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Autore: flama87    29/12/2016    1 recensioni
Ogni trecentosessantacinque anni, il Dio Sole sceglie una donna mortale da sposare e la indica ai fedeli con il suo Stemma. Quando il tempo è giunto, gli abitanti del regno di Lactea sono obbligati a consegnarla all'Ordine, il quale permetterà alla Dama Bianca di convolare a nozze con la divinità.
Eppure della Ventiquattresima Sposa non vi è alcuna traccia, il tempo del Viaggio di Nozze è oramai vicino. Impauriti davanti all'idea d'infrangere l'antica alleanza e non volendo incorrere nelle ire divine, il Sovrano di Gennaio e il Sommo Cardinale d'Agosto daranno il via a una caccia agli eretici sanguinosa e cruenta.
E se fosse la Sposa a non voler essere trovata?
Genere: Drammatico, Fantasy, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Lime | Avvertimenti: Violenza
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15.1 Danza Solare 9'125, Secondo Pieno della Terza Ide 
 

Fu forse il caso, chissà. Gambino non doveva passare per quel campo. L'oste gli aveva consigliato un'altra strada, benché più lunga, perché avrebbe evitato di incontrare banditi e altra gentaglia. Il cavaliere errante ringraziò l'uomo ma decise di prendere comunque la via dei campi. O quello che ne rimaneva.

Aveva piovuto per due suoni. La terra, umidiccia e pastosa aveva risucchiato i corpi, mescolando alle acque sporche venature di sangue. Stendardi spezzati svettavano oltre l'orizzonte, stagliandosi malconci a ricordo della battaglia che fu. Qualche arma d'assedio più in là faceva da cimelio.

Il suo destriero andaluso, Rura, in onore di una damigella soccorsa da rapitori danze addietro, trottava stancamente nel terreno fangoso, tagliando di netto laddove molti uomini si erano scannati.

Fu allora che lo trovò. Era desto da poco più che dieci danze: piccolo abbastanza da agitarsi in mezzo ai corpi in putrefazione senza farsi notare; nascondendovisi quando necessario. Gambino lo aveva colto sul fatto: intento a rovistare nel cadavere di un cavaliere, strappandogli piccoli bocconi dal corpo non ancora in putrefazione. Quando però si era accorto del cavaliere, il bimbetto aveva estratto una spada più grossa di lui e si era messo sulla difensiva. Gambino discese lentamente da cavallo, cercando di non spaventarlo. Al primo fendente malconcio dell'altro, lo disarmò con estrema facilità. Piantò l'arma sottratta al fanciullo nel terreno e si inginocchiò per guardarlo meglio: aveva i capelli rasati, forse per i pidocchi, ed era visibilmente denutrito. Evidentemente, anche la carne di quei corpi non bastava a tenerlo in forze. "Anche se è abbondante, di questi tempi".

«Il mio nome è Gambino» si presentò l'uomo. «Come ti chiami?»

«Sebastian» squittì l'altro, ancora spaventato e indeciso se fuggire oppure no: la balestra sul fianco del cavaliere gli intimava di non fare scherzi. Il ragazzino però si tranquillizzò quando comprese che l'uomo davanti a lui non aveva intenzioni ostili. Anzi, notò una lacrima solcargli il viso e, pur non comprendendone la ragione, intuì che questi fosse dispiaciuto per lui. Gambino, dal canto suo, questo disse:

«Ascolta ragazzo, non intendo farti del male. Ho bisogno di uno scudiero e tu hai bisogno di vestirti, lavarti e soprattutto di mangiare. Non ti si presenterà mai più un occasione simile, per entrambi. Vieni con me. Sarà sempre meglio che mangiare cadaveri, no?»

Sebastian avrebbe scoperto col tempo perché quello strano cavaliere dai capelli brizzolati aveva così a cuore la sua sorte; forse, col senno del poi, avrebbe desiderato non averlo mai incontrato. Però, in quel momento, l'alternativa di seguire quello sconosciuto gli parve migliore che morire di stenti e di fame. Così accettò. 

