Ciao a tutte!
Rieccomi qui dal gelo nordico (sta nevicando °__°) a
pubblicare un nuovo capitolo!
Ringrazio come sempre tutte le persone che mi sopportano
e seguono, nonché quelle che si beccano pure gli spoiler da ansia da
prestazione, senza di voi sarebbe tutto ancora più difficile di quanto già non
sia J
Un bacio particolare a Talia
e per la sua preziosa attenzione.
Spero che questo capitolo vi piacerà!
A presto
Elendil
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Mentre si apprestavano a uscire in fretta e furia da
quella misera conca, i piedi che affondavano nella sabbia per la foga di scalciarla via in balzi goffi e irrigiditi dal freddo, la Nihaar’ì si ritrovò a pensare alle vecchie e oramai incerte
nozioni che aveva di Yevtuk’han. Nozioni accademiche,
ovviamente, ma pur sempre valide a confronto della più che totale ignoranza che
via via ella stava scoprendo di possedere in pressoché tutto ciò che riguardasse
Arryan.
Seguì a balzi Hiras per
raggiungere senza fiato lo Yenavo’r già all’erta e
pronto a scattare. Ne afferrò con il cuore in gola le scaglie coriacee
strattonandole appena per montarvi in groppa.
Yevtsuk’han veniva
soprannominata “La Città Nera” o “La città di Polvere” a causa delle cave di
pietra e carbone che per tutte le sue fondamenta si estendevano a metri e metri
di profondità fino a un nocciolo calcareo dal quale senza sosta fuoriuscivano
diamanti e pietre fra le più preziose. Era una città assai piccola in
superficie ma incredibilmente vasta nel sottosuolo, un dedalo di vie e intrecci
che solo i suoi veri abitanti (schiavi nella quasi totalità) potevano dire di
conoscere realmente.
Evitata dagli stranieri per via della sua pericolosità,
Yevtuk’han era in sé la più grande fonte di ricchezza
dei più rinomati trafficanti e commercianti di Arryan
nonché la più famosa meta ove mercanteggiare armi e armamenti di ogni tipo.
Una città pericolosa, insomma.
Stretta ora fra la schiena di un balzellante Yenavo’r e il petto di un ansimante Hiras,
il gelo del deserto a sferzarle il viso riempiendole gli occhi di granulose
lacrime, la Nihaar’ì si chiese quanto promettente
fosse, in effetti, la prospettiva di finire dritta lì, nella città della schiavitù
per eccellenza, priva di una qualsiasi identità, passato e futuro e per giunta
in balia di un -ma che fortuna- ragazzino.
Si sentì sospirare.
E poi avvenne.
Il deserto, pallido e scintillante di una finissima
aria poco meno che gelida si accese come d’incanto di mille e più iridescenti
screziature carminie. Come boccioli di luce gettati
alla rinfusa da un’incauta mano essi si sparsero per ogni dove attorno a loro
cominciando a brillare con sempre più intensità, con sempre più livore.
“Via, presto!”
Lo strattone di Hiras al
povero Yenavo’r li sottrasse alla luce prima che essa
si trasformasse improvvisamente in un divampare di fiamme e fasci purpurei dal
chiarore ustionante. La Nihaar’ì boccheggiò, il
calore sprigionato dalle rosse biglie che le toglieva il fiato. Da lontano - ma
non troppo - proruppe allora un coro di ululati acuti e striduli, un gemito
latrante da far rizzare i peli sulla nuca.
La Veggente gemette, Hiras
si irrigidì facendo scartare la povera bestia a sinistra.
“Ci stanno stanando” digrignò rabbioso, una nota di
panico ad arrochire la sua voce.
Nel nuovo latrato che seguì, la ragazza desiderò
potersi tappare le orecchie. Sfortunatamente, la velocità del Drago l’avrebbe
di certo sbalzata con un’unica piroetta a terra in quel mare ora non più di
sabbia ma di vivo e pulsante fuoco.
Gemette ancora.
“Hanno intenzione di bruciarci vivi?” gridò allora non
senza una nota di panico. Poco sopra la sua spalla Hiras
se ne uscì con una imprecazione contratta assai poco definibile nella lingua
corrente prima di spronare lo Yenavo’r a una avanzata
ancor più lesta fra le dune di sabbia arroventate.
