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Autore: charly    18/12/2016    1 recensioni
In questo libro conclusivo assisteremo ai primi anni di matrimonio di Deja e Zaron, in cui lei si renderà conto di provare qualcosa per suo marito, qualcosa di profondo, che la spingerà a cercare con insistenza la compagnia di suo marito e la passione che scopre tra le sue braccia. Saranno anni turbolenti: le avances non richieste di un terzo incomodo, la gelosia e due attentati. Riuscirà Deja a conquistare il cuore di Zaron?
Estratto:
Deja aveva atteso con trepidazione l’arrivo del suo quindicesimo compleanno. […] Presto sarebbe stata un’adulta e di sicuro suo marito l’avrebbe vista con occhi diversi. Di sicuro.
-
Avrebbe voluto che le cose tornassero a com’erano prima, a quando lei aveva avuto dodici anni e il loro rapporto era stato semplice, […], quando l’aveva considerata una bambina graziosa e la sua vicinanza tra le lenzuola non l’aveva mai turbato.
Genere: Fantasy, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Il cuore di un drago'
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VII. ODORE DI CENERE E SANGUE NEL VENTO

 
 
La notte della loro riappacificazione, anche se a quel bacio non ne erano seguiti altri, Deja si era addormentata contenta e piena di speranza, perché lui aveva voluto stringerla tra le braccia e non l’aveva lasciata andare fino al mattino. Con ansia aveva atteso che calasse nuovamente la sera e non era stata delusa: prima di coricarsi Zaron l’aveva baciata ancora e Deja aveva deciso che quel nuovo bacio della buonanotte era il momento preferito di tutta la sua giornata.
Durante il loro soggiorno a Issa lui la strinse a sé di notte, tra le lenzuola, dopo averla baciata, e Deja, che era giunta in patria afflitta e pallida, la lasciò piena di gioia, con le gote rosse di contentezza, un sorriso perennemente sulle labbra e con occhi pieni d’amore che cercavano in continuazione l’imperatore.
A sua insaputa, Zaron aveva deciso di affrontare lord Ostin a modo suo. Non poteva ucciderlo, come meritava, non poteva farlo sbattere a languire in una buia e puzzolente segreta, come avrebbe voluto, ma aveva tutte le intenzioni di fargli capire, senza nessuna possibilità di fraintendimento, quanto fosse contrariato dal suo spudorato comportamento e che se lo avesse rivisto metter piede nella capitale lo avrebbe ucciso con le sue mani.
Quindi un mattino, al primo albeggiare, si mise l’armatura con la scusa degli allenamenti mattutini ma invece di recarsi al suo appuntamento con il maestro d’armi issiano si fece sellare un cavallo e andò a casa di Ostin. Era senza scorta e senza insegne e quando, al suo insistente bussare alla porta della servitù, gli fu aperto da un assonnato servitore, non fu riconosciuto e entrò dando una spallata e mandando a gambe all’aria lo sfortunato garzone che gli aveva aperto. Lo aveva tirato su per il bavero della casacca e gli aveva ringhiato contro.
- Se ci tieni alla tua faccia e ai tuoi denti mi scorterai fino alla camera da letto del tuo padrone.
Poi, strattonandolo, si era fatto strada attraverso le cucine, dove una sguattera e la cuoca erano già al lavoro e li avevano fissati a bocca aperta. Il garzone balbettando e implorando gli aveva chiesto pietà per sé e per il suo signore.
- Non sono qui per uccidere nessuno, ragazzo. Voglio solo avere una discussione a quattr’occhi, da uomo a uomo, con il tuo padrone.
Erano stati intercettati davanti alle stanze di Ostin dal resto della servitù maschile, evidentemente avvisati dalla cuoca e dalla sguattera, e ne era nato un putiferio, con urla e spintoni, e Zaron era stato molto tentato di sguainare la spada. Poi Ostin era emerso dalle sue stanze, richiamato dal baccano. Indossava solo un paio di braghe e si stava ancora stropicciando gli occhi quando chiese con voce impastata dal sonno cosa stesse succedendo. L’imperatore approfittò della distrazione della servitù per raggiungerlo in pochi passi veloci e colpirlo su quel bel viso con un pugno e un soddisfacente rumore di ossa rotte. L’uomo cadde a terra, contorcendosi e tenendosi il naso da cui sgorgava un fiotto di sangue caldo. Zaron stava per tirarlo su e colpirlo ancora quando, dalla porta della camera da letto, emerse completamente nuda la persona che aveva tenuto compagnia quella notte all’issiano.
- Mio signore…!
Urlò con voce strozzata per la sorpresa e l’allarme. Poi l’uomo si buttò in ginocchio, portando il pugno destro al petto e abbassò il capo, chiudendo gli occhi per la disperazione.
