10° Capitolo
«Sei un nato lupo?» chiese il figlio dello sceriffo la seconda notte di
luna piena.
Derek l’aveva raggiunto il giorno successivo al primo plenilunio senza
nemmeno farselo ripetere, senza aspettare una mezza parola da Stiles e subito
dopo cena, quando figlio e sceriffo ebbero finito e rimesso tutto a posto,
dividendosi nelle attività che solitamente svolgevano a tarda sera, con il
sedicenne già avvolto nel suo pigiama e concentrato a scrivere l’ultima
osservazione sul libro di chimica, insieme a foglietti svolazzanti con esercizi
più o meno svolti ‒ quella era la materia che più gli andava di traverso
e soltanto se costretto si applicava seriamente; aveva comunque il secondo
miglior voto del suo corso, ovviamente dopo Lydia Martin.
«Sì» rispose il licantropo privo di ulteriori indugi, già psicologicamente
pronto a vedersi protagonista delle numerose domande dell’umano.
Stiles si voltò un po’ di più dal lato di Derek, sbucando dalla punta del
cuscino per avere una visione più libera, senza stoffa che potesse dimezzargli
la visuale. Era estasiato ed euforico e benché l’avesse intuito, era comunque
strabiliante averne una conferma ed avere un vero licantropo di sangue puro
accanto a lui; nessun morso e nessun graffio, ma solo generazioni e generazioni
di autentici licantropi. «Sono tutti lupi mannari nella tua famiglia?».
«Solo dalla parte di mia madre» rivelò il diciottenne, che automaticamente
implicava i figli a carico, lui, Laura e Cora. «Malia è un coyote mannaro».
Stiles balzò sul letto, sgranando i grandi occhi ambrati ed alzando la
testa per vederlo meglio, mostrando la sua completa incredulità. «Davvero? Un
vero coyote mannaro?».
Derek lo guardò di traverso, investito da tutte le emozioni eccitate e di
sgomento che si scatenarono dentro l’umano e quasi voleva rimetterlo
sull’attenti, ma era una battaglia persa a priori con lui. «Sai anche di
loro?».
«Un po’» dichiarò il figlio dello sceriffo, tamburellando con le dita sulle
coperte e risistemandole dopo aver scomposto tutto il letto. «Le dinamiche sono
più o meno simili alle vostre».
«Sì, stessa luna, stessi occhi, stessa capacità di guarigione ed
assorbimento del dolore; stesso valore del branco» elencò Derek con voce
lontana, come se non lo riguardasse e semplicemente si limitasse a dargli le
dovute conferme. «Ma lei può trasformarsi in un coyote completo».
Stiles stava per rimbalzare nuovamente sul materasso, facendo cadere tutte
le coperte dal letto e scoprendo entrambi, ma Derek non avrebbe apprezzato e
gli avrebbe assestato un’occhiata assassina che era meglio evitare quando nel
cielo vi era ancora una luna piena al 99%. Ma
cavolo, un vero coyote mannaro, nemmeno nei suoi sogni più proibiti si
immaginava una cosa simile. «Mi piacerebbe vederla».
Derek rimase immobile dal suo lato e Stiles si sentì improvvisamente
richiamare, con la sensazione che avesse detto qualcosa di sbagliato; che si
fosse esaltato troppo per una versione che Derek non poteva o non era ancora
riuscito ad ottenere. «Scusa, so che non mi è permesso vederla» d'altronde non
faceva parte del branco, probabilmente nessuno sapeva che lui era a conoscenza del
loro mondo e nel caso l’avessero scoperto, Derek sarebbe stato nei guai? La
prima regola del mondo del sovrannaturale era di non svelare mai la sua
esistenza agli umani, doveva rimanere nascosta e protetta.
«Non esistono regole scritte, Stiles» affermò il mutaforma, ruotando di
alcuni gradi verso la sua figura, incontrando i suoi occhi bassi mortificati.
«Nessuno ti verrà a cercare per farti tacere e non mi aspetto che nascondi i
tuoi desideri; è un mondo che ti affascina molto e la tua natura curiosa ed
assetata di conoscenza freme per poter apprendere ancora di più, sempre di più;
non c’è alcun motivo per cui debba frenarti» continuò con tranquillità,
perforandogli il timpano ad ogni parola e mettendo ancora una volta in rilievo
quanto sapesse di lui, di chi era, di come agiva, di cosa gli piacesse e come
vi si relazionasse. «Ma per lei è complicato; non sa relazionarsi al di fuori
del branco e non ha mai incontrato qualcuno di esterno, umano, che sapesse di
noi; non so come reagirebbe».
Non sapeva molto di Malia Hale, anzi, non sapeva proprio nulla; la vedeva
sempre in compagnia di Cora, sua cugina e unica compagna con cui si
intratteneva, al di fuori di quel duo, raggiungeva soltanto Derek, insieme ad
Erica, Boyd ed Isaac; per il resto delle attività la
si doveva trascinare e doveva sempre esserci uno di loro cinque per
rasserenarla; le bastava semplicemente vederli, sapere che erano lì, non doveva
essere per forza attaccata a loro, l’importante era che rimanessero nel suo
campo visivo o di percezione. Ma Malia non era sempre appartenuta al nucleo
Hale, quella era l’unica cosa di cui era a conoscenza.
«L’argento non ha alcun effetto su di te» disse invece, dirottando la
conversazione e lasciandosi quella precedente dietro le spalle; evidentemente
era un discorso che doveva essere affrontato con le pinze e probabilmente non
era corretto che se ne occupasse proprio Derek. «Altrimenti non potresti tenere
l’anello e se è uguale al mio, è composto da argento e oro rosso».
«L’anello è identico al tuo» disse con voce profonda e peculiare ed era la
semplice conferma che no, l’argento non aveva alcun effetto su di lui.
«Quindi niente proiettili d’argento» rifletté il figlio dello sceriffo tra
sé e sé, cancellando una voce dalla sua lista astratta ed una delle idee con
cui era cresciuto che si svelava errata.
«Volevi spararmi?» domandò Derek con un sopracciglio inarcato di
perplessità, dedicandogli un’occhiata oblunga.
«No» negò il giocatore di lacrosse, dimenando le mani per sottolineare il
concetto. «Voglio solo capire cosa c’è di vero nelle informazioni che ho
appreso e cosa c’è di sbagliato».
Derek si limitò a guardarlo per attimi di troppo, come se lo stesse
studiando e cercasse di capire se le sue parole fossero vere, sincere, anche se
era propriamente quello che si aspettava da lui; si limitò semplicemente ad
annuire ed a lasciargli carta bianca.
«Lo strozzalupo può ucciderti?» chiese allora, stimolato a continuare con
le sue domande.
«Sì» confermò il lupo mannaro, imperturbabile ed indifferente a tale
proprietà.
«Soltanto il morso o il graffio di un’Alpha può trasformare?» domandò con
più moderazione, anche se era già entrato in possesso di quella nozione nel
momento in cui Derek gli aveva raccontato di Paige.
«Sì» confermò ancora il licantropo, rispondendogli pazientemente, anche se
aveva già fornito quella risposta.
Stiles quella sera, con lo sceriffo già a letto e loro due avvolti nelle
coperte, incuranti del resto, si perse nella continua formulazione di domande,
a cui Derek non si sottrasse, rispondendo ad ognuna e colmando le sue lacune.
Chiese del sorbo, delle sue proprietà e del potere che aveva di fermare le
creature sovrannaturali, chiese se potesse trasformarsi in lupo mannaro al di
fuori della luna piena, della capacità di guarigione e dell’assorbimento del
dolore altrui, se i colori degli occhi che potevano assumere fossero soltanto i
tre di cui avevano parlato, cosa sentisse quando il plenilunio si avvicinava e
quali forme poteva prendere un’àncora. Chiese tanto e molto, completamente a
ruota libera e Derek non sbuffò mai o trattenne le risposte, gli dava
semplicemente ciò che voleva.
«A quale conclusione sei arrivato?» domandò allora il diciottenne, quando
Stiles cadde in un silenzio ristagnante in cui stava riflettendo sulle risposte
che aveva avuto e le stava inglobando in se stesso, riflettendo su di esse e
vedendole da una nuova prospettiva.
