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Autore: Elendil    19/12/2016    1 recensioni
Sequel del primo libro della saga "Nihaar'ì".
Le vicende di Harryan continuano ma i punti di vista ancora una volta cambiano. Il destino della Veggente prosegue con nuovi e improbabili risvolti!
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Yuri
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ciao a tutte!

Rieccomi qui dal gelo nordico (sta nevicando °__°) a pubblicare un nuovo capitolo!

Ringrazio come sempre tutte le persone che mi sopportano e seguono, nonché quelle che si beccano pure gli spoiler da ansia da prestazione, senza di voi sarebbe tutto ancora più difficile di quanto già non sia J

Un bacio particolare a Talia e per la sua preziosa attenzione.

Spero che questo capitolo vi piacerà!

 

A presto

Elendil

 

____________________________________________________________

 

Mentre si apprestavano a uscire in fretta e furia da quella misera conca, i piedi che affondavano nella sabbia per la foga di scalciarla via in balzi goffi e irrigiditi dal freddo, la Nihaar’ì si ritrovò a pensare alle vecchie e oramai incerte nozioni che aveva di Yevtuk’han. Nozioni accademiche, ovviamente, ma pur sempre valide a confronto della più che totale ignoranza che via via ella stava scoprendo di possedere in pressoché tutto ciò che riguardasse Arryan.

Seguì a balzi Hiras per raggiungere senza fiato lo Yenavo’r già all’erta e pronto a scattare. Ne afferrò con il cuore in gola le scaglie coriacee strattonandole appena per montarvi in groppa.

Yevtsuk’han veniva soprannominata “La Città Nera” o “La città di Polvere” a causa delle cave di pietra e carbone che per tutte le sue fondamenta si estendevano a metri e metri di profondità fino a un nocciolo calcareo dal quale senza sosta fuoriuscivano diamanti e pietre fra le più preziose. Era una città assai piccola in superficie ma incredibilmente vasta nel sottosuolo, un dedalo di vie e intrecci che solo i suoi veri abitanti (schiavi nella quasi totalità) potevano dire di conoscere realmente.

Evitata dagli stranieri per via della sua pericolosità, Yevtuk’han era in sé la più grande fonte di ricchezza dei più rinomati trafficanti e commercianti di Arryan nonché la più famosa meta ove mercanteggiare armi e armamenti di ogni tipo.

Una città pericolosa, insomma.

Stretta ora fra la schiena di un balzellante Yenavo’r e il petto di un ansimante Hiras, il gelo del deserto a sferzarle il viso riempiendole gli occhi di granulose lacrime, la Nihaar’ì si chiese quanto promettente fosse, in effetti, la prospettiva di finire dritta lì, nella città della schiavitù per eccellenza, priva di una qualsiasi identità, passato e futuro e per giunta in balia di un -ma che fortuna- ragazzino.

Si sentì sospirare.

E poi avvenne.

Il deserto, pallido e scintillante di una finissima aria poco meno che gelida si accese come d’incanto di mille e più iridescenti screziature carminie. Come boccioli di luce gettati alla rinfusa da un’incauta mano essi si sparsero per ogni dove attorno a loro cominciando a brillare con sempre più intensità, con sempre più livore.

“Via, presto!”

Lo strattone di Hiras al povero Yenavo’r li sottrasse alla luce prima che essa si trasformasse improvvisamente in un divampare di fiamme e fasci purpurei dal chiarore ustionante. La Nihaar’ì boccheggiò, il calore sprigionato dalle rosse biglie che le toglieva il fiato. Da lontano - ma non troppo - proruppe allora un coro di ululati acuti e striduli, un gemito latrante da far rizzare i peli sulla nuca.

La Veggente gemette, Hiras si irrigidì facendo scartare la povera bestia a sinistra.

“Ci stanno stanando” digrignò rabbioso, una nota di panico ad arrochire la sua voce.

Nel nuovo latrato che seguì, la ragazza desiderò potersi tappare le orecchie. Sfortunatamente, la velocità del Drago l’avrebbe di certo sbalzata con un’unica piroetta a terra in quel mare ora non più di sabbia ma di vivo e pulsante fuoco.

Gemette ancora.

“Hanno intenzione di bruciarci vivi?” gridò allora non senza una nota di panico. Poco sopra la sua spalla Hiras se ne uscì con una imprecazione contratta assai poco definibile nella lingua corrente prima di spronare lo Yenavo’r a una avanzata ancor più lesta fra le dune di sabbia arroventate.

