12° Capitolo
Con il tempo era diventato meno traumatico sedersi allo stesso tavolo e
scambiarsi aneddoti ‒ chi più di altri ‒ e Stiles aveva lasciato
correre, lasciandola trasformarsi semplicemente in una nuova abitudine.
Non era niente di incredibile alla fine, cercava di convincersene, e le
grandi bocche che non sapevano farsi gli affari propri dopo un po’ avevano
smesso di parlare. Forse un giorno avrebbero smesso anche di lui e Derek.
Quando il figlio dello sceriffo si sedette al suo posto ormai assegnato,
tra Malia e Derek, vide la ragazza con un enorme broncio ed un’Erica divertita
che sembrava più punzecchiarla che venirle incontro, mentre Cora cercava di
rimediare alla situazione con scarso successo.
«Che succede?» domandò a bassa voce, ben sapendo che era fatica sprecata
con un tavolo abitato per metà da creature leggendarie, a Boyd,
che gli sedeva proprio di fronte, intento a mangiare il suo pasto e quasi
indifferente alla scenetta che si stava svolgendo a pochi centimetri da lui.
«Malia non si era accorta che oggi c’erano i cupcake
alle carote e quando l’ha notato erano già finiti» riferì l’afroamericano con
tono pacato, spicciolando un’unica frase che sintetizzasse tutta la situazione,
indicando il suo cupcake al caramello e burro
d’arachidi.
«Oh» sillabò l’umano con una piccola nota sorpresa e rammaricata,
osservando la smorfia della coyote che non accennava a diminuire e che si
impuntava a fissare con astio il suo vassoio traditore. Appariva come una
bambina a cui avevano sottratto il suo giocattolo preferito, o in questo caso,
il suo dolce preferito, con la consapevolezza che sarebbe stato difficile far
sparire quella piega curva sulle labbra, sostenuta dai suoi capricci che
difficilmente emergevano. Forse Malia era semplicemente quello, qualcuno che
non aveva vissuto come avrebbe dovuto la sua vita e che improvvisamente si
vedeva trasportata nel mondo degli adulti, saltando tutte le tappe e
ritrovandosi a volte ad inciampare, perché non sapeva come comportarsi o
rapportarsi, facendo uscire quella parte infantile che la caratterizzava tanto
e che probabilmente non sarebbe scomparsa facilmente. Forse era quello il suo
unico capriccio.
Stiles osservò il proprio vassoio, con la torta salata di zucca al centro,
le patate al forno per contorno e il cupcake alla
carota che troneggiava indisturbato; non aveva nemmeno notato quali altri gusti
fossero stati presentati quel giorno, si era fiondato immediatamente su quello
color arancione di cui facevano pochi esemplari per scarsa richiesta; lui era
uno dei pochi che lo prendeva ogni volta, senza mai optare per altro, tranne
quando arrivava troppo tardi e Scott o Allison non erano riusciti a prenderlo
prima.
Una volta ogni due settimane veniva allestita una speciale vetrina dedicata
interamente ai dolci, portata avanti dalla pasticceria più famosa della città
che era anche lo sponsor maggiore della squadra di basket: il New Moon ‒
ed aveva un che di ironico, perché proprio all’interno della squadra vi erano
due lupi mannari che idolatravano quel satellite che illuminava la Terra nelle
notti scure.
Il tema cambiava periodicamente, permettendo di fare un panorama sui vari
tipi di dolci, senza scontentare nessuno ed i cupcake
ritornavano in esposizione ogni tre mesi. Stiles aveva un dolce preferito per
ogni occasione. «Puoi prendere il mio, se vuoi» propose senza soffermarcisi più
di tanto, richiamando l’attenzione della ragazza ed indicandogli il dolcetto
decantato.
Malia ci impiegò qualche attimo a comprendere a chi il sedicenne si stesse
riferendo, voltando la testa verso di lui e seguendo il movimento della mano
che puntava verso il cupcake arancione ed ancora
intoccato ‒ in realtà l’intero vassoio era immacolato. «Perché?» perché me lo stai offrendo, decifrò
Stiles; aveva una discreta conoscenza del linguaggio degli Hale.
Le dita affusolate dell’umano solleticarono l’aria, non sapendo bene come
rispondere e preso leggermente in contropiede, si aspettava più una
contrattazione che una spiegazione; quant’erano complicati gli Hale. «Perché
non sei riuscita a prenderlo» e sei
triste e scontenta.
«Rimarrai senza» Malia, impegnandosi a guardare attraverso i suoi occhi,
non comprendeva l’utilità di quella proposta, di quell’offerta che non avrebbe
visto due vincitori o uno scambio, ma semplicemente la privazione di uno dei
due e per la sua mente da predatore incallito era qualcosa che non si sposava
bene con la sua natura. A quello si era unito il fatto che Stiles era dopotutto
un estraneo e non aveva alcun legame con lei.
«Non è un problema» la rassicurò il figlio dello sceriffo, placando le
acque e rivelandogli un sorriso ampio. «Riesco a mangiarlo molto spesso, le
occasioni non mancano e lo sceriffo è, mio malgrado, un cliente affezionato
della pasticceria che li prepara» per quanto Stiles fosse sempre attento e con gli
occhi aperti, vigile ed intransigente sulla dieta del padre, l’uomo riusciva
sempre a trovare un modo per fare un salto alla pasticceria, prendendo tutto
quello che più lo pizzicava ed invogliava. A volte Stiles riusciva a
prevenirlo, altre trovava la scatola in auto, per metà già svuotata, ed altre
volte entrava direttamente in casa, come a sfidare la sorte e non potevano
mancare le innumerevoli occasioni in cui lo beccava in ufficio.
Sull’espressione del padre compariva sempre quella piccola vergogna di un
bambino trovato con le mani nel vasetto della marmellata, con il dolcetto già
tra i denti e pronto per essere masticato. La maggior parte delle volte Stiles
sequestrava tutto quello che aveva comprato dietro le sue spalle e in alcuni
casi lasciava correre, quando il suo buon cuore era particolarmente ispirato.
