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Autore: Memi J    22/05/2009    8 recensioni
Aggiornata con la Part Seven.
«Oh oh. Sei appena arrivato e hai già localizzato il tuo bersaglio?».
Ichigo parve recepire solo qualche parola rivoltagli dal rosso.
«Renji. Chi è quella ragazza?» domandò ambiguo, indicandogli l'obiettivo con un cenno del viso.
«Come sarebbe a dire “chi è”? Mi prendi in giro?!». Abarai lo guardò sconcertato, con occhi puramente sbigottiti, ma lo stupore di Ichigo non era da meno.
«Quella è Rukia, Rukia Kuchiki! Non puoi non conoscerla!».
«Scusatemi tanto se sono un forestiero che non ha mai messo piede in questa contea nell'arco della sua intera vita, nobile conte Renji Abarai» disse, con una notevole punta di sarcasmo.
«Ora mi vorreste dare delle spiegazioni, per cortesia?». La percettibile ironia aveva raggiunto i suoi estremi.
«Rukia Kuchiki... – proruppe Ishida – è la contessa di Karakura, nonché sorella minore del barone Byakuya Kuchiki, tutt'ora sovrano della contea».

Una AU ambientata all'epoca di conti, principi e scene settecentesche.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Byakuya Kuchiki, Kuchiki Rukia, Kurosaki Ichigo, Un pò tutti
Note: Alternate Universe (AU), OOC | Avvertimenti: nessuno
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Turn back the earldom, Part Seven.
Black and White, Dead or Alive.


Bianco. Nessuna sensazione che stimolasse la sua mente, nessun pensiero che mettesse in moto il suo cervello, nessuna emozione che facesse riprendere al cuore la sua solita attività di pulsare il sangue. Nulla. Vuoto. Morto.
Sarebbe davvero morto? Forse, lo era già da tempo.
Di colpo, divenne tutto nero. Oscurità che venne quasi immediatamente trafitta da un raggio di luce, scemando sempre di più, brillando di bagliori intermittenti. E di nuovo bianco. Dannazione, ne aveva abbastanza, di tutto quello. Non vedeva altro che bianco e nero alternarsi; due colori che non significano nulla, ma che possono voler dire tutto. Il contrasto, la differenza, la tonalità più chiara e quella più scura; luce e tenebre. Vita e morte.
Calma. Il fatto che vedesse almeno qualcosa, significava che era vivo, giusto?
O forse, più probabilmente, ciò che scorgeva in lontananza non era altro che l'orizzonte del Paradiso.
Sentì il sangue pulsare freneticamente in un punto impreciso del torace, senza tuttavia riuscire a localizzarne perfettamente la posizione; pareva che quella vernice rossa volesse sfondare lo strato cutaneo che la separava dal mondo esterno e zampillare fuori, ma qualcosa le impediva di perforare la pelle che ostruiva il suo passaggio.
Ancora un'altra singolare fitta all'addome, ancora altro dolore.
Dannazione, percepiva, percepiva quegli attimi di spasimo. Era davvero sopravvissuto?
Qualcosa di pungente e fastidioso provenne dalla sua sinistra, probabilmente dal braccio. Sentiva poco alla volta ogni suo arto riacquistare sensibilità. Era vivo, grazie al cielo.
Ora bastava solo vedere in quale mondo.
Fu in grado, in quel buio, ad individuare i suoi occhi. Tuttavia, almeno in un primo momento, non riuscì a dischiudere le palpebre, che gli sembravano incollate alla pelle delle guance accaldate; sentì invece dei suoni offuscati, indecifrabili. Nient'altro che mormorii sottomessi, che piano piano divenivano sempre più nitidi e comprensibili.
«...ndo... sta... ene? ...utto... osto...».
Per la prima volta in vita sua desiderava un apparecchio per l'udito.
Non potendo contare sulla percezione del suono, tentò di aprire gli occhi: nello spicchio opaco che gli si pose di fronte non v'era nulla di distinguibile; macchie più o meno colorate si muovevano disordinate, rendendo la caotica immagine che intravedeva ancora più confusa.
«Si sta svegliando», riuscì finalmente a comprendere.
«Grazie al cielo...» subito dopo.
L'odore dell'umidità gli inondò immediatamente le narici, un sapore amaro gli si accese in bocca, un tiepido calore già provato gli invase la mano, un raggio di luce accecante gli attraversò la pupilla, che ridusse drasticamente il suo diametro. Dio, era vivo. I suoi sensi funzionavano.
