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Autore: Ghevurah    02/01/2017    4 recensioni
Questa città è nata da un sogno e dei sogni possiede la materia: paure che trasudano dalle ombre, desideri che sfilano alle luci delle fiaccole. Così ci si perde e ci si trova in un riflesso capovolto, per poi perdersi ancora. Ancora e per sempre.
Dopo la rovina della Dagor Bragollach, Celegorm, Curufin e Celebrimbor si rifugiano in Nargothrond, ospiti di Finrod Felagund. Quest'è la storia della loro convivenza.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Celebrimbor, Celegorm, Curufin, Finrod Felagund, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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Sperando di non apparire presuntuosa, dedico questo capitolo a melianar.
Grazie per avermi ascoltata, consigliata e appoggiata durante la sua stesura e la sua (travagliata) revisione. Grazie per la tua disponibilità, per esserti prestata a interessanti confronti e – semplicemente – per “esserci” sempre.














I. Scavare






Le fucine di Nargothrond sono un dedalo di stanze, un coacervo di suoni e persone che sfilano tra i vapori, alternandosi alle incudini. Mantici lasciati al loro continuo sbuffare, fornaci e crogioli perennemente incandescenti. Un luogo del tutto scevro di quell’intimità che Curufinwë è abituato ad associargli.
Nelle caverne più ampie, affacciate a un lungo corridoio, sono stati costruiti i forni. Qui la roccia a vista delle pareti è annerita dai fumi, ricoperta di ganci e mensole su cui sono disposti centinaia di attrezzi di svariate fatture.
Lui attraversa l’androne, quasi inosservato in quell’andirivieni di fabbri. Porta con sé i progetti di Nargothrond e nessuno lo ferma o intercetta il suo sguardo mentre supera le sale principali, raggiungendone una più piccola e isolata.
Qui Nármaitë siede sola a un tavolo da lavoro. Il viso accostato a una lente d’ingrandimento, sovrapposte alla quale ne scorrono due più piccole.
Sta incidendo una lamina d’argento. La mano fermissima, un’espressione concentrata e al contempo rilassata, come se quel tipo d’attenzione fosse un’attitudine naturale, per nulla forzata.
Curufinwë, osservandola, rammenta un’aspirazione lontana, il desiderio infantile di raggiungere una simile pacificazione durante il lavoro, dimenticandosi dello sguardo attento di suo padre, travalicando il pensiero che – sempre – correva a lui.
Scaccia quelle riflessioni, chiudendo la porta della stanza.
I cardini gemono, le ante si serrano con un tonfo sordo, di legno vecchio e pesante, e Nármaitë scosta le lenti d’ingrandimento per rivolgergli la propria attenzione. Nello sguardo una nota seccata che Curufinwë ignora.
Le si avvicina e srotola i progetti di Nargothrond sul tavolo, incurante d’invadere il suo spazio di lavoro.
“Cosa vedi?”
La fronte di Nármaitë s’increspa appena, chiarificando un disappunto che rimane muto. Lancia un’occhiata a Curufinwë, poi ai progetti dispiegati sul tavolo.
Lui segue il suo sguardo, ritornando alla scoperta che ha fatto poco prima, nel salotto di Findaráto. Le planimetrie del primo livello di gallerie, le più vicine al corso del Narog, raffigurano anche aree non dettagliate, situate nell’estremo versante orientale.
“Questa parte di caverne,” mormora Nármaitë, indicando proprio le aree in questione, “sono state lasciate al loro stato naturale per via della vicinanza al fiume. L’umidità elevata favorisce crolli.”
Curufinwë picchietta le dita sui disegni. Certo, questa è la ragione che s’evince dai progetti, ma lui ha udito storie lungo la Via dei Casári, storie antiche e oscure che potrebbero tramutarsi in una carta politica.
