Libri > Il fantasma dell'Opera
Segui la storia  |       
Autore: Elphie94    31/12/2016    2 recensioni
«Devo essere pazza per seguirti. Secondo te lo sono?» gli chiesi con voce appena udibile oltre il flusso inondante dei miei pensieri.
Si voltò verso di me – nel buio, i suoi occhi erano come stelle sulla distanza.
«Mia cara, tu sei sana di mente quanto me.»

Meg è la figlia di Madame Giry, la migliore amica di Christine Daaé, un'anonima ballerina di fila. Quando il giornalista Gaston Leroux la rintraccia trent'anni dopo gli strani accadimenti dell'Opera Garnier, lei - vedova di un barone, senza figli - gli racconta la sua versione, in cui è finalmente protagonista. Insieme a un uomo che era diverso da tutti gli altri...
[Correntemente in fase di revisione.]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Erik/Il fantasma
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

xxxiii.
il gatto e il topo


 

Il viaggio di ritorno fu assai più piacevole di quello dell'andata. Malgrado gli incubi che riuscivo a nascondere bene, e la sensazione di essere sul filo di un rasoio, me la cavavo meglio di quanto mi aspettassi. E soprattutto, non vedevo l'ora di rimettermi a danzare.
Sorpresi tutti quando, durante una festicciola data dall'equipaggio riunito sulla tolda della nave – come quasi ogni sera, ormai – mi gettai in un balletto improvvisato sulle note dell'armonica di Jasper e gli applausi di tutti gli uomini, oltre Darya, ovviamente.
«E dici che sono mesi che non ti eserciti? Sei bravissima» si complimentò quest'ultima quando ebbi finito, mentre il marito mi offriva un calice di rum per rinfrancarmi. Mi detersi la fronte gocciolante di sudore.
«Sono davvero trascorsi mesi, e sono rigida come un manico di scopa. Avresti dovuto vedermi all'Opera. Lì ero al mio massimo.»
«Il nostro topolino non se la tira affatto, vero?» rise Amir, che era rimasto ad ascoltare.
«Oh, non chiamarla così» lo rimbrottò Darya, divertita. «La nostra Meg è una leonessa.»
Sorrisi. «I topolini spaventano gli elefanti, però.»
«Sì, ma i gatti li mangiano.» Amir scoppiò nell'ennesima risata roboante e brindò alla salute mia e della moglie, che si limitò a scuotere il capo.
«É un mito da sfatare» mi sussurrò Erik quella notte, quando rimanemmo soli, affacciati alla balaustra. «Gli elefanti non hanno davvero paura dei topi.» 
«Lo sapevo. Volevo solo ribattere a ciò che aveva detto Amir.»
«Però i gatti li mangiano sul serio. Dovresti stare attenta, petite souris.»
«Di cosa stiamo parlando esattamente?» sorrisi io.
«Vai a dormire, Meg. È tardi.»
«La smetti di trattarmi come se fossi tua figlia?»
«Potresti esserlo.»
Repressi a stento una smorfia d'orrore. «Per l'amor di Dio, no. Il mio povero padre era malato, ma non così.»
Tornai in cabina con la sua risata incantevole nelle orecchie. Bene, ero contenta di farlo ridere.
Quella notte rivangai nella mente i suoi occhi dorati, come mi avevano fissata con espressione indecifrabile mentre mi dilettavo in qualche passo di danza accompagnata dall'armonica del giovane Jasper. A come osservava il movimento ondeggiante dei miei fianchi sottili. Mi sentii il volto in fiamme e lo tuffai nel cuscino. Strano. Non ero mai stata timida. Riservata, certo, ma fin troppo sfacciata, soprattutto da bambina. No, anzi – prima della morte di mio padre, ero stata ancora più pestifera. Dopo, una nube di grigio era caduta su di me.
Strano, ripetei, e mi addormentai con quei quesiti irrisolti nella mente. Non giungevo alla verità perché era troppo assurda per la mia mente così razionale, così logica. Sentimenti di questo tipo mi lasciavano sempre allibita… soprattutto nei confronti di un uomo così diverso dagli altri come lo era Erik.

 

Non servirono le mie preghiere perché il mio amico facesse una serenata davanti a tutto l'equipaggio, come una volta mi aveva chiesto di fare Darya. Per ringraziare la banda di averci accompagnato fin lì, e visto che non volevano altro oro, Erik si fece prestare l'armonica da Jasper e improvvisò un lied di Schubert. L'equipaggio tutto, da uomini rozzi qual erano, si acquietò e restò in devoto ascolto, aprendo la bocca solo come espressione della loro sorpresa. Alla fine, erano tutti in lacrime, o quasi. Proruppero in un applauso sentito al quale Erik reagì con un semplice inchino e un sorrisetto sapiente. Persino Jasper, che era sempre stato timoroso nei confronti di Erik, sembrò costernato e ammirato insieme.
«Come ci riesce?» chiese Amir, scuotendo il capo e applaudendo ancora.
«Non saprei. È la sua magia» risposi.
«Ha ridotto mercenari duri e crudi a ragazzini piangenti» concluse Darya, guardandosi intorno. «Forse pensano tutti alla propria casa, alle famiglie che hanno avuto – o non hanno avuto.»
Annuii. Anch'io pensavo a mia madre, a mio padre, a Christine… ma la voce di Erik trasformava le ferite in miele.
Più tardi, chiesi ad Erik come mai si fosse convinto a ripagarli in quel modo, dal momento che non desideravano oro da parte sua.
«Ci hanno salvato la pelle. È il minimo, non ti pare?»
«Non è che l'hai fatto solo per farti dire per l'ennesima volta quanto tu sia geniale, vero?»
Lui rise. «Mi credi così egocentrico?»

