immerso nei suoi pensieri. Conoscendolo, aveva già indovinato cosa infestasse i miei.


Ero rannicchiata sulla mia brandina quando Erik chiese di entrare. Doveva essere notte inoltrata, poiché il solito gozzovigliare dell'equipaggio era finito e non si udiva altro che il sospiro del vento e il suono delle onde che cullavano la carena del natante.
Mi vide lì immobile, quasi il respiro mi fosse rimasto intrappolato nella cassa toracica, e mi guardò dolente.
«La mia mente gioca brutti scherzi» mormorai in preda alla nausea. Mi si agitava ancora dinanzi agli occhi sgranati l'immagine di tutti i cadaveri straziati che avevo visto nella mia vita. Non me ne libererò mai, pensai con un senso di acuta disperazione. Saranno sempre lì a ricordarmi cosa sono, e cosa non voglio essere.
«Meg…» esordì lui. Sedette al mio capezzale, e sapevo che voleva toccarmi – che so, posarmi una mano sulla spalla in segno di conforto, scostarmi una ciocca di capelli dalla fronte – ma non osava. Non osava mai, alla fine. La sua vicinanza mi fece pulsare il cuore a un ritmo impazzito. Allo stesso modo, io non riuscivo a metterlo a tacere. Né il cuore né la mente si possono davvero controllare.
«Pensavo di poter conquistare la morte, ma mi ha sconfitto. Sono una sua preda. Sono stata così stolta… Avrei dovuto dare retta a te, per una volta. Ho paura che queste ferite non si rimarginino mai. Che resterò sempre così, a un passo dal baratro.»
Lui scosse il capo lentamente. «Non puoi conquistare la morte, è vero. Questo è un errore che anche io ho dovuto pagare duramente. Ma puoi accoglierla. Trattarla da compagna, quasi sorella, come la vita. Bisogna avere coraggio, per questo. E tu lo hai, puoi starne certa.»
Le mie labbra ebbero un fremito. «Mi piaceva uccidere. È questo che mi tormenta. Come posso… tornare all'Opera e ricominciare a vivere come se nulla di tutto questo fosse accaduto? Come farò a fingere davanti al mondo intero? Non so se sono abbastanza forte…»
«Lo sei. Te lo assicuro.»
Giocherellò con i polsini della camicia mentre io fissavo i suoi polsi di un biancore assoluto, cadaverico, e le cicatrici che decoravano quell'affresco macabro.
«Se tornassi indietro, lo rifarei. Rifarei tutto quello che ho fatto. E non me ne pentirei, come adesso.»
«Quindi sei angosciata perché non te ne penti.» Non era una domanda, ma un'affermazione solidissima.
«Sì. Questa consapevolezza mi spaventa da morire, Erik. Tu non l'hai mai provata?»
«Quando ho ucciso Günther, a dodici anni, no. Non ero felice, ma la via del potere e del sangue può portare a soddisfazioni… quasi carnali. Alla corte di Mazenderan, annegavo nell'oppio come hai cercato di fare tu stasera con l'alcol. La mia mente era così confusa e annebbiata, ed io così pieno di rabbia che mi arresi all'evidenza. Se non potevo avere l'amore di cui ogni essere umano ha diritto, allora avrei seminato morte. Era l'unico modo per saziarmi. Quando tornai in Francia, mi preoccupai solamente di me stesso. Preparavo la mia morte – intendevo seppellirmi una volta completato il Don Giovanni trionfante. Volevo lasciare nel mondo la mia impronta di architetto, e così progettai i sotterranei dell'Opera. Prima volevo conquistare la morte, esserne padrone… Poi capii. E la accolsi come un'amica di lunga data. Era la mia liberazione. Per me non c'era altro destino, mi dicevo. Soprattutto dopo quanto accaduto con…» inspirò a fondo prima di pronunciare quel nome, «… con Christine.»
Perché parla al passato? Mi chiesi se dopo questo, dopo tutto, dopo di me, volesse ancora morire. Inghiottii un sorso di bile al pensiero. L'idea della sua morte mi spaventava assai più del suo viso devastato. Forse lo sapevo già da tempo…
«Se Ezzat e Roshak avessero perso la guerra contro Assiye, io le avrei dato la caccia fino ai confini del mondo. Avrei ucciso chiunque mi si fosse parato dinanzi per ostacolarmi – chiunque. Questo cosa mi rende? Una bestia, un mostro?»
«Ti rende umana. Solo umana.»
Lo guardai con occhi che non avevano bisogno di parole. Grazie, pensai, ma non lo dissi. Per essermi rimasto al fianco. Perché mi capisci come nessuno mai. 
«Meg, devi comprendere… la tua è stata una vittoria su tutti i fronti. Non sei un mostro. Non lo sei e non lo sarai mai.»
«Ma se mi è piaciuto uccidere…»
«C'è qualcosa di instabile in te, lo so. Qualcosa che richiama a sé ciò che ho io di instabile, al mio interno. È la tua sofferenza, la tua natura è oscura. Ma questo non significa che non vi sia anche la luce. Il mondo non si divide in luce e oscurità: vi è anche il grigio, ciò che non possiamo vedere se non ad un secondo e più attento sguardo.»
Annuii: concordavo con lui. Se tu sei un mostro, allora lo sono anche io, Erik. Siamo troppo legati. «Se sono un mostro fuori, non significa che debba diventarlo anche dentro» dichiarò lui con solennità. Sorrisi. 
«Finalmente lo hai capito. Ci hai messo un po'.»
Sorrise anch'egli, la penombra che rendeva i suoi occhi simili a fantasmi dorati, rubati al cielo. Era una visione inquietante e magnetica insieme. Ma io non avevo più paura.
«Ora dormi, Meg. L'alcol ti avrà reso sonnolenta e confusa, immagino.»
Mi grattai la testa. Un lieve pulsare alle tempie disturbava il corso – già di per sé tanto agitato – dei miei pensieri. «É per questo che ho bevuto. Volevo un sonno senza sogni.»
«Che idea intelligente, Madamoiselle.»
«Non hai tutti i torti.»
Mi stiracchiai le membra tese e chiusi gli occhi. Lui rimase al mio fianco finché non caddi tra le braccia di Morfeo, sussurrandomi un canto meraviglioso – era farfalle dorate e tremule margherite di primavera e cirri candidi. Era Erik, e la sua voce aveva il potere divino di acquietare qualsiasi animo tormentato. Tutti, meno che il suo.


