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Autore: arsea    05/01/2017    2 recensioni
Lo vide sbiancare ancora di più se possibile, cereo: "Cosa vuoi fare?" domandò spaventato "Non è la prima volta, Charles. È sempre così: ci incontriamo, ci amiamo e io rovino tutto. Mi dispiace… mio Dio… mi dispiace" "Cosa stai dicendo?" gli prese la destra, così debole, oh, così morbida, e la incatenò alla sua "Fidati di me" disse "Ti troverò" lo baciò mentre teneva la sua mano, lo immobilizzò con quel bacio e prima che potesse fermarlo affondò il pugnale dritto nel suo cuore
Genere: Commedia, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Charles Xavier/Professor X, Emma Frost, Erik Lehnsherr/Magneto, Raven Darkholme/Mystica
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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L’ufficio dello staff altro non era che un soppalco dal tetto spiovente, ma i mobili di design e l’elegante pavimento in mosaico di legno, trasformava quel luogo piccolo e nascosto nel locale degno di una galleria d’arte.
Raven gli aveva presentato solo quella mattina la curatrice e quel posto la rispecchiava in gran parte, una donna elegante e sofisticata che indossava abiti africani sopra scarpe con il tacco di Parigi.
Proprio come la prima volta che l’aveva vista, Edie portava scarpe spaventosamente alte, abbastanza da essere alla sua stessa altezza, e Charles preferì concentrarsi su quello piuttosto che sul motivo per cui fosse lì.
La fece accomodare sul basso divano vicino all’unica finestra visto che l’alternativa sarebbe stata la sedia davanti alla scrivania, ma quello fu l’unico pensiero coerente che riuscì a formulare, ogni sua cellula lo pregava di evitare quel che sarebbe venuto.
Se non avesse temuto di peggiorare la situazione, avrebbe cancellato la memoria anche a lei << Siedi accanto a me, caro >> lo invitò lei invece, del tutto ignara, battendo piano il palmo sulla seduta di fianco a sé, con quel sorriso buono e cordiale che pungeva il fegato.
Obbedì anche se rigido e a disagio, non voleva essere lì e non voleva ascoltarla, per la prima volta in vita sua volle cacciar via qualcuno in malo modo.
Solo l’orgoglio che protestava per un gesto tanto vile lo fermò.
Edie prese un respiro profondo e il sorriso si affievolì, lasciando sul volto un’espressione di assoluta serietà, proprio come lui, quando azzannava e non aveva alcuna intenzione di lasciare l’osso << Quanto sto per dirti ha dell’incredibile. Non te ne parlerei se non fosse per... la situazione >> lo avvertì << C’entra con il fatto che Erik conosceva il mio nome prima di conoscere me? >> la donna diede in una risatina e scosse il capo, anche se alla fine non sembrava né felice né divertita, no, sembrava sofferente << Erik conosceva il tuo nome prima di conoscere il proprio >> disse, lasciandolo interdetto.
Sospirò ancora, fissandosi le mani strette in grembo, e per un lungo momento non fece altro, raccogliendo il coraggio << All’inizio io e suo padre pensammo ad un amico immaginario >> mormorò, stringendosi le mani una nell’altra << Non è raro coi bambini, giusto? Non faceva che parlarci di questo Charles, di come dovesse trovarlo, della sua missione la chiamava >> << T-trovarmi? >> questa volta quando lo guardò pareva sul punto di piangere << È quello che diceva >> la sua voce si fece fievole, si spezzò, ma quasi quel suono le fosse inaccettabile, raddrizzò le spalle, sbatté le palpebre un paio di volte e si fece più salda << Un sogno >> disse << Sempre lo stesso. Un uomo che Erik ancora non era ma che era già capace di descrivermi, e un altro, più giovane, quattro anni più giovane, ne era sicurissimo. In un ospedale. Tu... tu stavi male, piangevi, Erik non faceva che ripetere che non avrebbe mai permesso che una cosa simile succedesse di nuovo. Sai quanto sia terribile vedere un bambino giurare una cosa simile? >> << Non è possibile >> ansimò Charles, sentendo il proprio cuore accelerare << È quello che pensavo anche io. E lo avrei pensato tutt’ora se non avessi visto coi miei occhi le sue capacità. Se può controllare i metalli perché non conoscere chi non conosce? >> << Quella è la sua mutazione! È... è scienza! Lei... lei mi sta parlando di... cos’è che mi sta dicendo? >> << Vite passate >> dichiarò la donna, estraendo dalla tasca un foglio di carta spiegazzato, dai bordi consumati, piegato in quattro.