All’interno della scatola della pasticceria più famosa della città c’erano
sempre uno o due cupcake alla carota, particolare
dolciume che non entrava nelle grazie dello sceriffo, ma che non mancava mai;
Stiles lo interpretava come un tentativo di armistizio, arruffianandoselo un
po’, mischiato ad una piccola attenzione che aveva per il suo unico figlio.
No, i cupcake arancioni alla carota non mancavano
mai alla sua tavola.
Malia non sembrava particolarmente convinta e persuasa e quindi si
concentrò per diversi momenti, momenti molto lunghi che accrebbero l’imbarazzo
in Stiles, a fissarlo scrupolosamente, senza mai sbattere le palpebre e
valutando le implicazioni delle sue parole. Poco dopo se lo lasciò
semplicemente scivolare addosso, come se non fosse successo niente e del tutto
disinteressata alla questione; pareva aver cancellato l’intera conversazione e
si prodigò semplicemente ad allungare il braccio ed afferrare il dolce con una
mano dal vassoio ancora impeccabile di Stiles, spostandolo nel proprio e
ritornando a mangiare con tranquillità. Non una parola né un grazie sussurrato,
sul suo viso non vi era alcuna emozione particolare che potesse tradirla, né di
gioia né di fastidio, senza accennare un’ultima occhiata verso la persona che
aveva rinunciato al suo cupcake preferito per
renderglielo. Ma Stiles seppe che era contenta.
«Siete davvero interessanti da guardare» enunciò con sarcasmo perfido il
suo vicino, la creatura infame imparentata con la cucciola smarrita.
L’umano rizzò la schiena colto sul fatto e completamente inconsapevole di
avere avuto uno spettatore che li avesse ascoltati ed osservati per tutto il
tempo, voltandosi immediatamente sulla sua seduta e guardando con le
sopracciglia inarcate il suo vicino molesto. «Ti stai divertendo, Sourwolf?».
«Moltissimo» dichiarò con divertimento serpeggiante il mutaforma,
freddandolo all’istante sul posto.
Stiles lo guardò male, davvero malissimo e Derek ne rise volutamente,
portando l’altro ad ignorare il più possibile la sua presenza.
Ma era difficile per entrambi compiere tale azione.
Stiles tentò di mangiare in santa pace la sua torta salata alla zucca,
addentando qualche pezzo di patata tra un morso e l’altro e qualche minuto dopo
si accorse di Malia che mangiava piacevolmente colpita ed entusiasta il cupcake alle carote, senza perderne una sola briciola e
rincorrendole nel caso ne sfuggisse qualcuna. Era una scena piacevole
dopotutto, benché lanciando un’occhiata distratta alla sezione dedicata al
dolce nel proprio vassoio la trovò vuota e senza alcuna traccia del suo dolce
preferito.
Trattenendo un sospiro sofferto, adocchiò Derek trafficare nella sua
postazione, prendendo il coltello di plastica e tagliando in due metà perfette
il suo cupcake alla Red Velvet,
di un perfetto color rosso ciliegia, porgendogliene una parte. «Non sarà il tuo
preferito, ma puoi accontentarti».
Gli occhi del figlio dello sceriffo si fecero enormi e gli fu quasi
impossibile distogliere lo sguardo da quel gesto che non comprendeva a pieno e
Derek glielo consegnò direttamente sul vassoio, con un tovagliolo che separasse
il dolce della superficie di plastica dura. «Non dovevi farlo».
«Ormai l’ho fatto» semplificò il lupo mannaro, rifiutandosi di riprenderlo
indietro e scartando la possibilità di farlo. «Sei soddisfatto del tuo gesto?»
non servivano chissà quali parole per spiegare a cosa si stesse riferendo e
verso quali scelte si fosse mosso.
Stiles guardò la sua metà del cupcake alla Red Velvet che faceva la sua bella figura nella nuova
postazione e arrischiò un’occhiata finale al dolcetto alla carota quasi del
tutto divorato. «È contenta».
«Allora va bene» annunciò il licantropo con fare conclusivo, calando il
sipario su tutto il resto.
Il cupcake alla Red Velvet
non era un gusto che lo entusiasmava particolarmente, ma aveva un sapore del
tutto diverso una volta che gli era stato donato da Derek Hale.
Non si lamentò nemmeno quando il mannaro gli rubò parte delle patate al
forno direttamente dal piatto.
«Sei davvero qui» proferì la coyote mannara nel frastuono della palestra
creato dal continuo palleggiare dei palloni da basket.
Il figlio dello sceriffo rizzò la schiena e spostò lo sguardo alla sua
destra per individuare a chi appartenesse quella voce, guardandola con
sorpresa. «Ciao, Malia».
Malia lo guardò di traverso, inclinando la testa per una prospettiva
diversa e salì di un nuovo gradino che dava sugli spalti su cui sedeva l’umano,
avvicinandosi un po’ di più ed alzando la visuale. «Cosa fai?».
Stiles lanciò un’occhiata obliqua e veloce al volume di biologia che teneva
tra le mani e benché la risposta fosse evidente e la ragazza non fosse estranea
a captare gli indizi, seppe che era una domanda a più spessori, con diverse
direzioni e che doveva suonare più come cosa
fai qui tutto il tempo. «Studio per lo più, qualsiasi cosa ed a volte mi
limito a guardarli giocare».
«Guardi mio cugino?» domandò la ragazza senza peli sulla lingua e
nell’ingenuità tipica che la contraddistingueva.
Stiles sbarrò gli occhi, non sapendo bene come rispondere e come sarebbe
stata interpretata, ma l’unica azione che si manifestò fu il suo ridacchiare
indistinto. «Sì, immagino di sì; suppongo che guardi anche tuo cugino» forse
era meglio omettere che era molto più facile per lui concentrarsi su Derek,
d’altronde era la star della squadra e non si era guadagnato quel titolo e tutti
gli altri per un passaparola.