Sfortunatamente per loro però, sangue freddo e Draghi del Deserto non sono cose che in genere si accostino con esiti felici: lunghi giorni di marcia e fuga finale avevano in effetti fiaccato le ultime forze dell’animale che proprio allora, ovviamente nell’attimo di estrema necessità vennero meno. Con un digrigno esausto la creatura cedette improvvisamente alla stanchezza caracollando esanime nella sabbia e sbalzando di conseguenza Veggente, Danzatore e tutta la mercanzia annessa in uno sbuffo di polvere.

Nuova imprecazione. Nuovo grido sordo. Nuova percezione che qualcosa fosse andato irrimediabilmente storto a scrocchiare dolorosamente nella spalla della Nihaar’ì prima che tutto il resto la scaraventasse senza fiato a terra, ansante e terrorizzata. Pochi attimi e prima che il terreno sotto di lei le esplodesse letteralmente sotto i piedi Hiras l’aveva già costretta ad alzarsi e trottare lontano, più scioccata che viva, nell’oceano ardente.

“A-aspetta!” tentò di fermarlo lei ma invano: senza curarsi delle sue proteste lui la sospinse avanti per uno, due passi ancora. Poi qualcosa si parò sul loro cammino: una creatura oblunga, ossuta più che mai che a quattro zampe stava come sospesa fra terra e cielo, avvinghiata alla sabbia solo per la punta di quelle che solo dopo qualche attimo la Nihaar’ì riconobbe essere artigli lunghi e sottili.

E’ un Vogin, vor utum (Spirito che ghermisce il cielo) si ritrovò a inorridire la ragazza ricordando dei giorni in cui Zaphil le aveva parlato degli spiriti del deserto, adunchi e cattivi, capaci di ghermire le nuvole e strapparle al deserto portando via con sé l’acqua e la vita di coloro che si perdono in esso.

Poi però ricordò che quelle di Zaphil erano storie, semplici storie, quando viceversa dinnanzi a loro era chiaro si trovasse ora una creatura ben più fisica e presente che mai, le zanne scoperte pronte a scattare.

Neanche il tempo di pensarlo e un secondo li raggiunse alle spalle. E un terzo. E un quarto. E così via, fino a quando attorno ai due vi fu improvvisamente una massa di musi digrignanti e fauci sbavanti. Il roco abbaiare e ululare soverchiava ogni altro rumore rendendo indistinguibile se e come vi fosse altro all’infuori di essi.

Ma era chiaro che qualcosa vi fosse. Quelle belve non erano capitate da chissà dove così come quelle biglie. E nemmeno le sagome che in lontananza -per quanto vaghe e inconsistenti-  già si intravedevano avvicinarsi con calma stolida e circospetta.

Erano i Kamin? Possibile?

Poco prima che la Nihaar’ì avesse il tempo di voltarsi e porre quel semplice quesito al suo compagno di viaggio qualcosa calò sul suo capo tramortendola in un sonno grigio e incolore.  

 

Il dolore giunse poco prima del risveglio. Un unico e intenso pungolio all’altezza del fianco che con forza risalì le pareti della sua coscienza per terminare lì, poco sopra la base del collo dove esplose sordo e brutale, una sberla in faccia che le aprì a forza gli occhi. Li, per metà inebetita dalla stanchezza la Nihaar’ì si ritrovò a sbattere un paio di volte le palpebre prima di riuscire a identificare gli interni di quella che pareva una barca dall’aria assai consunta e logora. Assottigliò lo sguardo, gli occhi secchi di sole e polvere a rigarle il viso con due grosse lacrime riarse. La seconda occhiata non fu tuttavia migliore, giacché era evidente che ovunque in quella struttura oscillante mancassero pezzi di fasciame e cardatura fra le travi dello scafo. Sete di vario tipo e dimensione pendevano dal soffitto come arti molli, oscillanti nel vago ondeggio della struttura. Mercanzie fra le più stravaganti giacevano ammonticchiate un po’ ovunque e fra di esse, immobili come cianfrusaglie dimenticate, sedevano decine di corpi semiaddormentati,  

Un brivido percorse la Nihaar’ì.

Difficile capirne la provenienza: l’interno della barca era per lo più avvolto nella semioscurità, un plumbeo silenzio interno in contrapposizione a un roboante fracasso esterno tale da permettere di udire solo qualche colpo di tosse ogni tanto e rare frasi sconnesse. Meno arduo fu invece stabilire che la quasi totalità delle figure fosse femminile, la morbidezza delle forme a rivelare che quel luogo era stato evidentemente adibito al trasporto di loro soltanto.