“Le visiteremo,” dice e Nármaitë solleva il capo, rivolgendogli uno sguardo interrogativo che lui accoglie con indifferenza.
“Capirai quando saremo là.”
“Stavo lavorando.”
“Stai lavorando anche ora.”
Nármaitë fa aderire la schiena alla spalliera della sedia e inspira. Curufinwë sa che non dirà nulla, seguirà il suo volere con quell’espressione scettica, terribilmente irritante, affinché lui abbia ben chiaro che non condivide le sue scelte, i suoi modi.
È in parte grato che sia così: può contare sul suo pensiero critico, sulla sua iniziativa personale, ma queste qualità trovano un limite nella sua fedeltà. La sua fedeltà al retaggio di Fëanáro.
“Porta degli scalpelli con te,” le dice mentre riavvolge i fogli dei progetti.
Poi il suo sguardo abbraccia l’ambiente circostante, la fornace da cui scaturisce una fiamma contenuta, uno sgabello su cui è stato abbandonato un grembiule – indizi di un’assenza che si lascia cogliere con discrezione.
È l’istinto, così, a porre al capitano l’ultima domanda: “Mio figlio?”
Lei pare tentennare per qualche istante.
“Era stanco,” risponde infine. “È tornato nelle sue stanze.”
Curufinwë la studia di sottecchi, e mentre Nármaitë ripone i bulini, nota una scottatura sul palmo della sua mano destra. Non le chiede niente: i silenzi, tra loro, hanno sempre dato più risposte delle parole.
Lascia i progetti sul tavolo da lavoro per avvicinarsi all’incudine su cui è rimasta appoggiata una tenaglia.
Poco più in là, sul bordo della tinozza per il raffreddamento del foggiato, trova un massello. L’osserva, scorgendo l’impronta del martello che aveva iniziato ad appiattirlo.
Allunga una mano per sfiorare il pezzo di metallo informe, ancora tiepido. Andrebbe fuso nuovamente: la lega con cui è stato realizzato è ottima e Curufinwë non tollera gli sprechi.
Così i suoi pensieri corrono alla mano che reggeva il martello, la tenaglia. A quel fabbro che non ha completato la forgiatura.
“Sono comprensibili le preoccupazioni,” dice istintivamente, “tuttavia non possiamo lasciare che esse inficino il nostro lavoro, che annebbino la nostra razionalità.”
S’accorge d’aver dato voce ai propri pensieri, solo quando sono già suono nello spazio angusto della forgia. Solo quando Nármaitë, alle sue spalle, gli risponde.
“Dovresti dirglielo. L’aiuterebbe.”
Curufinwë s’irrigidisce, combattuto fra il disagio che una conversazione così personale gli suscita e il desiderio di approfondirla: in fondo Nármaitë sa, ha sempre saputo.
Ma quella parte di lui che preferisce chiudere gli occhi, pretendere che non vi sia nulla da dire, da chiedere, è la più facile da assecondare.
“Sbrigati,” intima al capitano, raccogliendo i progetti dal tavolo.


I loro passi rintoccano come un monito lungo i corridoi, le guardie che pattugliano l’ala d’ingresso li studiano con l’esitazione tipica di chi è abituato a seguire ordini, sopprimendo l’iniziativa personale.
A Curufinwë ricordano il manipolo di cacciatori che Tyelkormo si è portato appresso da Aman.
Non ha mai creduto che i cacciatori avessero intrapreso il viaggio verso Endórë solo per via di loro padre; la loro lealtà è quella dei lupi: seguono l’odore che condividono, l’ululato che potrebbero emettere, ma non hanno la forza di lanciare. E la fortuna è stata che Tyelkormo si sia emancipato dalle dinamiche assoggettanti del branco, imponendosi come un nuovo capo.
Prosegue lungo il corridoio, accantonando quelle riflessioni ormai inutili.
Tiene una Lampada in mano, nascosta dal mantello che gli ricade sul lato sinistro del corpo. Nei corridoi illuminati dalle fiaccole apparirebbe come un oggetto inutile, inutile e dunque sospetto.
