Serie TV > Teen Wolf
Segui la storia  |       
Autore: Antys    30/12/2016    3 recensioni
Nel liceo di Beacon Hills si era sviluppata una strana mania, una tradizione, da diversi anni e quasi ogni studente tra quelle mura vi partecipava.
Tutto ruotava intorno agli anelli che si indossavano quotidianamente e, a seconda della loro collocazione, esprimevano un significato da trasmettere ai presenti ed era una continua caccia: tutti controllavano chi stava indossando quale anello su quale dito.
Ma l’ambizione consisteva nel riuscire a scambiarsi due anelli gemelli che comunicavano il significato di coppia e che autenticasse quel loro modo di essere.
Anche Stiles possedeva un anello, un anello che casualmente aveva il significato di single, ma che non era in alcuna maniera collegata a quella sciocca tradizione che non apprezzava. Quello che non sapeva, era che qualcun altro all’interno di quel liceo portava il suo stesso identico anello, nello stesso medesimo dito ed era la persona che meno si sarebbe mai aspettato.
[…]
«È come se non fosse il mio» strascicò il castano con voce profonda e rivelatrice, incredibilmente tradita. Quell’anello era troppo perfetto.
Scott si girò verso di lui dubbioso e la campanella che annunciava la fine di quell’ora riecheggiò in tutto l’edificio. «Forse l’hai scambiato».
Scambiato? Scambiato con chi?
Genere: Generale, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Derek Hale, Stiles Stilinski, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

 

12° Capitolo

 

Con il tempo era diventato meno traumatico sedersi allo stesso tavolo e scambiarsi aneddoti ‒ chi più di altri ‒ e Stiles aveva lasciato correre, lasciandola trasformarsi semplicemente in una nuova abitudine.

Non era niente di incredibile alla fine, cercava di convincersene, e le grandi bocche che non sapevano farsi gli affari propri dopo un po’ avevano smesso di parlare. Forse un giorno avrebbero smesso anche di lui e Derek.

Quando il figlio dello sceriffo si sedette al suo posto ormai assegnato, tra Malia e Derek, vide la ragazza con un enorme broncio ed un’Erica divertita che sembrava più punzecchiarla che venirle incontro, mentre Cora cercava di rimediare alla situazione con scarso successo.

«Che succede?» domandò a bassa voce, ben sapendo che era fatica sprecata con un tavolo abitato per metà da creature leggendarie, a Boyd, che gli sedeva proprio di fronte, intento a mangiare il suo pasto e quasi indifferente alla scenetta che si stava svolgendo a pochi centimetri da lui.

«Malia non si era accorta che oggi c’erano i cupcake alle carote e quando l’ha notato erano già finiti» riferì l’afroamericano con tono pacato, spicciolando un’unica frase che sintetizzasse tutta la situazione, indicando il suo cupcake al caramello e burro d’arachidi.

«Oh» sillabò l’umano con una piccola nota sorpresa e rammaricata, osservando la smorfia della coyote che non accennava a diminuire e che si impuntava a fissare con astio il suo vassoio traditore. Appariva come una bambina a cui avevano sottratto il suo giocattolo preferito, o in questo caso, il suo dolce preferito, con la consapevolezza che sarebbe stato difficile far sparire quella piega curva sulle labbra, sostenuta dai suoi capricci che difficilmente emergevano. Forse Malia era semplicemente quello, qualcuno che non aveva vissuto come avrebbe dovuto la sua vita e che improvvisamente si vedeva trasportata nel mondo degli adulti, saltando tutte le tappe e ritrovandosi a volte ad inciampare, perché non sapeva come comportarsi o rapportarsi, facendo uscire quella parte infantile che la caratterizzava tanto e che probabilmente non sarebbe scomparsa facilmente. Forse era quello il suo unico capriccio.

Stiles osservò il proprio vassoio, con la torta salata di zucca al centro, le patate al forno per contorno e il cupcake alla carota che troneggiava indisturbato; non aveva nemmeno notato quali altri gusti fossero stati presentati quel giorno, si era fiondato immediatamente su quello color arancione di cui facevano pochi esemplari per scarsa richiesta; lui era uno dei pochi che lo prendeva ogni volta, senza mai optare per altro, tranne quando arrivava troppo tardi e Scott o Allison non erano riusciti a prenderlo prima.

Una volta ogni due settimane veniva allestita una speciale vetrina dedicata interamente ai dolci, portata avanti dalla pasticceria più famosa della città che era anche lo sponsor maggiore della squadra di basket: il New Moon ‒ ed aveva un che di ironico, perché proprio all’interno della squadra vi erano due lupi mannari che idolatravano quel satellite che illuminava la Terra nelle notti scure.

Il tema cambiava periodicamente, permettendo di fare un panorama sui vari tipi di dolci, senza scontentare nessuno ed i cupcake ritornavano in esposizione ogni tre mesi. Stiles aveva un dolce preferito per ogni occasione. «Puoi prendere il mio, se vuoi» propose senza soffermarcisi più di tanto, richiamando l’attenzione della ragazza ed indicandogli il dolcetto decantato.

Malia ci impiegò qualche attimo a comprendere a chi il sedicenne si stesse riferendo, voltando la testa verso di lui e seguendo il movimento della mano che puntava verso il cupcake arancione ed ancora intoccato ‒ in realtà l’intero vassoio era immacolato. «Perché?» perché me lo stai offrendo, decifrò Stiles; aveva una discreta conoscenza del linguaggio degli Hale.

Le dita affusolate dell’umano solleticarono l’aria, non sapendo bene come rispondere e preso leggermente in contropiede, si aspettava più una contrattazione che una spiegazione; quant’erano complicati gli Hale. «Perché non sei riuscita a prenderlo» e sei triste e scontenta.

«Rimarrai senza» Malia, impegnandosi a guardare attraverso i suoi occhi, non comprendeva l’utilità di quella proposta, di quell’offerta che non avrebbe visto due vincitori o uno scambio, ma semplicemente la privazione di uno dei due e per la sua mente da predatore incallito era qualcosa che non si sposava bene con la sua natura. A quello si era unito il fatto che Stiles era dopotutto un estraneo e non aveva alcun legame con lei.