Con i gomiti poggiati alla balaustra della nave, mi godevo la brezza tra i capelli arruffati, l'odore di mare che permeava tutto come una scintillante coperta di sale e acqua limpida. Osservavo il sole annegare all'orizzonte, ma sapevo che non sarebbe morto: ad ogni alba ritornava a fare capolino tra i nembi di zucchero rosa e arancione, una gigantesca sfera di fuoco lontanissima da me, eppure così vicina… Sii come il sole, Meg. Risorgi ad ogni alba dopo la notte oscura.
Avevo cessato di esercitarmi con Darya alla danza della spada, dal momento che il mio turno si era concluso, e in quei giorni, nella solitudine della mia cabina, mi stiracchiavo i muscoli delle gambe e della schiena, ripetendo per ore gli stessi esercizi di riscaldamento che eseguivo all'Opera Garnier, sotto le direttive di mia madre. Sospirai. Mi mancava così tanto… Come il respiro. Non credevo che avrei mai smesso di sognare il suo cadavere scempiato, o quello di mio padre, né tanto meno degli uomini che avevo ucciso. Ma, come aveva detto Erik, dovevo imparare a conviverci. Non mi sarei arresa. E così ricominciai pian piano, da piccoli esercizi, a dare alla danza tutta me stessa, consegnando ad essa ogni mio male senza nome (e quel bocciolo doloroso e squisito insieme che mi cresceva dentro e fioriva, stillando rugiada, alla vicinanza di Erik). 
Distolsi la mente da quei pensieri e decisi di darmi un'occhiata intorno. Non ero sola sul ponte. Jasper era intento a strofinare con tanto olio di gomito il pavimento di lastre di buon legno resistente, munito di spazzola e sapone. Pensando di andare ad aiutarlo, feci per dirigermi verso di lui, ma a metà strada cambiai idea. Avevo notato una figura abbigliata di nero poco distante, accovacciata sotto l'albero maestro, la schiena ad esso poggiata.
«Salve» lo salutai con un sorriso a metà. Era concentrato su una pergamena su cui scarabocchiava chissà cosa con grande attenzione, perciò non si avvide subito della mia presenza. Sussultò quando mi rivolsi a lui e strinse più forte la pergamena tra le dita ossute, guardandomi con aria di rimprovero.
«Ti disturbo, per caso?» chiesi, pungente.
«No, io… non facevo nulla di che.»
«Sì, si vede. Posso dare un'occhiata?» accennai al disegno che ancora reggeva tra le mani, stretto al petto. Lui si rabbuiò. 
«Non sapevo disegnassi, anche se avrei dovuto immaginarlo. Sei un architetto, dopotutto.»
«Già.»
«Stavi disegnando un palazzo? Fammi vedere.»
Ignorai il suo mugugno di protesta e afferrai il foglio con la rapidità di un aspide del deserto, proprio sotto il suo naso (beh, naso. È una metafora). 
«Attenta a dove metti quelle mani.»
«E dai! Non essere timido. Non sei credibile.»
Osservai il disegno sotto i miei occhi. Una figura femminile sostava dinanzi al parapetto di una nave con la polena a forma di cigno, e un'aria sognante pervadeva la scena. In secondo piano, il sole morente, le ombre che gettava sul mare come frecce da una balestra infuocata. La donna dava le spalle all'osservatore, per cui non era possibile scorgerne le fattezze. Si indovinava però il suo esile corpo, fasciato in un abito di seta scura svolazzante. Serrai gli occhi a fessura.
«É uno schizzo meraviglioso» dissi con sincerità, restituendolo al proprietario. Egli lo prese con fare possessivo e imbarazzato insieme. 
«Chi è la donna?» chiesi, curiosa.
Erik chinò gli occhi infossati e scrollò le spalle. «Nessuno in particolare.»
«Deve essere molto bella. Lei, intendo.»
«Più di quanto crede.» Erik pronunciò queste parole in un soffio, con l'aria di uno che espettorava sangue dai polmoni. Non credeva alle proprie orecchie, e sembrava voler sprofondare dieci metri sotto terra.
Io ammiccai. «Oh. Capisco.» In realtà non avevo capito proprio niente, ma vidi bene di tacere.    
Quando tornai nella mia cabina, quella notte, rivangai la conversazione. Che fossi io la donna del disegno? Questo pensiero mi dardeggiò nella mente insieme a tanti punti interrogativi. Impossibile. No, no. Era vero che ad Erik le persone, di norma, non piacevano, e preferiva la solitudine del suo appartamento sul lago. Eppure, fino a pochi momenti prima, ero appoggiata a quella balaustra, nella medesima posizione della misteriosa donna del disegno…
Ti stai facendo una marea di paranoie per nulla, Marguerite Giry. Sei una povera illusa. Lui ama Christine. Christine. Di una meraviglia che tu non puoi neanche immaginare. 
Mi si strinsero le viscere in una morsa poco piacevole e sentii gli occhi bruciare senza pietà. Affondai il volto nel cuscino e mi costrinsi a pensare a qualcos'altro, qualsiasi cosa… Qualsiasi cosa non fosse Erik, e il fuoco che mi divampava dentro ogni volta che il solo pensiero di lui mi affiorava nella mente. Finirai in manicomio come tuo padre. Brava.
Il sonno giunse scombussolato, quella notte. Ma per una volta, i miei sogni non erano popolati da sangue e cadaveri putrescenti. Sognai di raccogliere da terra la maschera di Erik, il suo falso viso, come il giorno in cui mi ero recata nell'appartamento sul lago per chiedergli perché mi avesse risparmiata nel suo folle piano per conquistare Christine, e se intendesse davvero morire. Solo che questa volta stringevo al cuore quell'oggetto e non lo lasciavo più, mai più. Come fosse l'ultima cosa che mi fosse rimasta di lui.
Non sapevo che quel sogno era premonitore in molti modi.  