Nármaitë cammina dietro di lui, mentre continua a studiare la pianta di quel primo livello di gallerie. Sulle spalle porta una bisaccia con gli scalpelli che le ha ordinato di prender con sé.
L’ingresso di Nargothrond – un portale all’interno, poco più d’una fenditura all’esterno – sorge a qualche passo da loro, e una delle quattro sentinelle che lo presidiano li avvicina con inedita decisione.
L’alabarda in pugno, gli occhi accesi di un guizzo grigio e determinato puntato su Curufinwë; ma il mistero di tanta risolutezza si svela proprio nello sguardo. Lo sguardo d’un ñoldo.
“Signore,” lo chiama, e nella sua pronuncia non c’è traccia d’alcuna rotondità lascito del Quenya: il suo Sindarin suona tanto aspro quanto naturale, quasi sia davvero la sua lingua madre. “Signore, non si possono lasciare le aule di Nargothrond. È un ordine del Re.”
Curufinwë inarca un sopracciglio, pronto a ribattere, quando Nármaitë lo anticipa.
“Non stiamo lasciando le aule, le stiamo visitando. È forse vietato anche questo?”
La sentinella maschera il proprio stupore con un cipiglio severo. Non ribatte, rimane ferma al proprio posto e li osserva svoltare a destra, costeggiando il portale.
Curufinwë sorride: può quasi udire l’eco delle domande che le vorticano in testa.
Il manipolo di guardie scompare oltre la curva del corridoio, dove le ombre acquisiscono nuova profondità. Loro avanzano ancora e ben presto gli intarsi sulle pareti vengono sostituiti da un livellamento approssimativo, le colonne perdono i loro profili eleganti per tramutarsi in pilastri spogli. Persino le torce appese alla pareti si fanno più rade, tanto che Nármaitë rinuncia a studiare i progetti.
Curufinwë la sente sbuffare piano, sente il frusciare della carta ripiegata e i passi di lei divenire rapidi e costanti, segno che ha smesso di essere distratta da altro.
Forse potrebbero parlare. Potrebbero continuare quel discorso che Curufinwë ha interrotto nella forgia, o affrontarne uno meno personale – per lui. Magari potrebbe chiederle di Liltelenio.
Il pensiero l’accarezza appena, per poi spegnersi nell’oscurità che, superata l’ultima torcia, prende il sopravvento. Di lì in avanti le grotte sono un intestino amorfo, divorato dal buio.
Lui scosta il mantello dal fianco sinistro. Solleva la Lampada che tiene in mano, togliendole la sua copertura.
La luce azzurra rischiara i cunicoli, si riverbera sulle rocce e le bagna di rifratti freddi e al contempo preziosi, trasformandole in migliaia di gemme.
La pavimentazione s’interrompe poco oltre al punto in cui lui e Nármaitë si sono fermati. Dopo di esso, un sentiero accidentato serpeggia fra le pareti aggettanti, prive del sostegno di qualsiasi trave.
“Proseguiamo,” ordina Curufinwë.
S’inoltrano tra le caverne, e quando un suono amniotico risuona tra i cunicoli, capiscono di essere prossimi al corso sotterraneo del Narog.
La luce della Lampada scivola lungo le pareti umide, tempestate di cristalli cerulei. Su una pietra sporgente, all’altezza della loro cintola, un’incisione emerge dal buio: un grafema della lingua dei Casári.
Curufinwë s’inginocchia per toccarlo in punta di dita.
Nulukkizdîn,” mormora. Una parola che persino su labbra abituate alla morbidezza del Quenya suona profonda come gli intestini delle grotte e poi spietata come il buio e la solitudine che lì s’annidano. Una parola perfetta per quel luogo. “Nulukkizdîn, così i Casári chiamano Nargothrond. Hanno vissuto in queste caverne molto prima che i Sindar le scoprissero.”