Il bagliore luminoso si spense quasi istantaneamente, le sue iridi si rilassarono: capì qualche secondo più tardi che qualcuno dovesse averlo visitato. Era finito in un ospedale? Forse no.
«Ichigo, stai bene?». Si sentì stringere la mano destra. Rukia. Riconobbe istintivamente la sua voce, la sua delicatezza, il suo tepore. Provò a parlare, ma gli sembrò che la voce gli fosse morta in gola e che le sue corde vocali si fossero cristallizzate.
«Non sforzatevi, signor Kurosaki. Limitatevi ad un cenno con il capo, piuttosto».
Una voce che il suo udito, per quanto fine potesse essere in quelle condizioni disastrose, non riconobbe.
Calcolò che dovesse trattarsi di un medico, o comunque di un qualche esperto giunto in suo soccorso. Sicuramente un angelo capace di compiere miracoli, per essere riuscito a salvarlo da quel proiettile letale.
Non seppe momentaneamente se accogliere o meno il consiglio di quello sconosciuto, che ancora la sua mente non riusciva a distinguere e delineare perfettamente: temeva quasi che, se solo avesse tentato un movimento, gli si sarebbe spezzata la cervicale. E non ci teneva particolarmente.
Mosse le iridi in direzione della contessa, la quale lo guardò speranzosa, affondando le dita tra i suoi capelli arancioni. Ichigo dischiuse le labbra, ma non emise alcun suono; niente da fare, gli sembrava che gli avessero estrapolato le corde vocali e ci avessero fatto una treccia.
Non riusciva a parlare, non riusciva a muoversi, non riusciva ad esprimersi. Rifletté su quanto quella situazione fosse un inferno. Mai in vita sua aveva desiderato così ardentemente di addormentarsi per sempre. E poi risvegliarsi, magari tra le braccia di Rukia, in un universo bianco come la neve, dove il corpo è leggero e insofferente; quello sì che sarebbe stato il Paradiso. Anche se in realtà gli sarebbe bastata anche la sola presenza della Kuchiki accanto a sé. E invece stava andando tutto storto, tutto stava girando al contrario, ogni cosa stava prendendo la direzione sbagliata. Chiuse gli occhi, i quali non sopportavano più il peso delle palpebre. Piombò nell'ombra dei suoi sogni, inestimabile vittima del sonno, sperando di risvegliarsi altrove, in uno stato migliore.
«Ichigo». Fu l'ultimo richiamo che sentì; l'ultimo pensiero prima di crollare addormentato, cullato dal calore delle coperte e dal ticchettio della pioggia.

***

L'uomo che il cavaliere aveva intravisto nella nebbia della sua vista poco nitida era Kisuke Urahara, un amico di famiglia. Non si trattava né di un medico né di uno specialista, ma se la cavava ottimamente nel campo dei farmaci e delle medicazioni. Stava facendo ritorno dalla foresta – ove era stato tutto il pomeriggio a raccogliere qualche erba medica – quando sentì le urla di Rukia che implorava aiuto: allora si era precipitato in suo soccorso, portando il corpo di Ichigo in un capanno abbandonato lì nelle vicinanze. Era stato lui a rimuovere il proiettile dal petto di Kurosaki, ora completamente avvolto da candide bende macchiate di sangue.
Kisuke Urahara era un uomo tremendamente strano: nonostante fosse di famiglia benestante indossava sempre vestiti molto larghi e dai colori spenti, un cappello bianco a strisce verdi e degli zoccoli che gli donavano un'aria del tutto stravagante; era un poco avvolto nel mistero, e questo suo aspetto contribuiva a renderlo un tipo quasi solitario. Viveva infatti con due trovatelli di circa nove o dieci anni, il suo maggiordomo – un uomo maledettamente enorme – e la sua compagna, Yoruichi, famosa a Karakura per l'abilità in combattimento e la dimestichezza nell'uso delle armi ninja. Una famiglia piuttosto inusuale.

Ichigo riprese conoscenza un paio di giorni più tardi, tempo durante il quale Rukia gli era rimasta accanto senza nemmeno fare ritorno a Villa Kuchiki; si era presa cura di lui come se egli fosse stato un bambino. Spesso restava a guardarlo per ore, al suo capezzale, sul cipiglio del letto. Le bastava osservarlo dormire, sentire il suo respiro, ascoltare il ritmo regolare del battito del cuore, per ritrovare la pace e la serenità dentro di sé, prima sconvolte dall'accaduto. Le era capitato solo una volta di meditare su cosa fosse effettivamente successo: la verità era che qualcuno aveva sparato ad Ichigo. Ma chi? Chi avrebbe potuto fare una cosa del genere? Dopotutto Ichigo era appena arrivato a Karakura, chi avrebbe già potuto odiarlo al punto di ucciderlo? Non aveva fatto niente a nessuno, non aveva mai...