 

15.2 Quarto Nuovo della Quinta Ide

 

Gambino e Sebastian formavano una coppia assai strana, per chiunque li vedesse. Il ragazzo era assai taciturno, limitandosi ad annuire e a seguire fedelmente il cavaliere; questi, invece, non smetteva di spiegare al giovane quel che, secondo lui, era la visione del mondo e come le cose andavano interpretate. Era come vedere un giardiniere che tentava di riempire un vaso vuoto di tutti i fiori ed erbe a sua disposizione. Quasi mai Gambino aveva avuto bisogno di punire il giovane con una sberla, ed anzi si riscoprì sempre più contento di averlo raccattato: era furbo, sveglio come pochi altri, sempre pronto e imparava in fretta. Tuttavia, non meno di una volta, l'uomo vide in quegli occhi vispi qualcosa di oscuro e profondamente sbagliato. Si convinse che aver divorato cadaveri per sopravvivere avesse infettato quel ragazzino. Forse per questo tentò, fino all'eccesso, di insegnargli a vivere come un vero cavaliere: onesto, fedele e dalla parte del giusto. Così, un suono, gli raccontò una storia.

«Mio fratello Sebastian era un cretino», disse mentre sedevano sulle mura del castello, guardando il divino scendere dal suo trono. Si erano fermati temporaneamente presso un nobile, che li aveva assoldati per addestrare alcune nuove leve, rimanendo assai stupito della grande abilità con la spada di ser Gambino.

«Era un uomo di gran cuore. Tutti gli volevano bene. Non c'era nessuno al villaggio che non lo tenesse in gran considerazione, ma sapevano che non aveva sale in zucca. Voglio dire: un giorno parte e va a combattere per i ribelli! Quegli eretici maledetti gli hanno mangiato il cervello. Non ho sue notizie da così tante danze che a stento ricordo il suo viso. Ormai il suo corpo sarà marcito in una pozzanghera, te lo dico io».

Senza che se ne rendesse conto, il cavaliere prese a raccontare sempre più cose al ragazzo. Gli rivelò che uno dei motivi per cui l'aveva sottratto alla fame era perché avevano lo stesso nome, lui e il fratello scomparso. Dapprima Sebastian non diede peso a quelle parole. Ma subito dopo essere ripartiti in viaggio, scoprì che Gambino, senza nemmeno accorgersene, accampava scuse di ogni tipo per attraversare i campi di battaglia, non appena sapeva di esserne in prossimità. In taluni casi non era un problema, ma spesso, ad una strada più sicura e veloce, il cavaliere preferiva trottare tra fango, cadaveri e sciacalli. In particolare, percorreva prevalentemente le zone dove vi erano i resti dei ribelli, guardando, seppur con la coda dell'occhio, ai corpi riversi in terra. Cercava qualcosa. Insistentemente. Ed ogni volta che non lo trovava, un lungo sospiro e un mesto silenzio lo accompagnavano per interi suoni. Qualche volta, nel falso sonno, piangeva.

Quando Sebastian tentò di avanzare l'argomento con ser Gambino, ne ottenne dapprima un sonoro richiamo e, ad ogni ulteriore tentativo, perfino sberle. Capì che l'uomo non volesse ammettere a se stesso di cavalcare nei campi di battaglia nella tenue speranza di trovare il fratello. Le sue scuse, nel tempo, persero vigore e solidità; si diceva che il fratello era certamente morto, ma non si sarebbe accontentato finché non l'avesse visto.

Ma il nord era pieno di campi ove la guerra stava consumandosi. Quasi ogni tempo d'Ide ne sbucavano di nuovi come funghi. Così il tormento di ser Gambino divenne anche quello del suo scudiero.