Malia si sedette sulla panca occupata dal sedicenne e lo fissava con una
tale intensità da cui era difficile scappare, lo scrutava con un’attenzione
così accurata e diffidente che gli era vietato nascondersi e lei appariva come
la bambina di nove anni a cui era rimasta bloccata, che ancora doveva scoprire
il mondo, che aveva bisogno delle sue classificazioni e che si fidava soltanto
dei propri sensi. Era come se dovesse imparare tutto dalla vita, a riconoscere
chi e cosa la circondasse. «Sai davvero di noi?».
Oh, quello Stiles proprio non se l’aspettava, non
per la domanda diretta in sé, ma per il retroscena che doveva esserci dietro e
che l’aveva portata ad accertarsene. Sapeva benissimo che Malia non aveva mai
avuto a che fare con qualcuno di completamente umano che sapesse della natura
sovrannaturale della sua famiglia e la sua curiosità era del tutto legittima.
Ma voleva anche dire che non era la sola a sapere di lui e che la voce si era
sparsa. «Sì».
«E non hai paura?» domandò la coyote di conseguenza, come ovvia risposta a
quella rivelazione confermata.
«No» affermò sicuro il figlio dello sceriffo, senza battere ciglio e del
tutto sicuro della sua risposta. Passava fin troppo tempo con un lupo mannaro
in carne ed ossa, trascorrendovi diverse lune piene da quando il segreto era
stato svelato e le loro vite si erano unite del tutto. L’astio che era esistito
tra loro era svanito nel nulla nella famosa notte del concerto e non era più
tornato. A volte si chiedeva se non fosse svanito troppo presto, se c’era altro
dietro il loro modo di rapportarsi, qualunque fosse.
Lo sguardo di Malia si fece più serio ed i suoi caldi occhi nocciola si
tinsero di un azzurro freddo e metallico, quasi identico a quello di Derek, se
non fosse che ognuno di loro trasmetteva tutto il rimpianto che avevano in
corpo, un rimpianto ed un senso di colpa del tutto differente e che
rispecchiava la loro anima. Era forse un peccato capitale che preferisse sempre
e comunque quelli di Derek a qualunque altro?
Per quanto Stiles rimase stupito dalla vera natura delle iridi della
ragazza, non si scompose minimamente e le sue espressioni rimasero invariate.
Attimi dopo l’azzurro fu inglobato dal castano e la magia svanì. «Non mi
giudichi» non era una domanda né un accenno di incredulità, era un dato di
fatto, un fatto che le era estraneo e che non aveva conosciuto lontana dalla
famiglia che l’aveva salvata e guidata. Chi era fuori dal branco non possedeva
quella delicatezza.
«Dovrei farlo?» domandò retoricamente l’umano, indurendo i tratti del viso
che si fecero seri e morbidi allo stesso tempo. «Non so chi sei, non conosco la
tua storia e non ho alcun diritto di giudicarti. Non ne avrei a prescindere».
Malia inclinò di nuovo la testa, tendendo meglio le orecchie ed ascoltando
qualcosa che era udibile soltanto a lei e che a Stiles sarebbe sempre stato
celato. «È questo quello che hai fatto con Derek?» era una domanda molto dolce
e modulata ed era un tono che non si sarebbe mai aspettato prendesse vita da
una ragazza così chiusa e guardinga com’era lei, ma Derek sembrava essere un
pezzo prezioso del loro branco ed avere un riguardo che tutti gli altri gli
cedevano senza farne parola.
Non aveva idea di che cosa avesse fatto con il lupo, come si fosse
sbilanciato e come l’avesse portato a fidarsi di lui, l’accusa che non aveva
mai provato verso i suoi riguardi ed un giudizio che non gli era mai passato
per l’anticamera del cervello. Non se li era nemmeno posti questi quesiti,
Derek non gli era così estraneo come potevano esserlo tutti gli altri. Era
stato così facile e così naturale che, se c’avesse riflettuto prima, ne sarebbe
stato terrorizzato. «Io… l’ho solo capito».
«Sei diverso» e oh, un passo
avanti dall’accusa di essere strano. «Forse è per questo che sei così speciale
per lui».
Speciale era un aggettivo un po’ particolare per
Stiles, gli aveva dato un valore che forse non avrebbe dovuto attribuirgli ed
era sempre stato messo in mezzo tra lui e Derek. Ma sentirlo accostato alla
propria persona gli scatenava uno spavento incontrollato ed uno scompenso nel
suo stato emotivo.
«Perché sei qui, Malia?» era un buon modo per cambiare argomento e non
mostrare quella parte di se stesso che veniva continuamente scombussolata, in
più era quasi lecito chiederlo, perché non l’aveva mai vista da quelle parti in
nessuna occasione in cui era presente e al contrario, la sua figura si mostrava
soltanto durante le partite del cugino, estraniandosi anche molto. Di certo non
poteva nemmeno ignorare la scatola rettangolare che teneva tra le mani,
accuratamente protetta, in cui vi era impresso il nome della pasticceria più famosa
della città a caratteri verdi e gialli. «Cercavi Derek?».
«No, cercavo te» dichiarò la sedicenne immediatamente, ignorando tutte le
presenze che vi erano nella grande stanza. «Mi hanno riferito che è il posto
più facile in cui trovarti» si guardò intorno, trovando tutti gli spalti vuoti
e desolati, ad eccezione della postazione occupata da Erica e da loro; doveva
ancora apparirgli ostica quella scelta del luogo di riserbo. «L’altra volta non
ti ho ringraziato e mi hanno spiegato che avrei dovuto farlo. È ancora qualcosa
di nuovo per me, sono abituata a prendere e basta» spostò le iridi sulla
scatola elegante e con il simbolo della fase di luna nuova che compariva in
varie parti, insieme al nome del negozio, creando un’armonia spensierata.
