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Autore: Margo_Holden    06/01/2017    0 recensioni
Con un passato travagliato alle spalle, mai del tutto superato, Hazel si trascina ogni giorno nel diner in cui lavora come cameriera, cercando di evitare tutti, perfino la vita stessa. Ma il destino è inarrestabile ed imprevedibile.
Così un giorno mentre si reca a lavoro, incontra lui.
Alex è un criminale, con una montagna di cicatrici e tatuaggi che parlano per lui, del suo passato, che come una tempesta lo ha corrotto dentro, fino a divorarlo, a distruggerlo, a cambiarlo.
Queste due anime che sembrano pianeti opposti, finiranno per convergere, nel modo più improbabile possibile.
Ma il loro non sarà amore, perché il cuore di Hazel è infestato dal veleno della vendetta, che l'acceca e la rende sorda. Nel suo personale inferno infatti, torreggia come un re, fra tutti i mostri, Alexander.
Così mentre una guerra tra gang divampa per la grande mela, e mentre Hazel sente su di sè, la costante presenza di due losche figure che sembrano reclamare il proprio sangue, i due riusciranno finalmente a lasciarsi il fantasma del passato alle spalle, per tornare a vivere?
[DA REVISIONARE]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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Capitolo 18

 

Se ne stava sdraiata sul letto ormai disfatto, mentre quell'odore pungente di detersivo alla fragola le solleticava le narici, in una languida carezza.
Fuori, si udivano macchine sfrecciare ad alta velocità, mentre abbagliavano con la loro corsa le persiane di quella cameretta. Finita la corsa, un cane in lontananza cominciava la sua strana cantilena, forse verso un gatto o forse, verso un malcapitato viandante che passava di lì.
Persa nella sua mente, ripensava a quello che era accaduto.

Visi conosciuti ma inaccessibili, la costrinsero a piangere e a ricordare.
Suo padre, sua madre e suo fratello, in quegli anni, quando ancora lei era la piccola principessa di casa, costituivano il centro della sua intera vita. Quello stesso centro che era stato calpestato con indifferenza da quell'uomo che stava imparando a far entrare nella proprio vita, di vita.

Come è accaduto Hazel? Dio, come? Come hai potuto essere così stupida?

Strinse forte in un pugno le lenzuola panna, mentre in quella stessa stretta, lasciava venir fuori ogni tipo di risentimento, anche se, a predominare fu quel cocente sentimento di odio che la stava destabilizzando.

Si odiava ma più di ogni altra cosa, lo odiava.

Non riusciva nemmeno più a nominarlo ad alta voce e pensare a lui, le faceva bruciare il cuore e il sangue nelle vene.
Improvvisamente quel forte senso di vuoto che le si era formato nello stomaco, divenne acido che velocemente risalì dallo stomaco per arrivare a toccare la bocca. Solo allora, decise di alzarsi e correre in bagno. Le ginocchia toccarono malamente le piastrelle gelate in cotto, mentre il corpo si protraeva verso il water per iniziare a vomitare il nulla. Era tutta bile, che le ricoprì il palato di un intenso sapore amaro. Intanto sulle gote, calde e silenziose lacrime, le scendevano dagli occhi chiari.
Ben presto la stanza si inebriò di quel pesante odore di vomito ma alla ragazza non importava niente, semplicemente preferiva starsene seduta con le gambe nude a toccare il gelo del pavimento, che quella notte aveva la stessa consistenza del baratro.
Passati dieci minuti, ebbe l'accortezza di alzarsi per fare il più grande errore della sua vita.
Si specchiò.
Vide il fantasma della sua persona.
Occhi rossi, acquosi, di un blu spento.
Capelli arruffati, montati su da quella che un tempo era stata una coda.
Pelle pallida più del solito.
Singhiozzò ancora e ancora, fino a quando non riuscì più a reggere lo sguardo verso il proprio riflesso.