«Sì» risposi senza aver bisogno di pensarci. Poi aggiunsi, corrucciata: «Non avevi detto che non sapevi suonare gli strumenti a fiato? Beh, l'armonica è uno strumento a fiato.»

«Infatti ho improvvisato.»

Rimasi costernata. «Vuoi dire che hai improvvisato Schubert su un'armonica, quando non ne avevi mai toccata una prima in vita tua?»

Lui annuì. Io sbuffai e gli rifilai un leggero pugno sul braccio.

«E adesso cos'ho fatto?»

«Sei assurdo. Incredibilmente assurdo…»

Tornai nella mia cabina con lui che se la rideva alle mie spalle. I contorni delle mie labbra non poterono fare a meno di sollevarsi.


Quando giungemmo al porto di Calais, fu facile mischiarci con gli altri scafi. Salutai tutti, abbracciai Jasper e mi accinsi a separarmi dall'equipaggio del Sole Nero. Non li avrei più rivisti. Darya ed Amir ci accompagnarono fino alla stazione, vestiti in abiti occidentali che avevano prestato anche per noi, dal momento che eravamo privi di qualsiasi mezzo di sostentamento se non l'oro di Erik. Indossare di nuovo i panni di una francese, in particolare col mio accento parigino, era strano per me. Non indossavo un corpetto da secoli, ma fui lieta del cambiamento. Mi sembrava di tornare un po' più me stessa, pensai annodandomi al collo il fiocco blu del grazioso cappellino prestatomi da Darya.
L'addio che ci rivolgemmo fu straziante. Erik aveva già acquistato tre biglietti per il treno che ci avrebbe ricondotto a Parigi, dotato di comode cuccette e tutto il resto. Era intento insieme a Monsieur Nadir a mettere in ordine i nostri (scarsi) bagagli, aiutato da Amir. Darya ed io lasciammo lavorare gli uomini e, non senza un filo di imbarazzo, ci scambiammo un abbraccio umido e sentito.
«Sei stata più di un'amica per me. Una maestra.»
«Ti scriverò» mi promise lei, stringendomi forte. Mi lisciò i capelli sulla fronte e mi rivolse il suo solito sorriso aguzzo, sornione, intelligente.
«Mi mancherai.»
«Ritrova la tua strada, piccola mia. Ah, a proposito…» Da una borsa che teneva al fianco tirò fuori una sottile daga poco meno lunga di una lama bastarda. Era la mia spada, avvolta in un fodero di pelle lucida: la riconoscevo. Avevo deciso, non senza rimpianti, di lasciarla a bordo. In fondo era una parte di me, e ora mi aveva seguita.
«Se vuoi tenerla…»
«Non so cosa farmene.»
«Pensala come a qualcosa che ti ho dato io e, pertanto, un dono. Un ricordo della tua Darya.» Aveva gli occhi lucidi, quindi non potei rifiutare. Non ne ebbi la forza. Quella spada rappresentava tutto ciò che ero stata e che non potevo cancellare, e Darya lo sapeva.
Salutammo Darya e Amir affacciati al finestrino del nostro cubicolo, e quasi piansi quando la vidi asciugarsi le lacrime con il dorso della mano, il marito che le stringeva una spalla in segno di conforto. Era un addio, quello, lo sapevo.
Non la rividi più.


Il viaggio durò poco: fummo costretti ad usare la diligenza per superare le campagne, ma in confronto all'odissea sanguinosa dell'andata, quella sembrava una vacanza. Ovviamente, adesso potevamo godere di maggiori comodità per il viaggio, dal momento che nessuno ci seguiva e non eravamo più in pericolo.
Ero seduta tra Erik e Nadir nella carrozza, che per il resto era vuota. Le mie gonne ingombranti irritavano Erik più che mai, ma non si lamentò. Era sicuramente lieto di vedermi più simile alla me stessa di un tempo, ma esistono cicatrici indelebili, e lui ne era la prova vivente. Ricordai quando gli avevo sfiorato il petto, seguendo il cordolo di una di esse, e avvampai come una perfetta idiota. Affondai il viso nel fazzoletto, fingendo di starnutire. Nadir mi rivolse un'occhiata di simpatia, Erik invece una di curioso sospetto, ma nessuno dei due si profuse in commenti inopportuni. Come al solito, relegai quell'ardore improvviso in un angolino nascosto della mia mente e pensai ad altro.
«Quanto manca per Parigi?»
«Ancora un giorno e saremo a casa. Non avere fretta» mi disse Erik col maggior garbo di cui era capace. Sbuffai – con quel tono la sua risposta mi sapeva tanto di paternale – e incrociai le braccia al petto. Quando riconobbi le mura della mia città, quasi scoppiai in un grido di gioia. Era finita! Era tutto finito. Avevo perso me stessa in quel lungo e doloroso viaggio, ma ecco che mi ritrovavo.
«Casa…» sospirai di sollievo, e Monsieur Nadir ed Erik si scambiarono un'occhiata complice. Bentornati.