«Pete-… mio padre mi ha accompagnata alla pasticceria e mi ha riportata qui»
nascondendo il suo errore iniziale, gli porse la scatola.
Una vera predatrice in vetta alla catena alimentare che inciampava in un
ambiente che le era ostica ed in cui cercava di mettere piede, uno dopo
l’altro. «Tu sei quella ragazza, quella che hanno trovato un paio di anni fa
nel bosco. La figlia ritrovata» pessimo, pessimo argomento di conversazione, ma
gli era sfuggito così facilmente dopo quell’uscita che una persona normale ed
abituata all’interagire con il mondo esterno non avrebbe mai detto. Malia
appariva davvero come una bambina a cui doveva essere insegnata ogni cosa, a
partire dalle basi per un corretto confronto con il mondo esterno ed il galateo
più semplice per interagire con le persone esterne al suo branco.
Le pupille di Malia si dilatarono e l’espressione per nulla contenta prese
vita sul suo viso. «Leggi davvero i rapporti di tuo padre».
In realtà non avrebbe avuto bisogno di leggere i rapporti di suo padre,
quella notizia sensazionale e fuori dagli schemi era stata stampata su ogni
pagina della regione ed aveva preso la prima pagina del giornale locale. Ma i
dettagli sì, erano nel rapporto e lui l’aveva letto semplicemente spinto dalla
curiosità irrefrenabile.
Aveva letto ogni singolo foglio, fin dalla scomparsa di una bambina di nove
anni coinvolta in un incidente stradale in cui era morta tutta la sua famiglia;
madre, padre e sorellina minore, ma di cui non era mai stato ritrovato il
cadavere della più grande. Le ipotesi erano tante ed una più mostruosa
dell’altra, ma Stiles ricordava bene i morsi di un animale identificato come un
coyote che aveva dilaniato i loro corpi e le tracce sul terreno che erano
sparite con il sorgere del sole. Soltanto quando Derek Hale era entrato nella
sua vita aveva collocato quella terribile notte alla prima luna piena di quel
mese.
Malia, nel momento della sua ricomparsa, era stata riconosciuta da Peter
Hale come sua figlia, data in adozione in segreto da una donna, la madre biologica,
che non voleva saperne niente di lei, nascondendo la sua esistenza al padre che
ne avrebbe reclamato i diritti. Dopo quattordici anni di ricerche e tragedie
annesse, era riuscito a ritrovarla e portarla a casa, entrando a far parte del
grande nucleo familiare targato Hale.
Stiles arrivò alla conclusione che a quei tempi Malia non conosceva la sua
natura di coyote mannaro, patrimonio genetico di uno o entrambi i suoi genitori
biologici ‒ ma essendo Malia l’unica coyote nel branco Hale, era facile supporre,
e si andava per esclusione, che la madre biologica possedesse quella natura ‒,
e che quella natura nascosta e celata si fosse risvegliata all’età di nove anni
in quella prima notte di plenilunio.
Era convinto che non si fosse resa conto di cosa le stesse accadendo
intorno, della trasformazione che era avvenuta in lei e degli omicidi che
inconsapevolmente aveva commesso. «Hai vissuto da coyote in tutto quel tempo?».
«Sì» non sembrò stupita che lui sapesse della sua capacità di trasformarsi
in un coyote completo e si chiese quanto parlassero di lui in quella famiglia.
«Ricordavo a stento di essere stata umana».
Era la cosa più triste e crudele che avesse mai sentito e benché non
possedesse alcuna parola che potesse esserle di conforto, prese la scatola di
dolci che gli era stata appena regalata e la aprì, rivelando all’interno otto cupcake alle carote tutti uguali e tutti appetitosi. Ne
estrasse due con delicatezza e ne porse uno alla ragazza e li fece scontrare
come se fosse un brindisi. «È un bene che tu sia qui, umana e mannara».
Stiles morse il suo dolcetto terminando quelle parole e sfoderando un
sorriso dolce e complice e Malia, benché apparisse titubante ed un po’ confusa,
lo seguì a ruota.
Un’ulteriore mano, apparsa da chissà dove ed in religioso silenzio, si
materializzò tra loro, estraendo un terzo cupcake
arancione, addentandolo davanti ai loro occhi stupiti. «Non so proprio come
facciate a mangiarlo» disse un Derek un po’ stizzito dal sapore, che si era
allontanato dal campo di basket e che appariva fin troppo poco sudato, aiutato
dalla sua natura sovrannaturale che lo metteva sempre nelle condizioni
migliori.
«In realtà siamo degli adorabili coniglietti» rivelò con sarcasmo divertito
il figlio dello sceriffo, dando un nuovo morso, più corposo e grande, al suo cupcake alle carote, masticando con gusto evidente e
prendendolo giocosamente in giro.
«Io caccio i conigli» annunciò la coyote mannara con reale intenzione, non
riuscendo proprio a vedersi come un coniglietto. «È divertente».
Derek la ignorò volutamente e Stiles sgranò gli occhi, immaginandosi uno
spietato coyote che rincorreva dei teneri coniglietti bianchi per divertimento
nel bosco ed uccidendoli.
L’umano preferì dare il penultimo morso al suo dolcetto e cancellare
l’immagine che si era figurato. «Era il preferito di mia madre» confessò senza
rendersene conto, con l’amaro in bocca che si prodigava dopo averlo rivelato,
ricadendo nei ricordi.
Il lupo mannaro rimase in silenzio e Malia ritornò cosciente della completa
presenza del sedicenne tra loro e della storia che c’era in lui. «La tua mamma
è morta?».
«Sì» affermò il figlio dello sceriffo con tono asciutto, fissando con
sguardo vuoto l’ultimo boccone del cupcake arancione
che era rimasto.
«Anche la mia» rivelò la mannara con voce monocorde, rendendo tutto più
reale.
Stiles si risvegliò, consapevole della grossa perdita subita da parte della
ragazza e di cui era stata involontariamente la colpevole, macchiando per
sempre la sua anima e con la colpa sempre presente nelle sue iridi da beta.