Fu come se un fulmine le passasse attraverso il cervello. Il rimprovero da parte di suo fratello di stare alla larga dal cavaliere, l'arrivo rapido e improvviso e inspiegato di Aizen, il tentato omicidio di Ichigo... era tutto collegato.
Il tossire di Ichigo la destò bruscamente. Le venne quasi spontaneo preoccuparsi.
«Si riprenderà?» non poté fare a meno di chiedere, con gli occhi lucidi e le dita intrecciate con quelle della mano fredda di Ichigo.
«Certamente, contessa. State tranquilla. Dovrebbe svegliarsi presto; l'effetto del sonnifero dovrebbe terminare a momenti». Si fissò ad osservare il volto del paziente, disteso e completamente rilassato. «Purtroppo per lui non sarà un dolce risveglio».
«Cosa intendete dire?». Un lieve timore si insinuò nelle iridi cristalline della ragazza.
«Mi riferisco al suo corpo. Spero che riuscirà a reggere. Al momento non dispongo di potenti antidolorifici. Non so dire quanto possa far male».
Bastarono pochi minuti di estenuante attesa per poter vedere le palpebre del cavaliere muoversi impercettibilmente. Rukia lo guardò con due iridi cerulee che brillavano notevolmente di una speranza da sempre cercata: le sembrava che Ichigo stesse sforzandosi di venire visibilmente a contatto con la realtà di quel mondo da cui si era sentito più volte minacciato; sembrava non soffrisse di alcuna paura, ma che, al contrario, avesse una voglia di vivere estremamente dinamica. O almeno, al momento la pensava in questo modo. Pensava così mentre sentiva le dita di Ichigo stringere piano le sue, come se cercasse del calore che gli avvolgesse la pelle. Finché, finalmente, Kurosaki aprì gli occhi, causando l'ilarità della contessa, che guardò entusiasta Urahara.
«Rukia...». Ichigo si impressionò di se stesso: era riuscito a parlare, finalmente. «Sono...». Notò di non saper ricollegare quel soffitto a nessun altro luogo mai visto prima. «...dove sono?». Cercò di rialzarsi supino appoggiandosi al cuscino, ma fu immobilizzato da una lancinante fitta all'addome, nel punto in cui il proiettile aveva forato la carne: in quell'istante i nervi cominciarono a pulsare vigorosamente, i muscoli in tutto il resto del corpo cedettero al peso e al dolore, e si ritrovò nuovamente sdraiato.
«Piano, signor Kurosaki! È pericoloso... ci vorrà del tempo affinché voi vi riprendiate completamente».
Il paziente guardò Rukia perplesso.
«Ha ragione, Ichigo». Nonostante, quelle pronunciate dalla Kuchiki, potessero sembrare insignificanti, quelle parole ebbero il potere di persuaderlo a stare tranquillo e a non fare movimenti bruschi. Rukia, nel vederlo però impaziente, lo aiutò a sollevarsi almeno un po', seguita poi da Urahara che, dopo una sottile smorfia, acconsentì permettendo al giovane di muoversi.
«...Rukia, chi è lui?» chiese, una volta sistematosi comodamente, il ragazzo, con una punta di ostilità nei confronti dello sconosciuto. La contessa Kuchiki comprese, comunque, la diffidenza di Ichigo: in quei giorni gli si era rivoltato tutto contro, e sembrava che tutti lo desiderassero sotto terra.
«Non preoccupatevi» proruppe l'uomo con il cappello, «potete tranquillamente fidarvi di me!». Estrasse un ventaglio dalla grande giacca scura che portava sulle spalle, allargando vivacemente le labbra in un sorriso a trentadue denti; era stato capace di ribaltare l'atmosfera ostile creatasi, tanto che Ichigo e Rukia ne rimasero spiazzati. La Kuchiki si lasciò sfuggire una mezza risata, rassicurando Ichigo, che rilassò i muscoli. Il sorriso della fanciulla gli bastò per ritrovare quell'equilibrio di serenità che era stato spezzato. I due si guardarono negli occhi per interminabili secondi, scorgendo l'uno nell'altra un pizzico di fastidioso imbarazzo nel sentire le proprie dita intrecciarsi e farsi sempre più vicine. Urahara, forse sentendosi a disagio, mise disordinatamente nella sua borsa di pelle tutto ciò che aveva lasciato in giro, dalle pinze ai farmaci, dal cotone ad attrezzi di ogni genere.