Glielo porse e Charles lo prese con una mano tremante, rivelando un disegno a carboncino, bianco e nero, il tratto un po’ incerto, grossolano, eppure era impossibile non riconoscere se stesso in quelle linee.
Era senza parole << L’ha disegnato quando aveva quattordici anni >> rivelò lei in un alito di fiato << Occhiazzurri. Pellechiara. Lentiggini. Labbrarosse >> scandì << Quando era troppo piccolo per capire, quando il suo cuore ancora non era pronto per provare quello che doveva, era così che ti descriveva. Puoi immaginare cosa significhi per un bambino? Ti disegnava, ti cercava nei passanti, a volte piangeva disperato senza nemmeno sapere perché. Come poteva dare un nome a quel che provava? >> Charles la ricambiò con gli occhi sbarrati, spaventati a dire il vero, qualcosa di molto simile al terrore vero e proprio << Come posso credere ad una cosa simile? >> lei lo ricambiò severamente questa volta << Conosci Erik. Ti è mai parso un bugiardo, Charles? Puoi dire tutto di lui, ma non questo >> aveva ragione naturalmente, ma come poteva essere la verità?
Tornò a guardare il foglio impossibile, senza saper che pensare.
Quindi si limitò ad ascoltare << Lo abbiamo fatto parlare con degli specialisti, abbiamo cercato in tutti i modi di fargli capire che eri una menzogna, una costruzione mentale, ma lui era inamovibile. Quando è stato abbastanza grande da capire cos’era l’amore ha cercato lui stesso di rinnegarti, non capiva come potesse amare qualcuno, un uomo, che nemmeno conosceva, eppure quell’amore è rimasto. Non l’ha mai abbandonato. Ma questo tu lo sai bene, vero? >> non riuscì a far altro che assentire, ricordando con un brivido quel sentimento cristallino che aveva calpestato con incuria << Un giorno è venuto da me in lacrime, terrorizzato. Era inconsolabile, spaventato, continuava a ripetere che non poteva essere felice se tu non c’eri, che sarebbe stato condannato ad amare il ricordo irraggiungibile di un se stesso che non era più lui, e da allora non ho più avuto alcun dubbio. Quella sofferenza era vera, Charles, e non poteva scaturire da qualcosa di falso. Non ha mai smesso di cercarti, nemmeno per un momento, ogni giorno da quando ha memoria >> << Tutto questo... >> << Non ha senso, certo >> lo anticipò lei indulgente, posandogli una mano sulla coscia << Ma prova a pensare per un momento che ne abbia. Pensa se fosse davvero così. Nemmeno lui sa da quante vite ti sta cercando, mi ha parlato di alcune di loro, quando siete stati insieme, quando non lo siete stati, quando ti ha trovato e perso. Non voglio essere io a raccontartele, quanto ti ho detto serve solo per... >> prese un respiro profondo, molto profondo, stringendo la sua gamba nel suo palmo << Capisci adesso perché sono qui? Quel che hai cancellato della sua memoria è ciò che maggiormente lo compone, Charles. Senza di te mio figlio non è nessuno, per il semplice motivo che finora ha vissuto in tua funzione  >> se c’era un modo di farlo sentire anche peggio di quanto si era sentito finora era quello.
Il suo cuore fu stretto da un morsa d’angoscia terribile, abbastanza da prosciugarlo di ogni colore << P-perché non me l’ha mai detto? >> gemette, ed era lui in lacrime adesso, sconvolto << Come poteva dire qualcosa di così anormale a qualcuno che già lotta strenuamente per accettare la propria diversità? Charles... tu non volevi la verità, altrimenti l’avresti carpita dalla sua stessa mente >> aveva ragione naturalmente, ma ammetterlo non lo rese più facile da accettare.