Nármaitë si china al suo fianco per osservare l’incisione, l’indignazione a indurirne i lineamenti. “E tuo cugino a mezzo nel sangue li ha pagati con i tesori di Tirion affinché le lasciassero?”
“No, non ve n’erano già più quando Elwë Singollo gli indicò queste caverne. I Casári che ha pagato sono venuti apposta dagli Ered Luin per modellarle secondo il gusto degli Eldar.”
“Dunque che n’è stato di quelli che vivevano qui?”
Curufinwë lascia che la domanda di Nármaitë radichi nello spazio contratto delle grotte, nell’oscurità umida attorno a loro, poi s’alza in piedi.
“Questo lo sanno i Sindar, lo sanno e fingono di essersene dimenticati. Noi glielo rammenteremo.”
Un riflesso blu guizza lungo i cunicoli. Il suono liquido e remoto del fiume sembra tramutarsi in un lamento.
Curufinwë abbassa il proprio sguardo verso Nármaitë. “Ma per farlo ci occorreranno quegli scalpelli che hai portato con te.”


Quando torna dalle caverne dell’ala orientale, Tyelkormo è nel soggiorno che le loro camere condividono: una prigione di arazzi e stucchi dorati.
Huan dorme sui tappeti, accanto a un paio di stivali dimenticati. Il tavolo circolare al centro della sala è una congerie di mappe e fogli e coppe semi vuote: l’espressione di un’insofferenza corposa quanto l’odore di vino che permea la stanza.
Suo fratello è abbandonato su una poltrona, il capo riverso contro la spalliera, il corpo piegato in una ricerca di spazio e comodità che non sembra aver trovato.
Vedendolo entrare, sbatte le palpebre e il suo sguardo opacizzato dalla noia s’accende. La sua risata, poi, suona primordiale e graffiante come Curufinwë immagina sarebbe quella d’una belva.
“Hai deciso di rivalutare quelle azzuffate nella polvere che hai sempre disdegnato da bambino?” Gli domanda in un scintillare di denti bianchissimi.
E lui, improvvisamente, non si sente più in grado di ignorare lo stato in cui versa: residui di terra e polvere sugli abiti e sulle mani, ripuliti troppo in fretta.
“Non si nota nulla,” gli aveva mentito Nármaitë.
Suo fratello si stiracchia, i muscoli a tendere la camicia che indossa. È sottile come un velo, uno straccio in confronto agli abiti sfoggiati in Nargothrond, e ai movimenti di Tyelkormo s’arriccia scoprendo la pelle ambrata, ricordo d’un sole che non vede da settimane e – Curufinwë lo sa – gli manca tanto quanto l’odore di pioggia e la frescura dell’aria.
“Mi chiedo solo dove tu abbia trovato un luogo così sporco in tutto questo… splendore.”
Curufinwë incrocia le braccia al petto e indurisce il proprio sguardo. “Devo parlarti.”
La poltrona emette un cigolio sofferente, suo fratello puntella i piedi scalzi sui tappeti e la spinge all’indietro con il proprio peso, sollevandola sulle gambe posteriori. Reclina la testa oltre il bordo dello schienale.
Lui reprime l’impulso di farlo sbilanciare: è sempre stato superiore agli atteggiamenti infantili di Tyelkormo.
“Devi anche trovare una buona scusa per non avermi invitato a venire con te,” bofonchia questi e in un lampo si solleva dalla poltrona che ondeggia pericolosamente.
“Non ti sarebbe piaciuto.”
Tyelkormo si avvicina a Curufinwë, troneggiando su di lui. Con un movimento lento, ostentato, fa scivolare un dito sulla manica della sua casacca per catturare un residuo di terra. Lo studia un istante e si sporge in avanti, tanto che Curufinwë può sentire il suo sorriso – quel sorriso ferino, umido di vino – aprirsi fra i propri capelli.