Zaron fissò senza parole e immobilizzato dallo stupore il capo delle sue guardie faliq, poi mostrò i denti in un ringhio minaccioso ai servitori di Ostin che si erano fatti avanti per aiutare il loro padrone. All’imperatore ci volle qualche attimo per comprendere tutte le implicazioni della scena che aveva difronte: il suo rivale che mugolava a terra, Hikij nudo, ridotto quasi alle lacrime e tremante di terrore per le sorti del suo amante, il letto sfatto che si intravedeva dalla porta socchiusa. Le spalle di Zaron cominciarono a scuotersi e il mento a tremare, prima che una fragorosa risata lo costringesse a piegarsi quasi in due, privandolo delle forze che l’ira gli aveva infuso. Barcollando raggiunse un muro e ci si appoggiò con una mano, lasciando un’impronta rossa. Quando riprese fiato indicò con un dito la guardia faliq.
- Tu! Da quanto tempo va avanti?
Hikij non sollevò gli occhi dal pavimento, rimanendo nella sua posizione supplice.
- Due giorni, mio khan.
- È uno sviluppo recente, allora.
Commentò con voce leggera Zaron. Poi trascinò in piedi Ostin afferrandolo per i capelli e scuotendolo come uno straccio bagnato.
- Tu invece! Sono venuto qui con l’intenzione di darti ben più che un pugno sul naso, sciocco, vanesio, borioso ragazzino!
Non c’era divertimento nel tono del sovrano ma gelida ira.
- Tuttavia, in luce di nuove informazioni… mi limiterò a darti un avvertimento: se mai dovessi tornare a Halanda non cercherai di parlare con mia moglie, non ti avvicinerai neppure alla Città Vecchia. Se oserai mettervi piede ti farò strappare il cuore da Hikij e ti assicuro che lui obbedirà al mio ordine! Sono stato chiaro?
Ostin mugolò ma non osò ribellarsi, conscio della terribile disparità di forze tra di loro, annuendo a occhi chiusi, completamente umiliato.
- Bene…
Si limitò a dire Zaron. Lo spinse a terra, gli diede un calcio nelle reni e poi se ne andò, soddisfatto. Hikij si affrettò ad avvicinare il suo amante e a stringerlo tra le braccia, con un singhiozzo di sollievo e un sorriso.
- Oh, smettila di lamentarti, Ostin! Il naso rotto ti renderà solo che più virile! Sei vivo, è questo che importa, e khan Zaron non ti ha bandito da tutta Halanda, solo dalla Città Vecchia: potremo continuare a vederci, amore mio.
 
Al ritorno di Zaron e Deja alla capitale, tutti poterono constatare quanto il soggiorno a Issa avesse giovato alla giovane regina. Sorrideva nuovamente, gli occhi le brillavano e pareva tornata a nuova vita. Qualcuno suggerì che forse era nuovamente incinta, ma le settimane passarono e non si notò nessun cambiamento nella sua figura.
Privatamente, i suoi rapporti con il marito erano tornati quelli prima della frattura tra i due, persino lo screzio con Tallia si era sanato e Zaron era contento, davvero contento. In quei giorni di pace e serenità nulla riusciva a turbarlo e passava le sue serate a giocare con le figlie, ascoltando Mira suonare e scambiando occhiate complici e piene di calore con Deja.
Tallia, con la sua solita brutale onestà, gli aveva chiesto a bruciapelo se si fosse portato a letto sua moglie, e non per dormire. Zaron si era ritrovato a sorridere, invece che a offendersi, e a negare, ammettendo solo qualche bacio. Baci che non si erano ripetuti, per il disappunto di sua moglie: loro dormivano separati e ogni notte Zaron la passava con una concubina diversa e non gli sembrava onesto giacere con loro avendo in bocca il gusto delle labbra di Deja. Se anche le sue ragazze lo soddisfacevano fisicamente, aveva scoperto con sorpresa che a tutte loro mancava qualcosa: nessuna era sua moglie e Zaron aveva trovato più stimolanti i casti abbracci della ragazza alle carezze sensuali che si scambiava con le concubine. Persino Perla se ne era accorta.
- Zaron,
Aveva esordito la sua più cara e vecchia amica, dopo aver stiracchiato come una gatta il corpo bruno e nudo.
- Sei sazio ma non … soddisfatto.
Lui le aveva carezzato i capelli, trovandoli troppo scuri e troppo grossi e aveva aggrottato la fronte prima di sospirare.
- Non te lo so spiegare, Perla. 
Lei aveva sorriso, parendo davvero una gatta, o forse una sfinge conscia di avere tutte le risposte e commiserevole di tutte le altre stolte creature che procedevano nella vita a tentoni e al buio.
Si girò su un fianco, verso di lui, e gli accarezzò il petto con le dita con fare malizioso.