«Che la maggior parte dei miei libri dice fandonie» rivelò l’umano con
risentimento, profondamente tradito da quei volumi così cari a lui e raccoglitori
di frottole; non glielo avrebbe mai perdonato.
Derek ridacchiò leggero al broncio provato e risentito di Stiles, così
rancoroso verso gli oggetti inanimati con cui era cresciuto ed a cui aveva
creduto, che l’avevano formato e portato a quel mondo fantastico e al di fuori
della natura classica. «Non ne sono così stupito» affermò per niente colpito,
conscio di quanto fosse impossibile che il reale vivere della sua gente fosse
messo su carta. «Ma hai un buon libro guida».
Stiles lo guardò di riflesso e subito dopo spostò gli occhi sul libro
vecchio e malridotto, quello che Derek aveva adocchiato il giorno prima e di
cui l’umano aveva cantato le lodi.
Durante quel periodo di continue domande ed altrettante risposte, avevano
sfogliato il libro insieme, soffermandosi sulle immagini datate e dipinte ad
olio, così incredibilmente realistiche da sembrare vere; tutto ciò che vi era
riportato era corretto e Derek ne era rimasto straordinariamente colpito,
benché tendesse a non darlo a vedere, ma se il lupo era capace di smascherarlo
e mettere a nudo le sue bugie, Stiles era capace di leggere benissimo le sue
espressioni facciali, anche quelle che mutavano in modo quasi invisibile e gli
sorrideva contro da volpe sapiente e vittoriosa, perché Derek non era l’unico a
saper interpretare l’altro. «Il primo amore non si scorda mai» enfatizzò con
fare birichino, distendendo le labbra in un sorriso a trentadue denti e
sfiorando una pagina in una carezza affettuosa, proprio la pagina dove
affiorava il disegno del lupo nero dagli occhi blu metallici.
Derek gli sbuffò quasi addosso, questa volta sì, del tutto rassegnato al
suo modo di fare.
Ma era evidente che il momento delle chiacchiere e del confronto stava
volgendo al termine e Stiles chiuse il tomo in un tonfo sordo, stringendolo a
sé e portandoselo al petto, affondando il viso sul cuscino, mentre Derek tirava
verso l’alto le coperte, sistemandole al meglio e provvedendo a rimboccarli il
più possibile ‒ poco importava se il lato di Stiles fosse quello che
riceveva maggiori cure.
Il figlio dello sceriffo sbadigliò a bocca aperta, chiaro segno di quanto
la sonnolenza stesse avendo la meglio su di lui, e si impedì di coprirlo,
lasciando che la mano destra si legasse, come da prassi, a quella del mannaro,
permettendo ai due anelli gemelli di incontrarsi, mentre l’altra rimaneva
avvolta al volume schiacciato contro il suo corpo. «Derek» chiamò a mezza voce,
facendo morire un nuovo sbadiglio contro il guanciale.
«Mh» mormorò il licantropo in assenso, pronto a
seguirlo a ruota nel mondo di Morfeo.
Stiles scivolò un po’ sul suo cuscino, avvicinandosi alla trama formata
dalle loro dita incrociate e avvolgendole con il respiro bollente. «Puoi amare
come un lupo?».
La presa di Derek si allentò ed un brivido non identificabile attraversò il
medio, circondando tutto l’anello; se non fosse stato per la fermezza data
dalle falangi di Stiles, l’intreccio si sarebbe sciolto. «Cosa intendi dire?».
Stiles si morse immediatamente le labbra, rendendosi improvvisamente conto
di cosa avesse lasciato trapelare, a cosa avesse dato voce sotto forma di
domanda, il tormento che a volte non gli dava tregua, insieme ad un’altra che
teneva segretamente nascosta nell’oscurità della mente. «Lascia perdere, è una
sciocchezza».
Si stava tirando indietro, era lampante ed intuitivo e Derek poteva
captarlo bene. «Stiles» chiamò con voce modellata, scivolando sul cuscino come
aveva fatto prima l’altro e prendendogli il viso con la mano libera, alzandolo
verso di lui per richiamare la sua attenzione ed impedirgli di fuggire. «Lo sai
che posso sentire il battito accelerato del tuo cuore? Quando rallenta,
tentenna e si velocizza tutto insieme; quando menti o dici la verità, quando
sei preoccupato o sicuro di te» proferì in una domanda a metà retorica,
osservando le sue grandi iridi ambrate allargarsi maggiormente e inoltrandosi
nella ricerca di capire dove volesse andare a parare. «Posso sentire l’odore
delle tue emozioni, la costante contraddizione che ti assale, l’ansia perpetua
che impregna i tuoi vestiti e che trasuda anche in questo momento; posso
sentire la tua agitazione e tutto quello che ti affligge anche a chilometri di
distanza» Stiles espirò quasi a corto di energie su di lui e quell’indomabile
istinto di ritrarsi e fuggire via si stava manifestando in tutta la sua
pienezza. «Non puoi
nascondermi niente».
Il
figlio dello sceriffo lo fissò per un momento, assorbendo tutte le sue parole e
dovette prendere un lungo respiro, uno che gli riempisse completamente i
polmoni e che calmasse la battaglia interiore che si stava svolgendo
all’interno del suo organismo, abbassando gli occhi sull’unica fuga che gli era
concessa, il massimo che gli era consentito per ritornare padrone di se stesso.
«Ho fatto un pessimo affare» disse con uno sbuffo mal controllato, con una
nota speziata di divertimento precario, inclinando la fronte verso di lui,
mentre Derek permetteva che vi si abbandonasse, lasciandole incontrare e
toccare.
La mano del diciottenne si fece più morbida nella curva della sua guancia,
e, continuando a rimanere aderente alla sua pelle nivea, la portò tra i suoi
capelli castani e lisci, vincitori della battaglia contro il gel che utilizzava
e che si disputava ogni giorno, immergendo le dita completamente, tanto da
vederle inglobate in quella matassa indomabile. «Sì, l’hai fatto».
Stiles curvò le labbra in un sorriso di apprezzamento e concorde con lui e
Derek poteva quasi sentirlo sulla propria pelle per quanto fossero vicini in
quel momento. «I lupi scelgono un compagno tra tanti, uno soltanto e sarà
quello per tutta la vita; non vedranno mai qualcun altro» argomentò il
sedicenne quando ritrovò il coraggio, materializzando un’altra delle sue
conoscenze sulla natura di quei canidi specifici. «Un solo compagno che
ameranno per sempre».
«Sì» confermò il mutaforma, senza girarci intorno ed accarezzandogli con
movimenti accurati la cute, un massaggio leggero attraverso i capelli. «Nessuno
è più fedele di un lupo».
Stiles
rialzò lo sguardo, percorrendo quell’ascesa a contatto con la fronte di Derek e
guardandolo dritto nelle gemme di giada. «Puoi amare come un lupo?».
«Non siamo lupi fino a questo punto, Stiles» dichiarò il capitano della
squadra di basket, specificando per bene la differenza che c’era tra loro e la
natura dei licantropi; una differenza fondamentale.
«Non era questa la domanda, Der» intercettò il
figlio dello sceriffo, richiamandolo per riportarlo nella via indicata e non
verso un cambiamento di rotta.
Derek rimase in silenzio per diversi attimi e perfino il suo respiro era
inudibile, l’unica cosa che accertava che fosse ancora lì, era la stretta quasi
nulla delle loro mani destre e quella sinistra che rimaneva ramificata tra i
capelli castani del minore, la fronte che combaciava ancora con la sua e gli
occhi seri che lo ricambiavano. «Non darti queste pene» disse soltanto il
mannaro, univoco e glaciale, mentre i suoi arti scappavano dall’umano,
sciogliendo le prese.
«Derek» chiamò con voce spezzata nel momento in cui avvertì la divisione e
corse per muoversi a fermarlo e ripristinare il loro contatto, il legame che li
teneva uniti, quello di cui avevano un disperato bisogno. «Lo faresti? Ameresti
la tua persona speciale come un lupo?».