«Zoccoli e cappello, che stai facendo?». Ci mise un po' per comprendere pienamente che Ichigo si stesse riferendo proprio a lui, con quel bizzarro appellativo.
«Zoccoli... e cappello?» ripeté allora Kisuke, voltandosi impressionato verso il paziente.
«...Ricordare i nomi non è una mia particolare dote» disse, sorridendo. Posò un rapido sguardo su Rukia, che vide abbozzare un sorriso. «...In questo stato i miei neuroni lavorano la metà, sapete».
Urahara chiuse la cerniera della sua borsa personale .
«È Kisuke Urahara, comunque. In ogni caso, qui il mio lavoro è finito». Gli occhi dell'uomo si fermarono istintivamente sulle mani saldamente incrociate dei due giovani. «...Quindi torno a casa». Afferrò la borsa – aveva tutta l'aria di essere piuttosto pesante – e si diresse verso l'uscita.
«Nel caso aveste bisogno di me, sarò a vostra disposizione!» avvertì infine, richiudendo la porta del capanno ed allontanandosi verso il bosco. Ichigo e Rukia rimasero in silenzio per qualche secondo, rotto poi dalla risata cristallina di lui.
«Che hai da ridere?» chiese la contessa, sorridendo a sua volta.
«Simpatico, il tipo con i sandali». Lei accennò una smorfia delicata, la quale poi sfumò in un impeto quando Ichigo gemette al dolore che la ferita gli procurava: anche ridere troppo aveva i suoi effetti collaterali. Il cavaliere cercò di sollevarsi ancora un poco di più, sforzandosi di trovare la posizione più comoda nella quale la lesione gli provocasse minor fastidio. Stentava a muoversi, ma con il lesto aiuto di Rukia gli fu tutto più semplice. Il profumo che avvertì nel sentirla così vicina gli sollecitò tempestivamente una domanda, che ammise di non essersi proposto prima di quel momento. Il problema era chiedersi veramente se volesse imbattersi o meno nella risposta. I fatti di quegli ultimi giorni, la tempesta che aveva sconvolto la sua vita, la figura della Kuchiki che si era insinuata nel suo cuore in un lampo... ma soprattutto, l'atteggiamento di Rukia nei suoi confronti gli sollevava quel quesito, che in quel momento era più vivo che mai. Vivo come una forte luce accecante che, in un modo o nell'altro, deve essere placata e arrestata.
Rukia aiutò Ichigo a muoversi lentamente, prestando notevole attenzione; quando il cavaliere si assestò, comodo e rilassato, si allontanò dal letto.
«Vado a prenderti dell'acqua» mormorò, muovendo qualche passo. Non poté, comunque, allontanarsi tanto, poiché la voce di Ichigo la paralizzò.
«Perché...?». Rukia non capì sinceramente ciò che il cavaliere intendesse dire.
«Perché mi... stai aiutando?». Ichigo si accorse di quanto avesse bisogno di sapere. Trovare e ottenere delle risposte. Ne necessitava, ora più che mai. Eppure il silenzio della Kuchiki lo sconfortava terribilmente.
«Perché stai facendo tanto per me?».
E Rukia cosa avrebbe dovuto rispondere? Era evidente, che a quella domanda non sapeva fornire una risposta concreta. C'era davvero un motivo? Un motivo che la persuadeva ad aiutarlo? Un motivo per il quale era spinta a stargli vicino? Era forse necessario per Ichigo? O forse per se stessa?
«Che vuoi dire?» ribatté poi, sforzandosi di sorridere. Un sorriso che svanì quasi immediatamente.
«Rukia... da quando sono arrivato io, la tua vita è stata stravolta. Lo so».
La contessa deglutì, fissandosi le mani strette un grembo. Probabilmente il giovane non aveva tutti i torti. Ma non poteva incolparsi, no. Lui non c'entrava niente in quella storia, era solo un forestiero recentemente trasferitosi. Che c'è di male nello spostarsi da una contea all'altra, infondo. Era stata lei, a trascinarlo in quella storia. Era stata lei a metterlo nei guai. Non avrebbe semplicemente dovuto invitarlo al ballo, non avrebbe dovuto trascorrere tanto tempo insieme a lui, non avrebbe dovuto affezionarcisi. Non avrebbe dovuto innamorarsi.
«Forse sarebbe stato meglio marcire in quel prato».