«Non è un problema» la rassicurò il figlio dello sceriffo, placando le acque e rivelandogli un sorriso ampio. «Riesco a mangiarlo molto spesso, le occasioni non mancano e lo sceriffo è, mio malgrado, un cliente affezionato della pasticceria che li prepara» per quanto Stiles fosse sempre attento e con gli occhi aperti, vigile ed intransigente sulla dieta del padre, l’uomo riusciva sempre a trovare un modo per fare un salto alla pasticceria, prendendo tutto quello che più lo pizzicava ed invogliava. A volte Stiles riusciva a prevenirlo, altre trovava la scatola in auto, per metà già svuotata, ed altre volte entrava direttamente in casa, come a sfidare la sorte e non potevano mancare le innumerevoli occasioni in cui lo beccava in ufficio. Sull’espressione del padre compariva sempre quella piccola vergogna di un bambino trovato con le mani nel vasetto della marmellata, con il dolcetto già tra i denti e pronto per essere masticato. La maggior parte delle volte Stiles sequestrava tutto quello che aveva comprato dietro le sue spalle e in alcuni casi lasciava correre, quando il suo buon cuore era particolarmente ispirato. All’interno della scatola della pasticceria più famosa della città c’erano sempre uno o due cupcake alla carota, particolare dolciume che non entrava nelle grazie dello sceriffo, ma che non mancava mai; Stiles lo interpretava come un tentativo di armistizio, arruffianandoselo un po’, mischiato ad una piccola attenzione che aveva per il suo unico figlio.

No, i cupcake arancioni alla carota non mancavano mai alla sua tavola.

Malia non sembrava particolarmente convinta e persuasa e quindi si concentrò per diversi momenti, momenti molto lunghi che accrebbero l’imbarazzo in Stiles, a fissarlo scrupolosamente, senza mai sbattere le palpebre e valutando le implicazioni delle sue parole. Poco dopo se lo lasciò semplicemente scivolare addosso, come se non fosse successo niente e del tutto disinteressata alla questione; pareva aver cancellato l’intera conversazione e si prodigò semplicemente ad allungare il braccio ed afferrare il dolce con una mano dal vassoio ancora impeccabile di Stiles, spostandolo nel proprio e ritornando a mangiare con tranquillità. Non una parola né un grazie sussurrato, sul suo viso non vi era alcuna emozione particolare che potesse tradirla, né di gioia né di fastidio, senza accennare un’ultima occhiata verso la persona che aveva rinunciato al suo cupcake preferito per renderglielo. Ma Stiles seppe che era contenta.

«Siete davvero interessanti da guardare» enunciò con sarcasmo perfido il suo vicino, la creatura infame imparentata con la cucciola smarrita.

L’umano rizzò la schiena colto sul fatto e completamente inconsapevole di avere avuto uno spettatore che li avesse ascoltati ed osservati per tutto il tempo, voltandosi immediatamente sulla sua seduta e guardando con le sopracciglia inarcate il suo vicino molesto. «Ti stai divertendo, Sourwolf?».

«Moltissimo» dichiarò con divertimento serpeggiante il mutaforma, freddandolo all’istante sul posto.

Stiles lo guardò male, davvero malissimo e Derek ne rise volutamente, portando l’altro ad ignorare il più possibile la sua presenza.

Ma era difficile per entrambi compiere tale azione.

Stiles tentò di mangiare in santa pace la sua torta salata alla zucca, addentando qualche pezzo di patata tra un morso e l’altro e qualche minuto dopo si accorse di Malia che mangiava piacevolmente colpita ed entusiasta il cupcake alle carote, senza perderne una sola briciola e rincorrendole nel caso ne sfuggisse qualcuna. Era una scena piacevole dopotutto, benché lanciando un’occhiata distratta alla sezione dedicata al dolce nel proprio vassoio la trovò vuota e senza alcuna traccia del suo dolce preferito.

Trattenendo un sospiro sofferto, adocchiò Derek trafficare nella sua postazione, prendendo il coltello di plastica e tagliando in due metà perfette il suo cupcake alla Red Velvet, di un perfetto color rosso ciliegia, porgendogliene una parte. «Non sarà il tuo preferito, ma puoi accontentarti».

Gli occhi del figlio dello sceriffo si fecero enormi e gli fu quasi impossibile distogliere lo sguardo da quel gesto che non comprendeva a pieno e Derek glielo consegnò direttamente sul vassoio, con un tovagliolo che separasse il dolce della superficie di plastica dura. «Non dovevi farlo».

«Ormai l’ho fatto» semplificò il lupo mannaro, rifiutandosi di riprenderlo indietro e scartando la possibilità di farlo. «Sei soddisfatto del tuo gesto?» non servivano chissà quali parole per spiegare a cosa si stesse riferendo e verso quali scelte si fosse mosso.

Stiles guardò la sua metà del cupcake alla Red Velvet che faceva la sua bella figura nella nuova postazione e arrischiò un’occhiata finale al dolcetto alla carota quasi del tutto divorato. «È contenta».

«Allora va bene» annunciò il licantropo con fare conclusivo, calando il sipario su tutto il resto.

Il cupcake alla Red Velvet non era un gusto che lo entusiasmava particolarmente, ma aveva un sapore del tutto diverso una volta che gli era stato donato da Derek Hale.

Non si lamentò nemmeno quando il mannaro gli rubò parte delle patate al forno direttamente dal piatto.

 

«Sei davvero qui» proferì la coyote mannara nel frastuono della palestra creato dal continuo palleggiare dei palloni da basket.

Il figlio dello sceriffo rizzò la schiena e spostò lo sguardo alla sua destra per individuare a chi appartenesse quella voce, guardandola con sorpresa. «Ciao, Malia».