Derek non rispose, lo guardò e basta e quel tipo di sguardo, quello in cui
era tutto impenetrabile e non vi era alcuna via d’accesso, conteneva talmente
tante risposte che probabilmente non avrebbe mai condiviso con lui; mille
discorsi e spiegazioni, centinaia e centinaia di segreti che teneva per sé e
che non avrebbe mai esternato. Se esisteva una risposta a quella domanda, una
di quelle che lo angustiava di più, Derek non gliel’avrebbe rivelata. Forse
mai, forse soltanto per quella sera. Forse Derek non gli avrebbe mai detto la
verità; qualunque essa fosse. Chiunque ne facesse parte.
Ma era chiara una cosa, per quella notte la conversazione era finita, volta
al suo termine e nulla sarebbe valso a riprenderla, ad insistere. Non ne sarebbe
uscito nulla di buono e Derek comunicava con lui più di quanto facesse con
chiunque altro.
Okay, Stiles si sistemò con fare definitivo sul suo
prezioso cuscino, accarezzando con il pollice la copertina del libro che teneva
stretto ancora a sé e schiacciando con la mano destra il guanciale, proprio il
lato che si affacciava davanti agli occhi di Derek.
Gli diede la buonanotte con un ultimo sguardo carico di significato ed un
respiro profondo, pronto per cadere tra le braccia di Morfeo, com’era prima che
la sonnolenza venisse messa in secondo piano.
Derek ricambiò nel suo silenzio perpetuo e per quella notte le loro dita
non tornarono ad intrecciarsi.
Stiles era convinto che Derek non sarebbe tornato la notte successiva, che
l’ultima luna piena di quel mese l’avrebbero passata separati, lontani l’uno dall’altro
e, a buon intendere, non gliene avrebbe fatto alcuna colpa se avesse agito in
quel modo, soprattutto e ben calcolando, quanto si fosse intromesso nella sua
sfera privata, portandolo ad ammettere più di quanto gli fosse congeniale.
Derek aveva dei limiti, limiti che nessuno avrebbe dovuto mai superare,
confini che non potevano essere sorpassati, dei blocchi enormi e dal peso
eccessivo che non potevano essere scavalcati o spostati; semplicemente nessuno
aveva accesso a chi fosse veramente, ai pensieri che gli vorticavano nella
testa e ai problemi che li accompagnavano, alle sue opinioni ed idee;
all’occasione di poter instaurare un dialogo con lui. Derek non permetteva
nulla di tutto quello, ad eccezione del suo branco che riusciva comunque a capirlo
con un increspamento delle sopracciglia e dall’odore che rilasciava; magari
riuscivano perfino a trascinarlo in qualche discussione, ma loro erano speciali
ed appartenevano ad un mondo a se stante.
Stiles si era arbitrariamente inserito nella lista dei tipi che non
avrebbero mai fatto parte della vita di Derek Hale, sia fisica che mentale,
figurarsi la sola idea di potersi intrattenere in una qualsiasi conversazione
con lui o porgergli una domanda. Lo sconvolgimento e l’arbitrariamente stava
proprio nel fatto che il lupo gli avesse permesso molto altro e gli avrebbe
concesso altro ancora.
Stiles apparteneva ad una lista diversa da tutti gli altri, separata dai
tipi qualsiasi ed opposta a quella del branco; Stiles apparteneva ad una lista
in cui figurava il suo solo nome, ma non aveva ancora accesso al suo titolo,
alla sua definizione. Stiles era semplicemente Stiles per Derek ed aveva paura
di aver osato troppo e di aver perso quel privilegio.
Con arrovellanti pensieri inutili ed uno scontento mal calcolato, rimanendo
sulle spine tutto il giorno, Derek si presentò quella sera come se nulla fosse,
coricandosi al suo fianco sotto gli occhi vigili e sbigottiti del padrone di
casa, che lo seguì a ruota.
Derek non si limitò a quella singola sera, al contrario le sue visite si
fecero più costanti e l’una di seguito all’altra, senza alcuna spiegazione che
potesse giustificarle; Stiles le accettò di buon grado e si rincuorò ad ogni
nuova notte.
«Sei qui anche oggi?» domandò la voce disinteressata del licantropo che
proveniva stranamente da vicino a lui, cosa che perplesse non poco il giocatore
di lacrosse.
Stiles alzò gli occhi dal libro di letteratura che stava evidenziando con
un azzurro acceso, inglobando tutte quelle parole e frasi che servivano al suo
apprendimento, e trovandosi davanti la figura del capitano della squadra di
basket, situato sulla gradinata poco più bassa alla sua. «È ancora il mio posto
preferito» proferì con un sorriso pieno sulle labbra carnose, sottolineando,
stavolta, con l’evidenziatore verde un nuovo periodo.
Non c’era nessuno oltre loro due nell’ala dedicata al basket, il campo era
vuoto come lo spogliatoio e non vi era neppure Erica ad osservarli giocare,
mentre Stiles si intratteneva con il suo studio, accompagnato dal brusio del
gioco e dal palleggiare del pallone.
Era l’ultima settimana prima delle vacanze natalizie, prima dell’avvento
della grande vigilia e dello spacchettamento compulsivo dei pacchi regalo; le
attività venivano annullate e rimandate alla metà della terza settimana di
gennaio, poco dopo il rientro a scuola; quindi non vi era nessun laboratorio
pomeridiano o allenamento di qualche tipo, niente nuoto, lacrosse o basket,
tutti i campi erano del tutto sprovvisti dei loro giocatori e le aule si
svuotavano in fretta, senza che quasi nessuno rimanesse all’interno
dell’istituto scolastico.
Era tutto una desolazione, un po’ deprimente in effetti, ma sia Stiles che
Derek continuavano a rispettare le loro abitudini, come l’anno o gli anni
precedenti, rimanendo gli unici abitanti sul campo da gioco; uno persistendo
nell’allenamento e l’altro immerso nei suoi libri.
«Funziona comunque?» chiese il diciottenne con scetticismo, riferendosi
agli strani bisogni che Stiles manifestava, rintanandosi come se nulla fosse
cambiato nel luogo dove si rifugiava durante tutto l’arco scolastico.
Il figlio dello sceriffo tracciò una freccia con la matita che collegava
una frase finale ad un concetto già superato ed evidenziato di arancione,
appuntando un numero minimo di due parole che legasse il tutto, ed alzò i suoi
occhi ambrati per posarli in quelli boscosi, per poi spostarli sul campo da
basket vuoto e sprovvisto di tutti quei suoni che solitamente l’accompagnavano,
senza alcuna palla che venisse lanciata da una parte all’altra ed il canestro che
rimaneva immacolato. Il suo sguardo tornò in quello di Derek. «Mi stai
chiedendo se mi basti?» di lì a poco l’unico suono che avrebbe impregnato
l’aria sarebbe stato il gioco solitario del lupo mannaro, l’unico che l’avrebbe
accompagnato in quell’ultima settimana prima delle vacanze natalizie e al
rientro, esattamente com’era avvenuto un anno prima.
L’espressione immutabile del mutaforma vacillò per un momento fulmineo e
Stiles si rese conto delle possibili implicazioni che potessero essere
contenute in quella domanda che gli era uscita di getto. «Sappiamo entrambi di
quanto rumore ti circondi».
La matita di Stiles picchiettò sulla pagina su cui stava studiando un
attimo prima e le sopracciglia si inarcarono di riflesso. «Proprio per questo
dovresti sapere quanto tempo io abbia passato da solo con te, con il tuo gioco;
proprio qui, seduto in questo posto tre volte a settimana, ben oltre l’orario
concordato per gli allenamenti. Soltanto tu ed io» non era mai andato via
prima. Gli allenamenti terminavano e la squadra si ritirava negli spogliatoi,
sotto abbondanti getti d’acqua e vestiti puliti; perfino Erica levava le tende
dopo un po’ ed in palestra rimanevano solo lui e Derek Hale.