In quel momento, in generale quando stava da schifo, aveva tanta voglia di fumare e bere fino a stare male, fino a svenire e perdere i sensi, per non vedere più nessuno e non fare i conti con quel dolore che le investiva il cuore. Ma ormai non lo faceva da tempo e sotto giuramento verso Chris, se la sarebbe fatta passare quella malsana voglia.

Fu lo sguardo però, a tradirla e a farla cedere.

Le gemme, posate sullo sportellino in legno grezzo del lavandino, rivelarono nella sua mente che c'erano alcune gocce di valium e che una sola boccetta di quella sarebbe stata sufficiente a sballarsi.
Si guardò intorno e si sentì sporca, vigliacca, bugiarda e nonostante sapesse cosa significava quel semplice gesto, aprì lo sportellino.

All'interno cerano creme, scatole di medicinali varie, da antidolorifici ad antibiotici, lo sciroppo per la tosse e il contenitore delle vitamine. E poi trovò la scatola. Combattendo ancora contro la sua coscienza, prese la scatolina bianca e ne estrasse la boccetta. La fortuna volle che essa fosse vuota. Ne una goccia era rimasta attaccata. Presa da una fuga di nervi, lanciò la boccetta verso il muro. Il vetro marrone andò a scontrarsi e si ruppe a metà, mentre alcune schegge finirono sul tappeto posto di fianco la grande vasca bianca.
Decisi allora di lasciare il bagno -non prima di aver tirato lo sciacquone- e di tornare in camera.

Chris non era ancora rientrato, aveva il turno al locale per tutta la notte o forse era da un amico e Hazel semplicemente, non se lo ricordava. Era qui da sola, in quel monolocale alle undici meno venti; solo quel maledettissimo cane, con il suo abbaiare le faceva compagnia.
Prese il cellulare e cominciò a girovagare su tumblr, unico social network a cui si era iscritta.
Ma si annoiò dopo solo cinque minuti.
Così, presa dalla noia, si mise a girovagare tra i nomi della rubrica fino a quando il dito non colpì la lettera C, e con essa il profilo di Clash.

Che stupida che sei! Clash, chiama Clash per le pillole!

Presa da un solito attacco di felicità, strisciò con il dito sul nome del ragazzo e se lo portò poi, all'orecchio sinistro.
Dopo quattro squilli, finalmente l'amico rispose.

─Hey Haz, che piacere risentirti! Come mai questa chiamata?

La voce del ragazzo risultava visibilmente allegra, quasi uno sfottò con l'anima in subbuglio di Hazel. Ma era una voce resa alterata dall'alcol o forse da qualche agente chimico.

─ Ho bisogno di sballarmi!

Bastarono queste parole che il ragazzo dieci minuti dopo, arrivò nel monolocale.
Si era portato dietro un bel po' di fumo e qualche pasticca di acido.
Ecstasy, LSD e ovviamente, la polvere.
Quest'ultima fu tenuta alla larga da Hazel, che scelse invece, sotto consiglio di Clash, LSD.

La pillola, che si presentò sotto forma di piccolo quadrato di carta assorbente, iniziò il suo disagiato viaggio verso l'obblio più profondo solo due ore dopo l'assunzione; assunzione fatta con una bottiglia di vodka che aveva già distratto Hazel.
In un secondo le sue pupille si dilatarono mentre una sensazione di forte calore, le investì l'epidermide e le ossa. Cominciò a sudare, ad avere tanto caldo e le immagini non tardarono ad arrivare.

Urlò.
Fu un urlo che gli graffiò rovinoso la gola, così gutturale e crudele come quegli uccellacci che le stavano punzecchiando il corpo, in cerca della carne fresca.
Se li vedeva davanti, quei corvi brutti dagli occhietti di un profondo nero sinistro. In un attimo risuonò distante un verso che aveva la voce di un uomo. Sembrava infatti, che quel mostro di un uccello , cantasse una parola "Nevermore" e lo faceva ripetutamente.
Intanto loro continuavano a volere assaggiare quella carne ancora calda, viva.