Malia lo guardò di traverso, inclinando la testa per una prospettiva diversa e salì di un nuovo gradino che dava sugli spalti su cui sedeva l’umano, avvicinandosi un po’ di più ed alzando la visuale. «Cosa fai?».

Stiles lanciò un’occhiata obliqua e veloce al volume di biologia che teneva tra le mani e benché la risposta fosse evidente e la ragazza non fosse estranea a captare gli indizi, seppe che era una domanda a più spessori, con diverse direzioni e che doveva suonare più come cosa fai qui tutto il tempo. «Studio per lo più, qualsiasi cosa ed a volte mi limito a guardarli giocare».

«Guardi mio cugino?» domandò la ragazza senza peli sulla lingua e nell’ingenuità tipica che la contraddistingueva.

Stiles sbarrò gli occhi, non sapendo bene come rispondere e come sarebbe stata interpretata, ma l’unica azione che si manifestò fu il suo ridacchiare indistinto. «Sì, immagino di sì; suppongo che guardi anche tuo cugino» forse era meglio omettere che era molto più facile per lui concentrarsi su Derek, d’altronde era la star della squadra e non si era guadagnato quel titolo e tutti gli altri per un passaparola.

Malia si sedette sulla panca occupata dal sedicenne e lo fissava con una tale intensità da cui era difficile scappare, lo scrutava con un’attenzione così accurata e diffidente che gli era vietato nascondersi e lei appariva come la bambina di nove anni a cui era rimasta bloccata, che ancora doveva scoprire il mondo, che aveva bisogno delle sue classificazioni e che si fidava soltanto dei propri sensi. Era come se dovesse imparare tutto dalla vita, a riconoscere chi e cosa la circondasse. «Sai davvero di noi?».

Oh, quello Stiles proprio non se l’aspettava, non per la domanda diretta in sé, ma per il retroscena che doveva esserci dietro e che l’aveva portata ad accertarsene. Sapeva benissimo che Malia non aveva mai avuto a che fare con qualcuno di completamente umano che sapesse della natura sovrannaturale della sua famiglia e la sua curiosità era del tutto legittima. Ma voleva anche dire che non era la sola a sapere di lui e che la voce si era sparsa. «Sì».

«E non hai paura?» domandò la coyote di conseguenza, come ovvia risposta a quella rivelazione confermata.

«No» affermò sicuro il figlio dello sceriffo, senza battere ciglio e del tutto sicuro della sua risposta. Passava fin troppo tempo con un lupo mannaro in carne ed ossa, trascorrendovi diverse lune piene da quando il segreto era stato svelato e le loro vite si erano unite del tutto. L’astio che era esistito tra loro era svanito nel nulla nella famosa notte del concerto e non era più tornato. A volte si chiedeva se non fosse svanito troppo presto, se c’era altro dietro il loro modo di rapportarsi, qualunque fosse.

Lo sguardo di Malia si fece più serio ed i suoi caldi occhi nocciola si tinsero di un azzurro freddo e metallico, quasi identico a quello di Derek, se non fosse che ognuno di loro trasmetteva tutto il rimpianto che avevano in corpo, un rimpianto ed un senso di colpa del tutto differente e che rispecchiava la loro anima. Era forse un peccato capitale che preferisse sempre e comunque quelli di Derek a qualunque altro?

Per quanto Stiles rimase stupito dalla vera natura delle iridi della ragazza, non si scompose minimamente e le sue espressioni rimasero invariate. Attimi dopo l’azzurro fu inglobato dal castano e la magia svanì. «Non mi giudichi» non era una domanda né un accenno di incredulità, era un dato di fatto, un fatto che le era estraneo e che non aveva conosciuto lontana dalla famiglia che l’aveva salvata e guidata. Chi era fuori dal branco non possedeva quella delicatezza.

«Dovrei farlo?» domandò retoricamente l’umano, indurendo i tratti del viso che si fecero seri e morbidi allo stesso tempo. «Non so chi sei, non conosco la tua storia e non ho alcun diritto di giudicarti. Non ne avrei a prescindere».

Malia inclinò di nuovo la testa, tendendo meglio le orecchie ed ascoltando qualcosa che era udibile soltanto a lei e che a Stiles sarebbe sempre stato celato. «È questo quello che hai fatto con Derek?» era una domanda molto dolce e modulata ed era un tono che non si sarebbe mai aspettato prendesse vita da una ragazza così chiusa e guardinga com’era lei, ma Derek sembrava essere un pezzo prezioso del loro branco ed avere un riguardo che tutti gli altri gli cedevano senza farne parola.

Non aveva idea di che cosa avesse fatto con il lupo, come si fosse sbilanciato e come l’avesse portato a fidarsi di lui, l’accusa che non aveva mai provato verso i suoi riguardi ed un giudizio che non gli era mai passato per l’anticamera del cervello. Non se li era nemmeno posti questi quesiti, Derek non gli era così estraneo come potevano esserlo tutti gli altri. Era stato così facile e così naturale che, se c’avesse riflettuto prima, ne sarebbe stato terrorizzato. «Io… l’ho solo capito».

«Sei diverso» e oh, un passo avanti dall’accusa di essere strano. «Forse è per questo che sei così speciale per lui».

Speciale era un aggettivo un po’ particolare per Stiles, gli aveva dato un valore che forse non avrebbe dovuto attribuirgli ed era sempre stato messo in mezzo tra lui e Derek. Ma sentirlo accostato alla propria persona gli scatenava uno spavento incontrollato ed uno scompenso nel suo stato emotivo.

«Perché sei qui, Malia?» era un buon modo per cambiare argomento e non mostrare quella parte di se stesso che veniva continuamente scombussolata, in più era quasi lecito chiederlo, perché non l’aveva mai vista da quelle parti in nessuna occasione in cui era presente e al contrario, la sua figura si mostrava soltanto durante le partite del cugino, estraniandosi anche molto. Di certo non poteva nemmeno ignorare la scatola rettangolare che teneva tra le mani, accuratamente protetta, in cui vi era impresso il nome della pasticceria più famosa della città a caratteri verdi e gialli. «Cercavi Derek?».