La prima volta si era svuotata in fretta, in campo non era rimasto più nessuno
e la lupa si era volatilizzata, il silenzio era calato come un fantasma ed era
stato fastidioso e lacerante; tornare a casa sarebbe stata la mossa più saggia
per lui e la sua psiche, ma era così vicino a finire di studiare l’ultima
materia che si sarebbe ritrovato il giorno dopo, che rimase comunque, il tempo
sufficiente che gli sarebbe servito per terminare. Ma un pallone palleggiò nel
silenzio perpetuo, rompendolo e districandolo, echeggiando in tutta l’aria
circostante e Stiles alzò immediatamente gli occhi colpito e frastornato,
incredibilmente curioso di capire cosa fosse successo e chi avesse prodotto
quel suono che stava cominciando ad imparare.
Per la prima volta incontrò gli occhi verdi di Derek Hale rivolti verso di
lui, consapevoli della sua presenza e carichi di quella scintilla lupesca che
riconobbe all’istante e che gli attribuì da lì in poi, benché fosse un
immaginario già radicato in lui.
L’attimo dopo la palla riecheggiò nuovamente ed il diciasettenne gli diede
le spalle, ignorandolo ed estraniandolo dalla sua bolla privata.
Stiles rimase in quell’eccezione che classificò come tale, ma che si ripeté
nell’allenamento successivo ed in quello dopo ancora, fino a ricoprire un anno
intero e perdurare in quello che gli susseguì e che stavano ancora vivendo.
«Sei molto più di abbastanza, Der».
Derek lo guardò fisso, irremovibile e statuario com’era sempre stato, da
cui era difficile riuscire a scorgere qualcosa, i veri pensieri e gli stati
d’animo in cui si trovava; sarebbe rimasto sempre un enigma finché non avesse
svelato tutti i suoi segreti. «E come farai, una volta a casa?».
Stiles fu incredibilmente colpito da quella domanda, dal modo sinceramente
interessato e da quell’alone sbiadito che mostrava, ancora una volta, quante
cose conoscesse di lui, il silenzio minaccioso della casa che l’avrebbe
accolto. «So cavarmela» quasi tutta la sua vita era incastonata tra quelle
mura; la scuola, gli allenamenti di lacrosse, i lunghi pomeriggi con Scott e
quelli riservati alla squadra di basket erano soltanto la via per fuggire un
po’, il caos di cui aveva bisogno per sentirsi parte del mondo.
Il mutaforma non apparve entusiasta di quella risposta e probabilmente non
si aspettava nemmeno qualcosa di diverso, ma nella sua posa austera e
controllata, poteva vedere riflessa la sua immagine sconsolata e solitaria che
veniva avvolta dal silenzio, la percezione che Derek aveva di lui.
«Tu, invece, potrai rilassarti un po’ lontano dalle tue ragazze» scacciò
immediatamente quella diapositiva di se stesso, sperando di cancellarla anche
nel diciottenne, rifilandogli una curva saputa sulle labbra carnose.
«Non credo proprio» rettificò il lupo mannaro, accigliandosi vistosamente,
per nulla soddisfatto dal siparietto che gli attraversò la mente. «La mia
famiglia è piuttosto rumorosa e le mie sorelle fanno concorrenza a qualsiasi
esercito di ragazze; vincendo, tra l’altro».
Stiles ridacchiò deliziato ed immediatamente si immaginò un Derek
corrucciato e per nulla ben disposto alla confusione che si creava in casa,
all’invadenza della famiglia e alle molteplici domande con cui l’assalivano,
mentre le voci acute del popolo femminile lo sovrastavano.
Si chiese che ruolo avesse Malia in tutto quello, se si estraniasse,
rimanendo in un angolo o se partecipasse attivamente; doveva essere divertente
mettere in imbarazzo quel lupone acido e sempre sulle
sue. «Dev’essere bello avere una famiglia numerosa. Niente segreti e spazi
privati, l’impossibilità di nascondere le bugie e i rapporti personali
costretti, urla in tutta la casa e porte che sbattono con furia per l’ennesimo,
inutile e piccolo litigio» anche se probabilmente, con la forza sovrumana che
si ritrovavano, era meglio evitare di sbattere le porte.
«Desideri una famiglia numerosa?» domandò il licantropo con incrinatura sospesa,
quasi trattenuta, come se gli facesse male conoscere il responso di quel
desiderio e gli fosse costato tutto l’autocontrollo di cui disponeva per
chiederlo.
«Sì. No. Forse» il figlio dello sceriffo fu riportato immediatamente con i piedi
per terra, strappato al vortice fantasioso in cui era caduto.
Sospirò, lievemente confuso, non conoscendo perfettamente il responso di
quell’ipotetica possibilità. Non se l’era mai domandato, aveva sempre preferito
passarci sopra. «Probabilmente non saprei gestirla, non saprei starle dietro. I
componenti della mia famiglia non si contano neppure in tutte le dita di una
sola mano e alcuni dei suoi membri sono stati acquisiti senza alcun legame di
sangue, conosco solo questo. Ma immagino che, sì, mi piacerebbe averla».
«Bambini che scorrazzano sull’erba rigogliosa, con la pelle pallida ed i
capelli rossi?» ipotizzò Derek per lui, con le labbra tirate che mantenevano la
sua corazzata di disinteresse, imperturbabile a quella vignetta pittoresca.
«Sono prevedibile, eh» Stiles abbozzò un sorriso sbarazzino, quasi timido
ed un po’ imbarazzato ‒ imbarazzato perché Derek Hale sembrava conoscere
il suo amore non tanto segreto per Lydia Martin? ‒, ma nella semplice
leggerezza con cui il diciottenne aveva dato voce a quella fotografia così
surreale e sempre più prossima dall’essere abolita, non poté non notare la
scintilla quasi piegata che macchiò quelle iridi boscose, quelle che ad ogni
nuovo passo gli erano dedite. «Ma potrei benissimo accontentarmi di soli occhi
verdi».
Com’era già successo, il fiato di Derek scomparve, intrappolato dentro di
lui o era così leggero che non gli era data la possibilità di sentirlo, di
percepirlo; se fosse stata una pallida illusione creata dal suo cervello, non
avrebbe potuto saperlo. «Niente di pretenzioso, quindi».
No, niente di pretenzioso, gli occhi verdi di Lydia sarebbero bastati,
sarebbero stati un buon risultato, la prova che ci fosse riuscito e cosa c’era
di più bello di quelle gemme brillanti?
Forse soltanto gli smeraldi incastonati sul viso di Derek, quelle iridi
magnetiche che nascondevano così tante sfumature da confonderlo, quelle da cui
poteva ancora estrarre il vecchio bagliore ambrato dei suoi occhi di Beta,
quelli che non avrebbe mai conosciuto, e da cui poteva scorgere, quando erano
incredibilmente vicini e sembravano attivarsi davanti quella barriera che
spariva, le pagliuzze blu elettrico che splendevano nefaste, senza che si
rendesse conto di quanto sfuggissero al suo controllo.
Gli occhi di Derek erano superiori a qualsiasi altro. «In realtà andrebbe
bene qualsiasi cosa» esordì il sedicenne, accogliendo tutto quello che potesse
capitargli, il tipo di vita che avrebbe affrontato e le sorprese che aveva in
serbo per lui.
Una volta aveva dei progetti, dettagliati e scritti su carta; li aveva
stilati in una notte dei suoi otto anni e mezzo, quando non riusciva a
togliersi dalla testa quella bellissima bambina dai capelli biondo fragola e le
iridi di giada pura; era la persona più stupefacente e meritevole di attenzione
che avesse mai visto ed il suo amore fanciullesco non faceva che crescere e
l’unica cosa a cui riusciva a pensare, era condividere la propria vita per
sempre con lei; tutta una vita.
Erano iniziati i piani di conquista, quelli che servivano semplicemente per
rivolgerle il primo saluto, la prima parola e che lei ignorava stabilmente,
sorda e cieca alla sua presenza ed insieme a tutto quello c’erano i progetti
della loro vita insieme, che avrebbe portato a compimento quando l’avrebbe
finalmente conquistata. Ma mentre gli anni passavano e lui cresceva ed in
contemporanea i piani di vita si allungavano e diventavano sempre più
fantasiosi e strampalati, quel loro avvicinarsi non era mai avvenuto e quando
le cose erano cambiate, non vi era alcuna possibilità di apparire agli occhi
della ragazza diverso dall’essere un solo amico.