- Forse il mio signore avrebbe avuto più piacere a giacere con qualcun altra. Forse il mio signore potrebbe immaginare che le mie mani siano quelle di un’altra…
Gli aveva baciato gli occhi, intimandogli di chiuderli, e poi lo aveva baciato su tutto il corpo con l’esitazione e la meraviglia di chi per la prima volta scopre il corpo maschile e alla fine si era stesa sul suo petto con espressione soddisfatta.
- Allora mio signore, meglio?
Gli aveva chiesto con voce dolce e occhi divertiti, ma la luce irridente che vi brillava era piena d’affetto. Lui l’aveva guardata con occhi spalancati, pieni d’ammirazione.
- Ci conosciamo da più di vent’anni, Perla. Eppure riesci ancora a stupirmi…
Lei aveva rovesciato il capo, ridendo sinceramente e piena di gioia. Quando nulla turbava la mente, solo una cosa era in grado di rendere insoddisfatto un uomo nell’abbraccio di una donna come lei: l’amore. Zaron era innamorato e se anche la sua mente ancora non l’aveva ammesso, il suo cuore e il suo corpo se ne erano accorti. E Perla era finalmente felice.
Anche le altre concubine avevano riferito che il loro uomo era diverso, sempre vigoroso, ma mancava di passione. Aveva cominciato a chiedere sempre più spesso baci e carezze in luogo dei numerosi amplessi a cui erano abituate, e teneva gli occhi chiusi e si mordeva la lingua per non pronunciare il nome di un’altra. Perla e Tallia si erano scambiate occhiate complici e avevano rassicurato le altre.
Venne il giorno tanto bramato dalla regina, in cui avrebbe passato tutta la notte con suo marito. Sfiorarsi le mani in pubblico e nell’harem non le bastava più e bruciava dal desiderio di poterlo baciare ancora. Allo stesso tempo però era rosa dalla preoccupazione che il periodo passato dal proprio compleanno avesse raffreddato il suo interesse. La delusione l’avrebbe distrutta se al momento di coricarsi lui le avesse dato il solito buffetto sulla testa prima di voltarle la schiena e mettersi a dormire. Invece durante tutta la cena lui non le aveva staccato gli occhi di dosso, tenendola per mano e depositando baci sulle sue dita e sul polso, strappandole gemiti sommessi che aveva cercato di soffocare come il rossore che non le dava tregua. Alla fine Zaron l’aveva presa per la mano e l’aveva portata in camera da letto e, senza darle il tempo di cambiarsi né di togliersi i gioielli, l’aveva presa tra le braccia e l’aveva attirata sulle lenzuola, baciandola e stringendola con passione. Al bacio che tanto desiderava ne era seguito un secondo e poi un terzo e le mani di suo marito le avevano sfiorato le braccia nude e poi la schiena tra il blouse e la gonna, dove la sua pelle era audacemente scoperta. Infine Zaron l’aveva allontanata da sé con evidente riluttanza e le aveva chiesto di andarsi a cambiare, Deja aveva aperto la bocca per protestare ma lui l’aveva ammonita sollevando un indice.
- Ricorda la tua promessa, mia cara.
Le aveva detto con voce roca. Deja era rotolata via dal letto, sbuffando contrariata, ma aveva fatto come lui le aveva chiesto, mettendosi la camicia da notte e poi scivolando tra le lenzuola ad attenderlo. Lui l’aveva raggiunta e l’aveva stretta al petto, depositando una scia di baci leggeri sulla spalla scoperta e facendola gemere nuovamente. Zaron aveva riso sommessamente.
- Dormi, mia cara. Dormi.
Nella penombra della camera, mentre Deja dormiva profondamente, Zaron le aveva carezzato i capelli chiari e sottili, giocando con le ciocche morbide e sorridendo contento. Un bagno freddo lo attendeva al mattino, ma ne valeva la pena per stingere il corpo di sua moglie tra le braccia.
Il periodo di pace e di idilliaca serenità era terminato appena tre mesi più tardi quando, inevitabile come il mutare delle stagioni, era scoppiato il primo focolaio di ribellione nel suo impero. La vampa era esplosa in una regione che l’imperatore aveva considerato pacifica e sottomessa, essendo uno dei primi regni assoggettati.
Vanadia era stato un regno prospero, ricco di miniere e a quelle Zaron aveva puntato nella sua guerra di conquista. L’esercito vanadisiano aveva opposto una strenua resistenza, trascinando la campagna militare per due anni e quando aveva preso la capitale e deposto la famiglia reale la guerra non si era fermata; i nobili vanadisiani avevano continuato a combattere, proclamandosi re uno dopo l’altro ma Zaron ormai era giunto alle miniere d’argento e, sfruttandole con la frenesia dell’affamato, aveva tagliato gli approvvigionamenti al nemico, guadagnando in un colpo solo ciò che, lui lo sapeva bene, vinceva la fedeltà assoluta di un esercito: denaro sufficiente a pagarne le paghe. Seccato da una campagna che si trascinava più a lungo delle sue aspettative e avendo già rivolto lo sguardo a un nuovo regno da conquistare, aveva proposto l’amnistia alle famiglie che si fossero arrese, proclamandolo loro re. Pochi avevano raccolto la sua offerta, ma qualcuno l’aveva fatto e, con il loro sleale aiuto, era riuscito a decapitare la resistenza, ottenendo infine il controllo di Vanadia.
