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Autore: Adeia Di Elferas    31/12/2016    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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L'8 gennaio 1495, davanti a tutta la Signoria riunita e su incoraggiamento del Gonfaloniere di Giustizia, Filippo Corbizzi, Domenico da Ponzo e Tommaso da Rieti vennero chiamati a esporre le loro accuse nei confronti di Girolamo Savonarola.

Se il secondo in un primo momento fu più morbido nel suo inveire contro l'ormai pressoché onnipotente domenicano, forse per via della sua carica di priore della chiesa di Santa Maria Novella, il primo fu decisamente più duro e lucido nell'elencare i peccati di Savonarola.

Domenico da Ponzo era stato di fatto un savonaroliano più che convinto e dunque quella sua improvvisa contrarietà al domenicano era stata vista da tutti come un qualcosa di estremo valore.

“Egli si è impossessato senza farsi scrupoli dei beni della Chiesa che lui stesso dice di difendere!” tuonò Domenico, stringendo al petto un crocifisso, mentre i membri della Signoria ascoltavano in silenzio: “Si è arricchito alle spalle dei poveri e dei bisognosi, usando il denaro delle elemosine per i propri vizi e i propri piaceri! Non lasciatevi ingannare dal saio logoro che porta indosso! Beve da calici d'oro massiccio e dorme su un letto fatto di piume pregiate, né più e né meno di come fanno quello che lui tanto critica e giudica!”

I fratelli Lorenzo e Giovanni Medici erano tutt'orecchi. Il maggiore sperava di trovare in fretta un appiglio per liberarsi dell'ingombrante predicatore, che, di fatto, cominciava a esprimere qualche riserva anche sul ramo Popolano della famiglia. Giovanni, invece, trovava molto pericolose quelle illazioni e sperava di poter fare in modo di non doversi schierare.

“Egli è un ladro, un malversatore e un peccatore, ma non chiede il perdono a Dio! Lui impone a noi la penitenza, quando invece dimostra con la sua condotta di non essere un vero servo di Nostro Signore!” le parole di Domenico da Ponzo risuonarono ancora per qualche istante e diedero la forza anche a Tommaso da Rieti di calcare la mano.

Il priore di Santa Maria Novella si rimise in piedi e, alzando una mano con fare minatorio, mosse una nuova accusa a Savonarola: “Egli si occupa più di affari di Stato che non di affari dell'anima! Così facendo egli va contro il nemo militans Deo implicat se nogotis saecolaribus di San Paolo! Questa mancanza sopra tutte le altre dovrebbe bastare per allontanarlo dalla questa città!”

Lorenzo Medici si mosse un po' sulla panca, le mani appoggiate alle ginocchia e gli occhi tondi fissi su Tommaso. Suo fratello emise un lungo sospiro, guardando gli altri membri della Signoria.

La perplessità che serpeggiò tra i fiorentini presenti a quello spettacolo fece sperare il Popolano più giovane, che capiva meglio del maggiore quanto fosse per loro indispensabile in quel momento mantenere la stabilità, anche a scapito della libertà di Firenze.

 

“Devo forse ricordarvi che sono stati i faentini a uccidere senza un valido motivo Gian Pietro Carminati di Brambilla, meglio noto come Bergamino, nonché Governatore di questa città?” fece Caterina, indugiando volutamente nella retorica.

Battista Sfrondati, per nulla smontato da quel modo di parlare pomposo e centrifugo, fece un sorrisetto furbo e le fece notare: “Si è trattato di un incidente. Un povero diavolo che probabilmente aveva bevuto troppo. Cose di anni fa, comunque. Non potete pensare che il Duca di Milano creda a una simile scusa. Inoltre – gli occhi dell'ambasciatore si illuminarono in modo sinistro – sappiamo per certo che voi vi siete dichiarata favorevole al matrimonio di vostra figlia con il giovane Manfredi, quindi non capisco questa improvvisa resistenza.”

La Contessa si versò ancora un po' di vino, mentre Sfrondati aveva davanti a sé il primo calice ancora intatto.