Anche l’ultimo progetto era andato in malora e la sua sfiducia era scesa
così in basso, che semplicemente aveva cominciato a farsene una ragione, ma
ancora non era pronto ad abbandonare il suo antico primo amore e tentare di
guardarsi intorno. Dubitava fortemente che qualcuno l’avrebbe aspettato, che
qualcuno lo stesse già aspettando; finché… «Qualsiasi tipo di famiglia è
perfetta» finché due paia d’occhi verdi non si erano sovrapposti a quelli di
Lydia Martin.
L’aria ricadde spaventosamente pesante intorno a loro, con le iridi di
Derek che lo scrutavano con delle sfumature ed un’intensità che non aveva mai
incontrato prima e Stiles non poteva credere di aver dato vita proprio a
quell’insieme di parole, a quella frase che conteneva troppi significati
impliciti, alle miriadi di implicazioni che vi erano contenute e alla
buonissima possibilità che sarebbe stato disposto a creare una famiglia con
lui, una famiglia con Derek Hale, che l’avrebbe accolta e che sarebbe stata perfetta.
Una famiglia perfetta con Derek Hale. Una famiglia perfetta con una volpe
malandrina ed un lupo scorbutico.
Non poteva davvero credere di aver commesso un passo falso come quello.
Le dita della mano destra di Derek solleticarono l’aria, un gesto
incredibilmente simile a quello che compiva lui quand’era sovrappensiero o
semplicemente quando gli era impossibile rimanere fermo ‒ quasi sempre,
quindi ‒, e si tesero verso di lui, insieme a tutto il braccio, come se
volesse toccarlo, sfiorarlo e scostagli le ciocche ribelli con cui
costantemente si intratteneva; dalle sue iridi di smeraldo si vedeva quanto si
stesse trattenendo dal proferire qualcosa, qualsiasi cosa e Stiles ne fu
distrutto, perché aveva appena perso ciò che aveva guadagnato. «Passa delle
buone vacanze, Stiles» disse soltanto, con la voce quasi atona e buia,
riportando la mano esattamente dov’era e mantenendola immobile.
Con il respiro incastrato dentro la trachea, l’umano lo vide allontanarsi,
dirigendosi verso gli spogliatoi e sparendo al loro interno, uscendo poco dopo
con indosso la divisa della squadra ed un singolo pallone da basket che
l’avrebbe accompagnato finché non si sarebbe sentito soddisfatto del proprio
gioco, coincidendo sempre con il tonfo sordo dei libri di Stiles che si
chiudevano per annunciare la conclusione di quella sessione di studio.
Quella era la routine che avevano instaurato un anno prima e con tacito
accordo, senza mai rivolgersi la parola e che pensava sarebbe rimasta finché
Derek Hale non si sarebbe diplomato proprio quell’anno; ma in quel momento si
chiese se per quel giorno le cose sarebbero cambiante, se ad un certo punto uno
dei due si sarebbe tirato indietro, battendo in ritirata e rendendo vano il
primo contatto che avevano creato, la prima abitudine che li aveva resi
consapevoli l’uno dell’altro, persistendo nell’ignorarsi al di fuori di quella
bolla eccezionale nata dal nulla.
Il pallone riecheggiò nella palestra, scontrandosi sul parquet e ridondando
di nuovi palleggi, per poi essere lanciato ed uscire vincitore da un canestro
perfetto e di cui solo lui era stato il testimone.
La palla balzò ancora, in un ritmo perfetto e fin troppo conosciuto, e gli
occhi di Derek furono di nuovo nei suoi, con l’illusione che non si fossero mai
separati ed il cuore riconobbe il tocco gemello di quel battito, così in
simbiosi da non poter essere un errore, un mero scherzo creato dalla propria
mente.
All’ennesimo palleggio, quando ne fu certo e non ci fu alcun margine di
equivoco, Stiles ritornò padrone del suo respiro, ispirando nuovo ossigeno.
Derek tornò a rivolgergli le spalle e Stiles riprese confidenza con i suoi
libri.
Era il ventiquattro dicembre, la vigilia di Natale, e Stiles era chiuso da
solo tra le mura domestiche, completamente nella sua solitudine con niente e
nessuno che gli facesse compagnia.
Lo sceriffo aveva il turno di notte ed a Stiles toccava passare l’ennesima
vigilia da solo – non era propriamente esatto, ma le cose erano cambiate dall’ultimo
Natale e lui non aveva ancora trovato un sostituto, un rimpiazzo, qualcosa o
qualcuno con cui intrattenersi in quelle specifiche giornate.
Aveva fatto di tutto per tenersi impegnato quel giorno, si era perfino
portato avanti con i compiti lasciati per le vacanze ‒ cosa inaudita ‒
ed aveva trafficato per casa comportandosi come una perfetta casalinga ‒
poco lusinghiero ‒ ed aveva risistemato la libreria in ordine di
argomento, perché a volte si annoiava davvero e si stufava in fretta delle cose
che lo circondavano, ma continuava a non trovare il suo prezioso libro antico e
mal conservato sulla licantropia ed era convintissimo di averlo sempre lasciato
sopra il comodino, soprattutto considerando che da quando Derek Hale versione
lupo era entrato nella sua vita tendeva a ripassare un po’ tutto quello che
aveva sempre saputo sulla tematica ed a ampliare e ad immergersi in nuove
ricerche, rileggendo i libri che conosceva a menadito ed a passare delle ore
davvero considerevoli davanti al computer.
A volte chiedeva semplicemente a Derek, perché poteva fare tutte le
ricerche che voleva e trovare un intero universo contenuto in un altro, ma non
aveva alcuna prova che attestasse che tutto quello fosse vero, che
corrispondesse alla realtà, e il suo licantropo personale poteva fornirgli
tutte le risposte che desiderava e colmare le sue lacune, anche se Stiles non
amava per niente essere impreparato e proprio per quella ragione si affaticava
nelle sue ricerche e quindi era tutto un enorme circolo vizioso di cui Derek
rideva, meschinamente.
Morale della favola? Il libro non c’era e se per un momento era andato in
panico ‒ cosa che gli riusciva particolarmente bene ‒,
successivamente l’aveva classificato come la sbadataggine del suo disordine e
chissà dove l’avesse lasciato; prima o poi sarebbe saltato fuori.
C’era, però, qualcosa che non si aspettava saltasse fuori.
«Derek?» chiamò in una domanda intontita e dubbiosa, con in mano l’ultimo
libro che doveva riporre e che era stato accatastato insieme agli altri sulla scrivania
‒ erbe e rimedi, con un notevole elenco delle facoltà dello strozzalupo ‒,
mentre il cui citato l’osservava dalla finestra, seduto comodamente sul
davanzale.
«Pulizie di primavera?» chiese il lupo mannaro con nessuna sfumatura
particolare, guardandolo senza battere ciglio dalla sua postazione.
Stiles ci impiegò diverso tempo per afferrare quella domanda e dargli un
senso; per un momento era apparso completamente smarrito e proprio non capiva a
cosa l’altro si riferisse, poi era subentrato quel brivido che scaturiva quando
Derek faceva una battuta, anche se non era mai quello lo scopo e non era mai
intenzionale, ma era il suo solito modo di beffeggiarsi con stile di lui. «Uhm,
immagino di sì, anche se non so se sono in anticipo o spaventosamente in
ritardo» rispose con una leggera nota di ironia, fissando il volume che ancora
teneva tra le dita e passandosi la mano libera tra i capelli in un gesto
distratto.
«La seconda» dichiarò certo il mutaforma senza scomporsi e privo di
titubanza.
Anche quelle risposte erano tipiche di Derek, così da lui e conformi alla
personalità che vedeva nel sedicenne. Il colpo di scena? Stiles corrispondeva
perfettamente alla visione che Derek Hale aveva di lui. «Che ci fai qui, Der?».
Il capitano della squadra di basket fece spallucce, del tutto
disinteressato a quella forma di interessamento ed interrogatorio. «Non avevo
molto da fare».
Le pupille nere di Stiles si dilatarono completamente per l’incredulità,
accompagnata dalla perplessità di trovarlo lì senza una vera ragione valida.