Cosa aveva fatto?
Cosa diavolo aveva fatto?!
Si alzò in piedi senza vera e propria coscienza di sé, una mano sulla bocca mentre il pianto continuava, cominciando a marciare avanti e indietro incapace di star fermo << Charles >> lo richiamò, e sembrava preoccupata questa volta << Mi dispiace! >> esclamò lui, perché era vero, perché era l’unica cosa che potesse fare << Io... io non posso... Non so come tornare indietro >> ammise stringendosi nelle spalle << Ero spaventato! Ero... stavo... Dio, stavo così male >> << Non devi dirmi nulla, caro. Calmati adesso. Perché non vieni qui e... >> << Non se lo meritava! >> gridò lui invece, e non importava che quella donna fosse un’estranea, non importava che non sapesse un accidenti, perché l’unica cosa che era importante, l’unica che non poteva più, per nessun motivo, restare celata era che lui si sentiva soffocare << So che non se lo meritava >> gemette << Ma continuava a guardarmi! Continuava a... con quegli occhi che ti entrano dentro, e... cosa dovevo fare?! >> << Charles, per favore... >> << Ho fatto una cosa terribile >> esalò lui crollando sulla sedia poco lontano, prendendosi il volto tra le mani << Sono stato egoista, e vigliacco, e così dannatamente stupido! >> Edie lo raggiunse un po’ titubante, gli posò una mano sulla spalla anche se non era certa di averne il diritto, e quando la guardò Charles avrebbe tanto voluto che un po’ dell’amore che vedeva nello sguardo castano fosse rivolto a lui.
Quella donna aveva creduto ad Erik. Per quanto folli o assurde fossero le parole di suo figlio, lei gli aveva creduto.
Questa volta non provò gelosia o invidia, provò solo e soltanto dolore, anche quando lo abbracciò amorevole, e forse era proprio ciò di cui aveva bisogno perché non la allontanò.
Rimasero così per un po’, poi lei lo scostò gentilmente per guardarlo in viso, e anche se Charles provò vergogna per la propria debolezza e la propria reazione, lei sembrava solo preoccupata << La mia mamma sta morendo >> gli uscì fuori così, senza un pensiero a deciderlo, senza alcun criterio.
Quella frase era rimasta intrappolata dentro di lui per giorni, relegata nel suo angolo più nascosto soffocata da inibitori e alcol, ad imputridire, a marcire, e adesso lo aveva infettato così tanto che in lui non restava molto altro.
La donna lo guardò con tanto d’occhi, incredula, ma prima che potesse pronunciare un’altra parola qualcuno bussò alla porta.
L’incantesimo fu rotto.
Charles tornò consapevole di dove era e con chi era, si ricordò che non aveva più l’età per le scenate isteriche e gli abbracci materni, perciò si affrettò a ricomporsi, si alzò in piedi e si allontanò da lei con imbarazzo frettoloso, asciugandosi le guance con le dita prima di andare alla porta, in tempo per un altro deciso colpo di nocche << Arrivo >> si schiarì la gola dopo, riappropriandosi anche della sua voce, ma quando aprì la porta quel che vide la prosciugò ancora una volta << Mamma! >> esclamò Erik entrando a grandi falcate, raggiungendo la donna immediatamente.
Non lo degnò di uno sguardo.
Lo ascoltò dire qualcosa in yiddish che non comprese << Mi hai spaventato >> la sua voce arrivava concitata e grave, sentirla di nuovo gli ricordò sussurri che aveva giurato di dimenticare << Ti ho chiamata almeno dieci volte >> << Non si tiene la suoneria in una galleria d’arte >> lo rimproverò lei blandamente << Potevi avvertirmi. Pensavo che... mi sono preoccupato >> Edie gli diede un buffetto sul braccio, come a dire che stava esagerando, e sospirò alzando gli occhi al cielo << Come mi hai trovata? >> << Il gps del cellulare >> l’occhiata che gli rivolse conteneva biasimo questa volta, abbastanza perché quell’uomo che la superava di quasi due spanne si stringesse nelle spalle mortificato << E perché mi hai cercato così disperatamente da impicciarti nelle mie uscite serali? >> << C’è una cosa che... Devo parlarti >> lei assentì lentamente, ma invece di avvicinarsi a lui si volse invece verso Charles, raggiungendolo.