Erik aveva nascosto tutte le mie cose nei sotterranei dell'Opera, per simulare una reale partenza da parte mia. Scendemmo in Rue Scribe e lì ci separammo, con il facchino che mi aiutava a portare i bagagli fin nell'androne della palazzo Garnier. Era sempre lo stesso: magnificente, marmoreo, profumava di ricordi dolci come il miele e al contempo velenosi come ortiche. Mi sentii pervasa da una ventata di nostalgia e un dolore ineffabile al cuore che si poteva descrivere solo come un bizzarro miscuglio di tristezza e letizia insieme. Quante volte mi ero sentita sicura tra quelle mura? Un tempo erano state tutto il mio mondo, teatro dei miei sogni più audaci. E adesso che del mondo avevo visto tanto, adesso che ero stata marchiata a fondo dalla guerra – il male per eccellenza – non ero più la stessa di quando avevo varcato il foyer della danza l'ultima volta.
Mi accinsi a salire gli ampi scalini marmorei dell'immenso androne. Tutto mi pareva nuovo, eppure simile a se stesso, di una familiarità che mi faceva bruciare gli occhi e il sangue nelle vene. Il sole sorgeva appena all'orizzonte: quel mattino sarei dovuta tornare ad ambientarmi nel mio nuovo–vecchio mondo, e pensai che cambiarmi e dirigermi subito nella sala delle esercitazioni per fare un po' di pratica mi avrebbe aiutata. La danza aiutava sempre.
Un singhiozzo mi rimase incastrato in gola quando entrai nel mio camerino, che fungeva anche da camera da letto. Nulla era cambiato: il letto e il piccolo scrittoio erano sempre gli stessi, forse solo più ordinati; la grande psiche mi fronteggiava, e io mi sfilai il cappellino. Con decisione, afferrai la spazzola e delle forcine e tirai i capelli all'indietro, così che solo la frangetta fosse visibile, e alcune riccioli dietro le orecchie. Ecco, così va molto meglio. Indossai il mio tutù e le scarpette da ballo con la punta in gesso, ormai rovinata dal tempo, e con un improvviso sconforto mi accasciai sul letto. Dio, ti prego, se esisti… Concedimi almeno cinque minuti di pace. Non chiedo altro. Chiusi le palpebre, come se così potessi sbarrare le porte della mia mente. Cinque minuti senza pensare al cadavere di mia madre tra le mie braccia, alla sua mancanza… L'Opera era la mia casa, ma senza di lei non avevo più una famiglia. Non sono sola, però. Ho Monsieur Nadir con me… Posso rivolgermi a lui per qualsiasi mio bisogno. E poi, naturalmente, c'è Erik.
Erik, certo. Bell'enigma, quell'uomo.


Il mio ritorno fu accolto gioiosamente da tutti i membri dello staff dell'Opera, che si mostrarono lieti di rivedermi e non pieni di pietà per quanto accaduto a mia madre. Così fu più sopportabile. Tutti mi mostrarono le loro sentite condoglianze per il mio lutto, senza però soffermarsi troppo sull'argomento; pensavano infatti che fosse stato il trauma della perdita a costringermi a partire da Parigi. 
Quando mi vide, Luc corse a stringermi in un abbraccio che mi stritolò le costole e mi sollevò i piedi da terra. Ridacchiai sulla sua spalla e gli arruffai i capelli, reprimendo le lacrime che minacciavano di sgorgare.
«Mi sei mancata tantissimo. Avrei voluto scriverti qualche lettera, ma non conoscevo il tuo indirizzo.»
«Il dottore ha detto che dovevo riposare» mentii con noncuranza.
«E ora stai meglio, vero?» si premurò di chiedermi con apprensione.
«Molto meglio.» Non sapevo se anche questa fosse una bugia o meno.
Le mie compagne del corps de ballet furono altrettanto liete di accogliermi nuovamente tra i loro ranghi, soprattutto le più piccole, come Cécile Jammes e Claudine Tholomyés, che quasi piansero nell'abbracciarmi. Questo mi fece sorridere.
«Ci mancava il tuo talento» disse Caroline, dopo avermi stretto la mano.
«E a me mancava questo posto» dissi io, accennando alla sala della danza e a tutte loro. Juliette aveva ancora il braccio attorno alle mie spalle – lei, Fabienne e Louise mi erano mancate più di tutte. Fui lieta di riprendere le lezioni di danza.
Monsieur Lefévre si presentò a me come il nuovo istruttore di danza. Secondo le mie compagne, era di gran lunga più noioso di mia madre, che come è ovvio mancava a tutte. Non m'importa. Voglio solo danzare fino a morirne, pensai mentre, terminati gli esercizi di riscaldamento, mi accingevo ad eseguire i passi dettati dal nuovo maestro. Questi si accorse immediatamente della mia rigidità – ero più lenta e tesa delle altre – ma non palesò il suo disappunto e passò oltre. Lo avevano di certo avvisato della mia “malattia”.
«Madamoiselle» mi fermò giusto dopo la fine delle prove del pomeriggio, «so che vi siete ripresa da poco da un male e un lutto che vi hanno recato grande dolore. Vedo che i vostri muscoli ne hanno risentito, ma i direttori Richard e Moncharmin mi hanno informato del vostro talento. Sono certo che vi rimetterete subito alla pari con le altre del corps de ballet. Ve lo auguro di cuore» chinò il capo e se ne andò via con passo elegante da giaguaro. In effetti era un bell'uomo, sulla quarantina, con un certo portamento. Ovvio, era un istruttore di danza. Ma notai la sua avvenenza solo distrattamente. Mi era giunto alla mente in quel momento che il fantasma dell'Opera, in teoria, non esisteva più. Erik avrebbe condotto la sua vita in incognito. Solo il Persiano ed io ne saremmo stati a conoscenza.
Mi morsi il labbro: il mio pensiero ritornava sempre a lui, alla fine, come in un circolo vizioso. Non andava bene per niente.
Seppi che Caroline aveva sostituito la Sorelli come prima donna, in quanto quest'ultima si era ritirata misteriosamente dopo il – guarda caso – ritrovamento del corpo del conte Philippe. Rabbrividii al ricordo. Oh, Erik, come hai potuto… Eppure era mutato così tanto da allora. Tutto era mutato. Io, poi, più di tutti. E non potevo più fare a meno di lui.
Sospirai e tornai nel mio camerino, aspirando gli odori dell'Opera, tutto ciò che il male mi aveva negato in quei mesi – ciò per cui il mio cuore aveva battuto fino a quel momento. Affondai la testa nel cuscino. Il dolore per mia madre, la sua mancanza, mi colpì come un'ascia alla fronte. Strinsi i denti e sopportai al mio meglio. Avevo sviluppato una certa tolleranza per il dolore, in tanti anni, soprattutto per quello psicologico – anche se, non dobbiamo dimenticarlo, avevo subito una vera e propria tortura per mano dei bruti dello Shah. Era l'innominabile della mia vita, quello che non potevo condividere con le mie compagne di danza e tanto meno con Luc.
Fu allora che notai un biglietto sul comodino. Mi accigliai e lo lessi, non tardando a riconoscere la grafia scarlatta e orribile.