“Ne dubito,” ridacchia Tyelkormo al suo orecchio e all’improvviso si retrae, passandogli sulla guancia il dito sporco di terra. Un contatto ruvido, a metà fra una carezza e un buffetto.
Curufinwë corruga la fronte e schiocca la lingua, cercando di ripulirsi il viso.
“Se hai finito con il tuo motteggio, gradirei passare alle cose serie.”
In risposta ha il tintinnare della brocca che Tyelkormo soppesa, prima di versarsi da bere.
Allora scavalca gli stivali abbandonati, aggirando l’enorme mole di Huan. Lo vede aprire un occhio e nel suo sguardo assonnato rintraccia quell’ombra di sospetto che ha imparato a ignorare – e odiare. Non sarà un cane, per quanto valarin, ad allontanarlo da suo fratello.
Il tavolo è a pochi passi da lui, quando torna a parlare: “Sono salito con Nármaitë alle aule d’ingresso e ho percorso le caverne più orientali della città, lasciate al loro stato naturale.”
Tyelkormo ferma a mezz’aria la coppa che si stava portando alle labbra. “E lì vi siete azzuffati?” Chiede, un nuovo sorriso a lambire il bordo del bicchiere.
“E lì abbiamo scavato.”
“Spero che questa tua improvvisa voglia di scavare porterà in qualche modo noie al nostro caro mezzo cugino.”
Curufinwë inarca un sopracciglio e allunga una mano per sfilare la coppa di vino dalle dita di suo fratello, Tyelkormo però irrigidisce la presa. L’occhieggia dall’alto al basso con quello sguardo che pare acciaio fuso, ribollito in un crogiolo, quasi lo stesse sfidando a vincere la sua stretta.
Ma Curufinwë conosce l’insofferenza di suo fratello, sa a cosa porta, e per questo ha imparato a contenerla.
S’inumidisce le labbra e ammorbidisce il proprio tocco: una lusinga su dita serrate.
“Farà molto più che portare qualche noia. Ci farà avere informazioni dalle Marche. Ti farà uscire da Nargothrond, se lo vorrai.”
Il sorriso di Tyelkormo torna a tendersi, vino – come sangue – sulle labbra e biancore affilato di denti. E lui lo rivede nella gola di Aglon, ubriaco d’un istinto esiziale.
“Prevedo che lo farà in un modo parecchio contorto.”
Curufinwë irrigidisce appena le spalle. La trepidazione di Tyelkormo è come quella morsa sulla coppa: insostenibile e feroce, condensata nel suo respiro bollente. Un brivido che potrebbe stordire persino lui.
“Ricordi quelle storie che io e Moryo abbiamo udito lungo la Via dei Casári?” Domanda, mentre le dita di Tyelkormo, sotto le sue, tamburellano sulla coppa.


Scorgere la figura di Edrahil in quello che è divenuto il suo studio gli provoca un fastidio necessario.
Il consigliere è un’appendice di Findaráto, un ninnolo di carne e sangue che gli permette di affermare il proprio potere – un potere così inappropriato per il figlio d’un ultimogenito. Ma è anche la voce dei Sindar all’interno del consiglio di Nargothrond, ed è questo il motivo per cui Curufinwë l’ha convocato.
Ora l’osserva indugiare sulla soglia del proprio studio, e non può che pensare a quei segreti che – occhi bassi e riverenze – ha taciuto per anni.
D’altronde i Sindar sono abili nel fuggire, dalle proprie colpe come dalle Ombre che sempre hanno assediato Endórë. Una vigliaccheria che li ha portati a rintanarsi persino sotto terra.
E saranno forse quelle gocce di sangue che Findaráto condivide con loro ad averlo indotto a comportarsi allo stesso modo, edificando il Nargothrond.
“Signore,” lo chiama Edrahil a un tratto, “mi è stato detto che volevi vedermi.”