Ora stava pagando la sua fretta: le famiglie nobili vanadisiane che erano scampate al massacro avevano negli anni raccolto le forze, complottato e ammassato denaro e soldati e ora si erano sollevate, forti dell’appoggio della popolazione che era stata istigata dal ricordo di un’antica gloria. Zaron aveva riunito il suo imponente esercito ed era partito, convinto di riuscire a schiacciare quell’insetto molesto in poche settimane. Tuttavia al suo arrivo nella provincia ribelle, l’intera Karafima si era sollevata, proclamando un nuovo re e trucidando il governatore rakiano e le guarnigioni d’istanza nel paese. Esasperato, l’imperatore aveva diviso in due l’esercito, inviando Bors a soffocare nel sangue quell’insurrezione mentre lui si occupava dei vanadisiani che, nuovamente, si rivelarono un osso più duro del previsto, nascondendosi nei boschi e rifiutandosi di ingaggiare la fanteria nemica in campo aperto, anche a costo di abbandonare le città ribelli al saccheggio e alla devastazione. Le previste due settimane si trasformarono in tre, quattro e infine tre mesi e Zaron stava ancora stanando gli ultimi insorti quando giunse la notizia che altre tre provincie si erano ribellate.
Nel giro di pochi mesi metà del suo impero era divampato nel fuoco della rivolta, troppo perché fosse un caso: le ribellioni dovevano essere state organizzate e coordinate con precisione per costringerlo a dividere il suo esercito e la sua attenzione.
Lasciò la pacificazione di quel che rimaneva delle rovine fumanti di Vanadia a uno dei suoi generali e, dopo aver spostato il grosso delle sue truppe in un'altra provincia, prese la sua aeronave privata e si recò in tutta fretta a Pudja dove, si augurava, l’albero delle sue speranze e ambizioni avrebbe dato frutti carichi di morte.
L’idea dei fuochi notturni lo aveva consumato per un intero anno, spingendolo a convincere con un misto di minacce e lusinghe i migliori chimici di Issa a trasferirsi alla succursale fondata a Mabdisa dal rettore dell’Accademia, dietro suggerimento di Zaron stesso. Più vicini alla capitale dell’impero e isolati dalla loro patria di sangue e putativa, li aveva messi a lavorare sulla polvere pirica che colorava il cielo, che sua moglie tanto amava e che a lui aveva tolto il sonno. Voleva un’arma capace di attaccare il nemico da lontano, voleva puntare un razzo contro un esercito schierato e invece di ottenere un gioco di luci colorate voleva schizzi di sangue, intestini e ossa frantumate. In quegli anni gli scienziati avevano lavorato in gran segreto, creando l’arma desiderata dall’imperatore: un corpo lungo e vuoto che custodiva un mefitico frutto rotondo il quale, espulso dalla forza di una deflagrazione, veniva lanciato, in fiamme, verso il nemico. Quando il fuoco divorava l’involucro protettivo dell’arma, carica di polvere e piccoli pallini metallici, c’era un’esplosione che frantumava le ossa e la carne di coloro che erano così sfortunati da trovarsi nel suo raggio d’azione. Le avevano chiamate furia di drago*, in onore dell’imperatore. Zaron aveva guardato criticamente la parte tubolare dell’arma. Certo, permetteva una precisione e una gittata che le catapulte non avevano, ma era lenta da puntare se il nemico avanzava a cavallo.
- Voglio di più.
Aveva detto e così erano state creati i pugni di fuoco, piccoli involucri dotati di stoppino, che potevano essere lanciati a mano dalla fanteria.
- Il pericolo, sire,
Avevano avvertito gli scienziati, nervosi.
- È che un soldato maldestro faccia cadere un pugno di fuoco acceso in mezzo ad altri pugni di fuoco, se così fosse…  l’esplosione sarebbe rovinosa e non per l’esercito nemico.
- Non ha importanza. Preparerete cinquanta canne e cento furie per ognuna e poi mille pugni. Vi invierò dei soldati che dovrete addestrare nell’utilizzo delle nuove armi. Inculcategli la necessità di prendere precauzioni, con dimostrazioni violente se necessario: se un paio perdono qualche dita, magari in meno perderanno braccia e gambe in battaglia.