«Tu, la notte della vigilia di Natale che trascorri con la tua numerosa
famiglia, nonché branco, rumorosa ed invasiva, probabilmente anche festaiola,
con tanto di super cenone e carne al sangue, che si concluderà con lo scartare
dei regali allo scoccare della mezzanotte, non avevi molto da fare?».
«Non scartiamo i regali allo scattare della mezzanotte» lo corresse il lupo
mannaro, persistendo nel suo comportamento statuario.
L’umano lo guardò quasi con la bocca aperta e dovette aspettare prima di
rendersi conto che null’altro sarebbe stato aggiunto. «È tutto quello che hai
da dire?».
«Sì» confermò il mutaforma con semplicità e fermezza.
Stiles sospirò esasperato, inserendo il libro, che ancora si poneva tra
loro, nell’apposita sezione, la sua nuova casa che non sarebbe stata nemmeno
l’ultima, prima di girarsi completamente verso di lui e prestargli la sua
totale attenzione. «Non c’è la luna piena nel cielo, non sei fuori di te e
spero vivamente non ci sia un’emergenza. Non è un giorno qualsiasi in cui puoi
e vuoi infilarti nella mia camera perché preferisci un ambiente diverso da casa
tua o qualsiasi altra ragione di cui al momento sono sprovvisto e non voglio
insistere sul perché non dovresti essere qui durante la vigilia di Natale, ma…»
sospirò ancora, prendendo un lungo respiro prima di mettere tutto sul fuoco.
«Tra meno di un’ora scoccherà la mezzanotte e sarà il tuo compleanno; che cosa
ci fai qui, Derek?».
Derek trasalì vistosamente e le gemme di smeraldo si posarono fisse su di
lui, improvvisamente non certo di chi avesse dinnanzi. «Hai letto il mio
fascicolo?».
Il rubandolo era sottointeso,
chiaro e nitido, e non era per nulla lusinghiera l’allusione di volpe ladra che
gli stava affibbiando. Anche se spesso si intratteneva nella conoscenza di
fascicoli scolastici o cartelle private dei casi del padre, irrisolti o meno,
lui prendeva semplicemente in prestito e poi restituiva. Se poi nessuno era a
conoscenza di quel prestito, era un altro discorso. «Sì. Cioè no. Cioè sì;
voglio dire-» si incartò com’era tipico di lui, soprattutto quando veniva
smascherato, ma solitamente riusciva a cavarsela molto meglio di così,
specialmente quand’era lontano da Derek; quelle battaglie perse in partenza
erano un duro colpo per la sua abilità di salvarsi dai guai. «Le tue ragazze
parlano molto e sono sempre lì a lamentarsi sull’impossibilità di non poterti
dare il loro regalo di compleanno, perché cade proprio il giorno di Natale e…
sono cose che, se continuamente ripetute, apprendi senza volerlo» in realtà
Derek Hale era ancora un diciassettenne, sempre più vicino ad entrare nel suo
diciottesimo anno che gli veniva impropriamente affibbiato. Quell’errore banale
veniva creato non perché non si conoscesse la sua effettiva data di nascita, ma
perché si aveva quella convinzione che il capitano della squadra di basket
fosse tra i membri più grandi del suo corso di studi – dimenticando invece che
era tra i più piccoli –, accompagnata dal suo fisico statuario e ben piazzato
che traeva in inganno. Ad ogni nuovo anno scolastico, benché il suo compleanno
fosse lontano, entrava automaticamente a coincidere con l’età che doveva ancora
raggiungere e si portava quell’appropriazione non voluta fino al nuovo rientro
scolastico.
Il mannaro era scivolato dal davanzale della finestra durante il monologo
del padrone di casa e si era portato davanti a lui che teneva la testa china,
postura incondizionata che chiedeva tacitamente delle scuse, e non si trattenne
dall’immergere le dita della mano destra nella chioma folta e sbarazzina del
suo interlocutore. «Sei il male minore».
Il capo di Stiles scattò verso l’alto e si scontrò con le sue iridi boscose,
serie ed imperscrutabili, completamente concentrate su di lui; riuscivano a
stordirlo come niente. «Cosa? Che intendi dire?».
«La confusione, il rumore, gli schiamazzi ed i festeggiamenti; tu sei il
male minore» proferì Derek in un elenco dettagliato, conoscitore di tutto
quello a cui aveva dato voce.
Stiles indugiò un momento, guardandolo in tralice e riconoscendo un enorme
difetto in quelle parole, in quel concetto che voleva soltanto Derek lontano
dalla ribalta e da ciò che ne conseguiva. «Sono piuttosto certo di essere molto
rumoroso».
Derek si avvicinò di un nuovo passo e le dita si immersero ancora di più,
con il palmo aperto che si poggiava sul viso, proprio all’altezza dello zigomo.
«È quello intorno a te ad essere privo di suono».
Stiles trasalì vistosamente, tremando tutto da capo a piedi, e fu
completamente tramortito dalle moltitudini di parole che Derek non gli stava
comunicando, dalle motivazioni che teneva per sé, da quel pizzico fastidioso e
malvagio che premeva nella sua mente e che puntava a mostrare la sua vita
com’era, scialba e vuota; era così che Derek la vedeva? «Derek» era tutto
quello che riusciva a dire, tutto quello che riusciva a formulare, le domande
che erano tutte racchiuse in quell’unico nome che prendeva una connotazione
enorme e che lo schiacciava. Aveva sempre più bisogno di risposte.
«È per questo che non vuoi mai tornare a casa, soprattutto quando non sei
costretto» gli allenamenti di lacrosse, l’intrufolarsi nella palestra di basket
ed assistere ad un gioco che nemmeno conosceva, ma di cui aveva appreso tutti
gli orari e gli schemi, una palestra in cui tornava quando non c’era nessuno e
l’unico altro abitante, che arrivava dopo di lui, non era nient’altri che Derek
Hale, a fargli compagnia, ad alleviare il vuoto. «Non vuoi tornare in una casa
dove ti accoglierebbe il silenzio; un silenzio che non riesci a riempire per
quanto ti sforzi a farlo. Ad aspettare qualcuno che tornerà tardi o il mattino
dopo, ma da cui corri quando sai di trovarlo già qui».
Stiles era disorientato, completamente succube e privo di vocaboli,
talmente compresso da quella nuova rivelazione che Derek gli aveva fatto, che
gli era nuovamente scappata come tutte le altre; l’ennesima testimonianza di
quante cose sapesse di lui, di quanto riuscisse a leggergli dentro e di quanto
l’avesse osservato. No, l’aveva
osservato? Quando? Come? Dov’era lui? «Sei qui per me» proferì spiazzato ed
illuminato, la voce ovattata e piena di incredulità; lo guardò come se l’avesse
incontrato per la prima volta. «È per questo che continui a tornare? Perché non
vuoi lasciarmi da solo?» nella sua immensa solitudine solitaria, con fin troppa
assenza di rumori e presenze e da quel poco che aveva, ne prendeva tutto il
necessario, facendo scorta per i tempi morti, ma non bastava mai. Non bastavano
mai.
«Lo faccio perché mi va» specificò il mannaro, scacciando le azioni buone e
altruiste che Stiles gli stava attribuendo.
Le labbra dell’umano si curvarono verso l’alto e quello era così da Derek
che non avrebbe dovuto sorprendersi, che non c’era niente di nuovo
nell’abitudine che aveva di nascondere chi era davvero, quali fossero le sue
intenzioni e la predisposizione a preoccuparsi per gli altri. Cora, Malia, il
branco e la famiglia, Derek era molto di più dell’apparente corazza inviolabile
che si portava addosso, quella che tagliava fuori chiunque non gli importasse e
benché la scala fosse molto ristretta ed i muri molto alti, Stiles non sapeva
ancora come avesse fatto ad entrare nel mondo selezionato e ritagliato di Derek
Hale, ma aveva tutta l’intenzione di non uscirne mai più. «Manterrò il tuo
segreto, Sourwolf» disse con una nota allietata e la piccola piega divertita
che macchiava un angolo della bocca, e, approfittando del divario che si
azzerava sempre di più, scivolò verso di lui, incastrando la testa sotto
l’incavo del suo collo e vi trovò il grande calore che l’accoglieva sempre, l’odore
della sua pelle che inspirò a pieni polmoni, accompagnato dalla mano del lupo
che spostò sopra il capo, permettendo a quell’incontro di avvenire e di non
avere alcun ostacolo che rendesse fastidiosa quell’azione. Era la cosa che più
si avvicinava ad un abbraccio ed era così stupefacente ed inaspettato; la
facilità con cui riuscivano ad unirsi, il bisogno che avevano di cercarsi e
toccarsi e non c’era niente che potesse torturarlo e tormentarlo perché si era
arreso così facilmente a lui.