La sera era molto fredda e Caterina non vedeva l'ora di andare al Paradiso da Giacomo, dimenticandosi per qualche ora degli affari di Stato. Tuttavia non poteva più rimandare quel colloquio, chiesto per giorni con febbrile insistenza da Sfrondati. L'ingerenza di suo zio la infastidiva e le risultava anche molto sospetta.

Proprio come aveva detto Sfrondati, ultimamente si era detta favorevole al matrimonio tra Bianca e Astorre, anche se stava prendendo tempo, dunque che motivo doveva avere il Duca di Milano per ficcare il naso in una simile questione?

L'attenzione improvvisa e non richiesta di Ludovico per quello sposalizio aveva fatto drizzare le orecchie di Caterina, che cominciava a sospettare che quell'unione si sarebbe in qualche modo ritorta contro il suo Stato.

Ovviamente, però, non poteva dire tutte quelle cose a Sfrondati e così aveva provato a spiegare la sua ritrosia con la vecchia questione dell'assassinio del Bergamino. In parte era anche vero che i faentini avevano perso la sua fiducia, dopo quel fatto orribile, ma non tanto da precludere l'ipotesi di unire Faenza al suo Stato.

“Avete ragione – disse, dopo averci pensato un po' – può sembrare una motivazione molto frivola, per un uomo come voi, ma io sono una donna e in più sono una Sforza, e sapete come siamo fatti noi Sforza: tendiamo a non dimenticare mai i torti subiti.”

Sfrondati chinò appena il capo, trovando irritante in modo inaudito il tono quasi allegro che la Contessa Riario stava usando nel parlare con lui. Malgrado ciò, ingoiò il suo disappunto e decise di passare all'attacco vero e proprio. Se la Tigre voleva fingere di non capire, allora era il caso di parlar chiaro.

“Se non vi affretterete a chiudere questo contratto di matrimonio – spiegò l'ambasciatore, sul cui volto le rughe parevano amplificarsi a ogni parola – il Duca vostro zio vuole che sappiate che ridiscuterà il vostro ruolo nella Lega e questo potrebbe portare a spiacevolissime conseguenze, tanto per voi, quanto per vostro figlio Ottaviano.”

Caterina appoggiò con lentezza il calice al tavolo di legno scuro e guardò Sfrondati con serietà. Ogni traccia di affettazione era scomparsa e la Contessa aveva compreso come l'ambasciatore milanese avesse deciso di chiudere in fretta la questione mettendola davanti a un aut aut.

“Non vedo come possa ridiscutere la mia posizione – tastò il terreno Caterina – dato che è re Carlo a poter decidere e non certo mio zio.”

“A re Carlo basterebbero ombre di fantasmi, dubbi anche molto vaghi sulla vostra fedeltà per non fidarsi più di voi.” scosse il capo Sfrondati: “Già non vi voleva come alleata quando aveva bisogno di voi, figuriamoci ora, se in più sapesse che non siete di specchiata lealtà. Se il Duca dovesse anche solo sussurrargli all'orecchio mezza frase contro di voi, state certa che tornando in Francia re Carlo spazzerebbe via voi, i vostri figli e il vostro Stato.”

“Va bene, va bene, ho capito!” pur non volendolo, Caterina aveva sentito nascere in lei la rabbia feroce che tante volte l'aveva accompagnata nel corso della sua vita e non riuscì a tenerla a freno.

Si alzò di scatto, trascinando la sedia e afferrando la coppa di vino. La vuotò con un sorso solo e poi lanciò un'occhiata di fuoco all'ambasciatore che, invece, se ne stava tutto gongolante e tranquillo al suo posto, certo di aver fatto centro.

“Fate sapere a mio zio che le nozze si celebreranno entro la primavera.” disse la Contessa, a denti stretti.

“Ci sarebbe un'altra cosa...” la bloccò Sfrondati, mentre la donna stava per lasciare la stanza.

“Cosa?” domandò lei, fissandolo in cagnesco.

“Vostro zio mi ha chiesto di ricordarvi anche il debito economico che avete nei suoi confronti. Per quanto parenti, la cifra sborsata per salvare il vostro Stato dagli Orsi va restituita. Pesa ancora molto sui bilanci della corte milanese.” disse l'ambasciatore, pacato.