Cara Meg,
spero che il ritorno a casa non sia stato… troppo, per così dire. Non temere, riprenderai a ballare con la scioltezza di un tempo in men che non si dica, se ti eserciti con cura. E lo farai, conoscendoti. Volevo solo rassicurarti.
Adesso ti chiederai l'utilità di questa mia. Ebbene, non la conosco neanch'io. Puoi anche bruciare la lettera nel fuoco, petite souris. 

E.

I lineamenti del mio viso si distesero. Lo scopo di quel biglietto era chiaro, anche se magari non lo era per lui: voleva solo farmi sorridere, e ci era riuscito. Ovviamente non bruciai il biglietto, ma lo conservai insieme a tutto ciò che mi ricordava la mia vita passata, la me stessa che, insieme a mia madre, non esisteva più: le lettere di Christine ed Erik, la rosa che quest'ultimo mi aveva donato in occasione del mio debutto da solista in Giselle, e tutto il resto, custodito nello scrigno di legno intarsiato che avevo regalato a mia madre molti mesi prima e di cui ormai mi ero appropriata. Lo stesso che ho custodito in tutti questi anni, fino ad adesso.
Dovevo ad Erik una replica, e avevo già un'idea in mente. Afferrai carta, penna e inchiostro dallo scrittoio e scarabocchiai qualcosa di simile:

A questo petite souris manca il pianoforte nell'appartamento sul lago. Mi piacerebbe tornare a strimpellarlo, una di queste sere. Se Monsieur le chat accetta, naturalmente.

Meg

Sorrisi e lo lasciai sul mio comodino, con esattezza su un libro di Edgar Allan Poe che mi aveva prestato proprio Monsieur le chat in persona, tanto tempo prima. Era ora di ridarglielo.
Mi svestii, liberandomi del trucco ma non del dolore. Non potei fare a meno di sentirmi sola come mai prima d'ora, e di piangere fino ad addormentarmi. Tuttavia, la prospettiva che il giorno dopo sarei tornata a danzare e forse avrei rivisto Erik mi rassicurò, cullandomi nel sonno, in cui naufragai come una galea in una tempesta.


Dopo che ebbi cenato – anche se ormai mangiavo di malavoglia e ridevo assai di meno, cosa che le mie amiche non avevano tardato a notare – sgattaiolai nella mia stanza per darmi una rinfrescata e…
«Ah!»
Quasi mi venne un infarto quando vidi Erik steso comodamente sul mio letto, le gambe accavallate e il libro di Poe tra le mani. Lui alzò lo sguardo dalla pagina.
«Ma sei impazzito? Che ci fai qui?»
«Sono stato rapito dalla lettura.»
«Ma tu quel libro lo hai già letto.»
«Non conta. Stai bene?»
Mi portai una mano sul cuore. «Stava per venirmi un colpo. E se qualcuno ti avesse veduto al posto mio? Sai, sei piuttosto riconoscibile.»
Lui fece spallucce. «Ero certo che nessuno sarebbe giunto qui, a parte te.»
Sbuffai. «Certo, dici?»
«Certissimo. Ho intuito su queste cose.»
«Come no.» Ciondolai e, se avessi avuto delle tasche, vi avrei infilato le mani dentro, chiuse a pugno.
«Allora, cosa rispondi alla mia lettera di ieri…?» dissi senza tergiversare – non ero brava in questo. Di solito ero fin troppo diretta e brutale, ed Erik lo sapeva. Inaspettatamente, arrossì. O meglio, le sue orecchie arrossirono – io non potevo vederlo in viso, per via della maschera.
Alzai un sopracciglio. «Mmm.»
«Davvero vuoi… riprendere le lezioni di pianoforte?»
Si era alzato e ora mi fronteggiava a capo chino, e non per questo sembrava meno alto.
«Bravo, mi hai rovinato la piega delle lenzuola.»
«Meg.»
«Guarda che non ho un cameriere, faccio tutto io.»
«Meg.»
Sospirai. «Ma sì che lo voglio, Erik.» Perché è così esitante? «Suonare mi fa bene.» E stare con te mi fa stare anche meglio, se possibile. Ma questo non lo dissi.
Lui si guardò le mani, poi incrociò le braccia al petto. «D'accordo. È possibile. Se vuoi… possiamo cominciare stasera stesso.»
Oh, così presto? Che queste lezioni siano mancate anche a lui?
«Sì, va bene. Prima mi cambio e poi ti raggiungo nell'appartamento sul lago.»
«Ti aspetto sulla sponda per il giro in barca, allora.»
Girò i tacchi e, con il solito marchingegno di sua invenzione, spalancò lo specchio a parete e vi passò oltre, con passo felpato.
«Non sbirciare, eh» dissi mentre cominciavo ad allentare i lacci del corpetto del tutù che indossavo. Lo udii fermarsi subitaneamente nel suo percorso al di là dello specchio.
«Ma per chi mi hai preso?» disse, offeso, mentre io me la ridevo. 