Fu durante una notte in cui il sonno non mi coglieva, sotto un cielo maculato di stelle, che mi accorsi per la prima volta di quanto effettivamente Erik fosse cambiato, e non solo dopo Christine, no. Dopo me.
Eravamo poggiati entrambi alla balaustra della Sole Nero, e un sudario di silenzio riempiva il vuoto tra noi con splendida armonia. 
«Tu hai mai visto un delfino?» gli chiesi, scorgendo nell'acqua un guizzo sconosciuto di qualcosa che si muoveva, più grosso di un pesce normale. «Ce ne sono da queste parti?»
Erik scrollò le spalle. «Non saprei dirtelo.»
«Qualcosa che non sai, finalmente» sogghignai tra me e me, avendolo colpito nel segno. Il suo petto si gonfiò di orgoglio ferito, ma non ribatté. 
Lo osservavo, in quei giorni, e avevo notato quanto sembrasse differire dall'uomo distrutto e rassegnato che era divenuto dopo la partenza di Christine, quando era – a suo dire – a un passo dalla tomba. A quel tempo pensava che la morte fosse l'unica via in grado di dargli la pace che tanto cercava, ma ora c'era qualcosa di diverso in lui che…
Mi aveva detto, un tempo, che aveva pensato spesso al suicidio, fin dalla più tenera età, ma che non aveva mai tentato. Capivo allora perché si era immerso fino ad affogarne nell'oppio e nel sangue, quando aveva tinto di rosso la corte di Mazenderan. 
Quello che aveva passato dopo che Christine se n'era andata con la sua benedizione era stato solo un suicidio più lento, l'attesa di una morte ormai agognata come un naufrago brama la terra ferma. E adesso? Voleva morire ancora? Una volta tornati a casa, a Parigi, all'Opera – che cosa avrebbe fatto?
«Erik, tu credi in Dio?»
Lui incrociò le braccia al petto e mi guardò con aria perplessa. «Perché questa domanda?»
«Perché non ne abbiamo mai parlato, e sono curiosa.»
«La solita ficcanaso.» Tese le labbra fino a che non divennero un'unica cicatrice bianca e sottilissima. «Sì, credo in Lui. Ma forse è Lui a non credere in me.»
Quelle parole mi spiazzarono. «Credi anche nell'aldilà?»
«Sì. Da piccolo, il sacerdote del mio paese mi offriva sermoni infiniti sul giudizio universale e l'inferno. Per questo non ho mai…» deglutì. «Voglio dire, non ho mai tentato di uccidermi, sebbene la mia vita fosse un inferno in terra. Temevo un altro inferno, ancora invisibile, ma ben peggiore.»
«Sì, ma… se esiste un Dio, perché avrebbe lasciato che un Suo figlio soffrisse così tanto, come te?»
«Per anni e anni mi è stato ripetuto che appartenevo alla genia del Diavolo. Forse è per questo che Dio mi ha abbandonato. Non sono mai stato una Sua creatura.»
Vidi l'amarezza nei suoi occhi e il mio cuore si strinse in una morsa di compassione. Avrei voluto consolarlo, ma come? Se nemmeno io avevo fede…
«C'è una cosa che vorrei confessarti» mi si rivolse dopo qualche minuto di quiete. Le mie narici fremevano all'odore salmastro che il mare evocava come in un incantesimo.
«Qualche altro assassinio non giustificato?»
«No, non si tratta di questo.»
Esalai un sospiro sollevato. Ne avevo abbastanza di storie dell'orrore.
«Quando mi hanno ferito, in Persia…» d'istinto, si portò una mano all'altezza della costola sinistra, dove una cicatrice dai bordi frastagliati ancora deturpava la sua pelle già tanto tormentata. È una reliquia di guerra, pensai, osservando i sentimenti contrastanti – le luci e le ombre – nei suoi occhi dorati. «Ebbene, ho avuto paura. Tanta. Temevo davvero di morire.»
D'un tratto mi sentii la gola e le labbra aride. Non aveva detto di aspettare la morte, fino a tre mesi prima? «È normale» risposi invece, trovando le parole in chissà quale anfratto della mia mente. «Tutti hanno paura di morire, Erik. Anche i più fedeli e coraggiosi.»
«Non è questo che intendevo» ribatté lui senza guardarmi in viso. Aveva gli occhi fissi sul mare sotto di noi, che ci cullava dolcemente, e che brulicava del riflesso della luna d'avorio e le stelle lontane.
Quando ebbe il coraggio di incrociare il mio sguardo, mi avvidi di quanto i suoi occhi fossero gonfi di mestizia… e qualcos'altro, un sentimento indicibile. «La verità è che temevo di non rivederti mai più. Per questo ho lottato tanto per rimanere in vita. Per questo io… adesso, io temo di nuovo la morte.» Si passò una mano tra i capelli, neri come i miei. «Ti darei la colpa di questa mia rinnovata debolezza, ma non riesco ad arrabbiarmi seriamente con te. No, non è colpa tua. Sono io ad essere uno stolto.» Mi guardò di nuovo. «Mi hai tenuto in vita, Meg. Ci siamo salvati a vicenda. Ora il debito è ripagato.»
Non seppi cosa dire. Tutto intorno a me era nebbia bianca e la voce di Erik e i suoi occhi e le sue lunghe dita pallide e ossute su di me… Percepii un lieve giramento di testa, dato dall'emozione, ma lo nascosi con la maggior prudenza possibile.
«È stato un piacere, Monsieur.»
«Anche per me, Madamoiselle.»
Mi limitai a sfiorargli le dita, poi la mia stretta si rafforzò. Ci tenevamo per mano – fu forse per una manciata di secondi, abbastanza tuttavia per assorbire il gelo della sua pelle morta. Quando ci separammo, mi sentii improvvisamente vuota, ma non sola. Mai sola.