“Mio zio da me non avrà nemmeno mezza moneta.” ribatté Caterina, andando con decisione alla porta: “Che pensi al suo aiuto nei miei confronti come a un risarcimento per il Ducato che ha strappato a mio fratello Gian Galeazzo prima di ucciderlo.”

Quell'accusa non smosse di un centimetro il milanese e la Contessa si pentì all'istante di aver parlato tanto apertamente. Però non poteva rimangiarsi nulla, così non le restò che sperare in due possibili scenari. Ovvero, o che l'ambasciatore tacesse quella sua esternazione, spiegando il mancato saldo del prestito con qualche scusa a caso, o che a sentire quell'accusa Ludovico in qualche modo si spaventasse, comprendendo che sua nipote non si faceva problemi ad affrontarlo a viso aperto.

Sfrondati attese che la Contessa fosse uscita dalla stanza, prima di sorbire qualche sorso di vino.

Gli parve ottimo.

 

Con un colpetto di tosse per schiarirsi la voce, Giacomo indagò: “E quindi manderai tua figlia a Faenza per il matrimonio?”

Caterina, che gli aveva riferito con parole secche e astiose il dialogo appena avuto con Sfrondati, si stava togliendo la reticella dai biondi capelli con qualche difficoltà. Aveva congedato la sua cameriera personale perché non aveva alcuna voglia di doversi trattenere davanti a lei. Con suo marito, almeno per quanto riguardava quell'argomento, poteva parlare liberamente, mentre la sua serva sarebbe stata di troppo.

Anche se la moglie di Bernardino si reputava un'amica della Contessa, Caterina aveva sempre fatto del suo meglio per tenere con lei certe distanze, conscia del pericolo che a volte può scaturire dall'eccessiva familiarità con i domestici.

Il Barone era molto più preoccupato delle minacce mosse dal Moro, che non dall'idea di mandare la giovane Bianca a sposarsi. Il Duca di Milano li stava mettendo alle strette e sapere che ne aveva il potere agitava Giacomo più di ogni altra cosa.

“No che non ce la mando, a Faenza.” disse Caterina, gettando la reticella sulla scrivania e sciogliendosi i capelli.

“E allora che intendi fare? Hai sentito cosa ha detto tuo zio...” tentò il Barone, che se ne stava in piedi davanti al camino a guardare la moglie che di quando in quando si versava un po' del vino che si era fatta portare appena arrivata al Paradiso.

“Ci manderò Ottaviano – spiegò Caterina, asciugandosi le labbra con il dorso della mano – saranno nozze per procura. Mia figlia non metterà piede a Faenza per anni, così al momento giusto potremo disfare tutto e nessuno potrà impedirci di farlo.”

Giacomo si accigliò. Anche se conosceva le perplessità della moglie circa l'unione tra Bianca e Astorre Manfredi, quell'ostinazione gli sembrava un po' fuori luogo. Così le si avvicinò un po', lasciando a malincuore il calore del caminetto e la guardò mentre beveva ancora un po' di vino.

“Perché parti subito dall'idea che il matrimonio sarà di disfare?” le chiese, nella speranza di ammorbidirla un po'.

“Perché i matrimoni combinati sono per la maggior parte una catastrofe.” rispose piccata la Contessa, come se stesse dicendo un'ovvietà: “E non voglio incastrare mia figlia in un matrimonio del genere.”

“E cosa vorresti per lei?” Giacomo aveva cambiato tono, facendosi più fermo: “Che si innamorasse di qualcuno e che sposasse lui? Che si trovasse uno come me, uno che le piace, ma che non potrebbe mostrare al resto del mondo perché se ne vergognerebbe?”

Caterina decise di soprassedere su quell'insinuazione che cadeva al momento sbagliato e che rischiava di riaccendere tra loro una vecchia discussione e proseguì per la sua strada, mentre il vino cominciava ad annebbiarla un po': “Voglio solo che sia felice e dubito fortemente che la sorte sia così gentile da farle trovare proprio in Astorre Manfredi l'uomo giusto per lei.”

