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Autore: Vago    30/12/2016    2 recensioni
Libro Secondo.
Dall'ultimo capitolo:
"È passato qualche anno, e, di nuovo, non so come cominciare se non come un “Che schifo”.
Questa volta non mi sono divertito, per niente. Non mi sono seduto ad ammirare guerre tra draghi e demoni, incantesimi complessi e meraviglie di un mondo nuovo.
No…
Ho visto la morte, la sconfitta, sono stato sconfitto e privato di una parte di me. Ancora, l’unico modo che ho per descrivere questo viaggio è con le parole “Che schifo”.
Te lo avevo detto, l’ultima volta. La magia non sarebbe rimasta per aspettarti e manca poco alla sua completa sparizione.
Gli dei minori hanno finalmente smesso di giocare a fare gli irresponsabili, o forse sono stati costretti. Anche loro si sono scelti dei templi, o meglio, degli araldi, come li chiamano loro.
[...]
L’ultima volta che arrivai qui davanti a raccontarti le mie avventure, mi ricordai solo dopo di essere in forma di fumo e quindi non visibile, beh, per un po’ non avremo questo problema.
[...]
Sai, nostro padre non ci sa fare per niente.
Non ci guarda per degli anni, [...] poi decide che gli servi ancora, quindi ti salva, ma solo per metterti in situazioni peggiori."
Genere: Avventura, Azione, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Leggende del Fato'
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 Nirghe aprì gli occhi lentamente.
La luce rossastra che illuminava il soffitto in pietra che stava osservando gli penetrò le pupille, costringendolo a socchiudere le palpebre finché la sua vista non si abituò a quell’illuminazione.
Si sentiva debole, spossato.
Le braccia e le gambe erano innaturalmente rigide, mentre il petto non riusciva a espandersi completamente, come se fosse stato stretto in una morsa.
Un peso si mosse appena sul ventre dello spadaccino, reagendo al suo tentativo di divincolarsi dalla stretta che lo teneva fermo.
Con una lentezza esasperante, il mondo circostante cominciò a riappropriarsi dei suoni, degli odori e delle sensazioni che sembrava aver smarrito al risveglio del Gatto.
La pelle di Nirghe si accorse pian piano della lana che premeva su ogni parte del suo corpo, avvolgendolo in un caldo abbraccio asfissiante.
Con uno sforzo sovrumano, l’assassino si portò in posizione seduta, con evidente disappunto del suo compagno, che fu costretto ad abbandonare il suo sonnecchiare per balzare sul freddo pavimento.
La coperta cadde afflosciandosi sulle gambe dello spadaccino, lasciando solamente al fuoco il compito di scaldare il torso nudo.
Nirghe si guardò attorno, mentre sprazzi di memoria apparivano evanescenti nella sua mente, sovrapponendosi alle immagini che i suoi occhi registravano in quel momento e le sensazioni che il suo corpo avvertiva.
Una benda pulita gli fasciava strettamente il petto, da sotto di questa, dove sapeva esserci la ferita, proveniva un pungente odore erbaceo.
Avevano da pochi giorni lasciato Gerala e il fitto della Grande Vivente era ormai un ricordo. Correvano senza fermarsi, mentre lui cercava di non far pesare troppo il leggero zoppicare che lo coglieva ogni volta che il piede destro poggiava sul suolo.
Il fuoco scoppiettava sommesso, mentre il cuore del Gatto batteva innaturalmente lento, come se il tempo avesse rallentato la sua corsa per permettere alla mente dell’assassino di rimettersi in pari con gli avvenimenti che lo avevano coinvolto.
Alcune delle suture che gli erano state fatte si erano strappate per gli sforzi fisici degli ultimi giorni. Di quando in quando del sangue fresco tingeva di carminio le vesti cittadine che portava addosso, ma lui si era rifiutato categoricamente di lasciarsi portare sul dorso dal lupo di Hile. Avrebbe solo rallentato il loro viaggio e, in quel momento, non potevano permettersi ulteriori perdite di tempo.
Alla sua destra, una figura scura si mosse lentamente, sporgendosi verso di lui.
Il dolore alle due ferite si era fatto troppo insistente ed era di più il tempo in cui sgorgava sangue di quello in cui aveva un momento di tregua. Il Gatto poteva sentire la febbre alzarsi, i muscoli farsi più deboli e la sacca divenir sempre più pesante, ma si era imposto di non arrendersi a nulla, nemmeno al suo corpo, e non aveva intenzione di cedere dopo così poco tempo dalla loro partenza.
La sua sacca, i suoi abiti, le sue cose. Dove erano finite? Si guardò intorno, alla ricerca dei suoi oggetti, senza trovarli. La sagoma a destra si stava lentamente delineando, un viso magro, lunghi capelli e un paio di orecchie appuntite che da questi comparivano.
La febbre aveva preso il sopravvento. I suoi muscoli si rifiutavano di muoversi ancora, mentre la sua mente cadeva in un oblio sempre più profondo. Avvertiva appena gli scrolloni del viaggio o la presenza della coperta in cui era stato avvolto. Di tanto in tanto gocce di acqua fresca gli cadevano nella gola irritata che, a fatica, le inghiottiva.
Si sentiva sporco, quasi appiccicoso, mentre ciocche di capelli sporchi costretti in spesse ciocche gli ricadevano sugli occhi.
Una sagoma scura era calata dal cielo. Era immensa, talmente maestosa da oscurare il sole con la sua sola mole. Aveva perso il contatto con la pelliccia calda che lo aveva accompagnato fino ad allora, per essere adagiato su un soffice materasso. Dopodiché non ricordava nulla.