Nell’improvvisa necessità di sedersi e sgranchire le membra irrigidite, la Nihaar’ì si ritrovò a constatare l’ultimo - ma non meno importante - particolare di quel quadretto nautico: era legata.

E solo allora ricordò effettivamente che non poco tempo prima - ore? Minuti? Giorni? - lei e Hiras erano stati sorpresi nel deserto dai Kamin dopo un’infruttuosa fuga. A quel punto la sua memoria si faceva tuttavia un po’ confusa, assente in realtà, ma immaginò che l’acuto pulsare della testa proprio all’altezza della nuca ne fosse in qualche modo responsabile.

Fece una smorfia, una piccola risata nell’ombra a costringerla a cercare con lo sguardo volti che, immaginò, la stessero guardando. Nessuno tuttavia disse alcunché, motivo per cui anche a lei non sembrò opportuno aggiungere molto.

Era prigioniera, questa era più che evidente. E non era sola, abbastanza ovvio. E se Hiras non aveva mentito, con ogni probabilità ora tutti quanti loro erano in viaggio verso la prima città reperibile sulla tratta commerciale: la Nera Città.

La Città del carbone.  

Il nome assieme al suo fumoso significato le rimbalzarono dalla gola al petto impedendole per un attimo di respirare. Socchiuse di scatto le palpebre nel tentativo di abbandonare il più velocemente possibile il pensiero.

E per aggiungere il tocco finale: dov’era ora Hiras?

Un improvviso scossone la fece cozzare contro la parete legnosa, un sonoro toc ad accompagnare la silenziosa imprecazione che ne seguì. Qualcuno rise.

Di norma avrebbe dovuto trovarsi con lei, giacché insieme li avevano presi e sempre insieme sarebbe stato ovvio che li lasciassero. Istintivamente si massaggiò la parte lesa, il metallo serrato attorno ai polsi a regalarle per un attimo una carezza fredda e rigida contro il volto. Abbassò di colpo le mani.

Ma anche un cretino avrebbe notato che quella “carrozza” era colma solo di donne, motivo per cui era lecito pensare che fosse stato messo in un’altra...

Nuovo scossone. Nuova imprecazione silenziosa. Nuove risatine sommesse.

In un’altra assai più maschile e comunque abbastanza vicina da non pensare che egli fosse stato lasciato - che ne so - indietro per vari e imprevedibili...

Nuovo scossone. Nuova imprecazione. Questa volta, una risata vagamente definibile non molto distante da lei.

“Di solito al terzo toc la gente capisce che la cosa migliore da fare è stendersi sul fondo della gabbia ed attendere che la carovana si fermi...” la voce sottile e giovane la raggiunse da poco distante, un che di divertito nel tono a fare chissà perché imporporare le guance della Nihaar’ì.

“Sfortunatamente credo che a me servisse qualche toc in più per capirlo” reagì lei d’impulso prima di potersi mordere la lingua. Sentì l’altra ridacchiare appena, nuovamente. Poco male, sospirò la Veggente cominciando lentamente a distendersi sul fondo legnoso, almeno era sembrata simpatica. Proprio in quella un nuovo scossone la scaraventò brutalmente a terra.

“Avete detto che ad un certo punto la carovana si fermava...” commentò piccata. La penombra era troppo fitta per vedere bene, ma le parve comunque di notare una testa riccioluta annuire poco distante.

“Solo una volta al giorno e una di notte” le rispose “Prima di allora scordati di poter mettere piede fuori da questa fornace”

La parola fornace sembrò improvvisamente dare forma e colore alla sensazione che pian piano si era fatta strada nella coscienza della ragazza. Una percezione di pesantezza, malessere e caldo oltre ogni dire che fino ad allora l’ammonticchiarsi degli eventi le aveva in qualche modo impedito di elaborare. Boccheggiò portandosi istintivamente una mano al volto che trovò con suo sommo sgomento privo di alcun velo o protezione.

Era nuda?

La sua faccia dovette assumere allora una che di pallido e sconcerto al contempo perché questa volta le risate attorno a lei furono assai più sonore e goliardiche di prima.

“Ti hanno controllata mentre dormivi.” le spiegò ancora la voce calma. La Nihaar’ì si sentì, pur non vedendosi granché, sporgersi avanti alla ricerca di un qualcosa per coprirsi. Tuttavia l’attimo dopo desistette.