Sfortunatamente per loro però, sangue freddo e Draghi
del Deserto non sono cose che in genere si accostino con esiti felici: lunghi
giorni di marcia e fuga finale avevano in effetti fiaccato le ultime forze
dell’animale che proprio allora, ovviamente nell’attimo di estrema necessità
vennero meno. Con un digrigno esausto la creatura cedette improvvisamente alla
stanchezza caracollando esanime nella sabbia e sbalzando di conseguenza
Veggente, Danzatore e tutta la mercanzia annessa in uno sbuffo di polvere.
Nuova imprecazione. Nuovo grido sordo. Nuova
percezione che qualcosa fosse andato irrimediabilmente storto a scrocchiare
dolorosamente nella spalla della Nihaar’ì prima che
tutto il resto la scaraventasse senza fiato a terra, ansante e terrorizzata.
Pochi attimi e prima che il terreno sotto di lei le esplodesse letteralmente
sotto i piedi Hiras l’aveva già costretta ad alzarsi
e trottare lontano, più scioccata che viva, nell’oceano ardente.
“A-aspetta!” tentò di fermarlo lei ma invano: senza
curarsi delle sue proteste lui la sospinse avanti per uno, due passi ancora.
Poi qualcosa si parò sul loro cammino: una creatura oblunga, ossuta più che mai
che a quattro zampe stava come sospesa fra terra e cielo, avvinghiata alla
sabbia solo per la punta di quelle che solo dopo qualche attimo la Nihaar’ì riconobbe essere artigli lunghi e sottili.
E’ un Vogin, vor utum (Spirito che ghermisce
il cielo) si ritrovò a inorridire la ragazza ricordando dei
giorni in cui Zaphil le aveva parlato degli spiriti
del deserto, adunchi e cattivi, capaci di ghermire le nuvole e strapparle al
deserto portando via con sé l’acqua e la vita di coloro che si perdono in esso.
Poi però ricordò che quelle di Zaphil
erano storie, semplici storie, quando viceversa dinnanzi a loro era chiaro si
trovasse ora una creatura ben più fisica e presente che mai, le zanne scoperte
pronte a scattare.
Neanche il tempo di pensarlo e un secondo li raggiunse
alle spalle. E un terzo. E un quarto. E così via, fino a quando attorno ai due
vi fu improvvisamente una massa di musi digrignanti e fauci sbavanti. Il roco
abbaiare e ululare soverchiava ogni altro rumore rendendo indistinguibile se e
come vi fosse altro all’infuori di essi.
Ma era chiaro che qualcosa vi fosse. Quelle belve non
erano capitate da chissà dove così come quelle biglie. E nemmeno le sagome che
in lontananza -per quanto vaghe e inconsistenti- già si intravedevano
avvicinarsi con calma stolida e circospetta.
Erano i Kamin? Possibile?
Poco prima che la Nihaar’ì
avesse il tempo di voltarsi e porre quel semplice quesito al suo compagno di
viaggio qualcosa calò sul suo capo tramortendola in un sonno grigio e incolore.
Il dolore giunse poco prima del risveglio. Un unico e
intenso pungolio all’altezza del fianco che con forza
risalì le pareti della sua coscienza per terminare lì, poco sopra la base del
collo dove esplose sordo e brutale, una sberla in faccia che le aprì a forza
gli occhi. Li, per metà inebetita dalla stanchezza la Nihaar’ì
si ritrovò a sbattere un paio di volte le palpebre prima di riuscire a
identificare gli interni di quella che pareva una barca dall’aria assai
consunta e logora. Assottigliò lo sguardo, gli occhi secchi di sole e polvere a
rigarle il viso con due grosse lacrime riarse. La seconda occhiata non fu
tuttavia migliore, giacché era evidente che ovunque in quella struttura
oscillante mancassero pezzi di fasciame e cardatura fra le travi dello scafo.
Sete di vario tipo e dimensione pendevano dal soffitto come arti molli,
oscillanti nel vago ondeggio della struttura. Mercanzie fra le più stravaganti
giacevano ammonticchiate un po’ ovunque e fra di esse, immobili come
cianfrusaglie dimenticate, sedevano decine di corpi semiaddormentati,
Un brivido percorse la Nihaar’ì.
Difficile capirne la provenienza: l’interno della
barca era per lo più avvolto nella semioscurità, un plumbeo silenzio interno in
contrapposizione a un roboante fracasso esterno tale da permettere di udire
solo qualche colpo di tosse ogni tanto e rare frasi sconnesse. Meno arduo fu
invece stabilire che la quasi totalità delle figure fosse femminile, la
morbidezza delle forme a rivelare che quel luogo era stato evidentemente
adibito al trasporto di loro soltanto.