«Hai un buon senso della vita, tu».
Si rimangiò istantaneamente tutto ciò che aveva detto sulla voglia di vivere di Ichigo. Come poteva desiderare così tanto andare incontro alla morte? Solo per lei? Solo per il suo bene? Oppure per scappare da tutto ciò che quel groviglio insolubile di avvenimenti aveva portato con sé? Entrambi i casi non avrebbero rappresentato una valida scusa per gettare via la vita in quel modo. La classica “vita indegna di essere vissuta” non aveva nulla a che vedere con quella di Ichigo.
«Senso della vita? Guardami. Sono un morto che cammina».
Rukia gli si fece più vicina, sedendosi sul letto, accanto a lui. Lo fissò dritto negli occhi, senza badare al tremolio ed al leggero disorientamento che le pozze ambrate di lui le causavano, come se gli volesse indottrinare un concetto fondamentale che mai nella vita avrebbe dovuto dimenticare o accantonare.
«Non lo sei» disse, con sguardo fermo, sicuro, e decisamente carismatico.
«Se non lo sono...» esordì Ichigo, nell'insicurezza che la vicinanza del viso della ragazza gli strappava.
«...è solamente perché ci sei tu».
Per non pochi secondi, Rukia rimase immobile, spiazzata; azzittita dalle parole appena fuoriuscite dalla labbra del biondo. Labbra che non avrebbe rifiutato di baciare, ma che, anzi, desiderava come sue. Senza sapere che, in realtà, sarebbe stata la prima ad avere l'opportunità – o forse, si potrebbe dire l'onore – di assaggiarle. Gli ormoni di lui fremevano, l'attrazione dei corpi non era debole. Un'attrazione paragonabile a quella di due corpi magnetici, incapaci di stare lontani quando sono troppo vicini. Fu proprio così che, inarrestabili, le labbra dell'uno catturarono quelle dell'altra, che ricambiò quel bacio con un'intensità e bramosia passionale, come se desiderato da tempi incalcolabili. Il polo negativo e quello positivo, due magneti, due soggetti sottoposti ad un'irresistibile forza di attrazione che non può essere né controllata né smentita. Quel bacio li catapultò lontano da ogni pensiero, da ogni sofferenza, da ogni insicurezza cui erano sottoposti in ogni momento della vita quotidiana; un semplice tocco. Due bocche che si cercano, due lingue che si incontrano, due mani che si intrecciano. Due calamite che non possono fare a meno l'una dell'altra per completarsi; labbra che si sfiorano, corpi che scivolano. Un contatto che entrambi cercavano. Un contatto che ebbe la facoltà di riaccendere in Ichigo la voglia di vivere.






















Sono maledettamente in ritardo, lo so.
Non ditemelo non ditemelo non ditemelo >____<. Sono consapevole di essere tremendamente in ritardo, e mi scuso moltissimo, per questo. Mi vedo costretta a dare la colpa alla scuola, che mi sta uccidendo. Ma ammetto che, più di ogni altro, ho fatto davvero una grandissima fatica a scrivere questo capitolo, non sto scherzando. La prima parte (breve <___<'') mi è venuta quasi spontanea, anche perchè si basava solamente su ciò che provava Ichigo nel trovarsi tra la vita e la morte. Miscugli di sensazioni e roba così, insomma. Quella l'ho scritta piuttosto velocemente... Ma la parte che segue, addio. Non avevo spunti, non avevo idee, non avevo niente. So già come scrivere i prossimi capitoli, ma non riuscivo proprio a scrivere questo. Poi una mia cara amicaH (grazie Sara <3) con i suoi eccessivi complimenti mi ha invogliata a scrivere, perciò sono riuscita a concludere il capitolo. Ma la mia mente ha dato dei frutti piuttosto insoddisfacenti <___<''. Cioè, piuttosto, trovatemi un capitolo di cui io sia soddisfatta XD. Diciamo che non è male, tutto qui.
Piuttosto, lasciatemelo dire: era ora che questi due si baciassero, checcavolo! XD insomma, il primo bacio al settimo capitolo ù____ù. Presto? Tardi? Lo lascio decidere a voi XD. Sinceramente non ho molto altro da aggiungere. Voi che dite, soddisfatti o rimborsati? XD.
Ringrazio moltissimo chi segue la fiction e chi recensisce. Grazie davvero di cuore çwç.
Recensite, eh *O*.
Ci si vede al prossimo capitolo <3. Bye!


   
 
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