Solo allora gli occhi color piombo notarono la figura ancora immobile sulla porta, lo scandagliarono impietosi dall’altro in basso una volta sola, gelidi e incolori come non erano mai stati, a malapena si soffermarono sul corpo e il volto, conficcandosi invece direttamente in quelli annacquati e pallidi di Charles << Tu sei quel ragazzo >> disse, la voce pareva composta di sabbia graffiante, anche quella era un suono nuovo, anche quella incise in lui come una lama, facendolo persino trasalire.
Era davvero Erik quello davanti a lui?
Quella fredda sagoma che pareva giudicarlo niente più che un altro pezzo di mobilio era davvero stato il suo migliore amico?
Non si sentì più aria nei polmoni nel rendersi conto di aver distrutto qualcosa di così prezioso, e forse questo trasparì sul suo viso, forse impallidì, forse i suoi occhi cangiarono come a volte facevano, trasformandosi in due laghi d’acqua sporca e ghiaccio << Charles >> lo richiamò la donna preoccupata, ma ancora una volta l’unica cosa che notò era che il tono non era quello giusto, mancava qualcosa, mancava calore.
C’era ancora calore?
Stava tremando perché aveva freddo? Oppure era freddo perché tremava?
Edie stava ancora parlando? No, era fuori adesso. Dove?
Che domande. A casa, dove altro doveva essere?
Doveva solo andare a letto e ogni altra cosa sarebbe andata a posto.
Doveva riposare.
Riposare.
 
*
Emma aveva scelto il bianco naturalmente per il vestito che indossava, un semplice abito a sirena che sottolineava il suo corpo nel perfetto modo in cui doveva essere sottolineato prima di gettarsi sulle sue gambe in una cascata più morbida, l’unica traccia di colore era la manica sinistra, un traslucido pezzo di stoffa dorata abbastanza leggero per far trasparire la sua pelle candida, e i bracciali d’oro zecchino che portava al polso destro.
E i suoi capelli, certo.
Le scendevano in ordinate e morbide onde sulle spalle, non aveva bisogno di guardarsi allo specchio per sapere che sarebbe stata al centro dei pensieri di chiunque avesse posato lo sguardo su di lei, esattamente come sapeva che a malapena aveva sfiorato invece quelli dell’uomo al suo fianco.
Si era vestito in maniera inaspettatamente decente, completo nero giacca e cravatta, con tanto di panciotto e scarpe lucide, insieme parevano una coppia di star del cinema più che un impiegato e la sua accompagnatrice.
I suoi pensieri in realtà, tanto per cambiare, erano incentrati su Charles.
La sera prima quel pezzo di vetro scadente si era scheggiato una volta di più per chissà quale ragione e Erik lo aveva visto andar via prima che potesse rivolgergli le domande che gli servivano.
Era curioso notare come la sua mente fosse cambiata dopo l’intervento del telepate, la camera blindata era stata completamente stravolta, le cassette di sicurezza erano rovinate, graffiate, alcune sventrate con tale violenza che il loro contenuto si riversava sul pavimento di metallo.
C’erano libri, mozziconi di candela, un pacchetto di sigarette, decine e decine di oggetti accatastati senza un ordine preciso.
Aveva parlato con sua madre, era evidente, e questo in qualche modo aveva smosso i ricordi cancellati, ma non abbastanza per farli riaffiorare nella mente cosciente.
Lei non era capace di altrettanta forza.
Questo la infastidiva, non era invidiosa ma solo irritata dal fatto che un simile potere andasse sprecato, ma scacciò quegli stupidi pensieri non appena entrarono nell’enorme salone dei ricevimenti.