Al volgere del Quarto Nuovo della Quinta Ide però, ser Gambino si fermò nei pressi di un altro campo di battaglia. Lo scontro tra le fazioni era ancora in corso, così il cavaliere, dalla collina, restò a guardare lo scenario. Guardò il suo scudieri e disse:

«Guarda la guerra, ragazzo. Guardali che si saltano alla gola gli uni agli altri. Ieri amici e fratelli, oggi nemici e traditori. Non prenderemo mai parte a questi litigi tra bambini, ricordalo. Se un nobile ci chiedesse di servire in battaglia, noi restituiremo a lui il suo danaro e andremo via. Se proveranno a fermarci, ci apriremo la strada con la forza. Non intendo servire in questi massacri sciocchi. Non m'importa chi ha ragione e chi torto: la guerra ti porta via troppe cose per sperare di riaverle indietro».

Li, tra le fila di entrambi gli eserciti, svettavano due bandiere, una l'inverso dell'altra: una mezzaluna d'argento, su fondo nero e stellato, rappresentava le idee e i motti della rivoluzione; l'altra, una luna nera su un fondo argentato, rappresentava le bande della Luna Nera -mercenari al soldo della corona, incaricati di estinguere i ribelli e gli eretici.

«La Luna d'Argento crede che l'Ordine e la Corona siano contaminati. Dicono che la dea Luna ha rivelato loro una verità oscura, che gli altri dei minori, da tempo immemore, sovvertono e comandano l'umanità. Allora la corona e l'Ordine, dopo alcune sconfitte cocenti e la perdita dell'estremo nord, si sono affidati alla banda della Luna Nera.

Entrambi hanno qualcosa che non vogliono perdere e versano sangue per preservarlo. Ma ricordo che mio fratello una volta mi disse: "una vita di sacrifici e devozione, non è forse una vita di schiavitù?"

A volte penso, forse lui si è addormentato da uomo libero; e io sono sveglio da uomo in catene».

Di opinione similare era nei riguardi delle giostre, dei tornei o delle competizioni di sorta. Gambino era convinto che qualsivoglia azione che non fosse votata a perseguire la via del cavaliere, fosse fine a se stessa; e tutto ciò che era fine a se stesso, non era figlio di nient'altro che dell'egoismo. Così, nonostante fosse abile con la spada come pochi altri, mai se ne vantò e mai ne fece sfoggio. Pochi sapeva di cos'era capace, ancor meno ricordavano il suo nome.

«Impara ragazzo: ci guadagniamo da vivere non perché le nostre gesta sono motivo di lodi o di canti. Non siamo eroi ma nemmeno mercenari: non cambiamo parte in base a chi ci paga di più. Non siamo obbligati a servire un nobile, se non lo riteniamo giusto. Né l'oro deve comperare la nostra lealtà. Tuttavia, se decidi di servire qualcuno, fallo fino in fondo e non venire mai meno alla parola data».

Un ideale cambia bandiera così come spira il vento, mentre un cavaliere rimane fedele sempre al suo giuramento: sii onesto, sii leale, sii giusto. Questo ripeteva sempre.

 

15.3 Settimo Crescente della Sesta Ide

 

La Sesta fu una Ide che nessuno mai avrebbe dimenticato. I focolai della ribellione andavano lentamente spegnendosi. I pochi vice-re che avevano sposato la causa degli eretici, chi più o chi meno, avevano preso a cedere il passo. La Luna Nera si rivelò molto più di quanto il sovrano avesse sperato, ottenendo vittorie e trionfi laddove era altri avevano fallito. Favoriti anche dalla dipartita del geniale stratega che da molte danze dirigeva le manovre dei ribelli, le forze coalizzate della corona e dei mercenari riuscì a riconquistare lentamente la parte meridionale delle regioni a nord. In quei tumulti, tra chi tornò sotto la corona e chi si vide espropriare ogni bene dall'Ordine, le terre occupate con fatica e sangue dai rivoluzionari tornarono nuovamente sotto l'egemonia del regno.

Ma se da un lato il declino delle idee ribelli andava perdendo mordente tra nobili e cavalieri, non fu così per chi, sotto la loro bandiera, si era sentito finalmente più libero e indipendente. Così, asserragliati nelle rocche costruite sui Monti Bianchi, le ultime resistenze tennero in scacco tre degli snodi principali alla regione: Dabih con la porta ad Ovest, Nashira con la porta ad Est, e Deneb Algedi nel cuore delle vette innevate.