La sua voce è apparentemente calma, ma Curufinwë avverte l’esitazione che guizza fra le parole. Ed è come trovare il fianco scoperto del nemico.
Lo sguardo di Edrahil corre sulla scrivania; scivola sui fogli sparsi un po’ ovunque, sui libri e gli attrezzi da disegno nell’affannata ricerca di qualcosa a cui non sa dar nome.
Nel notarlo, Curufinwë non può che sorridere.
“Da quanto tempo conosci mio cugino a mezzo nel sangue?”
“Dapprima che lo chiamassero Felagund,” è la risposta decisa solo in apparenza, perché i Sindar lo sanno: le apparenze sono tutto. Le fondamenta d’una città possono ergersi su di un’ecatombe, basta che oro e intarsi celino il sangue. Ed è facile, poi, chiamare assassini coloro che non rifuggono le proprie azioni.
“Lui si fida del tuo consiglio?” Domanda Curufinwë, giocherellando distrattamente con un calamo asciutto.
Sente lo sguardo di Edrahil su di sé, ne assapora il nervosismo che sembra acuirsi al suo tamburellare l’oggetto sul tavolo con un ritmo regolare e continuo. Tac, tac.
“Mi pare ovvio.”
Tac, tac.
“E fosti tu ad accompagnarlo a visitare queste caverne, quando Elu Thingol gliene parlò?”
Tac, tac.
“Fui io, sì.”
Curufinwë ferma il picchiettare del calamo, voltandosi verso Edrahil. Il suo sorriso si accentua quando ne scorge l’espressione: la fronte aggrottata, le labbra serrate. I suoi sentimenti sono tutti lì – pennellate nette sul viso – pronti a essere usati contro di lui.
“Ho sempre reputato curioso che un principe Ódhellim qual’egli è fosse così affezionato a un Thinnedhel conosciuto qui in Ennor.”
Lo sguardo di Edrahil s’incupisce, i suoi tratti s’irrigidiscono: è chiaro lo sforzo che sta compiendo per controllare la propria rabbia.
“Tuo cugino non è un semplice principe quale tu sei. Egli è re, re di Nargothrond. E ci sono sempre stati buoni rapporti fra me, fra noi Edhil, e la sua Casata.”
Curufinwë indugia per un attimo su quella prima frase, l’orgoglio punto da una verità fastidiosa. Ma nella sua vita ha incassato stoccate ben più taglienti, restituendole con calcolata precisione.
“Chissà se Elu Thingol la pensa allo stesso modo.”
“Re Finrod non condivide le vostre colpe.”
“Certo,” sorride Curufinwë, “ed è perché pensi questo che non sei tornato nel Doriath dopo il Bando. Non ha alcuna rilevanza il fatto che qui rivesti il ruolo di consigliere, mentre là…” Corruga appena la fronte, il calamo appoggiato alle labbra – una recita dichiarata: “Cos’eri là? Un rifugiato?”
È allora che Edrahil cade nelle sue mani, infrangendo ogni parvenza diplomatica.
“Non permetto a nessun Fëanorion di mettere in dubbio la mia lealtà nei confronti del Re! Gli sono sempre stato accanto, ho esplorato per lui queste caverne, ho sovrainteso alla costruzione della città e sempre, sempre egli ha potuto fare affidamento su di me!”
Curufinwë assottiglia il proprio sguardo. “Dunque conosci bene queste caverne. Conosci la loro storia meglio di quanto lui stesso la conosca.”
Non sono domande, le sue, ma constatazioni che trasfigurano la rabbia di Edrahil nella consapevolezza d’aver commesso un passo falso.
Tuttavia, se aveva immaginato di trarre soddisfazione da questa piccola vittoria, si deve ricredere: nel suo animo serpeggia solo un’irritazione sottile – inappropriata – all’idea che Findaráto si circondi di consiglieri così facilmente raggirabili.
Non aspetta la risposta di Edrahil, non ne ha bisogno: ciò che deve sapere è scritto sul suo viso.