La villa era sontuosa, stile neoclassico per l’ingresso, con ampie colonne che ricordavano il Lincoln Memorial, morbidi tappeti nell’atrio decorato con stucchi e un bellissimo giardino al chiuso al centro della rampa di scale che portava al piano superiore, e la sala dove furono accolti che pareva un piccolo mondo di sfumature azzurre << Ancora non so perché sono qui >> lo sentì sospirare per l’ennesima volta, la mascella irrigidita dalla rabbia e gli occhi grigi fissi sul calice di champagne tra le sue mani come volesse disintegrarlo << Perché me l’hai promesso, è ovvio >> ribatté lei con una pacca sul braccio che teneva, affettuosa per chiunque e beffarda per loro due.
Il capo della polizia si avvicinò per salutare lei, lui e suo padre erano amici naturalmente, e lei presentò quell’uomo ingrato a mezza città, tutti sembrarono incuriositi dal fatto che Emma Frost avesse deciso di partecipare al semplice Galà di una Fondazione, ma lei continuava solo a sorridere e loro a pensare che quel sorriso fosse tutto ciò che la componeva << Fai quello per cui sei qui e andiamocene >> le disse lui accostandosi al suo orecchio << Ti vedo a disagio. Non ti piacciono le feste? >> lui svuotò il bicchiere e sospirò ad occhi chiusi, come per calmarsi << Non è così. È solo... devo parlare con quel ragazzo. Con Charles. Devo capire cosa è successo >> << Tua madre ti ha spiegato, giusto? Cos’hai ancora da capire? >> lui corrugò le folte sopracciglia, come se non capisse quel che aveva detto << Davvero per te è stato così semplice da accettare? La storia delle vite passate... solo a me pare assurda? >> lei si strinse nelle spalle sottili, ma a dir la verità lo ascoltava con un orecchio soltanto, ben più concentrata a sondare le menti che la circondavano << Sembravi piuttosto convinto >> mormorò, carezzando infine i pensieri della misteriosa signora Darkholme.
Si era ritirata a vita privata da quasi quindici anni, scomparsa dalla società, si presentava di fianco al marito solo una volta all’anno.
E solo lei conosceva la verità << Non mi stai ascoltando, vero? >> Emma tornò a focalizzarsi sull’uomo sbattendo le belle ciglia e lui schioccò la lingua contro il palato scuotendo il capo << Sono una specie di accessorio vedo. Oh, fa come vuoi. Io sono al bar quando hai bisogno >> << La perspicacia è la tua maggior qualità, l’ho sempre detto >> lui si trattenne dal risponderle in malo modo, allontanandosi infine.
Il signor Darkholme non era responsabile e lei ne era certa. Aveva controllato con puntiglio tutte le carte, aveva scavato a fondo, e nemmeno nei suoi ricordi aveva scoperto alcunché.
La figlia era semplicemente scomparsa nel nulla all’età di tre anni, rapita secondo gli atti, e da allora la famiglia aveva istituito la Fondazione in nome di Mystica Darkholme per l’assistenza di coloro a cui era successo lo stesso.
Che razza di nome è Mystica? Chi chiamerebbe così la propria bambina?
Eppure aveva un che di profondamente giusto se quel che pensava fosse risultato vero.
Aveva avuto fortuna con un paio dei precedenti, aveva seguito le briciole di pane e non era stato difficile scoprire chi era stato abbandonato, chi venduto, chi preso con la forza, ma i Darkholme erano tutta un’altra storia.
Non erano disgraziati ai bordi della società, non si trattava di qualche villaggio sperduto del Brasile o del bambino strano di un operario polacco. Erano gente di spicco, difficile da avvicinare, difficile anche solo da incontrare.
Negli ultimi tre anni non si era occupata di nient’altro.
Da quando aveva scoperto la lista nelle cartelle di suo padre era diventata la sua personale missione, il suo obiettivo, l’unico modo che aveva per riuscire a dormire continuando ad essere un diamante lucente.