Dabih cadde il Terzo Calante di quell'Ide, assieme a quella che divenne poi la più grande crisi mai affrontata dall'ordine: la scomparsa della Sposa. Per cause che nessuno mai conobbe, l'intera città sprofondò tra le montagne, facendo crollare con essa anche la porta Ovest. I sopravvissuti a quel cataclisma, in modi variegati, fecero circolare strane voci, ma tutte concordarono sul fatto che la Sposa era nata a Dabih ma che gli eretici l'avevano rapita e nascosta ad Deneb Algedi. Questo spronò il sovrano a spingere la banda della Luna Nera affinché riprendessero quanto prima il controllo delle ultime due roccaforti ribelli.

«Chiunque abbia pensato di nascondere la Sposa deve essere o stupido o completamente pazzo», commentava Gambino. I corpi dei presunti eretici appesi al cappio era più che raddoppiato. Un altro motivo per cui a Gambino la guerra non piaceva, era dovuto al fatto che gli uomini diventavano più arroganti e maligni quando potevano approfittare di simili disgrazie. Inoltre, il cavaliere aveva da sempre una leggera avversione per chi si vendeva davanti al danaro. Cosa che aveva spiegato a Sebastian tempo prima.

«Divenni scudiero perché mia madre, che dorma in pace, si prostituiva spesso ai cavalieri di passaggio. Ma imbrogliò uno di questi dicendogli che ero suo figlio! Ah, che donna astuta mia madre», gli raccontò davanti alle mura distrutte di Dabih, che si stagliavano contro il firmamento, da cui forse gli dei ridevano delle scaramucce degli uomini.

«Voleva che io vivessi una vita migliore, o che almeno non fuggissi dagli eretici come mio fratello. Ma mia madre non sapeva che il povero cavaliere era assai tonto! O meglio, forse lo sapeva. Insomma, lui ci cascò con tutti i gambali e non esitò a prendermi con sé. Dico, era fesso ma non del tutto. Forse sospettava, ma era buono di cuore: una volta provai a chiamarlo padre e mi diede una sberla che tu nemmeno te la immagini!»

Le storie di Gambino e il suo lamentarsi e piagnucolare nel falso sonno avevano convinto Sebastian che, probabilmente, il cavaliere era diventato tale nella speranza di rivedere il fratello. Speranza che lo aveva indotto, una volta incontrato un bambino omonimo, a prenderlo con sé. Allora, Sebastian si convinse di non essere per quel cavaliere che poco più di un rimpiazzo, e si sentì non amato. Ma non osò mai dire a Gambino che voleva esser considerato molto più che una memoria del fratello scomparso; che il nome Sebastian ormai non gli piaceva più, perché gli provocava dolore. Avrebbe voluto cambiarlo. Avrebbe desiderato che Gambino gliene desse un altro, scelto da lui. Però non osò mai chiederglielo, né lo chiamò padre, anche se tale lo considerava, perché temeva che gli avrebbe dato una sberla sul viso. Così lo scudiero tenne per sé queste cose e le seppellì, intanto che viaggiava in lungo e in largo facendo da scudiere ad un uomo che inseguiva un fantasma, nei campi di battaglia.

Perché sapeva che a Gambino suo fratello mancava terribilmente.

 

15.4 Danza Solare 9'127, Terzo Calante della Seconda Ide

 

Gambino non aveva mai voluto partecipare alle giostre dei nobili, pur sapendo di poterne uscire vincitore senza impegno.

«Le giostre ragazzo sono per il lustro dei ricchi, non per noi. Perché gareggiare e per cosa? Moneta? La mano di una damigella? Cose futili. Noi viviamo la via del cavaliere e questo ci basta».