Ora, posto difronte all’infiammarsi del suo impero al grido di libertà e morte al tiranno usurpatore, Zaron stava per utilizzare quelle armi che aveva tenuto segrete. La sua idea era di spezzare i rivoltosi inibendo nei vicini il desiderio di emulazione, paventando loro la distruzione tra le fiamme e il sangue. Schierò le sue truppe scelte a Karne e le sue furie di drago fecero scempio dell’esercito nemico, spazzando via le prime file e, peggio ancora, mietendo vittime anche all’interno e persino nelle retrovie. Il generale nemico diede ordine di avanzare, disperato e terrorizzato, mentre il suo esercito cominciava a disperdersi nel caos del cieco orrore per quella morte che pioveva dal cielo come una grandine di fuoco. La cavalleria rakiana però li pungolò ai lati, costringendoli a mantenere la posizione, mentre le canne continuavano a vomitare distruzione alle loro spalle, spingendoli in avanti come pecore al macello. In avanti, verso le truppe bene armate e disciplinate della più micidiale fanteria di tutta Zabad e verso i pugni infuocati che ancora non conoscevano. Fu una mattanza e ai soldati rakiani rimase il cruento compito di finire i superstiti. Le ultime due provincie ribelli, contro cui stava dividendo la sua attenzione Bors, deposero le armi, implorando misericordia.
Zaron passò il resto del tempo a stanare gli ultimi ribelli e senza un briciolo di pietà li fece trucidare tutti. Coloro che si arrendevano avevano la misericordia di una morte veloce e dignitosa, nonché la promessa di amnistia per le loro famiglie; gli altri, che fino all’ultimo decisero di combattere, dandosi alla macchia e cercando di resistere con una strategia di guerriglia, venivano presi e pubblicamente giustiziati, venendo cosparsi di pece e arsi vivi nelle piazze di quel che rimaneva delle città principali.
L’imperatore era furioso e non solo per l’oltraggio della ribellione o per la cocciutaggine dei rivoltosi. Ciò che più gli rimordeva era la distruzione che aveva dovuto lui stesso portare nel suo impero, devastando le città e le campagne, uccidendo quelli che avrebbero dovuto essere i suoi fedeli sudditi. A ogni città rasa al suolo, a ogni albero appesantito dai cadaveri digrignava i denti e sputava veleno. Cara riusciva a malapena a calmarlo, discutendo con lui fino a notte inoltrata le strategie da adottare e ripercorrendo passo a passo ogni agguato, ogni sconfitta subita. Se non fosse stato per lei, che a parole e a fatti lo convinceva, a volte sbattendogli in faccia i rapporti, che tutto quello che stava compiendo era necessario, sarebbe sprofondato nello sconforto più cupo oppure si sarebbe lasciato trasportare della lucida furia omicida che a volte lo coglieva in battaglia, perdendo di vista il punto d’arrivo: la pace nel suo impero, possibilmente una pace che non fosse quella della morte. Il suo esercito aveva preso a sussurrare il suo soprannome al suo passaggio e a gridarlo mentre correva a spada sguainata verso il nemico: Drago! Drago!
Zaron ne ricavava una tetra soddisfazione.
Quasi nove mesi dopo la sua partenza da Halanda, poté dichiarare che la guerra si fosse conclusa e ogni anelito d’indipendenza soffocato. Aveva rimandato a casa Cara una settimana prima ed era ansioso di tornare a Halanda, di rivedere le sue bambine, le sue ragazze e di riabbracciare la sua cara, cara moglie, che aveva sognato come una colonna di luce in quell’inferno di cenere e puzzo di carne umana bruciata e sangue marcio. Era stanco, amareggiato, aveva perso peso e si era lasciato crescere la barba e i capelli perché aveva a malapena avuto tempo di dormire, figuriamoci curare l’aspetto.
La rivolta era stata soffocata ma lo aspettava ancora un lungo lavoro di ricostruzione. Distruggere, uccidere, quella era la parte facile; convincere la popolazione a uscire dalle tane di coniglio in cui aveva cercato rifugio e a tornare a lavorare la terra, a curare il bestiame, a commerciare e soprattutto a pagare le tasse, sarebbe stato molto più difficile. Ma di quello se ne sarebbero occupati i suoi amministratori. Zaron amaramente rimpiangeva la perdita dei governatori uccisi dai ribelli: tutti uomini validi e onesti che sarebbero stati capaci di gestire con pugno giusto seppur ferreo quel disastro economico e umano.
Accompagnato da Bors, si era imbarcato sulla sua aeronave da guerra e aveva stancamente dato ordine di dirigersi a Halanda, percorrendo il più breve tragitto possibile. Stava riposando nella sua cabina quando, tre ore dopo, mentre sorvolavano le foreste tropicali di Myanam, una furia di drago fu lanciato e come un fulmine rosso che però si originava dalla terra invece che dalle nubi, colpì l’aeronave che, come una pietra infuocata, precipitò.