La lezione di pianoforte scorse liscia come l'olio, e gli restituii anche il libro di racconti di Poe che avevo “preso in prestito”. Feci per congedarmi, gli occhi gonfi di sonno, quando mi rammentai di qualcosa che lì per lì mi era sfuggita. Non ci avevo mai fatto caso, non più del normale, comunque. Ma ora mi inquietava come non mai.
«Erik…»
«Sì?»
Mi umettai le labbra, accigliata. «Tu hai un letto, vero?»
Lui mi guardò come se fossi stupida. «Che cosa cerchi di dirmi, Madamoiselle?»
«Voglio dire, dormi in un letto?»
La linea delle sue labbra sottili e bianche divenne una cicatrice livida. «Sai benissimo qual è il luogo del mio riposo.»
Scossi il capo, cercando di schiarirmi le idee. «Fammi capire: tu dormi in una bara, giusto?»
«Perché tanto interesse?» Sembrava vagamente piccato, con un velo di imbarazzo.
«Non ti permetterò di dormire in una bara. È una cosa da matti.»
«E me lo dici solo adesso? Da quanto tempo sai dove dormo?» 
«Da… un bel po', in effetti. Ma non ci avevo mai pensato prima, non seriamente. Beh…» scossi il capo, non sapendo bene cosa dire. Nella mia mente era ovvio, ma non trovavo le parole: non mi ero mai preoccupata prima perché non avevo mai pensato a lui come a un uomo, vivo e vegeto al mio fianco. Quasi meritasse di dormire in una bara, quasi fosse sempre stato con un piede nella fossa. Ma ora era diverso: ora che mia madre era morta, che una parte di me era morta, dopo la Persia. «Ecco, non è un posto dove possa dormire un uomo.»
«Meg, io non sono un… uomo. Non davvero.»
«Stai dicendo che per metà sei donna? Questo spiegherebbe gli acuti da castrato, a meno che…»
Le sue orecchie avvamparono violentemente. «Non scherzare. Voglio dire…»
«So cosa vuoi dire.» Non sentiva di essere umano. Ma non poteva essere così… Non dopo tutto quello che era accaduto tra noi – le notti trascorse con il mio capo chino sulla sua spalla, la sua dolce, dolce voce nelle mie orecchie che mi fondeva il cuore, il fatto che gli avevo salvato la vita e, al medesimo tempo, ridato la voglia di vivere con la mia semplice presenza. Non poteva…
«Sei umano e meriti di dormire da essere umano. Come ti è venuta in mente questa idea della bara, poi?» Chissà quale trauma aveva mai subito per comportarsi in quel modo.
Lui esitò. «Günther» sibilò, e l'odio era ancora vivo nella sua voce dopo tutto il tempo trascorso. Certe ferite non si sarebbero mai rimarginate in lui, non completamente. Per quanto fosse cambiato, qualcosa dentro di lui era irrimediabilmente spezzato. Come in me.
«Mi faceva usare una bara nelle mie performance. Io… uscivo da quella bara, come un morto vivente, e… il pubblico rimaneva a bocca aperta, quasi fossi davvero la Morte in persona.» Strinse le labbra in una smorfia. «Lui diceva che poi pagavano di più se usavo i miei trucchi per sorprenderli.»
«Mi dispiace» dissi sinceramente, non sapendo cos'altro dire. Quali parole rimanevano, dinanzi all'orrore vero? «Nella gabbia…?»
«Sì. Ho tentato di ribellarmi, ma…» fece un cenno alle sue spalle. Capii che stava indicando la sua schiena, e le cicatrici che – lo sapevo – giacevano sotto la stoffa. «Poi mi sono abituato. Bisogna abituarsi a tutto, in questa esistenza, anche alla morte.»
E tutto questo mentre era ancora un bambino. Deve esserne rimasto traumatizzato a vita.  
«Erik, stammi a sentire. Tu hai un letto. Puoi dormire lì.»
Lui si rabbuiò, comprendendo immediatamente cosa volessi dire. «No. È… suo. La camera di…»
Di Christine, certo.
«Sii realista. A te serve un letto, uno vero, e non puoi procurartene uno adesso, non ti pare? Usa quello, nel frattempo.»
Erik si passò una mano tra i capelli neri e sottili. «Non mi troverei a mio agio…»
«È una tua decisione» replicai con fermezza e, sperai, un tono gentile. «Non voglio che tu ti senta a disagio. Fai quel che credi sia meglio per te. Ti ho dato un consiglio da amica. Spero che tu non te la sia presa.»
Lui scosse il capo.  «Non potrei mai essere arrabbiato con te, Meg.»
Arrossii a quella dichiarazione, ma dall'esterno si vedeva solo il mio lieve sorriso.
«Allora tu… indossa quel che ti fa da pigiama e accomodati sul letto. Io intanto vado a prendere una cosa. » Mi avviai verso la libreria, al che lui si accigliò.
«Non rovinare i miei volumi» mi ammonì dalla stanza Luigi Filippo. Io scoppiai a ridere.
«Non preoccuparti, non rovinerò i tuoi amati libri e le tue costosissime prime edizioni» scherzai. «Me ne serve uno solo… uno soltanto… Ah, eccolo!»
Afferrai un tomo di una certa grandezza, a me molto familiare, e tornai nella camera Luigi Filippo. Erik era steso sul grande baldacchino con le braccia incrociate al petto, in attesa. Gli sventolai sotto gli occhi il libro che gli avevo portato.
«Ah, Il conte di Montecristo» notò con un sorrisetto, che io ricambiai.
«Non lo abbiamo mai finito di leggere. Ti va…?»
Lui annuì, e fu il mio turno di crollare sul letto, abbastanza ampio da far posto a due persone. Cominciai a leggere da dove ci eravamo fermati l'ultima volta, e miracolosamente riuscii a rammentarmi tutti i nomi dei personaggi. Per Erik, è inutile dirlo, non ci furono problemi a proposito.
Ci addormentammo l'uno vicino all'altra, come quando eravamo in mare, in cerca di sogni e cacciatori di incubi.