«No, cercavo te» dichiarò la sedicenne immediatamente, ignorando tutte le presenze che vi erano nella grande stanza. «Mi hanno riferito che è il posto più facile in cui trovarti» si guardò intorno, trovando tutti gli spalti vuoti e desolati, ad eccezione della postazione occupata da Erica e da loro; doveva ancora apparirgli ostica quella scelta del luogo di riserbo. «L’altra volta non ti ho ringraziato e mi hanno spiegato che avrei dovuto farlo. È ancora qualcosa di nuovo per me, sono abituata a prendere e basta» spostò le iridi sulla scatola elegante e con il simbolo della fase di luna nuova che compariva in varie parti, insieme al nome del negozio, creando un’armonia spensierata. «Pete-… mio padre mi ha accompagnata alla pasticceria e mi ha riportata qui» nascondendo il suo errore iniziale, gli porse la scatola.

Una vera predatrice in vetta alla catena alimentare che inciampava in un ambiente che le era ostica ed in cui cercava di mettere piede, uno dopo l’altro. «Tu sei quella ragazza, quella che hanno trovato un paio di anni fa nel bosco. La figlia ritrovata» pessimo, pessimo argomento di conversazione, ma gli era sfuggito così facilmente dopo quell’uscita che una persona normale ed abituata all’interagire con il mondo esterno non avrebbe mai detto. Malia appariva davvero come una bambina a cui doveva essere insegnata ogni cosa, a partire dalle basi per un corretto confronto con il mondo esterno ed il galateo più semplice per interagire con le persone esterne al suo branco.

Le pupille di Malia si dilatarono e l’espressione per nulla contenta prese vita sul suo viso. «Leggi davvero i rapporti di tuo padre».

In realtà non avrebbe avuto bisogno di leggere i rapporti di suo padre, quella notizia sensazionale e fuori dagli schemi era stata stampata su ogni pagina della regione ed aveva preso la prima pagina del giornale locale. Ma i dettagli sì, erano nel rapporto e lui l’aveva letto semplicemente spinto dalla curiosità irrefrenabile.

Aveva letto ogni singolo foglio, fin dalla scomparsa di una bambina di nove anni coinvolta in un incidente stradale in cui era morta tutta la sua famiglia; madre, padre e sorellina minore, ma di cui non era mai stato ritrovato il cadavere della più grande. Le ipotesi erano tante ed una più mostruosa dell’altra, ma Stiles ricordava bene i morsi di un animale identificato come un coyote che aveva dilaniato i loro corpi e le tracce sul terreno che erano sparite con il sorgere del sole. Soltanto quando Derek Hale era entrato nella sua vita aveva collocato quella terribile notte alla prima luna piena di quel mese.

Malia, nel momento della sua ricomparsa, era stata riconosciuta da Peter Hale come sua figlia, data in adozione in segreto da una donna, la madre biologica, che non voleva saperne niente di lei, nascondendo la sua esistenza al padre che ne avrebbe reclamato i diritti. Dopo quattordici anni di ricerche e tragedie annesse, era riuscito a ritrovarla e portarla a casa, entrando a far parte del grande nucleo familiare targato Hale.

Stiles arrivò alla conclusione che a quei tempi Malia non conosceva la sua natura di coyote mannaro, patrimonio genetico di uno o entrambi i suoi genitori biologici ‒ ma essendo Malia l’unica coyote nel branco Hale, era facile supporre, e si andava per esclusione, che la madre biologica possedesse quella natura ‒, e che quella natura nascosta e celata si fosse risvegliata all’età di nove anni in quella prima notte di plenilunio.

Era convinto che non si fosse resa conto di cosa le stesse accadendo intorno, della trasformazione che era avvenuta in lei e degli omicidi che inconsapevolmente aveva commesso. «Hai vissuto da coyote in tutto quel tempo?».

«Sì» non sembrò stupita che lui sapesse della sua capacità di trasformarsi in un coyote completo e si chiese quanto parlassero di lui in quella famiglia. «Ricordavo a stento di essere stata umana».

Era la cosa più triste e crudele che avesse mai sentito e benché non possedesse alcuna parola che potesse esserle di conforto, prese la scatola di dolci che gli era stata appena regalata e la aprì, rivelando all’interno otto cupcake alle carote tutti uguali e tutti appetitosi. Ne estrasse due con delicatezza e ne porse uno alla ragazza e li fece scontrare come se fosse un brindisi. «È un bene che tu sia qui, umana e mannara».

Stiles morse il suo dolcetto terminando quelle parole e sfoderando un sorriso dolce e complice e Malia, benché apparisse titubante ed un po’ confusa, lo seguì a ruota.

Un’ulteriore mano, apparsa da chissà dove ed in religioso silenzio, si materializzò tra loro, estraendo un terzo cupcake arancione, addentandolo davanti ai loro occhi stupiti. «Non so proprio come facciate a mangiarlo» disse un Derek un po’ stizzito dal sapore, che si era allontanato dal campo di basket e che appariva fin troppo poco sudato, aiutato dalla sua natura sovrannaturale che lo metteva sempre nelle condizioni migliori.

«In realtà siamo degli adorabili coniglietti» rivelò con sarcasmo divertito il figlio dello sceriffo, dando un nuovo morso, più corposo e grande, al suo cupcake alle carote, masticando con gusto evidente e prendendolo giocosamente in giro.

«Io caccio i conigli» annunciò la coyote mannara con reale intenzione, non riuscendo proprio a vedersi come un coniglietto. «È divertente».

Derek la ignorò volutamente e Stiles sgranò gli occhi, immaginandosi uno spietato coyote che rincorreva dei teneri coniglietti bianchi per divertimento nel bosco ed uccidendoli. 

L’umano preferì dare il penultimo morso al suo dolcetto e cancellare l’immagine che si era figurato. «Era il preferito di mia madre» confessò senza rendersene conto, con l’amaro in bocca che si prodigava dopo averlo rivelato, ricadendo nei ricordi.