 
Quando Zaron era partito per Vanadia anche Deja, come l’imperatore, era sicura che la guerra si sarebbe conclusa in breve tempo e che presto suo marito avrebbe fatto ritorno. Ma poi nuovi focolai si erano accesi e le poche settimane si erano trascinate in mesi. Deja aveva stretto i denti e, forte dell’appoggio del marito con cui comunicava tramite telegramma, quando possibile, altrimenti con lettere trasportate da veloci corrieri, aveva preso a presiedere da sola alle riunioni del governo rakiano. I ministri di Zaron da anni erano abituati alla sua muta presenza e quando, spalleggiata da due guardie faliq, si sedette per la prima volta al suo solito scranno a fianco di quello vuoto del khan e intimò agli stupiti nobili di procedere come se nulla fosse, quegli uomini si scambiarono sguardi scandalizzati, ma poi proseguirono, pronti però a protestare a gran voce, nonostante il giustificato timore che avevano del loro signore, se lei avesse provato a prendere la parola o a imporre la sua volontà. La regina tuttavia rimase silenziosa, come suo uso, durante tutto il dibattimento, osservando con occhi attenti ogni gesto, ogni espressione e soprattutto prestando ascolto a ogni cosa che veniva detta. Per i nobili signori rakiani era come avere le orecchie e gli occhi del loro khan in quella stanza con loro e ne erano nervosamente consapevoli. La regina acquisì un’aurea quasi mistica, seguita da un folto drappello di guardie armate in cui i rosso vestiti faliq erano la maggioranza. Vestita sempre in azzurro, che fosse un abito rakiano o issiano, come i suoi occhi chiari che parevano scrutare nei cuori e nelle menti dei suoi cortigiani, quella che era arrivata a Halanda come un bambina aggrappata al braccio di Zaron, quasi un accessorio, il trofeo di una conquista, ora si muoveva come un prolungamento dell’imperatore, la sua voce l’eco di quella del khan. Da quasi nove mesi regnava in vece del marito, facendo valere la sua autorità, silenziosa ma tuttavia ingerente e impossibile da negare, quando l’aeronave che trasportava il khan partì ma non arrivò. Si spedirono telegrammi e messaggeri e quando fu confermato che l’imperatore non era mai arrivato a destinazione, che mancava ormai da più di un giorno e che probabilmente era morto, Deja si ritirò nell’harem a gridare tutto il suo dolore, convinta di aver perso per sempre l’uomo che amava e attorno al quale aveva costruito tutti i sogni della sua vita futura, convinta che il cuore le si sarebbe avvizzito nel petto, trasformandola in arida pietra.
Perla la raggiunse nelle sue camere mentre ancora singhiozzava, rannicchiata su sé stessa sul pavimento.
- Alzati Deja!
La voce della concubina aveva un tono allarmato che tuttavia non riuscì a penetrare la coltre del dolore che avvolgeva la regina. La donna più anziana la strattonò per le braccia, costringendola ad alzarsi.
- Non hai tempo da perdere in pianti!
La ragazza aprì gli occhi ma il perché agonizzante che aveva sulle labbra morì davanti all’espressione spaventata della donna.
- Se Zaron è morto, e sottolineo se…
Disse Perla ora che aveva l’attenzione di Deja.
- Tu sarai la prossima! Sei in grave pericolo, non ti immagini neppure quanto. Tutte noi lo siamo.
- Cosa…?
- Bors era l’uomo di fiducia di Zaron, quello a cui il khan aveva affidato il suo erede…
La voce di Perla tremava di disperazione. Bors, si ricordò improvvisamente Deja con un tuffo al cuore, viaggiava con Zaron quando la sua aeronave era scomparsa, Famira, Famira, povera Famira…!
- Se anche Bors è morto la stirpe di cui Zaron faceva parte è andata perduta e tu, tu sei solo la sua vedova, non sei la madre del nuovo khan! Non sei nulla…!
Perla la scosse, cercando di inculcarle a forza la coscienza del pericolo in cui si trovava.
- Potrebbe scoppiare una guerra di successione da un momento all’altro! Devi fuggire, prendi tutti i tuoi uomini, parla con il capo delle tue guardie issiane e organizza il tuo ritorno a Issa. Adesso donna, non domani!
Deja si divincolò dalle mani della concubina.
- No! Non fuggirò.
Una folle speranza le era nata in petto e i suoi occhi riflettevano quella disperata follia.
- Non abbiamo conferme che Zaron sia morto, io non lo crederò fino a che non mi avranno presentato il suo cadavere! Sono la sua regina e non fuggirò come una ladra nella notte!
- Tu non capisci Deja!
Aveva urlato la concubina.
- Sei solo una donna: nessuno ti seguirà!
- Lo vedremo.
Aveva sussurrato con voce cupa e determinata. Si era lavata il viso ed era uscita dall’ala femminile a testa alta per conferire con il capitano delle sue guardie del corpo, lord Kalin che aveva sostituito Ostin, e con il capo dei faliq. Ebbe la loro fedeltà con il più vincolante dei giuramenti, anche se Hikij dovette ammettere con evidente riluttanza che avrebbe potuto obbedire ai suoi ordini solo fino a quando la morte del khan non fosse stata confermata. A quel punto lui e gli altri faliq avrebbero atteso, imparziali, l’emergere di una nuova dinastia regnante.