Il Barone, a quelle parole, parve desistere. Allargò le braccia e mosse un paio di passi per la stanza, pensieroso. Caterina approfittò di quella pausa per versarsi un altro calice pieno fino all'orlo. Il vino la stava un po' calmando e comunque il piacevole obnubilamento che le stava offrendo era meglio dei pensieri che le opprimevano la mente.

“E per Ottaviano? Perché non gli trovi una moglie?” fece a un certo punto Giacomo.

“Lui è il Conte ed erediterà queste terre. Una moglie per lui va scelta bene, con cura – disse la Contessa, la voce un po' più bassa – con questa guerra in corso adesso ogni scelta sarebbe troppo rischiosa. Bisogna aspettare che le acque si calmino.”

“Quindi per lui non vale il discorso 'basta che sia felice'.” costatò il Barone, irritato da come la moglie continuasse a bere senza accennare a smettere.

“Lui ha più responsabilità di sua sorella.” disse Caterina, portandosi ancora una volta il bicchiere alle labbra.

Giacomo colmò la distanza tra loro con un unico passo e le fermò il braccio a mezz'aria: “Non ti sembra di aver già bevuto troppo per stasera? Dai, smettila.”

La Contessa reagì a quella stretta in modo del tutto automatico, senza pensare a chi aveva davanti. Il vino, in effetti, le aveva tolto più lucidità del previsto.

Con un movimento preciso e sicuro si divincolò dalla stretta e si alzò dalla sedia, il pugnale che teneva sotto le gonne già stretto nella mano libera: “Tu non devi darmi ordini.”

Giacomo guardò il filo della lama che luccicava alla fiamma delle candele e poi gli occhi acquosi della moglie e la sua espressione feroce.

“Ho bisogno d'aria.” disse, senza scomporsi: “Tornerò quando ti sarai calmata.”

E, prendendo il mantello abbandonato sull'inginocchiatoio, andò alla porta, lasciando Caterina sola con il suo vino e il suo pugnale.

Quando il Barone tornò al Paradiso, dopo aver attraversato un paio di volte tutto il perimetro della rocca, riflettendo sulla propria condizione e sulle tribolazioni della moglie, trovò la sua donna profondamente addormentata nel loro letto.

Si spogliò in silenzio e si infilò sotto le coperte accanto a lei. In dormiveglia, la Contessa si accorse della presenza del marito e si strinse a lui, alla ricerca del conforto che prima non era riuscita a chiedere.

Con un sospiro, Giacomo non si negò, ricambiando l'abbraccio e offrendole il suo calore, per quanto gli sembrasse un misero aiuto in una situazione così amara.

 

Erano passati due giorni dalle accese parole di Domenico da Ponzo e Tommaso di Rieti e finalmente Girolamo Savonarola si era deciso a darvi una risposta.

Salito sul suo pulpito, davanti alla solito folla di fedeli, il domenicano cominciò la sua predica normalmente, per poi, però, virare improvvisamente verso toni molto più accesi.

“Tu!” ululò, puntando l'indice un po' storto verso un punto indefinito dell'orizzonte: “Tu che dici male di me! Tu dell'ordine di Santo Domenico, che dici che non ci dobbiamo impicciare dello Stato, tu non hai ben letto!”

Molti, soprattutto i nobili della città che erano stati presenti anche alla riunione della Signoria, compresero benissimo a chi si stesse riferendo il frate.

“Va', leggi le croniche dell'ordine di San Domenico, quello che lui fece in Lombardia nei casi di Stato!” la voce di Savonarola rimbombava tra le navate della Chiesa con una potenza che mai aveva conosciuto, nemmeno quando doveva incitare la popolazione a ribellarsi a Piero il Fatuo: “E così di San Pietro Martire quelle che fece qui in Firenze, che si intromise per comporre e quietare questo Stato!”

Mentre il domenicano continuava la sua arringa, che sapeva molto più di dibattimento in tribunale che non di predica religiosa, Girolamo Benivieni, che era ormai un assiduo frequentatore delle esposizioni di Savonarola, si mise a guardarsi in giro, cercando di vedere chi fosse presente.

Aveva notato che i due Popolani a volte prendevano parte a quelle riunioni di popolo, ma tutte le volte non riusciva a capire se come lui fossero lì per pura convenienza o per convinzione.