La prima parte era stata la più semplice: distruggere ogni legame della Frost&Frost con quel nome, cancellare gli accordi, disperdere le collaborazioni.
Poi era cominciata la caccia naturalmente.
Il primo era stato un bambino indiano, un uomo ormai, trovarlo aveva richiesto ogni briciolo di energia per più di otto mesi, ma mandare la lettera alla sua famiglia aveva ripagato ogni sforzo.
Il secondo un giovane irlandese, il terzo una ragazza del New Jersey.
Il quarto Mystica Darkholme.
Aveva fatto i salti mortali per diventare un avvocato associato, eppure l’amicizia con Erik non era stata programmata, no, aveva pensato che Margaret fosse sufficiente per rimediare un invito per il Gala, ma alla fine aveva ottenuto due piccioni con una fava.
Le restava ormai l’ultimo passo.
Karen Darkholme era una donna come molte, anonima, capelli neri tagliati alla spalla, perfettamente tinti e perfettamente acconciati, corpo snello ma ammorbidito dall’età, e occhi di un verde un po’ opaco, spento, lo sguardo di chi non trova nulla che valga la pena essere guardato.
Era assediata da un piccolo capannello di donne troppo truccate e troppo ingioiellate, le classificò spietata con un’occhiata soltanto, ma questo non le impedì di avvicinarsi abbastanza per usare il proprio potere.
Fu cauta, delicata per non far danni circondata com’era da così tante persone, e questo significava concentrarsi abbastanza da esternarsi da tutto ciò che le stava intorno.
Si appoggiò ad uno dei piccoli tavolini intorno a cui la gente chiacchierava, ignorò le parole e la musica, scostò il delicato velo che oscurava la donna e si immerse in quella mente delicata e silenziosa.
Non si soffermò su insulse scene quotidiane e ricordi mediocri, cercò il punto più nascosto, recondito, proibito.
Tutto era grigio intorno a lei, incolore e smorto, tranne una piccola porta luminosa.
La scostò con delicatezza, nonostante tutto non poteva non provare un po’ di estraneità quando scendeva così tanto in profondità in una persona, e fu sorpresa di sentire il suono zoppicante di un carillon.
No, non era un carillon, era una giostra per bambini.
Si trovava in una stanza che non conosceva, completamente in ombra se si escludeva un cerchio di luce dorata che illuminava una sedia a dondolo e una culla bianca.
Sulla sedia c’era Karen, addormentata, inconfondibile nonostante i capelli più lunghi e il viso ringiovanito, mentre dentro la culla...
Si avvicinò ancora, in punta di piedi anche se non poteva svegliare la donna in alcun modo con la sua presenza impalpabile, e trattenne il fiato nel riconoscere un minuscolo batuffolo blu in mezzo alle lenzuola candide, una neonata dalle guance gonfie composte di frammenti di lapislazzulo e fragili palpebre di iridescenti scaglie cobalto.
Un ciuffetto ramato spuntava in mezzo alla testolina spelacchiata, altri due erano un accenno di sopracciglia, ma non aveva bisogno anche di quella caratteristica per identificarla senza alcun dubbio << Si sente poco bene? >> Emma trasalì nel sentire quella voce rimbombare tra quelle mura oniriche, sbatté le palpebre e le riaprì di nuovo nella sala dei ricevimenti, gemette quando la musica tornò ad aggredirla insieme al chiacchiericcio, ma subito dopo mise a fuoco la persona che aveva davanti.
Era molto vicino prima di tutto, forse troppo, con una mano tesa verso di lei come se temesse stesse per cadere, ma non fu la vicinanza a metterla a disagio, no, fu lo sguardo.
Una perla purissima, rara e inimitabile.
Non ebbe bisogno di sondare i suoi pensieri o le sue emozioni per capirlo, erano più che sufficienti quegli occhi blu, più scuri dei suoi, trasparenti, gelidi, colmi di una scintilla cristallina che non aveva mai visto altrove.
I suoi pensieri erano come il suono prodotto da un diapason: puliti, assoluti, possedevano l’accecante limpidezza di una lama d’argento.