Da quella notte in poi, rimasi con Erik quasi sempre, se il mio lavoro me lo permetteva. Di giorno, dopo le lezioni di danza, mi aiutava a strimpellare il pianoforte al massimo delle mie capacità; di notte, quando nessuno di noi riusciva a crollare tra le braccia di Morfeo, parlavamo e leggevamo e dormivamo insieme, sul baldacchino della camera Luigi Filippo.
Ci vollero molti giorni prima che Erik vi si abituasse: spesso mugolava nel sonno a causa degli incubi – frasi spezzate di cui non riuscivo a cogliere il nesso logico – oppure era occupato a rassicurare me dai cattivi sogni che non mi lasciavano requie. 

Una notte particolarmente difficile, mi pose sulle spalle una coperta, malgrado fosse estate; ma in fondo, l'inverno si sentiva sempre lì, negli anfratti dei sotterranei dell'Opera. Sembrava che il gelo fosse un tutt'uno con le mie membra.

«Meg.»

Mi svegliai di botto, gli occhi lucidi. «Scusami» mormorai, pensando di aver disturbato il suo sonno. Lui scosse la testa. «Piccola sciocca amica mia, non è a me che devi chiedere scusa, ma a te stessa.» Mi lisciò i capelli sulla fronte. «Quando riuscirai a perdonarti?»

«Per cosa?» chiesi con finta noncuranza, tirando su col naso e reprimendo i brividi.

«Per la morte di tuo padre. E quella di tua madre, e coloro che hai ucciso…»

«Ho ancora così tanta paura, Erik. Di vivere. Mi sento così diversa dalle altre mie compagne… Loro non possono neanche immaginare…»

Erik scosse il capo e mi strinse nella coperta, mentre io mi massaggiavo le tempie con le dita. Erano gelide anche quelle.

«Mi manca. Mia madre, intendo. Dio, mi manca così tanto…» Feci fatica a trattenere i singhiozzi, il volto affondato nel morbido cuscino di piume. «Ecco, ti sto imbrattando di lacrime il lenzuolo. Sono un disastro.»

«Ma cosa vuoi che me ne importi? Piangi, Meg. Sfogati, ora che puoi. So che devi mantenere una facciata di pietra ogni volta che sei con le tue compagne, con il tuo maestro, con chiunque… Sei libera nella danza. La musica per me è sempre stata fonte di rassicurazione. Ho versato la mia anima nel Don Giovanni trionfante… E alla fine sono rimasto spoglio, quasi privo di essa. Poi tu mi hai ricordato che ero umano. Non dimenticarlo mai, Meg. Capito?»

Annuii, asciugandomi le gote arrossate. «Promettimi una cosa.»

«Cosa?» Mi guardò negli occhi, stringendo la mia piccola mano tra le sue dita fredde.

«Se impazzissi…»

«Meg…»

«Se impazzissi» ribadii con maggior solennità, «non mi porterai dai dottori, vero? Fammi rimanere qui.» Con te.

«Non ti porterei mai via da casa tua, Meg. Mai. E poi, tu non impazzirai.»

«Dici? A me sembra sempre di essere sul filo del rasoio…»

«Manterrai l'equilibrio, credimi. Non cadrai. E se pure lo facessi, ti rimetterai in sesto come sempre.»

Annuii. Avrei voluto dirgli che era anche grazie a lui se ero ancora integra, malgrado il ciclo vizioso di morte e sangue in cui mi avevano gettata a forza.

«Ora dormi.» Mi cullò tra le sue braccia per un po', mentre respiravo a fondo il suo odore quasi fosse parte di me, parte della voragine che avevo dentro e, allo stesso tempo, della colla che teneva insieme i pezzi della mia anima.

 


«Non ti ho mai chiesto qual è il tuo vero nome.»

Eravamo appollaiati sul baldacchino, lui in maniche di camicia ed io con la mia sottoveste e i capelli tenuti all'indietro da mille forcine. Ero troppo annoiata per sfilarmele dolorosamente dal capo. Ah, le gioie di essere una ballerina.