Il cognome che i due giovani Medici portavano era ancora molto ingombrante. Con Piero fuggito e con sua moglie e i suoi figli sotto la custodia della Repubblica, Lorenzo e Giovanni dovevano camminare coi piedi di piombo. Anche se erano stati i massimi fautori della cacciata del cugino, la gente comune presto avrebbe potuto dimenticare i loro meriti, ricordandosi però la loro provenienza.

E a sommarsi a quella complessa situazione politica, c'erano i buchi di bilancio lasciati dal Magnifico.

Piero non era stato minimamente in grado di appianare gli errori economici del padre e adesso tutti si aspettavano che i Popolani, appena arrivati dalle campagne, riuscissero in poche settimane a riparare le carenze accumulate negli anni.

Comunque, quel giorno non c'erano, né l'uno né l'altro. Così Girolamo si concentrò di nuovo sul domenicano, la cui difesa si stava trasformando con una semplicità disarmante in aperte accuse.

“Santa Caterina fece fare la pace in questo Stato al tempo di Gregorio papa!” ricordò a tutti quanti Savonarola, aggrappandosi al pulpito: “L'Arcivescovo Antonio quante volte andava in palazzo per ovviare alle leggi inique, affinché non si facessero!”

Dopo una pausa ben studiata, l'uomo sillabò: “Vogliono forse dire che questi non sono stati servi degni del Signore? Che hanno sbagliato? Che hanno contravvenuto al loro preciso compito come uomini e donne di Cristo?”

Un bisbigliare concitato si alzò nella chiesa, partendo dall'ala occupata dai più ferventi sostenitori del domenicano e così il frate concluse: “Ebbene io dico che chi muove certe accuse è il vero pericolo ed è lui a non aver compreso il suo compito!”

 

Isabella d'Aragona era ancora scossa dai tremiti del parto, il volto e la schiena madidi di sudore e la levatrice aveva appena fatto in tempo a passare una pezza tiepida sulla neonata, quando delle guardie fecero irruzione nel castello di Pavia.

La vedova del Duca più sfortunato di Milano, quando vide quei soldati, non badò nemmeno a coprirsi. Lasciò che vedessero il sangue e ciò che era stato per lei dare alla luce quell'ultima figlia.

Il capo degli armigeri si assicurò che la nuova nata fosse una femmina. La ridiede all'anziana levatrice e poi ordinò ai suoi di predisporre lo spostamento di Isabella nella torre dove era stata rinchiusa a suo tempo Bona di Savoia.

“Lasciatele almeno il tempo di riprendersi...” tentò affranta la serva che aveva aiutato durante il travaglio: “La mia signora è troppo debole...”

Uno dei soldati la guardò male e disse: “Essendo scappata la cognata del Duca Ludovico, abbiamo ordine di mettere al sicuro la vostra signora. Ordini del Duca e di sua moglie la Duchessa.”

“Maledetta...!” fu il grido strozzato di Isabella, che riconobbe in quel gesto inutilmente violento e crudele la mano fredda e prepotente di sua cugina Beatrice: “Che tu sia maledetta...!”

E così, senza potersi opporre, i pochi domestici che ancora erano al servizio di Isabella d'Aragona la videro mentre veniva alzata di peso, coperta da un lenzuolo sporco di sangue. La portarono nelle vecchie stanze di Bona, presero i tre bambini più grandi e li chiusero con lei nella stanza.

“Anche la più piccola.” fece il capo delle guardie, indicando con un dito guantato di ferro la neonata.

La levatrice se la strinse al petto: “Non vedete? È gracile e malaticcia com'era suo padre! Morirà, se verrà lasciata sola con madonna Isabella! La mia signora non ha latte, è troppo debole per nutrire questa creatura!”

Il soldato si spazientì e ordinò: “Che la balia e la levatrice vengano imprigionate con gli altri, allora.”

E così anche la nutrice e l'anziana vennero fatte entrare di peso nella stanza in cima alla torre e la porta venne chiusa alle loro spalle, mentre un paio di armati si mettevano già a fare la guardia.

 
   
 
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