Poteva farlo, poteva lasciarsi viziare un po’ da quel lupo brontolone che
lo metteva su un piedistallo senza proferire mezza parola, senza mai farglielo
sembrare strano o fuori luogo. Era un bene averlo nella sua vita, era un bene
che gli occupasse le giornate ed era tonificante averlo lì, perché
probabilmente avrebbe trascorso la sua serata a pulire la grondaia, per quanto
fosse disperato. «È un buon regalo di Natale» per la grondaia un po’ meno.
Derek accompagnò quell’incontro, quella piccola oasi pacifica, con una presa
più morbida tra i capelli, solleticandogli la cute con i polpastrelli che la
sfioravano appena; era un vizio che probabilmente non si sarebbe più tolto. «In
realtà, ho qualcosa per te».
La voce di Derek gli attraversò immediatamente il nervo acustico e gli
occhi si spalancarono, era quasi sicuro di essersi perso qualche pezzo per
strada, di aver saltato parte delle loro conversazioni, di aver fatto un balzo
per arrivare in un punto di cui non conosceva nulla. «Hai qualcosa per me?»
ripeté in una domanda arrancata, con la gola quasi strozzata per quel dolore
latitante che non riusciva nemmeno a capire da dove provenisse.
Si scostò da lui, uscendo da quell’antro protettivo, costringendo l’altro
ad abbandonare la presa tra i suoi capelli, che un attimo prima l’aveva avvolto
e che stranamente combaciava con le sue esigenze, come tutto il resto, e le
gemme di ambra pura corsero immediatamente in quelle di giada.
Il mannaro non si mosse, nemmeno un singolo movimento del capo per
rispondere tacitamente a quella domanda ridondante che conteneva già il
responso; l’unico gesto che si permise di fare, fu mettere in mostra il braccio
sinistro che per tutto il tempo era rimasto dietro la schiena o parzialmente
nascosto, dettaglio che era sfuggito del tutto ad uno Stiles concentrato solo
sulla presenza fisica e materialista di Derek, del significato che l’aveva
portato fin lì.
Nella mano era trattenuto un parallelepipedo rettangolare che a quegli occhi
mielati appariva del tutto sconosciuto, benché le dimensioni gli erano
spaventosamente familiari ed al suo interno vi era contenuto un ulteriore
parallelepipedo rettangolare bianco; dalla base fuoriusciva la parte finale di
un laccetto largo un paio di centimetri e dallo spessore sottile. «Mi hai preso
un libro?» non era una vera domanda, era così confuso e costernato che non
riusciva a capire cosa avrebbe dovuto dire, con quale intonazione si sarebbe
dovuto esprimere. Era completamente in alto mare e sentiva di stare per
annaspare.
«Guarda meglio» disse il licantropo, allungando il braccio e portandolo
proprio sotto gli occhi del sedicenne.
Stiles lo guardò dapprima completamente smarrito e quando l’oggetto
inquisito gli si avvicinò, le pupille non riuscirono a restare ferme e caddero
su di esso, per poi saettare ancora una volta verso le iridi boscose senza
sapere esattamente cosa fare.
Avvicinò le mani di poco, tremanti e titubanti, sospese in aria e vicine a
quel regalo del tutto inaspettato e il cui significato era sconosciuto.
Quando riuscì a prenderlo tra le proprie dita, permettendo a Derek di
lasciarlo, l’incertezza di aprirlo ed esaminarlo era ancora troppo grande. Al
centro della copertina verde scuro, di pura pelle, vi era incisa un’unica lineare
ed essenziale parola che aveva letto per anni e che da qualche tempo era
entrata completamente nel suo ordinario giornaliero: licantropia.
Era il titolo più semplice e banale che potesse esistere, talmente
superficiale che era estremamente facile passare avanti e dedicarsi ad altro;
non aveva nulla di speciale rispetto a tutti gli altri che avevano trattato tale
argomento. Per Stiles non era mai stato così.
Poggiò i polpastrelli sulla pelle scura, sentendo sotto di essi il rilievo
del titolo, era come se apprendesse soltanto in quel momento l’esistenza di
quella specifica parola ed era quasi tentato di non andare oltre, che
quell’unica cosa gli sarebbe bastata. Ma le dita avevano vita propria ed il suo
corpo spasimava, la sua mente era divisa in due come il suo cuore; la
differenza era che la curiosità ed il bisogno di sapere erano tutto ciò che
dominava in lui e che lo portavano ad essere quello che era, quindi fu
inevitabile aprire il volume appena ricevuto e trovarvi dentro tutto quello che
i suoi occhi avevano incontrato per anni, bevendone ed ingurgitandone
avidamente, tentando di imprimersi ogni singola lettera e concetto, perdendosi
nella contemplazione di quelle illustrazioni dipinte con colori ad olio che
erano incastonate nella retina. Era tutto quello che aveva conosciuto ed amato. «È il mio libro» no, come poteva esserlo? Il suo libro era un ammasso di pagine che
manteneva la rilegatura con chissà quale miracolo, i fogli erano completamente
gialli e macchiati, i colori erano vicini a spegnersi e la copertina era quasi
distrutta. Quello non assomigliava per niente al suo libro.
Sembrava appena uscito dalla stampa, l’odore era incantevole, le pagine
erano più bianche che gialle ed erano pulite, i colori erano così vivi che non
poteva distogliere lo sguardo nemmeno volendo; ed aveva una copertina in pelle.
Vera pelle, verde come le foglie degli alberi, delle foreste, l’ambiente
naturale dei lupi, il colore più adatto che potesse esistere ed era del tutto
intatto.
Era maestoso ed era bellissimo e probabilmente sarebbe stato quello
l’aspetto del suo prezioso libro nei suoi giorni di gloria.
«Ho pensato che non sarebbe sopravvissuto ancora a lungo» dichiarò il lupo
mannaro, rispondendo ad una domanda che Stiles non aveva nemmeno elaborato
perché nella sua mente non aveva ancora preso una forma; forse non l’avrebbe
presa mai perché gli appariva troppo lontano da loro. «L’ho portato da un
rilegatore».
Un tuffo al cuore pervase senza alcun avviso il figlio dello sceriffo e fu
inevitabile che gli occhi saettassero in quelli di Derek con lo sgomento e la
confusione che, invece di scemare, si dilatava, aumentando il suo smarrimento.
«Un rilegatore?» era qualcosa di più grande, di più immenso, di talmente
importante e pieno di significato che se non avesse avuto i piedi ben piantati
a terra, sarebbe caduto in un imbarazzante tonfo, sotto gli occhi scrutatori
del suo lupo.
Dovette guardarlo meglio quel libro, accertarsi di non star volando troppo
con la fantasia e di non star prendendo una batosta.
Conosceva così bene quelle pagine, quelle parole, quelle che l’avevano
accompagnato per una buona fetta della sua vita, il momento in cui il
sovrannaturale era diventato il migliore dei suoi amanti; nulla sarebbe mai
stato messo a paragone, nessuno avrebbe retto. «È davvero il mio libro».
Soltanto in quel momento Derek sembrò rendersi conto da quale animo fosse
stato investito il corpo dell’umano, di quali incertezze e dubbi l’avessero
accerchiato; forse, nella parte più nascosta e buia, si era sentito tradito.
«Sostituirlo non era considerabile».