Non fece che ripetere questo concetto ogni volta che erano vicini ad un campo di battaglia. Eppure, in quella fatidica data, Gambino parve cambiare idea: andò contro tutto ciò che aveva insegnato al ragazzo. Sebastian non seppe inizialmente cosa fosse passato per la mente al Cavaliere, quando entrò presso un campo di gara e si registrò per la pugna; e dopo, col passare delle danze, si rammaricò di non aver potuto far niente per fermarlo. Quel suo sguardo torvo, come di qualcuno che stesse andando a gettarsi in pasto alle belve, gli rimase impresso nella memoria.

«Sono stato pagato lautamente per fare qualcosa che non voglio. Tuttavia, purtroppo, non c'è modo di uscirne ragazzo».

In questa situazione, Gambino si ritrovò suo malgrado invischiato. Si trovava presso un nobile che credeva essere di contea e null'altro. Invece, questi si rivelò essere un lontano cugino del sovrano e, dunque, ricevette un invito che sapeva più di obbligo. Gambino si limitò ad accompagnare il nobile, seguito da altri cavalieri, nei pressi del luogo dove la giostra avrebbe avuto luogo. Tuttavia, una volta giunti qui, il cavaliere errante fu presentato dal nobile che serviva direttamente al sovrano. Nobile che non mancò di elogiare la sua abilità con la spada, tanto che il Re si convinse che forse quel tale poteva fare al suo comodo.

«Ascoltate ser: voi ucciderete Giovanni de' Cura. Le vostre armi saranno cosparse di veleno, del più fatale dei serpi che si conosca. Una ferita è sufficiente e questa scocciatura sarà conclusa. Servimi cavaliere, fallo bene e sarai mio campione. Oro, fama e ricchezza ne avrai in quantità».

Gambino uscì dalla tenda del sovrano sapendo di essere nei guai, ed era tornato torvo alla sua tenda. Lì raccontò tutto al suo scudiero.

«Non ho potuto rifiutarmi, ragazzo. Capisci? Il Re! Non posso disobbedire: non sono stupido come mio fratello. Ma non voglio vincere contro ser Giovanni come un vile!»

Ser Gambino odiava le giostre, le riteneva prive di senso: credeva che un cavaliere dovesse dimostrare il suo valore eseguendo ciò per cui era pagato, salvando chi in difficoltà e comportandosi lealmente. Per questo rimuginò sulla questione così a lungo che il falso sonno mancò di visitarlo. Due suoni più tardi, balzò in sella al suo andaluso destriero e indossò corazza, scudo e lancia. Gli dissero che, inoltre, nella sua lancia c'era nascosto un punzone di ferro all'interno, cosicché potesse fracassare il pettorale dell'armatura di Giovanni senza difficoltà.

«Per non destare sospetti, ti batterai con ser Giovanni solo se vincerai le altre gare. Perciò fatti valere, o assaggerai l'ira del Re!»

Le minacce dello sgherro del sovrano non impensierirono Gambino. Difatti, i primi scontri si svolsero nell'apatia generale, giacché, in un primo momento, le gare non suscitavano particolare emozione negli spettatori. I duelli si susseguirono nella quasi totale noia del pubblico, finché il banditore non annunciò l'incontro decisivo. Ser Giovanni de' Cura, figlio di Lorenzo il Sublime, trottò con il suo frisone dentro l'anello della contesa. Indossava una lucente armatura nera, con l'araldica di una mezza luna dello stesso colore, rovesciata su fondo bianco; visibile sul petto e sullo scudo. Ser Gambino di Alcyone, invece, presentava una cotta di metallo con intarsi d'argento, e l'araldica di un grifone, ruggente tra due montagne su fondo rosso, capeggiava soltanto sullo scudo.

I due contendenti partirono al galoppo senza indugiare. I rispettivi destrieri caricarono a tutta forza, spinti dalla volontà dei loro cavalieri. Ma quando erano a pochi passi dallo scontro, Gambino spostò leggermente la sua lancia in modo che scivolasse via sullo scudo altrui, cosicché il punzone nascosto non sortisse effetto. La lancia di ser Giovanni, invece, si schiantò sullo scudo di Gambino facendolo ruzzolare a terra. Un gambale restò impigliato nella sella, costringendo il cavaliere a tagliarlo per liberarsi: il veleno sull'arma si disperse un po' sul cuoio e un po' in terra.