Era uno strano trio maledetto quello e le loro rispettive famiglie non
brillavano di fortuna.
Stiles e Malia passarono quel pomeriggio nella palestra di basket a
svuotare la scatola di cupcake che era stata comprata
per lui, instaurando un particolare legame e Derek per dispetto rubò un secondo
dolcetto, ghignando vittorioso verso le loro espressioni contratte che lo
rimproveravano per delle papille gustative scadenti e per la cattiveria
dimostrata che li privava di un dolcetto in più che potevano condividere
insieme e che lui non apprezzava.
Stiles percorse tutto il corridoio creato dai tavoli della mensa fino ad
arrivare all’ultimo della grande stanza, lontano dalla luce e vicino alle porte
che davano all’aperto, da cui entravano spifferi e che tutti ignoravano,
preferendo scegliere altri posti dove sedersi e mangiare, più caldi e riparati.
Era da solo e guardava soltanto dritto davanti a sé, senza percepire nulla
del brusio che non smetteva mai di accompagnare la sala durante il pranzo.
«Cos’ha Stiles?» domandò Malia confusa, guidata dallo strano odore che
accompagnava l’umano e dal fatto che li avesse ignorati senza nemmeno farci
caso, superando il loro tavolo ormai designato ed un po’ troppo affollato,
senza degnarlo di alcuna occhiata e con la testa altrove. Non aveva nemmeno
balbettato una mezza parola di saluto o ritrovo, inquadrando lo strano gruppo
che si era coeso e dando inizio realmente al loro pranzo in compagnia; era una
cosa che non si sposava per niente con l’animo animato di Stiles.
Allison sembrò l’unica ad aver sentito la domanda e distolse lo sguardo dal
suo piatto, oltrepassando Scott, per intercettare la figura di Stiles che si
allontanava e si accomodava nel posto più isolato della intera mensa, dove si
andava a rintanare in particolari giorni dell’anno o quando aveva uno stato
d’animo non esattamente luminoso. «Non è un buon giorno per lui» spiegò senza
scendere nel dettaglio, sintetizzando tutto con quell’unica frase.
«Oh» soffiò la coyote mannara, ricordando quell’essenziale tassello che
faceva parte della vita del figlio dello sceriffo.
«Non dovrebbe andare qualcuno da lui?» chiese Erica con preoccupazione,
abbandonando l’aria maliziosa e giocosa che la caratterizzava sempre, puntando
il suo sguardo sulla figura isolata che mangiava distrattamente in completa
solitudine. Non era uno spettacolo a cui le piaceva assistere.
«Non è particolarmente loquace in questi momenti» riferì Lydia, smontando
ogni futura proposta o soluzione, armeggiando con distacco con l’insalata che
aveva smesso di mangiare.
Derek per qualsiasi altro sarebbe stato sordo e cieco, del tutto
disinteressato a quello che lo circondava e che non lo riguardava, eppure fu
ben visibile quella gamba che si muoveva e si irrigidiva per darsi forza ed
aiutarsi con la spinta per alzarsi dalla panca e raggiungere il sedicenne
logorroico.
«No» lo ammonì Scott nell’immediato, alzandosi completamente ed afferrando
il proprio vassoio con le mani, pronto per trascinarselo via. «È ancora un mio
compito questo» disse con durezza, la frecciatina precisa che arrivò dritto
alle fattezze del lupo mannaro, la consapevolezza del ruolo di migliore amico
che andava sempre più ad accorciarsi.
Ma tutti loro sapevano che non era il ruolo di amico che Derek stava
andando ad occupare.
Scott scavalcò la panca e sollevò il vassoio senza aspettare mezza parola e
si avviò verso il tavolo occupato dal figlio dello sceriffo, sedendoglisi
proprio di fronte e prendendo a mangiare insieme a lui.
Stiles lo occhieggiò per qualche attimo, pizzicando il piatto con la
forchetta di plastica e ricalando la testa, senza scacciarlo in alcun modo.
Su entrambi i tavoli perdurò il silenzio.
Stiles era buttato a peso morto sul letto, nella penombra della sua camera,
con la testa leggermente reclinata sul cuscino e lo sguardo vuoto che aleggiava
in un punto fisso senza guardarlo davvero.
Era in quella posizione da quando si era separato dal padre, poco dopo
l’ora di cena, infilandosi svogliatamente il pigiama e collassando sul
materasso; non aveva toccato una sola materia scolastica e non si era fatto
vedere agli allenamenti di basket. Aveva mangiato pigramente con suo padre e
borbottato poche parole dei tempi che furono.
Ogni anno era diverso ed ogni anno lo vivevano in modo differente, a volte
non faceva così male da sentirsi strappare il cuore dal petto, pulsante e
gocciolante di sangue vermiglio. A volte era fattibile, nostalgico e
ricordavano con il sorriso sulle labbra. Se c’era una causa scatenante per i
diversi modi di rapportarsi, Stiles non l’aveva ancora individuata.
Derek entrò silenziosamente in quella camera priva di suoni ed in cui non
era presente alcuna fonte di luce se non una piccola lampadina di atmosfera,
bianca e leggera che lasciava individuare cosa ci fosse all’interno delle
quattro mura; sembrava quasi che non vi fosse nessuno, per l’immobilità del suo
abitante e non era un aspetto molto confortante di benvenuto, ma la finestra
era stata lasciata aperta ed aveva ancora un suo significato quel piccolo
spiffero dalle dimensioni delle dita del lupo.
L’umano non mosse neppure la testa quando lo sentì entrare, scendendo dal
davanzale con maestria e grazia, senza provocare un solo tonfo sordo, ed
individuò la sua figura soltanto quando nella penombra si materializzarono gli
occhi ambrati e vacui, spostandosi senza forze verso la propria metà del letto
e lasciando l’altra al suo non tanto nuovo proprietario acquisito.