“Mi hanno guardata e non hanno visto...” percepì la gola seccarsi improvvisamente “Niente?” “Già solo il fatto che tu sia qui e non abbandonata sotto qualche duna di sabbia dovrebbe fartelo intuire”

La semplicità di quella risposta la spiazzò tanto quanto quelle assai più arzigogolate dell’Aruspice.

Nulla di nuovo. Come sempre. Dicevano tutte e due. Eppure chissà perché questa volta le sembrò tutto diverso, tutto differente rispetto a come l’aveva percepito fino a quel momento.

“Dove stiamo andando?” riprese poco dopo improvvisamente afona in quella caligine ansante. “A Yevtsuk’han. Al mercato degli schiavi” rispose l’altra paziente.

Come aveva previsto Hiras.

“Dove sono...” esitò “Gli altri?”

Qualcuno rise nella penombra “Preoccupata per il tuo amato, ragazzina?” la nuova voce le parve grigia e ruvida sulla pelle, una nota malevola a farle di riflesso storcere il naso “E’ stato preso anche lui?” continuò tuttavia. Risatina generalizzata. “E chi se lo lascia scappare uno così?” fu il laconico commento.

Il che voleva dire che Hiras stava viaggiando con lei - con loro - a non più di qualche gabbia di distanza. Si sentì trarre un mezzo sospiro - o era solo un annaspare di caldo?

“Fossi in te eviterei tutto quel sollievo” la ammonì subito l’altra “Fra i Kamin gli uomini catturati sono senza dubbio quelli a passarsela peggio.” in un breve scostarsi di luci, fu come riuscire a vedere per un attimo la padrona di quella voce lapidaria. Mento sfuggente e sguardo volpino, labbra carnose piegate in un’espressione dura e sbrigativa.

Poi la luce passò.

Anche lei tuttavia doveva averla vista perché sogghignò.

“Pensavi forse che vedendovi così carini insieme vi avrebbero venduto in coppia?”

In effetti si...

“Certo che no, non sono una sciocca” replicò la Nihaar’ì prendendo a lisciarsi delle pieghe semi-invisibili dei vestiti “Semplicemente mi domandavo che fine avesse fatto”

“Che fine, ti chiedevi?” la sbeffeggiò l’altra “Eppure non credevo che la preoccupazione per gli altri fosse cosa per gente come voi”

Gente come voi?

Il gelo di un brivido attraversò improvvisamente la schiena della Veggente. Rabbrividì suo malgrado, piegando appena il capo sotto il peso di quella nuova sensazione.

“Non capisco a cosa ti riferisci” abbozzò tuttavia con noncuranza. Forse era stata una frase buttata lì a caso... Per un attimo l’altra non rispose, i sussulti della Gabbia ad inframmezzare quei secondi di afosa attesa.

“Io credo invece proprio il contrario” replicò finalmente dopo un attimo “Ma perché curarsene? Il deserto è grande e così grandi sono i suoi misteri

La Nihaar’ì riconobbe il modo di dire, spesso usato fra le genti del Sud. Meno facile fu intendere invece il significato di quel breve scambio di battute: la sensazione di essere stata in qualche modo minacciata aveva stranamente il gusto della Torre del Tempo. Amaro e acido al contempo, qualcosa che sapeva di veleno e insieme del suo rimedio.

Se quell’affermazione fosse stata o meno casuale, l’altra non sembrò tuttavia affatto incline a rivelarlo: per la rimanente parte del viaggio si limitò a rimanere in silenzio, lo sguardo muto chiaramente puntato sulla ragazza mentre una dopo l’altra tutte le prigioniere si facevano avanti per chiedere qualcosa su di lei e su Hiras - molto su Hiras. In effetti quasi solo su di lui.       

Lei rispose calma, precisa, puntuale, una falsa identità che attimo dopo attimo si delineava sulla sua pelle con la semplicità di ore e ore di addestramento in compagnia di Zaphil. Poco tempo prima del calare delle tenebre nei suoi panni giaceva una giovane donna dall’aria mesta ma sincera il cui passato pareva giacere a metà strada fra Hevnan k’ar e il deserto più sconfinato.

Una bella persona, tutto sommato, che le ragazze prigioniere non faticarono granché a farsi piacere a tal punto da sussurrarle poco prima che entrassero dei Kamin urlanti ad ordinar loro di scendere tutte insieme per il rancio serale “Evita qualunque contatto visivo con loro. I Kamin sono uomini del Deserto, più avvezzi alle superstizioni che al buonsenso. Se ti vedranno alzare lo sguardo ti puniranno come nessuno ti ha mai punita in vita tua”

  
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