Hazel urlava e urlava. Dimenava le braccia in aria, cercando di toglierseli di dosso, ma loro erano più forti e più numerosi di lei. Vide il sangue scorrerle lungo le braccia ossute, lungo le guance e quei becchi arcigni facevano male, ferivano come tanti aghi che entravano e uscivano continuamente dall'epidermide già ferita.
A quel punto, entrò a contato con un profondo senso di terrore e paura.
Per quanto tempo stava urlando e combattendo per la sua vita? Per quanto i suoi occhi avrebbero visto solo il nero e il rosso scarlatto?



***


Seduto al tavolo del poker, Alex si giocava l'affare e la partita.
Immerso tra quei compagni sovietici, si era accorto di non aver mai perso quel perfetto accento dell'est, quando due anni fa l'organizzazione era entrata in affari con loro, e gli aveva chiesto di fare da "diplomatico".
I russi erano proprio come venivano descritti nella quotidianità dai libri o nei film.
Uomini alti, tosti, dei vichinghi del nuovo tempo, grandi bevitori di super alcolici e con la mascella perfettamente squadrata.
Al suo fianco, Maria una ragazza italiana, bassa, dalla linea perfetta: grande seno, vita stretta e gambe per niente scheletriche. 
Tutto il contrario di Hazel.

Dio, doveva togliersela dalla mente. Non era possibile che ogni qualvolta i suoi occhi incontravano il corpo di una donna, scattava il paragone con la biondina.

La mano callosa accarezzava le gambe lisce della ragazza che con un pavido sorriso, gli si rivolgeva contro. Maria aveva inoltre capelli lunghi, castani, che arrivavano fin sul sedere, tondo, tenuto da una gonna rossa pagliettata decisamente troppo corta e troppo stretta.

Maria era la ragazza abituale di Alex in quell'ambiente. Lei si donava a lui - ovviamente lui pagava i suoi servigi ma il legame, se così poteva definirsi, era rilegato in un patto. Alex gli avrebbe riferito di tanto in tanto, come procedesse la vita della figlioletta che aveva dato in adozione quando era rimasta incinta a soli sedici anni. Si chiamava Anna ed era nata da uno stupro. La bambina oggi aveva poco più che sette anni, mentre Maria quasi ventitré. Era una di quelle persona destinate fin dall'infanzia ad un esistenza puerile e povera, con un finale altrettanto triste. Come Alex, d'altronde.

─ Poker d'assi!

La voce del vice boss Bastijan, lo fece tornare alla realtà.
Quell'uomo era stato sfigurato dalla lama di una picca, dieci anni prima mentre metteva a tacere per sempre, la persona che stava cercando di fregarlo.
Gli uomini seduti attorno a quel tavolino rotondo, dalla superficie verde, buttarono abbattuti le carte, scoprendole e scoprendosi, ancora una volta, dei perdenti.

─ Alexander mi dispiace ma contro di me, è difficile vincere! ─ continuò, con quel tono di voce biascicato e inzuppato di alcol.

L'uomo con un sorrisetto sornione sulle labbra, lasciò andare la mano da sotto la gonna di Maria, mentre salutava e lasciava da soli quegli uomini ai loro desideri carnali, rispondendo poi ─ Ne riparleremo la prossima volta!

Maria lo seguì, perché era arrivato finalmente il momento tanto desiderato.Quando lo aveva visto entrare nel locale, una luce aveva invaso il suo cuore. Contenta com'era, di sapere come stava andando la crescita della figlioletta. Mentre aspettava che l'uomo giocasse la sua parte, lei aveva contato i secondi così come i minuti, mentre il tempo trascorreva lento e insostenibile.  

L'unica cosa che si udiva in quel corridoi era il ticchettio dei tacchi sottile dei sandali della ragazza, cresciuta troppo in fretta. Come sempre Alex stava in silenzio ma questa volta il cervello era occupato da una miriade di pensieri, di situazioni e di una persona in particolare. Non l'avrebbe mai ammesso a nessuno tanto meno a se stesso, che il suo cervello era cotto di lei.