Lui, le mani dietro la testa, mi guardò in tralice alla luce soffusa dell'unica candela sul comodino. «Perché vuoi saperlo?»

«Perché sono certa che Erik non sia il tuo vero nome. Hai detto a Christine che lo avevi scelto per caso.» Ormai potevo nominare la mia vecchia amica liberamente, seppur con cautela. «Come mai?»

Lui si schiarì la gola. «Non è proprio così. È una lunga storia.»

Lo invogliai a continuare col mio silenzio pensoso. Erik sospirò.

«Il sacerdote che mi battezzò alla mia nascita si chiamava Éric. Éric Mansart. Fu l'unico a rimanere vicino a mia madre dopo la mia… venuta nel mondo. Al paese pensavano che fossi una maledizione caduta su quella disgraziata di mia madre, che non era molto più anziana di te quando rimase incinta. Padre Mansart si curava della mia anima, vedi. Fin da piccolo, mostrai una grande schiera di talenti. La mia mente era eclettica e assorbiva qualunque informazione le giungesse, malgrado il mondo esterno mi fosse proibito. Mia madre mi chiamò Éric proprio perché fu il prete a darmi quel nome. Quando scappai di casa…» lo sentii aggrottare la fronte sotto la maschera protettiva, «… dovevo avere circa nove anni. Vissi per due settimane nelle campagne vicino Rouen, nutrendomi come meglio potevo, ammassando pietre e felci per costruirmi ripari dalla pioggia e dal freddo. Incontrai un accampamento di gitani per la via.» Inclinò il capo. «Ti dirò: non furono più crudeli con me di chiunque altro avessi mai conosciuto. Scoprirono il segreto che celavo oltre la maschera, naturalmente, e ne furono impauriti. Non sapevano cosa fare di me: tenermi con loro per sempre? No, non era possibile. Il loro capo mi vendette a un tedesco che andava in giro per le fiere dell'Europa a mostrare i suoi fenomeni da baraccone. Divenni in fretta uno di loro – il più prezioso, e il più ribelle. Mi cacciò in gabbia e mi legò, per il timore che scappassi e gli rovinassi così la prospettiva di un bel gruzzolo d'oro. Per mesi fui costretto tra le sbarre, con pochissimo cibo e acqua pulita, costretto a farmi vedere da tutti come la Morte Vivente. E non collaboravo: maggiore era la mia umiliazione, più mi ostinavo a comportarmi da bestiolina furiosa. Un leone in gabbia. Günther mi frustava parecchio, dopo. Pensavo solo alla morte, e pregavo che un angelo mi portasse via negli inferi pur di strapparmi alle sue grinfie. Poi reagii. Cominciai a lavorare di nuovo di cervello – fino a quel momento sembrava che le mie capacità intellettive si fossero assiderate per via dello stupor nel quale ero caduto. Non mi ero mai sentito meno umano, ma strinsi un patto con il mio padrone: niente gabbia, e gli avrei fatto guadagnare di più grazie al mio ventriloquismo e le altre abilità da prestigiatore. Quando scoprì che sapevo suonare meglio di qualunque altro musicista professionista, accettò. Andò avanti così per un po', e la mia esistenza divenne più tollerabile, ma… non durò a lungo. Quando Günther tentò di costringermi di nuovo in gabbia, divenni feroce e, per impedirgli di farmi ancora del male, lo uccisi. Fuggii dal campo quella notte stessa.» Una pausa solenne. Anch'io sentivo il bisogno di tacere, dopo quella confessione di bile e cicatrici.

«Günther mi chiamava Erik, con il suo accento tedesco. E io presi quel nome, per rammentarmi l'odio, le mie radici… se mai ne avevo. È un nome che mi sono guadagnato, non trovi? Così nacque Erik.»

Così nacque il mostro, vorrai dire. Ma non commentai.

Riposammo insieme un altro po', e sapevo che la mia compagnia gli recava piacere, addirittura sollievo, perché non mi cacciò mai via. Tutt'altro: si preoccupava per me e il mio benessere, e la mattina mi ritrovavo sempre, puntualmente, tra le lenzuola del mio letto in superficie. I mesi trascorrevano così, in una sorta di nebbia estatica dove neanch'io sapevo cosa provassi.

La verità era che mi stavo innamorando di lui, ma non lo sapevo ancora. E fu il mio bene e la mia maledizione. 




Note dell'autrice: Salve a tutti! Ecco il mio regalo per il nuovo anno. Spero che abbiate trascorso un buon Natale, e che quest'anno vi sorrida! Lo spero davvero, perché questo 2016 è stato… strano, a dir poco. E non in modo positivo. Politicamente e umanamente, è stato un anno bestiale. Ma non voglio dilungarmi oltre.
Che ne dite di questo capitolo? Finalmente Meg sta capendo qualcosa… Nel prossimo vedrete ancora meglio. Eh, sì. Non posso svelare nulla – abbiate un altro po' di pazienza.
E ora, le bellissime recensioni:

ondallegra: Mi dispiace tanto per l'attesa, ho avuto alcuni problemi… Mi perdoni? Dai, dimmi che mi perdoni. :) Almeno c'è qualche scena carina e tenera tra Erik e Meg. Vedrai che nel prossimo capitolo… Eh, no, aspetta, non lo posso dire. Ti dovrai torturare ancora un po', MUHAHAH. Hai fatto un'ottima analisi dei perché e dei come degli strani marchingegni che sono i cervelli di Erik e Meg, che ne dici di farne un'altra anche adesso? Nell'inconscio, Meg sa che si sta innamorando di lui (alla buon'ora), ma razionalmente, lo accetterà? Mmm, vedrai.
Un bacio, alla prossima! :*