Stiles dovette sedersi sul letto, posizionandosi proprio sul bordo e
permettendo alle gambe di toccare il pavimento per continuare a prendere
coscienza di quello che lo circondava. «Hai fatto rilegare il mio libro»
proferì con la voce più modulata e ragionevole che riuscisse a possedere in
quel momento, continuando a sfogliare il volume ed a sentire la consistenza
della carta rinata, il suo spessore e la pesantezza, il nuovo odore che lo rivestiva
completamente. «È pulito, le immagini sono come nuove e ha una copertina di
pelle» non aveva mai avuto un libro rivestito di vera pelle, pelle animale,
quella estremamente costosa e che lo accostava a quei libri incredibilmente
antichi e preziosi.
Lui l’aveva cercato per più di una settimana, senza sapere più dove
guardare e setacciando ogni angolo della casa, e mentre lui era immerso in
quella ricerca, Derek l’aveva preso con sé da chissà quanto tempo, senza che
lui se ne accorgesse minimamente, ed intenzionato semplicemente a
restituirglielo una volta che il lavoro sarebbe stato portato a termine, nel
modo più appropriato. «Io non ho niente per te» disse con mortificazione,
abbattuto ed affranto, rigirandosi il libro tra le mani e chiudendolo con un colpo
sordo, mentre la testa si chinava per la seconda volta in quella serata ad
indice di scuse.
Derek si avvicinò di qualche passo, portandosi esattamente davanti alle sue
gambe, ma rispettando il suo spazio personale. «Sai benissimo che non mi
occorre niente».
«Sì, lo so, ma…» sospirò abbattuto, quasi con il senso di colpa che
cresceva inevitabile, adocchiando la sveglia che sferzava sul comodino,
l’orologio digitale che si avvicinava sempre di più e pericolosamente alla
mezzanotte. «Ancora pochi minuti è sarà Natale e, come se non bastasse, anche
il tuo compleanno ed io non ho niente per te, mentre tu avrai speso una fortuna
per rimettere in sesto un mio libro» perché non se lo poteva permettere ed era
qualcosa che aleggiava tra di loro, ma a cui nessuno avrebbe dato voce.
Derek si inginocchiò davanti a lui, prendendogli il mento tra l’indice ed
il pollice, alzandogli il viso per poterlo guardare dritto negli occhi e
distruggere quel muro che inconsciamente stava creando per poterli separare.
«Non l’ho fatto perché volessi qualcosa in cambio da te, ma perché è qualcosa a
cui tieni e che ami. Avresti preferito vederlo distruggersi completamente
davanti ai tuoi occhi?».
«No. Forse. Non lo so» l’umano sospirò completamente affondato, colpito in
pieno petto e conscio che quell’eventualità era più vicina di quanto avesse mai
immaginato; non avrebbe potuto fare nulla per salvarlo, per quanta cura ci
mettesse nel tentare di stabilizzare la sua condizione e per quanto cercasse di
conservarlo nel modo più appropriato, le cose non sarebbero migliorate e
sarebbero solo peggiorate. Prima o poi non avrebbe più potuto sfogliare quelle
pagine di cui amava tanto deliziarsi. «È la prima vigilia che passo
completamente da solo» disse invece, cambiando completamente rotta ed entrando
in un territorio che non avevano ancora esplorato. «Papà tenta sempre di
prendersi questo turno, così possiamo passare il Natale indisturbati ed a volte
lo chiamano, altre no; cerco sempre di stare al mio posto e di lasciarlo libero
di svolgere il suo lavoro e rispondere alle sue responsabilità. Proprio per
questo passo sempre la Vigilia con Scott ed il giorno di Natale raggiungiamo
lui e sua madre dopo pranzo. Ma le cose sono cambiate nell’ultimo anno ed
adesso c’è Allison e io l’adoro, davvero, ma non mi piace fare il terzo
incomodo, soprattutto quando è così evidente, quindi ho preferito rimanere a
casa mia, da solo».
«Ma domani starete tutti insieme» affermò il diciottenne, ricordandogli
quel passaggio che era stato saltato, ma che rimaneva presente.
«Sì» confermò il padrone di casa, accarezzando il bordo di quel libro
appena ricevuto. «Una strana famiglia allargata» papà, Melissa, Scott ed Allison. «È molto bello così, proprio per
questo avevo accettato l’idea di starmene un po’ da solo; l’indomani avrei
fatto indigestione di gente e compagnia» le iridi d’ambrosia si alzarono verso
quelle di smeraldo ed improvvisamente le mani erano più nervose del solito e
doveva trattenersi dal pasticciare con quel volume che Derek si era premurato
di rimettere a nuovo. «Ma adesso tu sei qui e non c’è prova più concreta che
attesti quanto io abbia sbagliato» dovette prendere un profondo respiro,
svuotare e riempire i polmoni, liberare quella trachea che graffiava e che lo
torturava lentamente. «Tu metti in discussione tutta la mia vita» qualunque
parte della sua vita. Sperava soltanto di essersi spiegato bene, di non aver detto
parole contrastanti, concetti che in realtà volevano dire l’esatto opposto, ma
era così stanco e stremato e Derek gli aveva fatto un regalo ‒ benché il
lupo non l’avrebbe mai chiamato in quel modo ‒ così enorme e gigantesco,
e forse era più di uno, ma il mannaro lo scombussolava così tanto e gli faceva
abbassare tutte le difese senza che se ne rendesse minimamente conto ed era
sfiancante e liberatorio e non avrebbe mai barattato il modo, i modi, in cui
Derek lo faceva sentire con niente al mondo.
La fronte del lupo si congiunse alla sua, spostando la mano sulla sua
guancia, e quella era la vetta massima che poteva raggiungere in quel momento,
la congiunzione finale che li caratterizzava tanto e li lasciava completamente
in balia di se stessi. «Va tutto bene, Stiles».
Stiles espirò sollevato, annuendo contro di lui e curvando appena le labbra
in una piega allietata. «Resti a dormire qui stanotte?».
«Sì» rispose con fermezza il mutaforma, senza tergiversare o prendere
tempo; riflettere sulla proposta era stato scartato a priori. Probabilmente
perché l’intenzione era quella fin dal primo momento.
Il silenzio cadde per qualche secondo, interrotto solo dai loro respiri
regolari che si mescolavano incessantemente, rimanendo in quella posizione
scomoda che sorvolavano entrambi, senza avere alcuna intenzione di spezzarla e
dividersi.
All’improvviso i numeri sull’orologio digitale cambiarono completamente e
la sveglia suonò in un unico segnale acustico, echeggiando per tutta la stanza
ed annunciando lo scoccare della mezzanotte piena e il subentrare del giorno di
Natale. «Buon compleanno, Derek».
Derek gli rispose con un mormorio secco e Stiles gli sorrise di
conseguenza, accontentandosi di quella minima reazione.
Forse il suo regalo per Derek consisteva proprio in quello e forse il suo
lupo scorbutico preferito non desiderava nient’altro.
Ahi, Stiles, hai
questo brutto vizio di cominciare bene e poi giungere ad argomenti spinosi e
scomodi che potrebbero rivelare un po’ troppo e che lasciano Derek nudo. Il
tema dell’amare come un lupo è pesante.
E non potendoci
dimenticare che parliamo di Stiles e si faccia abbastanza problemi sulle cose,
soprattutto quando sbaglia e pensa di aver perso Derek, ricalca la dose ed esce
altro. Come se già non fosse sufficiente quello che accade intorno a loro e
all’intimità che stanno raggiungendo. La famiglia è un altro argomento
delicato.
E poi, nemmeno a
farlo di proposito, arriva il Natale – un Natale scritto a Pasqua, ma chi fa
caso a queste cose – ed è, tra l’altro, anche il compleanno del nostro lupone preferito e questo giustamente Stiles lo sa, perché
quando mai il caro figlio dello sceriffo non sa le cose? E sì, Derek quelle
prime ore le passa con Stiles. Sceglie di trascorrerle con Stiles. E non
contento, gli fa perfino un regalo. Uno di quelli enormi, costosi e
preventivati e davvero mia cara volpe, come fai ancora a non crollare?
Ma forse dovremmo
chiederlo anche a quell’altro, che si limita a dormigli a fianco.
A venerdì,
Antys