Arrivarono nella stanza numero 6277 e vi entrarono.
La stanza si presentò pulita, con mobili marroni lucidi sulla quale superficie non si intravedeva un filo di polvere mentre tutto intorno alleggiava un pesante odore di chiuso, di prodotto scadente di lucido per legno e di pagine vecchie, ingiallite da tempo. Come da abitudine, la ragazza andò ad aprire il vetro di una finestra posto in fondo alla stanza e l'uomo invece, si sedette sul morbido divano in pelle, che dava le spalle ad un letto enorme, dalle lenzuola bianche che sapevano di naftalina.

Tolse la giacca nera, allentò il nodo della cravatta e sbottonò i polsini della camicia inamidata ma sudaticcia, per via della temperatura nel casinò.

Prese una foto dalla tasca interna della giacca costosa e un pacchetto di sigarette, aprendolo subito dopo per portare una sigaretta alle labbra.

Maria nel frattempo, si era fermata vicino alla finestra, respirandone l'aria gelida che vi entrava.

Erano nel Queens e lì era tutto diverso da Broklyn. Situata a nord di Long Island, era la contea più popolata dopo Brooklyn e i russi, anche se toccavano solo il 2 %, erano riusciti a creare un impero mafioso, pari a quello della Siberia.

Voci allegre provennero dalla finestra e curiosa come era, si sporse per controllare chi fossero i proprietari. Dei ragazzi – tre per la precisione – ritornavano brilli dalla partita di campionato degli New York Mets, forse avevano vinto.

─ Ecco come promesso le foto.

La voce piatta dell'uomo, la fece tornare alla situazione in cui si trovava, alla sua vita, fatta di fango e lerciume. Intrappolata lì, cercava con tutte le sue forze di venirne fuori, di non affogare in esse, ma era complicato e qualche volta, aveva perfino pensato di arrendersi.

Si mosse piano, tremando si felicità, una felicità decisamente mal celata.
Prese con mani tremanti la foto e sfiorò quelle di Alex, che nel frattempo aveva acceso la sua sigaretta anche se il cartello posto vicino la porta, lo vietava espressamente.

La guardò e una lacrime sfuggì al suo controllo.
C'era una bambina dai capelli a caschetto, dagli occhi vispi e dalla dentatura a metà. Nonostante la mancanza di un dente, quella bambina sorrideva gaia, ignari di cosa la sua vera mamma facesse per vivere.

Era bellissima.
Alex la guardava rapito.
Tremava tutta e non riusciva a contenere la sua felicità.

Poi il pensiero corse a quando l'aveva conosciuta due anni prima. Una ragazza di ventun anni, in pieno della sua bellezza ma che era stata deturpata dalla sfortuna e dalla violenza che la seguiva ovunque lei decidesse di andare. Si rese poi conto, che non la conosceva neppure un po' e che lei non conosceva lui, neanche un po' però, allo stesso tempo, condividevano molte cose.

Quando pensò di aver gustato a lungo quella foto, decise di alzare gli occhi umidicci verso Alex, che intanto aveva finito di fumare e la guardava fisso, osservando ogni suo movimento. Sorrise per ringraziarlo e perché gli doveva tutto.

─ Grazie!

Poi, posò la foto vicino il comodino sinistro e tornò verso l'uomo che non gli staccava gli occhi di d'osso.
Lentamente, lasciandosi guardare il corpo, si sedette sulle sue gambe e cominciò ad accarezzarlo.

─ Cosa posso fare per te, mio amico russo?

Distolse gli occhi dal suo viso, mentre la ragazza continuava a passare la sua piccola mano, su e giù dal collo, per passare poi sulla mascella ispida e per giungere verso la tempia.

─ Balla per me, Долли (dolli).

Si alzò e cominciò a muoversi suadente, seguendo note astratte e immaginarie.
I suoi capelli lisci seguivano il movimento cadenzato dei fianchi mentre con gli occhi chiusi, portava le mani a intrecciarsi tra di essi.