Ragazzo mio, tu hai dei seri problemi. E te lo dice un esperto.
Seriamente, sei uno straccio. Ma non uno di quegli stracci da cucina, direi piuttosto un cencio passato da padre in figlio in una famiglia di fabbri, lavato rigorosamente in acqua melmosa e poi abbandonato in una tana di topi.
Stai proprio uno schifo.
Decisamente tutte queste complicazioni non gioveranno al mio compito. Spero solo che il suo cervello torni normale prima che arrivino dal demone, altrimenti le fazioni saranno composte da quattro prescelti senza poteri contro il demone e il suo traditore contro un pezzo di carne mandato al macello. Ovviamente senza contare l’esercito che, sicuramente, Follia si sarà creato in questi anni.

Due grandi occhi viola lo fissarono preoccupati.
- Stai bene? – chiese una voce ovattata.
Il tempo riprese il suo normale corso con la stessa repentinità con cui scoppia una bolla.
Nirghe guardò la mezzelfa con sguardo confuso, mentre la bocca impastata cercava di produrre suoni che non avevano intenzione di uscirne.
- Nirghe, stai bene? – chiese nuovamente la mezzelfa, avvicinandosi ancor più.
Il Gatto impiegò qualche secondo per concentrarsi e non far trasparire dalla voce il guazzabuglio di pensieri e emozioni che gli invadevano l’anima. Poi, con vece debole, parlò. – Si. Sto bene. –
Lo spadaccino tentò di distogliere lo sguardo dalle viola iridi della maga, voltando la testa goffamente per guardarsi intorno.
Era nella Terra degli Eroi., in nessun altra parte delle terre venivano utilizzati tetti spioventi coperti da quelle pesanti e piatte pietre di luserna che lo sovrastavano. L’aveva portato lì Hile? Oppure il demone alato che aveva sognato era arrivato veramente?
Il lento pulsare del sangue contro le tempie gli rendeva sempre più difficile pensare.
- Nirghe. – riprese la mezzelfa con voce calma. – Non distrarti. Prova a concentrarti ancora un attimo su di me. –
Il Gatto dovette fare un’enorme sforzo di volontà per voltarsi verso Mea.
- Dov’è la mia borsa? – chiese. Non riusciva a pensare ad altro e il pensiero che potessero aver trovato anche loro il piccolo talismano in legno di tiglio lo inquietava non poco.
- È tutto di là. Tranquillo. Ora però devi ascoltarmi. Riesci a capire cosa dico? –
L’elfo fece un cenno d’assenso con il capo.
- Bene. Io e Seila ti abbiamo curato, ma è possibile che le infezioni e la febbre ti abbiano causato dei danni. Prova ad alzare il braccio destro, forza. –
Il braccio si alzò in aria, finché la benda non oppose troppa resistenza al suo movimento, bloccandolo poco oltre la metà del suo percorso verso la testa.
- Va bene. Ora controlliamo anche la gamba. –