Nell’improvvisa necessità di sedersi e sgranchire le
membra irrigidite, la Nihaar’ì si ritrovò a
constatare l’ultimo - ma non meno importante - particolare di quel quadretto
nautico: era legata.
E solo allora ricordò effettivamente che non poco
tempo prima - ore? Minuti? Giorni? - lei e Hiras
erano stati sorpresi nel deserto dai Kamin dopo
un’infruttuosa fuga. A quel punto la sua memoria si faceva tuttavia un po’
confusa, assente in realtà, ma immaginò che l’acuto pulsare della testa proprio
all’altezza della nuca ne fosse in qualche modo responsabile.
Fece una smorfia, una piccola risata nell’ombra a
costringerla a cercare con lo sguardo volti che, immaginò, la stessero
guardando. Nessuno tuttavia disse alcunché, motivo per cui anche a lei non
sembrò opportuno aggiungere molto.
Era prigioniera, questa era più che evidente. E non
era sola, abbastanza ovvio. E se Hiras non aveva
mentito, con ogni probabilità ora tutti quanti loro erano in viaggio verso la
prima città reperibile sulla tratta commerciale: la Nera Città.
La Città del carbone.
Il nome assieme al suo fumoso significato le rimbalzarono
dalla gola al petto impedendole per un attimo di respirare. Socchiuse di scatto
le palpebre nel tentativo di abbandonare il più velocemente possibile il
pensiero.
E per aggiungere il tocco finale: dov’era ora Hiras?
Un improvviso scossone la fece cozzare contro la
parete legnosa, un sonoro toc ad accompagnare la silenziosa imprecazione
che ne seguì. Qualcuno rise.
Di norma avrebbe dovuto trovarsi con lei, giacché
insieme li avevano presi e sempre insieme sarebbe stato ovvio che li
lasciassero. Istintivamente si massaggiò la parte lesa, il metallo
serrato attorno ai polsi a regalarle per un attimo una carezza fredda e rigida
contro il volto. Abbassò di colpo le mani.
Ma anche un cretino avrebbe notato che quella
“carrozza” era colma solo di donne, motivo per cui era lecito pensare che fosse
stato messo in un’altra...
Nuovo scossone. Nuova imprecazione silenziosa. Nuove
risatine sommesse.
In un’altra assai più maschile e comunque abbastanza
vicina da non pensare che egli fosse stato lasciato - che ne so - indietro per
vari e imprevedibili...
Nuovo scossone. Nuova imprecazione. Questa volta, una
risata vagamente definibile non molto distante da lei.
“Di solito al terzo toc la gente capisce che la
cosa migliore da fare è stendersi sul fondo della gabbia ed attendere che la
carovana si fermi...” la voce sottile e giovane la raggiunse da poco distante,
un che di divertito nel tono a fare chissà perché imporporare le guance della Nihaar’ì.
“Sfortunatamente credo che a me servisse qualche toc
in più per capirlo” reagì lei d’impulso prima di potersi mordere la lingua.
Sentì l’altra ridacchiare appena, nuovamente. Poco male, sospirò la
Veggente cominciando lentamente a distendersi sul fondo legnoso, almeno era
sembrata simpatica. Proprio in quella un nuovo scossone la scaraventò
brutalmente a terra.
“Avete detto che ad un certo punto la carovana si
fermava...” commentò piccata. La penombra era troppo fitta per vedere bene, ma
le parve comunque di notare una testa riccioluta annuire poco distante.
“Solo una volta al giorno e una di notte” le rispose
“Prima di allora scordati di poter mettere piede fuori da questa fornace”
La parola fornace sembrò improvvisamente dare forma e
colore alla sensazione che pian piano si era fatta strada nella coscienza della
ragazza. Una percezione di pesantezza, malessere e caldo oltre ogni dire che
fino ad allora l’ammonticchiarsi degli eventi le aveva in qualche modo impedito
di elaborare. Boccheggiò portandosi istintivamente una mano al volto che trovò con
suo sommo sgomento privo di alcun velo o protezione.
Era nuda?
La sua faccia dovette assumere allora una che di
pallido e sconcerto al contempo perché questa volta le risate attorno a lei
furono assai più sonore e goliardiche di prima.
“Ti hanno controllata mentre dormivi.” le spiegò
ancora la voce calma. La Nihaar’ì si sentì, pur non
vedendosi granché, sporgersi avanti alla ricerca di un qualcosa per coprirsi.
Tuttavia l’attimo dopo desistette.
“Mi hanno guardata e non hanno visto...” percepì la
gola seccarsi improvvisamente “Niente?” “Già solo il fatto che tu sia qui e non
abbandonata sotto qualche duna di sabbia dovrebbe fartelo intuire”
La semplicità di quella risposta la spiazzò tanto
quanto quelle assai più arzigogolate dell’Aruspice.