Gli piaceva un sacco vederla ballare perché ci sapeva fare.
Sapeva come conquistare un uomo, su questo non c'erano dubbi ma la cosa che più l'attraeva di lei, era la convinzione che ci metteva. Sapeva che era un dessert per loro e questo suo saperlo, prima di loro, la rendeva ancora di più donna. Alex ogni volta che vedeva quel fuoco di convinzione bruciare nei suoi occhi marroni, diventava ubriaco e non capiva più niente. Erano queste le donne che più gli facevano girare la testa.

Si alzò di scatto, le si agguanto addosso e la prese per i fianchi, sbattendola con poca grazia, su quel divano che aveva accolto molti corpi prima dei loro.

Lo stupore che era apparso sul viso della giovane scomparì, quando lesse negli occhi blu di Alex lussuria.
Maria lo amava e avrebbe fatto qualsiasi cosa per lui. Gli avrebbe perdonato qualsiasi carezza violenta, i suoi modi bruschi e soprattutto, il fatto che l'uomo la considerasse solo una donna da portare a letto ogni tanto, così, giusto per sfogarsi un po'.
Stava per aprire bocca, quando Alex la ammutolì con un gesto secco della mano.

Aveva il fiatone, lui.

Ad un certo punto della danza, aveva rivisto il corpo scheletrico di Hazel. Gli era balenato il pensiero che lei potesse fare quello che Maria stava facendo con lui, però con qualcun' altro che non fosse lui. Questo pensiero lo aveva mandato in bestia.

Un senso di possessione gli invase le viscere, mentre guardava quella povera ragazza che aspettava febbricitante sotto di lui solo per avere una sua piccola carezza.

Maria si alzò da quel divano avvicinandosi a lui, commettendo uno dei sbagli più grandi della sua vita.
Alex era in preda ad una furia ceca.
In un attimo, scansò la mano dal suo viso per agguantare il braccio della ragazza.

La trasportò per la camera fino a scaraventarla sul letto, mentre il corpo di lei ricadeva ruvido sul materasso, lasciando uscire fuori dalla bocca qualche mugolio di paura e dolore.

─ Adesso stai zitta e muta, mi ascolti soltanto.─ e mentre diceva ciò, si sbottonava frettolosamente la cintura dei pantaloni.

─ No, per favore!─ urlò di rimando lei, terrorizzata da quello che stava osservando.

Gli occhi di Alex avevano perso tutto il distacco e la lussuria, per lasciare spazio alla rabbia. La mascella era contratta e il corpo rigido, di chi è pronto a sfiorare il primo attacco.
Al contrario di altri suoi colleghi, lui le donne non le aveva mia toccate. Le considerava esseri complicati e deliziosi, allo stesso tempo. Questo perché, rivedeva in ogni di quelle donne la propria mamma, che invece aveva conosciuto il maschilismo e quello che un uomo maschilista era in grado di fare.

Ma in quel momento, si riscopriva uguale a quegli uomini.
Stava per violentarla, lo sapeva e nonostante ciò, non riusciva a fermarsi.
Quando la ragazza urlò di terrore, non riuscì a trattenere il mostro che risiedeva in lui, così, gli tirò uno schiaffo in pieno volto, tanto forte da farla girare dall'altra parte e da farla sanguinare.

Maria, come se fosse un gesto abitudinario, si portò la mano fredda sulla guancia in fiamme.
I tremori divennero poi lacrime che copiose scendevano dagli occhi dello stesso colore della terra.

Non avrebbe mai creduto che anche Alex fosse come tutti quegli uomini che pagavano una prostituta solo per il gusto di mostrare la forza e la mascolinità di cui il loro corpo era dotato, per sfogarsi poi su di loro, e non soddisfatti, si prendevano quello per cui avevano pagato, con la violenza. Maria sapeva come tenerli a bada, ma non come tenera a bada l'uomo di cui era profondamente innamorata.