“Tyelko,” chiama, e il suono pieno e famigliare di quelle sillabe diviene l’ostentazione d’una vittoria altrimenti insipida.
La porta incassata nella parete destra si apre. Suo fratello ne varca la soglia con le movenze d’un predatore. Gli occhi puntati su Edrahil, accesi dal suo sgomento.
Quando il consigliere sussulta all’appropinquarsi di Tyelkormo, Curufinwë può finalmente assaporare una sensazione di vero compiacimento.
Suo fratello si ferma alle spalle del consigliere, sovrastandolo: una belva che alita sul collo della propria preda. E così – vicinissimo – l’osserva, facendogli sentire tutto il peso del proprio sguardo, tutta l’impotenza della sua condizione.
Tyelkormo allunga un braccio verso la scrivania in un gesto che sembra avvolgere Edrahil nella promessa d’una stretta, mentre il suo intero corpo incombe su quello più minuto del consigliere.
Curufinwë sorride apertamente, allora. E suo fratello appoggia un fagotto proprio dinnanzi a lui e allo stesso Edrahil.
“Cos’è?” Domanda questi, la voce stentata come dopo una lunga apnea.
“Prove di quei segreti che hai taciuto al tuo Re,” risponde Tyelkormo, e quando le sue dita aprono il fagotto lembo dopo lembo, Edrahil impallidisce.
“Segreti che il saggio Finrod, amico di Edain e Naugrim, sarebbe meglio non scoprisse.”
La parole di Tyelkormo sono un mormorio roco, perso fra i capelli del consigliere. Quando glieli scosta dalle spalle, trattenendoli in un unico pugno, Edrahil non riesce a reprimere un tremito.
“Dico bene?” L’incalza Tyelkormo, mentre un’autorità inappellabile ne indurisce il tono.
E Curufinwë non può che pensare a quanto la sua voce, così modulata, ricordi quella di loro padre.
Ma simili pensieri vengono accantonati in favore della reazione di Edrahil.
Il consigliere risponde a Tyelkormo con un cenno rigido del capo, un’espressione furente e al contempo intimorita a tendergli i lineamenti. “Cosa volete?”
Tyelkormo ruota il viso, cerca il suo sguardo, lisciandogli i capelli con la mano destra.
“Vogliamo un accordo ragionevole. Tu ci sosterrai nel consiglio e noi non riveleremo al nostro caro mezzo cugino cosa, o meglio chi, il tuo popolo si divertiva a cacciare in queste caverne.”
Curufinwë guarda Edrahil agitarsi nella presa di suo fratello: un piccolo animale fra gli artigli d’un predatore, divertito dalla sua vana resistenza.
Il consigliere contrae la mascella e abbassa i propri occhi su quelli di lui, al di là della scrivania. “So che volete far inviare drappelli di ricognizione nel Beleriand, ma io sono solo uno e un Edhil come me che si schiera a favore di voi Fëanoryn non potrebbe che destare sospetti: sarà ovvio a tutti che io sia sotto ricatto e nessun altro, nel consiglio, ci appoggerà.”
Curufinwë sostiene il suo sguardo con impassibilità. Dopo aver assaggiato la sconfitta, accettando la pietà d’un mezzo cugino a cui sarebbe dovuto essere superiore; dopo aver passato giorni a maledirsi per non aver previsto, controllato, calcolato. Dopo tutto questo, farà ogni cosa in suo potere per abbracciare il più completo successo.
“Non temere,” dice. “Ho pensato a come rendere il tuo appoggio credibile… Se non al nostro mezzo cugino, almeno agli altri consiglieri.”
Poi allunga una mano per ripiegare il fagotto di stoffa. Un istante e il riflesso delle fiaccole s’insinua tra le pieghe, incontrando il profilo perlaceo di alcune ossa. Ossa troppo piccole per appartenere a Quendi o Atani.