Nulla di nuovo. Come sempre. Dicevano
tutte e due. Eppure chissà perché questa volta le sembrò tutto diverso, tutto
differente rispetto a come l’aveva percepito fino a quel momento.
“Dove stiamo andando?” riprese poco dopo
improvvisamente afona in quella caligine ansante. “A Yevtsuk’han.
Al mercato degli schiavi” rispose l’altra paziente.
Come aveva previsto Hiras.
“Dove sono...” esitò “Gli altri?”
Qualcuno rise nella penombra “Preoccupata per il tuo
amato, ragazzina?” la nuova voce le parve grigia e ruvida sulla pelle, una nota
malevola a farle di riflesso storcere il naso “E’ stato preso anche lui?”
continuò tuttavia. Risatina generalizzata. “E chi se lo lascia scappare uno
così?” fu il laconico commento.
Il che voleva dire che Hiras
stava viaggiando con lei - con loro - a non più di qualche gabbia di distanza.
Si sentì trarre un mezzo sospiro - o era solo un annaspare di caldo?
“Fossi in te eviterei tutto quel sollievo” la ammonì
subito l’altra “Fra i Kamin gli uomini catturati sono
senza dubbio quelli a passarsela peggio.” in un breve scostarsi di luci, fu
come riuscire a vedere per un attimo la padrona di quella voce lapidaria. Mento
sfuggente e sguardo volpino, labbra carnose piegate in un’espressione dura e
sbrigativa.
Poi la luce passò.
Anche lei tuttavia doveva averla vista perché
sogghignò.
“Pensavi forse che vedendovi così carini insieme vi
avrebbero venduto in coppia?”
In effetti si...
“Certo che no, non sono una sciocca” replicò la Nihaar’ì prendendo a lisciarsi delle pieghe semi-invisibili
dei vestiti “Semplicemente mi domandavo che fine avesse fatto”
“Che fine, ti chiedevi?” la sbeffeggiò l’altra “Eppure
non credevo che la preoccupazione per gli altri fosse cosa per gente come voi”
Gente come voi?
Il gelo di un brivido attraversò improvvisamente la
schiena della Veggente. Rabbrividì suo malgrado, piegando appena il capo sotto
il peso di quella nuova sensazione.
“Non capisco a cosa ti riferisci” abbozzò tuttavia con
noncuranza. Forse era stata una frase buttata lì a caso... Per un attimo
l’altra non rispose, i sussulti della Gabbia ad inframmezzare quei secondi di
afosa attesa.
“Io credo invece proprio il contrario” replicò
finalmente dopo un attimo “Ma perché curarsene? Il deserto è grande e così
grandi sono i suoi misteri”
La Nihaar’ì riconobbe il
modo di dire, spesso usato fra le genti del Sud. Meno facile fu intendere
invece il significato di quel breve scambio di battute: la sensazione di essere
stata in qualche modo minacciata aveva stranamente il gusto della Torre del
Tempo. Amaro e acido al contempo, qualcosa che sapeva di veleno e insieme del
suo rimedio.
Se quell’affermazione fosse stata o meno casuale,
l’altra non sembrò tuttavia affatto incline a rivelarlo: per la rimanente parte
del viaggio si limitò a rimanere in silenzio, lo sguardo muto chiaramente
puntato sulla ragazza mentre una dopo l’altra tutte le prigioniere si facevano
avanti per chiedere qualcosa su di lei e su Hiras -
molto su Hiras. In effetti quasi solo su di lui.
Lei rispose calma, precisa, puntuale, una falsa
identità che attimo dopo attimo si delineava sulla sua pelle con la semplicità
di ore e ore di addestramento in compagnia di Zaphil.
Poco tempo prima del calare delle tenebre nei suoi panni giaceva una giovane
donna dall’aria mesta ma sincera il cui passato pareva giacere a metà strada
fra Hevnan k’ar e il
deserto più sconfinato.
Una bella persona, tutto sommato, che le ragazze prigioniere non faticarono granché a farsi piacere a tal punto da sussurrarle poco prima che entrassero dei Kamin urlanti ad ordinar loro di scendere tutte insieme per il rancio serale “Evita qualunque contatto visivo con loro. I Kamin sono uomini del Deserto, più avvezzi alle superstizioni che al buonsenso. Se ti vedranno alzare lo sguardo ti puniranno come nessuno ti ha mai punita in vita tua”