Hile era fermo, in ginocchio, con lo sguardo puntato verso il terreno.
Era nata dell’erba, là dove avevano scavato.
Sullo scuro muro del palazzo l’ombra di Oscurità lo guardava senza muoversi, dritta, in piedi, con la testa leggermente piegata di lato.
Il Lupo alzò lo sguardo.
La grigia lapide che gli stava davanti lo faceva sentire inquieto ed ora, il suo animo non sapeva più cosa fare. Aveva provato a rinunciare a quell’unico oggetto che le ricordava Renèz, il suo coltello, ma la tasca vuota era una pallida imitazione del buco che avvertiva dentro di sé.
Non era mai riuscito, davvero, a staccarsi dal suo ricordo, nonostante ci avesse provato, non riusciva a lasciarla andare.
Il palmo destro andò ad appoggiarsi sulla terra, nel punto in cui sapeva essere nascosta la lama scintillante sui cui era ancora impressa la runa creata da Mea.
Avrebbe potuto recuperarla, portarla di nuovo con sé in quel viaggio, oppure lasciarla lì, combattendo ancora per staccarsi da quel ricordo doloroso.
L’assassino si volt verso destra, in cerca di conforto nella vista di quella sagoma della sua signora.
L’ombra rimase immobile, impassibile, continuando a fissare la scena di fronte a sé con il distacco di chi non vuole interferire.
Le orecchie di Hile avvertirono un leggero tonfo alle sue spalle, mentre il vento portava con sé un odore dolce.
Oscurità si dileguò una frazione di secondo dopo, confondendosi con le ombre gettate dalle imperfezioni dei mattoni sul muro scuro del palazzo.
- Cosa stai guardando? – chiese Keria voltandosi per guardare lo stesso muro che Hile stava ancora fissando.
- Nulla, non ti preoccupare. –
Il Lupo fece per alzarsi da terra, ma la seconda domanda dell’arciere lo fece desistere.
- Era qualcuno che conoscevi? –
- Era una cara amica. – fu la risposta glaciale del lanciatore di coltelli, che, finalmente decisosi, si rimise in piedi, spolverando i pantaloni di pelliccia alchemica che lo proteggevano dalle fredde correnti montane.
- È stata colpa della malattia che ci ha colpiti qualche anno fa, vero? –
- Si. Lei è stata l’ultima a morire per colpa di quel morbo. È stato grazie al suo sangue che hanno trovato una cura. –
Hile si voltò, passando velocemente lo sguardo sulla distesa di pietre tombali che lo circondava. Erano centinaia, grigie, mute, per la maggior parte coperte da rampicami o muschio come a testimoniare di come a nessuno interessasse un assassino che non può più uccidere.
Lì, in quel silenzio, riposavano ai piedi delle lapidi decine di else a cui era stata tolta la lama, pugnali sbeccati, ampolle rotte e frecce spezzate, ultimi doni che gli assassini rimasti in vita offrivano ai loro fratelli caduti, chi per mano dei banditi o delle guardie cittadine, chi stroncato dalla Natura e dalle sue malattie.
Uno schiocco secco riempì l’aria, rimbombandogli nelle orecchie e facendolo sussultare.
Alle sue spalle, senza dire nulla, Keria aveva estratto una freccia dall’impennaggio grigio dalla piccola faretra che portava sempre al suo fianco, spezzandola a metà.
- Cosa stai facendo? – chiese il Lupo quasi irritato.
Keria piantò con forza la punta in ferro del dardo spezzato nel terreno, poco più di una decina di centimetri dalla pietra tombale su cui troneggiava il simbolo dei lupi, riponendo poi l’altra metà nella faretra.
- La ringrazio. – gli rispose il Drago alzandosi in piedi. – Se non ci fosse stata lei, io non avrei mai potuto cominciare questo viaggio. Mi rimaneva meno di una settimana di vita quando trovarono la cura. –
- E quella freccia? – continuò a chiedere Hile, addolcendo il tono.
- È una nostra usanza. Metà al caduto, metà al vivo. Anche se la freccia è rotta, è comunque un unico oggetto, quindi ovunque vada il vivo, il caduto sarà come presente. –
- È un bel rituale. –
- E voi? Avete qualche usanza? – chiese Keria, allontanandosi dalla tomba per dirigersi in direzione del portone socchiuso.
- Da noi, se un Lupo muore combattendo stringendo un pugnale tra le mani, la lama di quel coltello va rovinata e lasciata sulla sua tomba. Questo perché se anche da morto tieni stretto un pugnale, vuol dire che non hai ancora perso la voglia di combattere. –
- Dai, ora andiamo. – continuò l’arciere passando il pollice di cristallo sul nome inciso nella lapide. – Nirghe si è svegliato e Mea vuole fare il punto della situazione, prima di dirigerci verso le terre orientali. –
I due assassini si allontanarono dalle zolle d’erba che, ostinate, avevano deciso di nascere su quel terreno sterile, oltrepassando il portone appena socchiuso senza nemmeno dare un ultimo sguardo alla chiave di volta gialla che aveva sancito, anni addietro, il loro destino.
Ai piedi della bianca statua degli Eroi, Buio riposava accucciato. Sulla sua groppa si era posato il corvo di Mea, che controllava l’ambiente con lo sguardo attento.