- Vi chiedo di seguirmi solo in quanto vostra regina. Nel momento in cui cesserò di esserlo non pretendo che mi rimaniate fedeli.
Poi si era recata davanti alla corte di suo marito, pronta ad affrontare i nobili signori di Rakon.
La corte era riunita a Palazzo Reale, aggregandosi spontaneamente, senza nessuna convocazione da parte di Deja. Il brusio che riempiva la sala del trono di Zaron cessò in una muta sorpresa quando la regina fece il suo ingresso scortata da trenta guardie armate e da un servitore che recava uno sgabello. Il giovane servo lo mise ai piedi del trono e Deja vi prese posto.
- Avete qualcosa da sottopormi, nobili signori?
Chiese con voce ferma e espressione di pietra.
- È per questo che vi siete riuniti qui, non convocati?
Un nobile vestito in seta rossa e oro, vestito troppo riccamente, con colori regali, si fece avanti. L’uomo era sulla quarantina, il fisico asciutto e muscoloso che lasciava intuire un passato militare, e Deja lo riconobbe come il nobile Dassikiv, mentre Zaron l’avrebbe facilmente riconosciuto come uno dei dissidenti che avevano sfiorato il complotto contro la sua giovane sposa nel loro primo anno di matrimonio.
- Non è nelle tue prerogative convocarci, Deja di Issa.
Esordì con voce sprezzante. Le guardie issiane misero le mani sulle else delle spade e i faliq trasudarono minaccia. Deja sollevò pigramente una mano, per intimare loro pazienza. Arricciò le labbra in una smorfia di disprezzo e rispose a tono.
- Non è prerogativa di certo tua, nobile Dassikiv. E ti rivolgerai a me come vostra maestà. Io sono la tua regina, non dimenticarlo.
Lui le rise in faccia e la sua risata di scherno galoppò oscenamente sulla volta arcuata della sala.
- Tu non sei la mia regina: tu eri la regina di khan Zaron, la sua sposa, carpita come un bottino di guerra a un nemico sconfitto. Il tuo regno esiste ancora solo per la grazia del nostro defunto khan e tu, tu che non sei stata in grado di dargli un figlio, sei tornata a rappresentare il bottino di guerra che ti eri illusa di non essere.
La squadrò, fissando il suo sguardo con volgarità lì dove nessuno osava più guardarla direttamente da anni, per timore della gelosia del marito.
- Speri forse che il prossimo khan ti scelga come moglie, quando ti sei rivelata sterile? Quando non sei che una femmina straniera, senza legami in questa terra? Khan Zaron era un eroe, un conquistatore, un grande uomo e un superbo condottiero. Tu non sei la sua eredità.
Il nobile Brafit emerse dalle file degli uomini riuniti, schiarendosi la voce nervosamente, venendo sorprendentemente in soccorso della regina.
- A proposito di eredità, nobile Dassikiv, mi sento in dovere di ricordarti la possibilità che esita un erede maschio del nostro compianto khan. La tradizione vuole che si attendano almeno dieci giorni dalla morte del khan per dare tempo e modo a un eventuale erede di farsi avanti.
Dassikiv si volse verso il suo interlocutore.
- E io ti ricordo che in mancanza di un erede maschio, i parenti maschi più prossimi, in virtù del matrimonio con le sorelle o le figlie legittime del khan, possono farsi avanti, tentando di reclamare per sé la corona.
Brafit aveva sobbalzato, cominciando a sudare, convinto che l’altro uomo gli chiedesse un’entrata in campo.
- Io credo, mio nobile fratello rakiano, che la cosa più saggia da fare sarebbe attendere che il corpo di khan Zaron venga riportato a Halanda, gli venga data la sepoltura degna di un uomo della sua levatura, attendere i dieci giorni richiesti dalla tradizione e poi …
- E poi nulla, mio florido amico. Non stavo parlando di te, ma di me stesso: tra due giorni sposerò la nobile Cefan, sorella di tua moglie, e ho tutte le intenzioni di farmi avanti per ottenere quel che mi spetta.
Levò un braccio, puntando al trono dietro la regina.
- Vi state dimenticando signori,
Tuonò lei, prendendo la voce dal ventre, come le aveva insegnato suo padre, per suonare autoritaria invece che una donnetta stridula.