Il lupo mannaro rimase in silenzio e Malia ritornò cosciente della completa presenza del sedicenne tra loro e della storia che c’era in lui. «La tua mamma è morta?».

«Sì» affermò il figlio dello sceriffo con tono asciutto, fissando con sguardo vuoto l’ultimo boccone del cupcake arancione che era rimasto.

«Anche la mia» rivelò la mannara con voce monocorde, rendendo tutto più reale.

Stiles si risvegliò, consapevole della grossa perdita subita da parte della ragazza e di cui era stata involontariamente la colpevole, macchiando per sempre la sua anima e con la colpa sempre presente nelle sue iridi da beta.

Era uno strano trio maledetto quello e le loro rispettive famiglie non brillavano di fortuna.

Stiles e Malia passarono quel pomeriggio nella palestra di basket a svuotare la scatola di cupcake che era stata comprata per lui, instaurando un particolare legame e Derek per dispetto rubò un secondo dolcetto, ghignando vittorioso verso le loro espressioni contratte che lo rimproveravano per delle papille gustative scadenti e per la cattiveria dimostrata che li privava di un dolcetto in più che potevano condividere insieme e che lui non apprezzava.

 

Stiles percorse tutto il corridoio creato dai tavoli della mensa fino ad arrivare all’ultimo della grande stanza, lontano dalla luce e vicino alle porte che davano all’aperto, da cui entravano spifferi e che tutti ignoravano, preferendo scegliere altri posti dove sedersi e mangiare, più caldi e riparati.

Era da solo e guardava soltanto dritto davanti a sé, senza percepire nulla del brusio che non smetteva mai di accompagnare la sala durante il pranzo.

«Cos’ha Stiles?» domandò Malia confusa, guidata dallo strano odore che accompagnava l’umano e dal fatto che li avesse ignorati senza nemmeno farci caso, superando il loro tavolo ormai designato ed un po’ troppo affollato, senza degnarlo di alcuna occhiata e con la testa altrove. Non aveva nemmeno balbettato una mezza parola di saluto o ritrovo, inquadrando lo strano gruppo che si era coeso e dando inizio realmente al loro pranzo in compagnia; era una cosa che non si sposava per niente con l’animo animato di Stiles.

Allison sembrò l’unica ad aver sentito la domanda e distolse lo sguardo dal suo piatto, oltrepassando Scott, per intercettare la figura di Stiles che si allontanava e si accomodava nel posto più isolato della intera mensa, dove si andava a rintanare in particolari giorni dell’anno o quando aveva uno stato d’animo non esattamente luminoso. «Non è un buon giorno per lui» spiegò senza scendere nel dettaglio, sintetizzando tutto con quell’unica frase.

«Oh» soffiò la coyote mannara, ricordando quell’essenziale tassello che faceva parte della vita del figlio dello sceriffo.

«Non dovrebbe andare qualcuno da lui?» chiese Erica con preoccupazione, abbandonando l’aria maliziosa e giocosa che la caratterizzava sempre, puntando il suo sguardo sulla figura isolata che mangiava distrattamente in completa solitudine. Non era uno spettacolo a cui le piaceva assistere.

«Non è particolarmente loquace in questi momenti» riferì Lydia, smontando ogni futura proposta o soluzione, armeggiando con distacco con l’insalata che aveva smesso di mangiare.

Derek per qualsiasi altro sarebbe stato sordo e cieco, del tutto disinteressato a quello che lo circondava e che non lo riguardava, eppure fu ben visibile quella gamba che si muoveva e si irrigidiva per darsi forza ed aiutarsi con la spinta per alzarsi dalla panca e raggiungere il sedicenne logorroico.

«No» lo ammonì Scott nell’immediato, alzandosi completamente ed afferrando il proprio vassoio con le mani, pronto per trascinarselo via. «È ancora un mio compito questo» disse con durezza, la frecciatina precisa che arrivò dritto alle fattezze del lupo mannaro, la consapevolezza del ruolo di migliore amico che andava sempre più ad accorciarsi.

Ma tutti loro sapevano che non era il ruolo di amico che Derek stava andando ad occupare.

Scott scavalcò la panca e sollevò il vassoio senza aspettare mezza parola e si avviò verso il tavolo occupato dal figlio dello sceriffo, sedendoglisi proprio di fronte e prendendo a mangiare insieme a lui.

Stiles lo occhieggiò per qualche attimo, pizzicando il piatto con la forchetta di plastica e ricalando la testa, senza scacciarlo in alcun modo.

Su entrambi i tavoli perdurò il silenzio.

 

Stiles era buttato a peso morto sul letto, nella penombra della sua camera, con la testa leggermente reclinata sul cuscino e lo sguardo vuoto che aleggiava in un punto fisso senza guardarlo davvero.

Era in quella posizione da quando si era separato dal padre, poco dopo l’ora di cena, infilandosi svogliatamente il pigiama e collassando sul materasso; non aveva toccato una sola materia scolastica e non si era fatto vedere agli allenamenti di basket. Aveva mangiato pigramente con suo padre e borbottato poche parole dei tempi che furono.

Ogni anno era diverso ed ogni anno lo vivevano in modo differente, a volte non faceva così male da sentirsi strappare il cuore dal petto, pulsante e gocciolante di sangue vermiglio. A volte era fattibile, nostalgico e ricordavano con il sorriso sulle labbra. Se c’era una causa scatenante per i diversi modi di rapportarsi, Stiles non l’aveva ancora individuata.

Derek entrò silenziosamente in quella camera priva di suoni ed in cui non era presente alcuna fonte di luce se non una piccola lampadina di atmosfera, bianca e leggera che lasciava individuare cosa ci fosse all’interno delle quattro mura; sembrava quasi che non vi fosse nessuno, per l’immobilità del suo abitante e non era un aspetto molto confortante di benvenuto, ma la finestra era stata lasciata aperta ed aveva ancora un suo significato quel piccolo spiffero dalle dimensioni delle dita del lupo.