Note dell'Autrice: Scusate tanto, tanto per il ritardo. In realtà, credo che da oggi in poi aggiornerò ogni tre settimane, poiché sono arrivata al 36° capitolo, quindi ci siamo quasi, e… ho sofferto di una vaga mancanza di ispirazione, in questo periodo. Ho avuto problemi di salute – niente di grave, ora sto bene – e all'università. Non solo ho deciso di lavorare – alla Feltrinelli della mia città, se mi assumono, il che mi pare un po' improbabile – ma di seguire il corso di inglese il secondo semestre (sono iscritta a mediazione linguistica), e di superare l'esame per poi iscrivermi a Lingue in un'altra università, più vicina a dove vivo. Sono ottimista, malgrado le solite insicurezze, ansie e paure. Cercherò di lavorare duro per realizzare il mio sogno di diventare una traduttrice (e una scrittrice, ma questo era inutile specificarlo). Figuratevi che una ragazza americana con cui ho fatto amicizia su Tumblr (non so se conoscete questo social network; lo so che ci sono parecchi blog porno lì, ma ignorateli), anche lei fan di Phantom e di Meg ed Erik, mi ha scritto che pensava fossi madrelingua inglese, dato che scrivevo così bene in questa lingua (questo prima di scoprire che sono italiana). Naturalmente mi sono gonfiata d'orgoglio come un pavone. Io, che considero il mio inglese a stento passabile, quasi madrelingua! Da non crederci. Ovviamente faccio ancora molti errori con i tempi verbali e mi scordo parecchie parole e ho spesso bisogno del dizionario, ma… è stata una bella cosa per me, che ho così poca autostima. Grazie, Sydney (la ragazza americana in questione si chiama così). <3
Inoltre, vorrei aggiungere che sto lavorando in contemporanea (sì, lo so, sono pazza) anche a una fanfiction su The Walking Dead, che però credo che non finirò mai, ma è bello sognare. Quindi sono un po' strattonata: da una parte il fantasma, dall'altra gli zombie (se sapete di cosa parla il telefilm). Che battuta pessima.
E ora, le recensioni!