Jessica24: Oh, un'altra lettrice! Sì, sto scrivendo anche l'AU a cui ho accennato, spero di pubblicarla il prima possibile (si sa che sono lenta in questo, quindi perdonami già in anticipo). Ti ringrazio per aver recensito e messo questa storia tra le seguite, sono così contenta che ti stia appassionando! Spero che ti piaccia anche questo capitolo. E comunque sì, è probabilmente la prima (l'unica?) Erik/Meg nel fandom italiano – che, diciamocelo, in Italia quello del Fantasma è un po' uno sfigafandom, eh. All'estero il musical è così famoso, naturalmente… L'Italia non è un Paese di musical, purtroppo per me che, invece, sono fissata.
Un bacio! :*

Facy: Una nuova lettrice, che bello! E che recensione, wow! Davvero l'hai letta in due giorni? Sei pazza? Sono più di quattrocento pagine di Word! Ahahaha. :D Mi lusinghi, comunque.
Grazie per avermi sottolineato il mio “piccolo” errore grammaticale – non ho mai avuto problemi in questo ambito, ma capisco che ho ancora molto da imparare e mi fa piacere che qualcun altro più bravo di me se ne sia accorto. :) Per quanto riguarda le scene d'azione, ti do ragione, sono molto difficili da scrivere. Io non avevo mai, e dico mai, scritto qualcosa di simile prima d'ora: il mio genere è sempre stato psicologico–introspettivo, ma volevo dare una scossa alla storia, e quindi… Spero che mi perdonerai. :) Il “mio” Erik ti ha fatta innamorare? Meg potrà capirti. La sua faccia è un orrore, ma c'è qualcosa in lui di decisamente affascinante… Non essendo razionale, è difficile spiegarlo a parole.
Parlando di Christine, trovo il suo personaggio – potrà sembrare strano – un grandioso esempio di femminismo: una “damigella in difficoltà” che salva se stessa e altri dal “mostro” non con armi “maschili”, se parliamo di stereotipi – non che ci sia nulla di male nel, che so, maneggiare una spada e dimostrare che si può essere forti quanto e più di un uomo, eh, e l'ho dimostrato con Meg e Darya – no, lei salva tutti con la compassione e il sacrificio: la sua empatia fa sì che veda del buono anche nel “mostro” e che salvi persino lui da se stesso. Gli salva l'anima. E poi non si fa mettere i piedi in testa da nessuno: quel “sono padrona delle mie azioni” è il suo mantra e ha insegnato tanto anche a me. Che ci può essere la luce oltre le tenebre, malgrado tutto ciò che ha sofferto (non solo la depressione e l'apatia dopo la morte del padre, ma anche la tortura più o meno psicologica da parte di Erik). Come hai detto tu, ci sono molti che nel fandom di ASOIAF lodano Arya e maltrattano Sansa: io adoro entrambi i personaggi – certo, con Arya è diverso, in quanto la sua discesa nella vendetta è stata esemplare per l'evoluzione psicologica della mia Meg (avevo già detto che Martin mi era stato d'aiuto, vero?) – ma in modo diverso. Solo perché Sansa ha commesso degli errori (a UNDICI anni, lo ripeto) e crede nelle storie cavalleresche e nelle canzoni e le piacciono i bei vestiti non significa che sia stupida o non sia un personaggio forte e ben costruito. Tutti i personaggi di Martin lo sono, per me, e subiscono un'evoluzione pazzesca. Sansa ha avuto la forza di sopravvivere nella corte di Approdo del Re e agli abusi di Joffrey e Cersei, e questo senza mai perdere la sua compassione verso, che so, personaggi come Tyrion o il Mastino. Arya è sopravvissuta a ben altre situazioni. Entrambe sono forti, ma di una forza diversa. Ora, pensare che l'essere “femminili” (ripeto, sempre secondo gli stereotipi) faccia di un personaggio una persona automaticamente più “debole” è… sessista, a dir poco. Non trovi? (E poi a Meg piacciono i bei vestiti. È una ballerina, hai mai visto i costumi – così preziosi e raffinati – di una ballerina professionista? Sono meravigliosi. :D)
Il mio scopo era proprio quello di dare un esempio di grande amicizia al femminile, malgrado Meg e Christine siano l'una l'opposto dell'altra – e io assomiglio più a quest'ultima, certamente: anch'io ho sempre la testa fra le nuvole! È così raro vederne.
Ah, puoi dirmi dove esattamente la dinamica tra Erik e Meg ti è sembrata poco… 1881? Così la prossima volta imparo e non faccio errori.
Ciao, un bacione! :*

P.S. Il tuo post scriptum mi ha fatto sbellicare dalle risate. Ti prego, scrivine altri così! :D

debbythebest: Ciao, cara! Ecco, ho pubblicato… non così presto, purtroppo, perdonami. Sono contenta che ti stia piacendo l'andamento della storia! Ecco di nuovo Parigi – era mancata anche a me, e a Meg, naturalmente. Ti è piaciuta la scena del disegno, quindi? Eh, sì, è tenera. :D Un bacione anche a te, a presto (speriamo)! :*
   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Il fantasma dell'Opera / Vai alla pagina dell'autore: Elphie94