Derek tentennò per un solo momento, accertandosi che fosse davvero quello
che Stiles voleva, ma egli era già da un’altra parte, con il cuscino stretto al
petto ed il viso parzialmente nascosto da esso e non invadeva nemmeno per
sbaglio il lato che era stato destinato al licantropo. Derek era già con lui
senza lasciargli il tempo di sbattere le palpebre.
«Lo sai» quelle erano le prime parole che sentiva pronunciare al sedicenne
da ore, forse da tutto il giorno; lì dentro vi erano contenuti tutti i grandi
discorsi e le domande con cui in un momento diverso, in un giorno diverso, lo
avrebbe ricoperto.
«Sì» affermò il lupo mannaro, senza negare l’evidenza.
«Quante cose sai di me, Der?» non era un’accusa
per segreti che a quanto pareva non esistevano, ma una domanda così legittima e
candida che andava posta da tempo, fin dagli albori del loro strampalato
rapporto, da quando Derek l’aveva chiamato per la prima volta con il suo nome,
senza che si fossero mai presentati. E poi era stata una corsa in discesa,
senza freni e precipitando senza che si potesse rallentare in qualche modo.
Quello era solo il momento sbagliato in cui quella domanda fu formulata, ma era
anche l’unica occasione in cui non sarebbe riuscito a tenerla per sé.
«Abbastanza» non era una bugia, non era un’omissione, era qualcosa che
stava a metà, qualcosa che per una volta dava una mezza risposta alle miliardi
di domande che infestavano la mente dell’umano, qualcosa che, se affrontato in
un contesto differente, in un momento del tutto diverso, avrebbe scatenato un
putiferio. Ma Stiles era senza forze e completamente passivo per sottostare
agli eventi del mondo ed a realtà solo immaginate che aveva scartato. Non
voleva nemmeno pensare alle probabili implicazioni che quella risposta vaga e
netta possedeva.
Il figlio dello sceriffo sospirò lentamente, stringendo un po’ di più il
cuscino a sé ed immergendovi del tutto il viso, sparendo alla vista del
diciottenne. «Avevo otto anni ed era appena arrivata questa bambina bellissima
dai capelli rossi, fiera ed autoritaria, quella che avrei desiderato per
altrettanti otto anni e proprio in quel periodo fu dato il nome al malessere
che affliggeva mia madre da qualche tempo» la voce era incolore, eppure era
piena di sofferenza e rammarico, nascondendosi come meglio poteva dietro quel
piccolo oggetto rettangolare su cui riposava ogni notte e da cui era
impossibile separarlo. «Demenza Frontotemporale. Non è nemmeno un nome così
ostico ed incomprensibile come lo sono tutte le altre» sbuffò con un mezzo
sorriso di divertimento spento ed amaro. Forse non era così ostico perché era
sempre stato il più sveglio tra i suoi conoscenti, fin dalla tenera età.
«Iperattività, insonnia, deliri, allucinazioni, sono solo alcuni dei sintomi
che si possono manifestare e lei ne aveva un bel po’; era difficile non vederli
ed ignorarli, erano a portata di mano e non passò molto prima che papà la
spingesse ad accertamenti e controlli, medici qualificati ed esperti.
L’accompagnava ogni volta ed ogni volta risultava difficile e lei peggiorava ed
era sempre più complicato riportarla da noi» si dondolò un po’ sul posto,
trafficando con la federa del cuscino e sistemando orli che non dovevano essere
sistemati. «Hanno provato a non farmi notare niente, a tenermi lontano
dall’orribile verità ed a non farmi mai sentire il nome del malessere che la
tormentava, ma era quasi impossibile nascondermi qualcosa, che dei sussurri sfuggissero
alle mie orecchie. Ero quel bambino che durante una telefonata tra adulti
prendeva la cornetta da un’altra stanza ed ascoltava le loro conversazioni e
questo dovrebbe dirla molto su di me, perché illegalmente mi sintonizzo sulla
radio della polizia, soprattutto nei momenti di noia» stava sdrammatizzando, ma
era un comportamento che si era sempre portato dietro e che avrebbe continuato
ad accompagnarlo per il resto della vita. «Dopo un paio di mesi non era nemmeno
più pensabile provare a nasconderlo, le cose erano peggiorate e mia madre era
sempre meno cosciente di chi fosse e di dove fosse. Urlava, piangeva e si
dimenava; papà non poteva più lasciarmi con lei da solo ed io non potevo fare
niente per aiutarla o darle un po’ di sollievo, il mio essere bambino non le
serviva a niente».
Derek fu costretto ad afferrare il cuscino che veniva usato come barriera,
abbassandolo delicatamente e riscoprendo i suoi occhi di miele sofferenti ed in
balia dei ricordi dolorosi. Era una barriera, che per quanto pensasse di
aiutarlo, era solo d’intralcio e non aveva alcun senso quel monologo triste e
distruttivo se non lo guardava neanche.
Stiles sbatté più volte le palpebre disorientato e completamente smarrito,
sprovvisto dell’unico oggetto di conforto che si era permesso di tenere e di
usare, il muro che Derek stava abbattendo perché lui non ne era capace,
rintanato nel nero abisso che lo reclamava.
«Puoi smettere quando vuoi» gli riferì il lupo mannaro, che era molto
diverso dal non devi raccontarmelo, non
devi farlo se non vuoi. Non erano nemmeno passati da quella casella che
solitamente presenziava in confidenze personali e dolorose come quelle,
l’avevano semplicemente ignorata ogni volta, perché loro dovevano mettere al
corrente l’altro di ciò che era capitato nel passato prima che entrassero a far
parte delle attuali e rispettive vite. Non era esattamente un dovere, ma era
quello che si sentivano di fare e di cui avevano bisogno, era il loro modo di
dividersi il peso senza ipocrisie, caratteristica che non li rappresentava.