Note:

In lingua Sindarin:

Ódhellim è uno dei termini impiegati per indicare il popolo dei Ñoldor, il suo singolare è Ódhel che in realtà identifica semplicemente un Elfo che ha lasciato Aman.
La traduzione letterale di Ñoldor sarebbe Golodhrim, ma come ci viene detto da Tolkien, il termine aveva assunto una valenza negativa. Tuttavia la parola in sé e per sé non sembra avere nulla d'irrispettoso, e questo mi ha portata a credere che fosse il suo utilizzo da parte dei Sindar, utilizzo che io immagino essere sarcastico (“popolo dei sapienti” è un nome abbastanza ambizioso con cui identificarsi), a offendere i Ñoldor.
Dunque il termine che quest’ultimi prediligevano era Gódhel, ovvero un’evoluzione di Ódhel a cui era stata aggiunta la “g”, contrazione di gûl (“conoscenza”), corrispettivo dell’emblematico ñolmë (o ñólë), a sua volta radice del termine Ñoldor e quindi identificativo del popolo.
È mia personalissima credenza che alcuni tra i Fëanoriani – come ci si aspetta dai figli di un linguista puntiglioso – avessero un altrettanto personale problema con il suono di quella “g”, gutturale e lontana dai suoni morbidi del Quenya. Inoltre, riconoscendo la radice gûl presente anche in Golodh, associavano il termine Gódhel al primo e a tutte le sue sopracitate implicazioni. Quest’è la ragione per cui ho preferito far utilizzare a Curufin il più generico Ódhellim.
Thinnedhel è la traduzione letterale di Sindar.
Ennor, indica la Terra di Mezzo.
Edhil letteralmente “Elfi” (quindi – in realtà – traduzione del più generico Eldar), è il termine che i Sindar utilizzavano per indicare loro stessi in quanto popolo. Ho pertanto ritenuto opportuno che Edrahil lo preferisse al sopracitato Thinnedhel, che a mio avviso potrebbe essere una sindarizzazione a opera degli stessi Ñoldor.
Edain, il “secondo popolo”, ovvero gli Uomini, più precisamente gli Uomini del Beleriand e i loro discendenti.
Naugrim, termine essenzialmente dispregiativo usato per indicare i Nani. Il suo significato è “(popolo dei) rachitici/sottosviluppati dorati”.
Fëanoryn, figli di Fëanor. La desinenza –yn è il plurale di –ion, “figlio”.


In lingua Quenya:

Moryo, abbreviazione di Morifinwë, nome paterno di Caranthir.
Elwë Singollo, traduzione di Elu Thingol.
Atani, corrispettivo di Edain
Quendi, lett. “coloro che parlano con voci/i parlatori”, il nome che gli Elfi si erano dati in Cuiviénen. A differenza di Eldar (gli Elfi dell’Ovest che iniziarono il Grande Viaggio verso Aman) indica tutto il popolo elfico.


Il capitolo e il piano politico di Curufin ruotano – come spero si sia compreso – attorno alle cacce perpetrate dai Sindar nei confronti dei Nanerottoli, originari abitanti delle caverne del Narog.
Da come Mîm racconta l’accaduto a Túrin, ho evinto che questo fatto non fosse a conoscenza di tutti, ma che anzi venisse generalmente taciuto. Ho pertanto ipotizzato che fosse stato taciuto anche allo stesso Finrod (i Sindar avevano buoni motivi di credere che non avrebbe accettato la cosa a cuor leggero).
L’idea che i Nani degli Ered Luin non si siano sentiti indignati a lavorare nel futuro Nargothrond, pur sapendo – si suppone – delle sopracitate cacce, deriva dal fatto che i Nanerottoli erano stati esiliati dai regni nanici e che – di conseguenza – non dovevano godere di buona fama tra gli stessi Nani.


Grazie per aver letto.



   
 
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