L’umano non mosse neppure la testa quando lo sentì entrare, scendendo dal davanzale con maestria e grazia, senza provocare un solo tonfo sordo, ed individuò la sua figura soltanto quando nella penombra si materializzarono gli occhi ambrati e vacui, spostandosi senza forze verso la propria metà del letto e lasciando l’altra al suo non tanto nuovo proprietario acquisito.

Derek tentennò per un solo momento, accertandosi che fosse davvero quello che Stiles voleva, ma egli era già da un’altra parte, con il cuscino stretto al petto ed il viso parzialmente nascosto da esso e non invadeva nemmeno per sbaglio il lato che era stato destinato al licantropo. Derek era già con lui senza lasciargli il tempo di sbattere le palpebre.

«Lo sai» quelle erano le prime parole che sentiva pronunciare al sedicenne da ore, forse da tutto il giorno; lì dentro vi erano contenuti tutti i grandi discorsi e le domande con cui in un momento diverso, in un giorno diverso, lo avrebbe ricoperto.

«Sì» affermò il lupo mannaro, senza negare l’evidenza.

«Quante cose sai di me, Der?» non era un’accusa per segreti che a quanto pareva non esistevano, ma una domanda così legittima e candida che andava posta da tempo, fin dagli albori del loro strampalato rapporto, da quando Derek l’aveva chiamato per la prima volta con il suo nome, senza che si fossero mai presentati. E poi era stata una corsa in discesa, senza freni e precipitando senza che si potesse rallentare in qualche modo. Quello era solo il momento sbagliato in cui quella domanda fu formulata, ma era anche l’unica occasione in cui non sarebbe riuscito a tenerla per sé.

«Abbastanza» non era una bugia, non era un’omissione, era qualcosa che stava a metà, qualcosa che per una volta dava una mezza risposta alle miliardi di domande che infestavano la mente dell’umano, qualcosa che, se affrontato in un contesto differente, in un momento del tutto diverso, avrebbe scatenato un putiferio. Ma Stiles era senza forze e completamente passivo per sottostare agli eventi del mondo ed a realtà solo immaginate che aveva scartato. Non voleva nemmeno pensare alle probabili implicazioni che quella risposta vaga e netta possedeva.

Il figlio dello sceriffo sospirò lentamente, stringendo un po’ di più il cuscino a sé ed immergendovi del tutto il viso, sparendo alla vista del diciottenne. «Avevo otto anni ed era appena arrivata questa bambina bellissima dai capelli rossi, fiera ed autoritaria, quella che avrei desiderato per altrettanti otto anni e proprio in quel periodo fu dato il nome al malessere che affliggeva mia madre da qualche tempo» la voce era incolore, eppure era piena di sofferenza e rammarico, nascondendosi come meglio poteva dietro quel piccolo oggetto rettangolare su cui riposava ogni notte e da cui era impossibile separarlo. «Demenza Frontotemporale. Non è nemmeno un nome così ostico ed incomprensibile come lo sono tutte le altre» sbuffò con un mezzo sorriso di divertimento spento ed amaro. Forse non era così ostico perché era sempre stato il più sveglio tra i suoi conoscenti, fin dalla tenera età. «Iperattività, insonnia, deliri, allucinazioni, sono solo alcuni dei sintomi che si possono manifestare e lei ne aveva un bel po’; era difficile non vederli ed ignorarli, erano a portata di mano e non passò molto prima che papà la spingesse ad accertamenti e controlli, medici qualificati ed esperti. L’accompagnava ogni volta ed ogni volta risultava difficile e lei peggiorava ed era sempre più complicato riportarla da noi» si dondolò un po’ sul posto, trafficando con la federa del cuscino e sistemando orli che non dovevano essere sistemati. «Hanno provato a non farmi notare niente, a tenermi lontano dall’orribile verità ed a non farmi mai sentire il nome del malessere che la tormentava, ma era quasi impossibile nascondermi qualcosa, che dei sussurri sfuggissero alle mie orecchie. Ero quel bambino che durante una telefonata tra adulti prendeva la cornetta da un’altra stanza ed ascoltava le loro conversazioni e questo dovrebbe dirla molto su di me, perché illegalmente mi sintonizzo sulla radio della polizia, soprattutto nei momenti di noia» stava sdrammatizzando, ma era un comportamento che si era sempre portato dietro e che avrebbe continuato ad accompagnarlo per il resto della vita. «Dopo un paio di mesi non era nemmeno più pensabile provare a nasconderlo, le cose erano peggiorate e mia madre era sempre meno cosciente di chi fosse e di dove fosse. Urlava, piangeva e si dimenava; papà non poteva più lasciarmi con lei da solo ed io non potevo fare niente per aiutarla o darle un po’ di sollievo, il mio essere bambino non le serviva a niente».

Derek fu costretto ad afferrare il cuscino che veniva usato come barriera, abbassandolo delicatamente e riscoprendo i suoi occhi di miele sofferenti ed in balia dei ricordi dolorosi. Era una barriera, che per quanto pensasse di aiutarlo, era solo d’intralcio e non aveva alcun senso quel monologo triste e distruttivo se non lo guardava neanche.

Stiles sbatté più volte le palpebre disorientato e completamente smarrito, sprovvisto dell’unico oggetto di conforto che si era permesso di tenere e di usare, il muro che Derek stava abbattendo perché lui non ne era capace, rintanato nel nero abisso che lo reclamava.

«Puoi smettere quando vuoi» gli riferì il lupo mannaro, che era molto diverso dal non devi raccontarmelo, non devi farlo se non vuoi. Non erano nemmeno passati da quella casella che solitamente presenziava in confidenze personali e dolorose come quelle, l’avevano semplicemente ignorata ogni volta, perché loro dovevano mettere al corrente l’altro di ciò che era capitato nel passato prima che entrassero a far parte delle attuali e rispettive vite. Non era esattamente un dovere, ma era quello che si sentivano di fare e di cui avevano bisogno, era il loro modo di dividersi il peso senza ipocrisie, caratteristica che non li rappresentava.