Ser Giovanni, sceso dal suo cavallo, sfoderò la sua mazza ferrata e prese a farla roteare minacciosamente. Avanzò con cautela ma, d'improvviso, elevò un colpo verso l'elmo di Gambino. Questi alzò lo scudo, che si frantumò dopo aver parato il colpo. Dolorante e intontito, il cavaliere di Alcyone tentò di riprendersi. L'avversario gli si fece contro, roteando celermente la mazza. I due sfidanti danzarono brevemente sul fondo di fieno ed erba, finché Gambino appositamente commise un errore; ser Giovanni, spinto dall'istinto, subito fece tuonare la sua arma sull'elmo altrui. Il colpo fu così violento, che Gambino roteò su se stesso e cadde, infine, a terra.

Nel mentre il banditore annunciava la vittoria di ser Giovanni, lo sconfitto gli fece segno di avvicinarsi e, dopo aver aperto la visiera, gli confessò ogni cosa.

«Avrei voluto affrontarvi in altre situazioni, cavaliere. Non così. Non con le armi intrise di veleno. Non con il Re che brama vedervi addormentato e quieto. Mi pesa il cuore pensare che mio fratello possa aver trovato la sua fine anche per mano vostra, ma so che avete fatto per le povere genti più bene di coloro che hanno iniziato la guerra per cui lui ha combattuto.

Non ho modo di avanzare pretese, eppure ve lo chiedo: avrete cura di prendere il mio scudiero con voi? Vi sarà utile, vedrete».

Gambino fu allora condotto per ordine di ser Giovanni presso l'accampamento dei mercenari. Ma i tentativi di cura si rivelarono fallimentari: l'elmo, piegatosi, aveva fracassato una parte del cranio, ed era l'unica cosa che impediva al cervello di schizzare via. Tuttavia, poiché comunque il cavaliere errante era ormai a un passo dall'addormentarsi, Giovanni mandò a chiamare Sebastian.

«Sono certo che vostro fratello vi sta aspettando» disse tra le lacrime il ragazzo.

Gambino sorrise a stento. «Gli darò una sberla appena lo vedo» poi tossì ma prima, con un ultimo barlume di forze, aggiunse: «Ho sempre pensato, semmai avessi avuto un figlio, di volerne uno sveglio e capace quanto te. Tu sei stato più di quanto io meritassi; se avessi potuto, ti avrei chiamato Bahrt. Ma ora io vado dove i miei padri attendono, e dove mio fratello starà già aspettando. Anche io ti aspetterò lì, quando sarà il momento. Noi tre insieme... come una famiglia...»

Sospirò, come gli uomini finalmente liberi da tanto fardello, e si spense.

Giovanni, in debito con il nobile Gambino, decise acconsentire alla sua richiesta e di tenere lo scudiero con sé. Contrariamente a quanto desiderasse, non poté permettere al cavaliere errante una degna sepoltura, né un Rito del Riposo: le ire del Re costrinsero la banda a fuggire via rapidamente; allo stesso modo, il cugino del sovrano non degnò quel cavaliere di alcun rispetto, giacché, a causa sua, il Re di Gennaio stava ritorcendosi contro di lui. Dunque il corpo di Gambino fu posto ai piedi di un lago, sotto una grande quercia; sul tronco fu incavato il simbolo del Sole, poiché si sapesse che quel luogo, e quell'albero, erano consacrati al Dio.

«Nessuno. Nessuno oserà violare il suo sonno. Qui sarà al sicuro dalle offese delle ingiurie e delle danze».

Da quel suono, Sebastian non tornò mai più in quel luogo e non rivide mai più l'albero dove riposava suo padre. Di Gambino, tuttavia, avrebbe sentito sempre la mancanza.

   
 
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