ondallegra: Tesoro, ma perché non dovrei rivolgerti più la parola? La tua critica era costruttiva e giusta. Anzi, spero di avere in qualche modo spiegato, nello scorso capitolo, le mie ragioni… piuttosto sciocche, a dire il vero. Ma vabbè. Ho letto solo ora il tuo messaggio privato, e ti confermo che sto bene. Sopra puoi leggere il motivo del mio ritardo. Sono contenta che questa storia ti piaccia fino a tal punto da essere impaziente per il prossimo aggiornamento! Mi odi, allora, perché tra questi due idioti di Meg ed Erik ancora non succede nulla? Aspetta e vedrai. Manca ancora un po' di tempo. Abbi pazienza. (Sì, lo so, non è facile quando c'è tanta tensione sessuale irrisolta…) Un bacio! <3

debbythebest: Cara, non preoccuparti per la brevità della recensione, non devi mica scrivere un poema! Anzi, è bellissima. Neanch'io avevo notato il parallelismo tra Meg che, nella scena del ballo del capitolo scorso, era vestita di rosso come Erik ne “La Morte e il Cigno”, ai tempi dell'Opera. Brava! Inoltre, è una differenza che c'è tra Meg/Erik e Raoul/Christine: se i colori dei primi sono rosso e nero, i colori dei secondi sono invece il blu e il bianco. Sono complementari, ma hanno significati totalmente diversi.
Spero che ti piaccia anche questo capitolo. Un bacio! <3

Malinconica, dove sei finita? È da un po' che non lasci recensioni, di solito sei così puntuale… Non ti sono piaciuti gli ultimi capitoli? Hai qualche problema personale? Spero che vada tutto bene. Era di questo che mi preoccupavo, non per la mancanza di recensioni, figurati. Magari stai leggendo queste mie parole. Ti mando un bacio, cara. <3

P.S. (per tutti) Ho avuto anche dei seri problemi nel caricare questo capitolo. Sono contenta che si siano risolti, altrimenti non sarei qui.
   
 
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