In alto, tra le nubi bianche che correvano veloci,  un’imponente sagoma scura compiva ampi volteggi sulla vetta mozzata, al suo fianco, di tanto in tanto, qualcosa brillava come un diamante esposto ai raggi del sole.
Hile si avvicinò alla casa diroccata con passo deciso.
A fianco dell’ingresso, là dove il tetto spiovente gettava la sua ombra, stava seduto Jasno con il cappello a tesa larga ben calato sulla fronte e la schiena premuta contro il muro in pietra.
- Jasno, entri anche tu? – chiese Keria guardando l’elfo albino ai suoi piedi.
- Certo. Vi stavo aspettando. – rispose lui.
La porta si aprì cigolando facendo così entrare i raggi di quel sole pomeridiano che illuminarono le volute di polvere, cenere e fumo che riempivano la stanza illuminata dal fuoco rinchiuso da un camino in parte crollato.
Mea si alzò non appena si accorse del loro arrivo. Nonostante la poca luce, le occhiaie sotto i suoi occhi viola erano ben visibili.
Nirghe si voltò verso l’ingresso. La casacca in nera pelliccia alchemica sembrava diventata troppo grande per il suo corpo, il volto era smunto, ancora pallido e gli occhi erano come vacui, appannati. Una zazzera sporca gli ricedeva pesante sulla fronte, nascondendo in parte le sopracciglia scure.
Seila venne svegliata da una leggera scrollata sulla spalla. Lei si era permessa un solamente un paio di pause da quando il Gatto era stato portato da loro.
Il morale era basso, lo si poteva avvertire nell’aria, lo si vedeva dagli atteggiamenti e dagli occhi di tutti i presenti.
Mea gettò ancora qualche pezzo dei rami di pino rimasti nel fuoco, scatenando una pioggia di scintille, poi si sedette ai piedi della finestra coperta dal pesante tendaggio.
- Allora. – disse passandosi una mano sul volto, come per togliersi di dosso la stanchezza che l’assaliva – Ora che siamo tutti presenti e coscienti, decidiamo il da farsi. Innanzi tutto Niena e Mero, come vi ho già detto Niena è stata disponibile e ci ha lasciato prelevare tre fiale del suo sangue invece, purtroppo, Mero è stato trovato prima da quelli che credo siano dei servitori del demone. –
- Niena ci ha parlato però di Sergant. – Sentenziò Jasno, lasciando cadere il cappello a terra. – Il primo figlio di Trado e Diana è rimasto sulle terre e potrebbe aver avuto figli. C’è quindi la possibilità che il sangue di uno dei suoi discendenti sia ancora in circolazioni. Sperando che basti quello. –
- Io… - lo sguardo della mezzelfa si perse per un attimo, poi la maga riprese a parlare. – Sono convita che potremmo rintracciare un suo discendente, con la mia magia, ma servirà una quantità enorme di energia per farlo funzionare al meglio. –
- Aventi, diglielo. – borbottò Keria in direzione del Serpente.
Seila prese fiato, poi alzò lo sguardo timorosa. – Io… io ho avuto una visione. –
Gli sguardi di tutto il gruppo si puntarono sull’erborista che esitò ancora. – C’era un albero immenso e delle bambole appoggiate qua e là… e avevano delle facce, le bambole. A terra erano appoggiate quelle di due elfi, uno con la pelle chiara e un arco bianco e l’altra con la pelle scura. Poi il tronco saliva e si divideva. Da una parte c’era una bambola orribile, con le braccia e le gambe legate da corde e la testa storta, sopra di lui tutti i rami erano secchi, dall’altra c’era la bambola di un elfo dai capelli scuri, accanto a quella di una bella donna umana. Sopra di loro era stata sistemata solo la bambola di una mezzelfa legata a quella di un uomo penzolante. Sopra di lei  il ramo si divideva ancora in due, da una parte c’era una donna dai lunghi capelli neri, dall’altra parte una bambola con i capelli corti, con un coltello conficcato a fianco e un’ombra scura alle sue spalle. –
Gli sguardi si spostarono come un unico animale su di Hile che continuava a guardare allibito l’erborista.
Keria, al suo fianco, si scansò d’istinto, nonostante Seila già le avesse raccontato per filo e per segno quello che aveva visto.


Avrei dovuto fare i compiti a casa. Perché diavolo non ho controllato l’albero genealogico di ognuno di questi mocciosi? Eppure di tempo ne ho avuto.
Avrei potuto far quello, piuttosto che rimanere a mollo nel mare per due anni sotto forma di polipo.
Idiota! Viandante, sei un emerito idiota!
Maledizione! Come puoi esserti lasciato sfuggire una cosa del genere? È un dettaglio enorme! È un palazzo in mezzo al deserto e tu non lo hai visto!
Idiota!


- Cosa?! – fu l’unica parola che riuscì a pronunciare il lanciatore di coltelli.


Angolo dell'Autore:

Oggi non mi dilungherò molto.
Vorrei solo augurarvi un buon anno a tutti, ci vediamo nel 2017.
Vago chiude, alla prossima. 

   
 
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