È bellissima pensava, una voce bassa e vibrante come una carezza di velluto.
Si guardò coi suoi occhi ed Emma si vide bellissima, adamantina, splendente sotto le luci nonostante il volto congelato in un’espressione sconvolta << Signorina? Si sente bene? Ha bisogno di aiuto? >> << N-no >> riuscì a formulare lei dopo un istante, nello stesso momento in cui Erik tornava al suo fianco e la accostava con fare inaspettatamente protettivo << Emma? Ti senti bene? >> << Sì... credo di sì >> era rimasta folgorata da quell’essenza, non aveva mai visto nessuno come lui.
Quell’uomo camminava conformando ogni singolo passo ai suoi desideri, non era lui a muoversi secondo le regole del mondo, no, era il mondo a piegarsi alle sue << E lei? >> continuò Erik rivolgendosi all’uomo, che sollevò un sopracciglio curato per squadrarlo dall’alto in basso, quindi si lisciò il risvolto di seta della giacca in un tocco distratto prima di tendere una mano con disinvoltura << Dottor Schmidt >> si presentò con un sorriso che in qualche modo non parve meno genuino del resto di lui.
Erik fissò prima la sua mano per un momento, poi la prese e ricambiò con il proprio nome << La signorina... Emma, se ho capito bene, stava avendo un mancamento temo >> << Nessun mancamento >> dichiarò lei, ricacciando indietro ogni tentennamento.
Era stata guardata altre volte dagli uomini, ne era persino compiaciuta, ma il modo in cui quegli occhi la sondavano le fece accapponare la pelle.
Nemmeno lei avrebbe saputo dire però se fosse piacevole o meno << Sono uno degli amministratori della Fondazione. Mi occupo del reinserimento attivo delle famiglie delle vittime >> spiegò con la sua voce cadenzata e musicale, la voce di un uomo che non aveva alcun bisogno di essere bello per il semplice motivo che era incredibilmente affascinante << Piacere di conoscerla >> fece Erik sbrigativo, affatto interessato, del tutto ignaro che lo sguardo di Schmidt lo stava scandagliando attentamente.
Qual è il suo potere?
Emma sussultò nel leggere quel pensiero, impallidì, e di nuovo alle iridi blu non sfuggì affatto l’impercettibile brivido che la scosse << A-andiamo via >> sussurrò senza fiato.
Due insieme. E lei? Quale potere può avere?
Strinse la mano di Erik con urgenza << Andiamo via >> ordinò quando lui la guardò, e anche se dal suo sguardo sembrava che non avesse capito il perché, si fidò di lei e della paura che gli trasmetteva << Se non le dispiace... pare che la mia amica non stia troppo bene, dopotutto >> era un telepate anche lui?
Come aveva fatto a scoprirli?
Era uno di loro? Un mutante?
Perché allora sentiva quel gelo ghermirle il petto?
Il suo cuore continuò a battere furioso anche quando furono ormai fuori, persino al sicuro nell’automobile la paura non la abbandonò, non aveva mai provato niente del genere << Emma? Puoi dirmi quel che sta succedendo? >> domandò Erik una volta che le luci della villa furono fuori dalla vista << Lui lo sa >> mormorò lei << Chi? Quell’uomo? Che cosa sa? >> << C-chi siamo. Cosa siamo. L’ho visto nella sua testa >> la stretta sul volante aumentò il sufficiente a farle capire che nemmeno per lui era una buona notizia << Come? >> << Non lo so >> << Non hai visto dentro di lui? Come fai a non saperlo? >> la verità era tanto semplice quanto complessa da spiegare.
Emma non si era mossa per razionalità, era stato il puro istinto a comandarle di andarsene, lo stesso che invita a temere le tenebre e a fuggire le belve.
Non aveva visto impurità in lui perché non c’erano state emozioni, era cristallino perché possedeva un cuore morto, incapace di provare alcunché.
Schmidt era sì una perla, puro e assoluto, ma una perla nera come l’oscurità più atroce.
   
 
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