Stiles non sapeva più come sistemarsi, come sfuggire alla tenue luce che
illuminava la sua stanza e agli occhi verdi di Derek che non l’avevano mollato
un attimo; anche attraverso il cuscino poteva sentirli su di sé. «Non ti
stancherai di ascoltarmi?» non era un’allusione circoscritta a quel momento,
era una domanda che puntava a spazi più grandi, ad un futuro più prossimo e al
di là del tempo. Aveva avuto diversi ascoltatori nella sua vita, ognuno con un
modo tutto loro di prestargli attenzione, ma era molto difficile che perdurasse
per tutta una conversazione, senza piccole distrazioni dovute, ma Derek era un
caso del tutto diverso; per quanto fosse stoico e poco propenso al dialogo ed
alla confusione intorno a lui, era il miglior ascoltatore che Stiles avesse mai
avuto e che non si lasciava distrarre da niente se non da Stiles stesso. Era
qualcosa a cui non avrebbe rinunciato per nessuna ragione al mondo.
«No» rispose nettamente il lupo mannaro, era del tutto fuori questione
quell’ipotesi. «Qualcuno deve farlo. Qualcuno deve prendersi cura di te».
Lo sgomento prese possesso di tutto il corpo dell’umano e le iridi ambrate
minacciarono irremovibilmente di traboccare d’acqua, manifestando quanto quelle
parole lo stendessero completamente. «Mi ha rifiutato» disse d’impeto, in
risposta a quella forma di affetto, molto più vicino all’amore, con cui Derek
l’aveva rimboccato, facendolo precipitare ancora di più.
Gli occhi di Derek lo guardarono interrogativi ed interdetti, non
comprendendo proprio a cosa si stesse riferendo, in quali acque stessero
navigando e se avessero cambiato, senza rendersene conto, argomento.
«Mia madre, mi ha rifiutato» chiarì il figlio dello sceriffo, con il cuore
spezzato e tenuto insieme da ciò che il mutaforma gli trasmetteva. «Quando la
malattia è cresciuta e si è prodigata, non mi riconosceva più come suo figlio,
mi identificava come un essere malvagio che voleva ucciderla lentamente. Non
ero più suo figlio, la sua progenie, ero un’entità malvagia che doveva
estirpare» Stiles tremò vistosamente e le iridi si riempirono di lacrime non
versate e Derek gli si avvicinò un po’ di più, sfiorandogli con il ginocchio
una coscia, senza sbilanciarsi troppo, non sapendo come comportarsi. «Era il
principale motivo per cui non potevo più rimanere da solo con lei e con la
malattia che avanzava, fummo costretti a passare del tempo considerevole in ospedale,
finché smettemmo di portarla a casa e lei tentò spesso di togliersi la vita,
perché-» un singhiozzo spezzato e distinto gli sfuggì dalla bocca,
graffiandogli la trachea ed una lacrima solitaria gli rigò il viso, cancellata
immediatamente dagli arti torturati del sedicenne. «Perché preferiva scappare
in quel modo dall’essere malvagio che la stava uccidendo. Preferiva scappare da
me che passare un altro minuto della sua vita su questa terra. Preferiva
scappare che affrontare il demone che vedeva dentro di me».
«Non era lei, questo lo sai» disse il licantropo con serietà e severità,
non permettendogli in alcun modo di crollare, immergendo le dita della mano
sinistra tra i suoi capelli castani e costringendolo a guardarlo dritto negli
occhi, impedendogli qualsiasi via di fuga.
«Sì, lo so, erano le allucinazioni, ma…» era il primo a non avere lucidità
in quei momenti, a non riuscire a liberarsi dalla gabbia in cui si era
rinchiuso. «Ero così insistente, le occupavo tutto il tempo, io ero la sua
unica occupazione e se la mia iperattività, il continuo starmi dietro e la mia
logorrea infinita l’avessero fatta regredire più velocemente? La malattia che
le consumava il cervello, che avanzava senza freni perché ero impossibile? Se
fossi stato più composto e calmo e meno rumoroso ed impegnativo, magari non
sarei diventato il grande mostro che lei vedeva, la causa del suo peggioramento
così repentino» era una pazzia, una follia, non era nemmeno pensabile una cosa
simile, ma era quello che l’aveva torturato per tutta la vita, i sensi di colpa
che l’avevano accompagnato fino a quel giorno, logorandolo lentamente ed
ammaccandolo ad ogni nuovo inciampare.
«Non lo pensi davvero» proferì Derek con sgomento ed irritazione, il
malcontento a cui si stava abbandonando Stiles senza combattere, la tristezza
che gli riempiva il petto, offuscandogli il giudizio. «Dovresti essere il primo
a non credere a queste cose» tutto il percorso che avevano fatto non poteva
essere vano e non poteva essere cancellato.
«Avevo otto anni, Derek. Mia madre stava regredendo e mi accusava della sua
malattia. Mio padre era l’unico che riusciva a riportarla indietro, a farla
ragionare, e nel frattempo doveva anche occuparsi del suo stupido figlio
iperattivo che stava vedendo la sua famiglia andare in pezzi ed una madre
rifiutarlo, disprezzarlo. Nessuna ricerca che avevo fatto mi preparava al
disastro e all’orrore che avrei visto» sbottò in difesa, attaccato da quella
severità dell’unica persona amica che voleva soltanto riportarlo da lui. Non
era davvero arrabbiato o fuori di sé, ma era una situazione così fragile ed
irrespirabile che Derek stava cercando di affrontarla come meglio poteva, con
il tatto di cui era sprovvisto.
«Non è stata colpa tua» soffiò candido e nitido il mutaforma, intrecciando
maggiormente le dita tra le ciocche dei suoi capelli e sfiorandogli la fronte
con la propria. «Non è stata colpa tua».