- Che il khan è stato dichiarato solo disperso, non morto. Il suo cadavere non è stato ancora ritrovato e fino a che non avrò le sue spoglie mortali prive di vita davanti ai miei occhi, continuerò a ritenerlo il mio khan, il vostro khan e a pretendere che voi gli rechiate onore continuando a mostrargli fedeltà. È indegno il modo in cui vi disputate il trono, come cani rognosi che si azzuffano su un osso marcio. Se mio marito verrà ritrovato morto, io mi inchinerò e giurerò per prima ubbidienza al suo successore, che sia suo erede per sangue o per matrimonio. Se cercherete di prendere il potere con la forza scoprirete quanto poca compassione c’è in me e che mio marito ne è totalmente sprovvisto. Vi consiglio,
Aveva guardato in faccia tutti i nobili che non avevano distolto il viso, fissando i suoi occhi gelidi in quelli scuri di loro, incontrando sfida e timore in egual misura.
- Vi consiglio di riflettere bene sulle vostre azioni e a chi dovete fedeltà.
Detto questo si era alzata e aveva lasciato la sala del trono, seguita dai suoi soldati, con andatura lenta e a testa alta.
- Sei una pazza incosciente.
Le aveva detto Tallia poco più tardi. Deja aveva sorriso tremante.
- E stai buttando via la tua vita. Noi verremo risparmiate: siamo solo concubine, poco più che puttane e le nostre figlie sono bastarde che verranno fatte sposare nella famiglia del vincitore, per cementare l’unione con il sangue. Tu sei la regina, se non finirai a fare la concubina del nuovo khan verrai data ai suoi soldati, stuprata a morte e poi buttata dalle mura come immondizia. Certo, le tue guardie issiane combatteranno per te fino alla fine e verranno tutte trucidate. Tuo padre probabilmente insorgerà, trascinando Issa nella rovina. E tutti i nobili che in questi anni ti hanno seguita a Halanda e si sono fatti una vita qui, patiranno la stessa sorte. Dovevi fuggire quando era tempo e poi inchinarti graziosamente al nuovo khan, giurandogli fedeltà.
Deja aveva scosso cupamente il capo e stretto i denti, con testardaggine.
- Questo avverrà solo se Zaron è morto davvero. E se Dassikiv vincerà la gara per il trono. Brafit mi è apparso… più conciliante. Io e Sali siamo sempre andate d’accordo.
- Non ci sono amici quando l’ambizione è la tua più cara amante!
Aveva urlato Tallia esasperata e Cara l’aveva sostenuta con le sue argomentazioni.
- Brafit non ti violenterà, forse, né ti darà ai suoi soldati, ma lasciarti viva e libera sarebbe un’ingiustificabile dimostrazione di debolezza, che non può permettersi in alcun modo visto che ora ha un rivale. L’unica cosa che lo avvantaggia è che lui ha già dei figli da sua moglie, mentre quella cagna di Cefan ha superato i trenta e non è sicuro che sarà in grado di dare a Dassikiv un erede maschio e sano. Dei…! Come hanno fatto a organizzare tutto senza che nessuno ne sapesse niente? Sei sicura che il nobile Brafit non ne fosse a conoscenza? Forse sono d’accordo e hanno deciso di spartirsi l’impero.
Deja scosse fermamente il capo.
- Brafit era imbarazzato dagli insulti che Dassikiv mi rivolgeva e genuinamente sorpreso dall’annuncio delle nozze. Ho già dato ordine ai miei nobili di evacuare la città come misura precauzionale.
La regina fece una smorfia scontenta.
- Ma so già che alcuni di loro insisteranno per rimanere con me, fino alla fine.
Tallia aveva sollevato le braccia al cielo.
- Voi issiani siete propensi al martirio! Ma non c’è nulla di glorioso nell’essere sgozzati o morire urlando sotto il corpo di un soldato che grugnisce! Ti imploro Deja, pensa almeno a un’onorevole suicidio. Non lasciare che ti prendano viva… Fallo per Zaron, non lasciarti brutalizzare da nessuno…
Sentir nominare suo marito fece ondeggiare di dolore Deja, come un albero abbattuto che ancora è incerto su che lato cadere.
- Zaron non è morto.
Si ripeté con la forza della disperazione e si accinse a organizzare una strenua difesa che sparava non sarebbe mai servita.



*furia di drago: lo ammetto, ho subito pensato alle uova di drago del ciclo della Ruota del Tempo. L’idea è di proprietà degli eredi di Robert Jordan (sei stato e sei ancora il mio scrittore preferito, grazie per aver lavorato fino alla fine all’ultimo libro: RIP).
 
NOTE DELL’AUTRICE: Salve! Riguardo a Ostin, volevo dirvi che il fatto che fosse omosessuale, cui avevo già accennato nelle mie note precedenti, è l’unica cosa che sentivo potesse giustificare per Zaron il lascialo andare: non è un uomo violento ma è geloso e possessivo. Il che, mi rendo conto, non è sempre una buona qualità. D’altra parte non si ottiene un impero con la diplomazia ma sui cadaveri dei nemici conquistati. Volevo mostrare in questo capitolo come Zaron possa essere allo stesso tempo un uomo feroce, un soldato implacabile e un innamorato dolcissimo.
  
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