Stiles non sapeva più come sistemarsi, come sfuggire alla tenue luce che illuminava la sua stanza e agli occhi verdi di Derek che non l’avevano mollato un attimo; anche attraverso il cuscino poteva sentirli su di sé. «Non ti stancherai di ascoltarmi?» non era un’allusione circoscritta a quel momento, era una domanda che puntava a spazi più grandi, ad un futuro più prossimo e al di là del tempo. Aveva avuto diversi ascoltatori nella sua vita, ognuno con un modo tutto loro di prestargli attenzione, ma era molto difficile che perdurasse per tutta una conversazione, senza piccole distrazioni dovute, ma Derek era un caso del tutto diverso; per quanto fosse stoico e poco propenso al dialogo ed alla confusione intorno a lui, era il miglior ascoltatore che Stiles avesse mai avuto e che non si lasciava distrarre da niente se non da Stiles stesso. Era qualcosa a cui non avrebbe rinunciato per nessuna ragione al mondo.

«No» rispose nettamente il lupo mannaro, era del tutto fuori questione quell’ipotesi. «Qualcuno deve farlo. Qualcuno deve prendersi cura di te».

Lo sgomento prese possesso di tutto il corpo dell’umano e le iridi ambrate minacciarono irremovibilmente di traboccare d’acqua, manifestando quanto quelle parole lo stendessero completamente. «Mi ha rifiutato» disse d’impeto, in risposta a quella forma di affetto, molto più vicino all’amore, con cui Derek l’aveva rimboccato, facendolo precipitare ancora di più.

Gli occhi di Derek lo guardarono interrogativi ed interdetti, non comprendendo proprio a cosa si stesse riferendo, in quali acque stessero navigando e se avessero cambiato, senza rendersene conto, argomento.

«Mia madre, mi ha rifiutato» chiarì il figlio dello sceriffo, con il cuore spezzato e tenuto insieme da ciò che il mutaforma gli trasmetteva. «Quando la malattia è cresciuta e si è prodigata, non mi riconosceva più come suo figlio, mi identificava come un essere malvagio che voleva ucciderla lentamente. Non ero più suo figlio, la sua progenie, ero un’entità malvagia che doveva estirpare» Stiles tremò vistosamente e le iridi si riempirono di lacrime non versate e Derek gli si avvicinò un po’ di più, sfiorandogli con il ginocchio una coscia, senza sbilanciarsi troppo, non sapendo come comportarsi. «Era il principale motivo per cui non potevo più rimanere da solo con lei e con la malattia che avanzava, fummo costretti a passare del tempo considerevole in ospedale, finché smettemmo di portarla a casa e lei tentò spesso di togliersi la vita, perché-» un singhiozzo spezzato e distinto gli sfuggì dalla bocca, graffiandogli la trachea ed una lacrima solitaria gli rigò il viso, cancellata immediatamente dagli arti torturati del sedicenne. «Perché preferiva scappare in quel modo dall’essere malvagio che la stava uccidendo. Preferiva scappare da me che passare un altro minuto della sua vita su questa terra. Preferiva scappare che affrontare il demone che vedeva dentro di me».

«Non era lei, questo lo sai» disse il licantropo con serietà e severità, non permettendogli in alcun modo di crollare, immergendo le dita della mano sinistra tra i suoi capelli castani e costringendolo a guardarlo dritto negli occhi, impedendogli qualsiasi via di fuga.

«Sì, lo so, erano le allucinazioni, ma…» era il primo a non avere lucidità in quei momenti, a non riuscire a liberarsi dalla gabbia in cui si era rinchiuso. «Ero così insistente, le occupavo tutto il tempo, io ero la sua unica occupazione e se la mia iperattività, il continuo starmi dietro e la mia logorrea infinita l’avessero fatta regredire più velocemente? La malattia che le consumava il cervello, che avanzava senza freni perché ero impossibile? Se fossi stato più composto e calmo e meno rumoroso ed impegnativo, magari non sarei diventato il grande mostro che lei vedeva, la causa del suo peggioramento così repentino» era una pazzia, una follia, non era nemmeno pensabile una cosa simile, ma era quello che l’aveva torturato per tutta la vita, i sensi di colpa che l’avevano accompagnato fino a quel giorno, logorandolo lentamente ed ammaccandolo ad ogni nuovo inciampare.

«Non lo pensi davvero» proferì Derek con sgomento ed irritazione, il malcontento a cui si stava abbandonando Stiles senza combattere, la tristezza che gli riempiva il petto, offuscandogli il giudizio. «Dovresti essere il primo a non credere a queste cose» tutto il percorso che avevano fatto non poteva essere vano e non poteva essere cancellato.

«Avevo otto anni, Derek. Mia madre stava regredendo e mi accusava della sua malattia. Mio padre era l’unico che riusciva a riportarla indietro, a farla ragionare, e nel frattempo doveva anche occuparsi del suo stupido figlio iperattivo che stava vedendo la sua famiglia andare in pezzi ed una madre rifiutarlo, disprezzarlo. Nessuna ricerca che avevo fatto mi preparava al disastro e all’orrore che avrei visto» sbottò in difesa, attaccato da quella severità dell’unica persona amica che voleva soltanto riportarlo da lui. Non era davvero arrabbiato o fuori di sé, ma era una situazione così fragile ed irrespirabile che Derek stava cercando di affrontarla come meglio poteva, con il tatto di cui era sprovvisto.

«Non è stata colpa tua» soffiò candido e nitido il mutaforma, intrecciando maggiormente le dita tra le ciocche dei suoi capelli e sfiorandogli la fronte con la propria. «Non è stata colpa tua».