Si disse forse, che stava sbagliando lei, ma resasi conto che non aveva fatto niente, allora tentò di calmarlo per essere ricambiata con un altro schiaffo.
Impaurita, cercò di scappare via da quel letto che stava diventando una prigione, spingendo via quell'uomo che torreggiava su di lei.

Alex però, vedeva solo rosso.
In un attimo la prese dal piede e la ritirò sul letto.

Gli occhi di Maria erano aperti, spalancati, sbigottiti e impauriti, terrorizzati da quello che erano costretti a vedere, per rendersi conto poi, che non ci si poteva fidare proprio di nessuno.

─ Smettila Alex, così mi stai facendo paura!

Urlò in preda a quella cocente e sorda disperazione.
Si, perché la disperazione è sorda, non conosce voce e se ne frega delle urla, delle grida, delle lacrime. È un mostro caduto dal paradiso, con grandi ali nere e gli occhi vispi, tetri. Quello stesso sentimento che porta un uomo, a fare la cose più orribili del mondo.
Un altro schiaffo e un altro grido, questa volta lanciato con voce più alta.

Alex fermati! Alex cazzo, non vedi che le stai facendo male? Alex lo vedi che non sei poi così diverso da tutti quegli uomini che consideri "amici"?

Ma lui andava avanti, se ne fregava della coscienza, delle grida della donna, del carnefice che era diventato. Se gli avessero chiesto perché se la fosse presa così tanto con quella donna, tanto da meritarle tutta quella violenza, lui non avrebbe saputo come rispondere. Aveva rivisto nel suo viso, quello di una Hazel che non l'accettava e tutto era andato a scatafascio. Eppure c'era altro. Quella rabbia, tenuta dentro da troppo tempo, in quel momento stava fuoriuscendo come lava incandescente, che distruggeva tutte le cose che si trovavano sul suo cammino.

In quei gesti sbagliati c'era soprattutto il ricordo di sua madre e di suo padre.
Tutto quello che fece poi, fu solo stare in silenzio mentre la guardava truce e cercava di togliere quelle barriere che lo dividevano dallo scopo che si era prefisso.
In un gesto secco, mentre le dita della ragazza si abbattevano come artigli felini sulla sua pelle, gli aprì le gambe e strappo la gonna.

─ No per favore Alex, non tu, non farlo!

Ma lui continuava. Avrebbe fatto quello che suo padre aveva fatto per tutta la vita con sua madre. In questo modo – e non se ne rendeva conto – stava sputando sulla memoria di quella povera donna, che aveva buttato sangue e sudore per crescerlo su, in un mondo aggressivo.

Alzò gli occhi su quelli marroni di Maria e in un lampo, risentì nella testa la voce lontana di un uomo:

"Non guardarmi così figliolo. Non guardarmi come se stessi facendo la cosa più ignobile sulla faccia della terra. Tu non sei poi così diverso da me e se solo pensi di poter fuggire e di sperare di essere diverso, ricordati che nelle tue vene, scorre lo stesso sangue velenoso"

Il mostro in un attimo tornò a dormire nel suo corpo.
Alex vide finalmente quello che stava succedendo.
La cinta nera dei pantaloni era a terra, la gonna della ragazzina era strappata mostrando le sue giovani grazie, i pantaloni erano abbassati e toccavano terra. 
Sperò con tutto se stesso che non fosse successo quello che immaginava.
Incontrò poi il viso della ragazza.
Era rosso, sia per il pianto che per quelle sberle che gli facevano ancora male, così come facevano male a lui.

Si allontanò da lei e non riuscì a fare altro che dire un misero "scusa", per poi rivestirsi e correre via da quel posto.

L'ammazzare senza ritegno un uomo sotto ordine, era un conto. Violentare una povera ragazza ne era un altro.
Prese la macchina e guidò fino a raggiungere la casa di Sam.
Lui non era come suo padre. Lui era diverso.

   
 
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