Stiles si abbandonò a lacrime silenziose, impossibili da fermare ed arrestare,
la voce e la presenza di Derek erano qualcosa di inestimabile per il suo cuore
spezzato. «L’ho vista morire. Giorno dopo giorno l’ho vista morire, ma quando
ha emesso il suo ultimo respiro, l’unico presente ero io; papà, come era giusto
che fosse, stava svolgendo il suo incarico da vice sceriffo e certamente non si
aspettava che la fine fosse così vicina, soprattutto quando lui non era lì» per
quanto cercasse di non farsi travolgere da quel passato che stava riportando a
galla, lo sconforto e le immagini nitide che lo inseguivano erano difficili da
gestire. «C’ero soltanto io con lei, a tenerle la mano, in una stanza bianca ed
incolore, spoglia e senza anima. Era uno dei pochi momenti di lucidità in cui
ero soltanto Stiles, il suo bambino che frequentava la terza elementare, e in
cui mi permetteva di prendermi cura di lei come potevo, lasciando che la
toccassi ogni volta che ne avevo bisogno. È stato anche l’ultimo».
Derek gli depositò un bacio caldo sulla fronte aperta, dolce e
confortevole, una carezza voluttuosa che estirpava il malcontento che viveva
nell’animo dell’umano. «È ancora con te. Nei modi in cui la ricordi» il libro
sulla licantropia rimesso in sesto ed il continuo mangiare cupcake
alla carota erano solo gli esempi più visibili e rumorosi.
Stiles accettò di buon grado quel bacio che gli veniva donato, il secondo
che riceveva da lui ‒ con motivazioni del tutto opposte ‒ ed il
primo che avveniva completamente a contatto con la propria pelle. Era
un’attenzione piacevole e liberatoria e non dovette pensarci molto prima di far
congiungere completamente le loro fronti in risposta. «E se capitasse a me?»
Derek riattivò i sensi, riaccendendo l’attenzione ed il suo sguardo
interrogativo parlò per lui. «La Demenza Frontotemporale, sono predisposto. È
molto facile che si manifesti in altri membri della famiglia e la mia famiglia
termina con me, non c’è nessun altro».
«È questo che ti spaventa così tanto?» realizzò il lupo mannaro per la
prima volta, dilatando le pupille e guardandolo con occhi nuovi.
«Non ho nessuna abilità e non eccello in nulla, tutto quello che sono,
tutto quello che di più prezioso c’è in me, è il mio cervello, la mia capacità
deduttiva ed intellettuale, i miei ragionamenti veloci e la capacità di
cogliere i dettagli» elencò meticolosamente, mettendo bene in mostra la pasta
di cui era fatto, le doti che possedeva, l’affanno che gli viveva dentro. «Se…
se perdessi il mio cervello non sarei più io, non rimarrebbe niente di me e se
mi riducessi nelle condizioni in cui era mia madre, chi… chi riuscirebbe a
riportarmi indietro?» era quello che lo consumava dentro, che lo tormentava e
che gli lacerava il fegato. «Mio padre era il grande amore di mia madre e lei
era il suo, io non ho nessuno».
«Esistono diversi tipi di amore» gli ricordò il diciottenne con premura e
con la missione di aprirgli gli occhi.
Stiles curvò le labbra in un sorriso spento e sinistro, così
raccapricciante e sofferto da far male al suo interlocutore. «Quello materno
non è servito».
«La troverai» dichiarò risoluto il mannaro, convinto fino al midollo e
conoscitore di qualcosa a cui Stiles era estraneo. «Troverai una persona che
saprà amarti e che saprà riportarti indietro».
Stiles lo guardò a lungo con i suoi grandi occhi d’ambra, specchiandosi
completamente in quelli di giada e vedendovi l’assolutezza di quella verità che
sapeva gli sarebbe appartenuta.
Il figlio dello sceriffo scivolò un po’ di più sotto le coperte,
abbandonando la testa contro il petto muscoloso del lupo ed annuendo
impercettibilmente contro di lui; per quella sera sembrava aver finito le
parole e le forze per affrontare un qualsiasi argomento e Derek lo strinse di
riflesso a sé, acconsentendo al suo tacito silenzio.
Vorrei che qualcuno mi amasse come tu ami la
tua persona speciale, ma non seppe mai se lo disse ad alta voce o se rimase un pensiero
incastrato nella mente, collassata in un sonno profondo tra le braccia di Derek
Hale.
O grande e dolce Malia, siamo lieti di averla
tra noi e di averla osservata mentre istaura un rapporto da colpo di fulmine
con il nostro Stiles. I cupcake sono potenti,
diffidate, diffidate o nasceranno amicizie lodevoli.
Stiles è un grande altruista e si preoccupa per
tutti, perfino per qualcuno che non ha mai provato a rivolgergli la parola e
che capisce perfino; si sacrifica così tanto, rinunciato a ciò che gli piace.
Forse ha solo una prerogativa per i cuccioli mannari, altrimenti non si spiega.
E in più ha un lupo acido che condivide con lui
il suo cupcake per non lasciarlo a bocca asciutta.
Tutto nella norma, insomma.
Ma ciò che Stiles fa non si perde e non viene
dimenticato ed al contrario viene ricambiato ed apprezzato e poi nascono e si
fortificano nuovi legami e sopraggiunge Derek nemmeno dovesse marcare il
territorio.
O forse sì.
Il tema della scomparsa della madre di Stiles
prima o poi doveva toccarci e si conosce una parte di lui più oscura e
abbattuta, in cui tutto il suo carisma e la sua forza si disperde e non vuole
nessuno vicino a sé. Scott è un punto fisso della sua vita che conosce tutto di
lui, ma Derek… Derek è qualcuno che non potrebbe mai cacciare dalla sua vita e
averlo con lui perfino in un giorno tanto orrido come quello è importante e
curativo ed a Stiles basterebbe, se Derek non si prolungasse su di lui,
arrivando molto più in là di dove riescono a spingersi tutti gli altri. Se poi
a tutto quello si aggiungono i vari terrori di Stiles e Derek si muova per
tranquillizzarlo, è tutto un altro paio di maniche dove sopraggiungono nuove
verità inespresse in Stiles.
Quante cose devono ancora venire fuori.
Vi auguro un buon anno ed a settimana prossima,
Antys