Stiles si abbandonò a lacrime silenziose, impossibili da fermare ed arrestare, la voce e la presenza di Derek erano qualcosa di inestimabile per il suo cuore spezzato. «L’ho vista morire. Giorno dopo giorno l’ho vista morire, ma quando ha emesso il suo ultimo respiro, l’unico presente ero io; papà, come era giusto che fosse, stava svolgendo il suo incarico da vice sceriffo e certamente non si aspettava che la fine fosse così vicina, soprattutto quando lui non era lì» per quanto cercasse di non farsi travolgere da quel passato che stava riportando a galla, lo sconforto e le immagini nitide che lo inseguivano erano difficili da gestire. «C’ero soltanto io con lei, a tenerle la mano, in una stanza bianca ed incolore, spoglia e senza anima. Era uno dei pochi momenti di lucidità in cui ero soltanto Stiles, il suo bambino che frequentava la terza elementare, e in cui mi permetteva di prendermi cura di lei come potevo, lasciando che la toccassi ogni volta che ne avevo bisogno. È stato anche l’ultimo».

Derek gli depositò un bacio caldo sulla fronte aperta, dolce e confortevole, una carezza voluttuosa che estirpava il malcontento che viveva nell’animo dell’umano. «È ancora con te. Nei modi in cui la ricordi» il libro sulla licantropia rimesso in sesto ed il continuo mangiare cupcake alla carota erano solo gli esempi più visibili e rumorosi.

Stiles accettò di buon grado quel bacio che gli veniva donato, il secondo che riceveva da lui ‒ con motivazioni del tutto opposte ‒ ed il primo che avveniva completamente a contatto con la propria pelle. Era un’attenzione piacevole e liberatoria e non dovette pensarci molto prima di far congiungere completamente le loro fronti in risposta. «E se capitasse a me?» Derek riattivò i sensi, riaccendendo l’attenzione ed il suo sguardo interrogativo parlò per lui. «La Demenza Frontotemporale, sono predisposto. È molto facile che si manifesti in altri membri della famiglia e la mia famiglia termina con me, non c’è nessun altro».

«È questo che ti spaventa così tanto?» realizzò il lupo mannaro per la prima volta, dilatando le pupille e guardandolo con occhi nuovi.

«Non ho nessuna abilità e non eccello in nulla, tutto quello che sono, tutto quello che di più prezioso c’è in me, è il mio cervello, la mia capacità deduttiva ed intellettuale, i miei ragionamenti veloci e la capacità di cogliere i dettagli» elencò meticolosamente, mettendo bene in mostra la pasta di cui era fatto, le doti che possedeva, l’affanno che gli viveva dentro. «Se… se perdessi il mio cervello non sarei più io, non rimarrebbe niente di me e se mi riducessi nelle condizioni in cui era mia madre, chi… chi riuscirebbe a riportarmi indietro?» era quello che lo consumava dentro, che lo tormentava e che gli lacerava il fegato. «Mio padre era il grande amore di mia madre e lei era il suo, io non ho nessuno».

«Esistono diversi tipi di amore» gli ricordò il diciottenne con premura e con la missione di aprirgli gli occhi.

Stiles curvò le labbra in un sorriso spento e sinistro, così raccapricciante e sofferto da far male al suo interlocutore. «Quello materno non è servito».

«La troverai» dichiarò risoluto il mannaro, convinto fino al midollo e conoscitore di qualcosa a cui Stiles era estraneo. «Troverai una persona che saprà amarti e che saprà riportarti indietro».

Stiles lo guardò a lungo con i suoi grandi occhi d’ambra, specchiandosi completamente in quelli di giada e vedendovi l’assolutezza di quella verità che sapeva gli sarebbe appartenuta.

Il figlio dello sceriffo scivolò un po’ di più sotto le coperte, abbandonando la testa contro il petto muscoloso del lupo ed annuendo impercettibilmente contro di lui; per quella sera sembrava aver finito le parole e le forze per affrontare un qualsiasi argomento e Derek lo strinse di riflesso a sé, acconsentendo al suo tacito silenzio.

Vorrei che qualcuno mi amasse come tu ami la tua persona speciale, ma non seppe mai se lo disse ad alta voce o se rimase un pensiero incastrato nella mente, collassata in un sonno profondo tra le braccia di Derek Hale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

O grande e dolce Malia, siamo lieti di averla tra noi e di averla osservata mentre istaura un rapporto da colpo di fulmine con il nostro Stiles. I cupcake sono potenti, diffidate, diffidate o nasceranno amicizie lodevoli.

Stiles è un grande altruista e si preoccupa per tutti, perfino per qualcuno che non ha mai provato a rivolgergli la parola e che capisce perfino; si sacrifica così tanto, rinunciato a ciò che gli piace. Forse ha solo una prerogativa per i cuccioli mannari, altrimenti non si spiega.

E in più ha un lupo acido che condivide con lui il suo cupcake per non lasciarlo a bocca asciutta. Tutto nella norma, insomma.

Ma ciò che Stiles fa non si perde e non viene dimenticato ed al contrario viene ricambiato ed apprezzato e poi nascono e si fortificano nuovi legami e sopraggiunge Derek nemmeno dovesse marcare il territorio.

O forse sì.

Il tema della scomparsa della madre di Stiles prima o poi doveva toccarci e si conosce una parte di lui più oscura e abbattuta, in cui tutto il suo carisma e la sua forza si disperde e non vuole nessuno vicino a sé. Scott è un punto fisso della sua vita che conosce tutto di lui, ma Derek… Derek è qualcuno che non potrebbe mai cacciare dalla sua vita e averlo con lui perfino in un giorno tanto orrido come quello è importante e curativo ed a Stiles basterebbe, se Derek non si prolungasse su di lui, arrivando molto più in là di dove riescono a spingersi tutti gli altri. Se poi a tutto quello si aggiungono i vari terrori di Stiles e Derek si muova per tranquillizzarlo, è tutto un altro paio di maniche dove sopraggiungono nuove verità inespresse in Stiles.

Quante cose devono ancora venire fuori.

Vi auguro un buon anno ed a settimana prossima,

Antys

   
 
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Teen Wolf / Vai alla pagina dell'autore: Antys