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Autore: Ghevurah    18/01/2017    3 recensioni
Questa città è nata da un sogno e dei sogni possiede la materia: paure che trasudano dalle ombre, desideri che sfilano alle luci delle fiaccole. Così ci si perde e ci si trova in un riflesso capovolto, per poi perdersi ancora. Ancora e per sempre.
Dopo la rovina della Dagor Bragollach, Celegorm, Curufin e Celebrimbor si rifugiano in Nargothrond, ospiti di Finrod Felagund. Quest'è la storia della loro convivenza.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Celebrimbor, Celegorm, Curufin, Finrod Felagund, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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Per una migliore comprensione del testo, suggerisco di guardare a questo particolare della mappa del Beleriand, mappa tratta da L’Atlante della Terra di Mezzo di Karen Wynn Fonstad (che certo non è la perfezione, ma nel caso specifico è attendibile).














II. Perdere






Voci diverse, accenti diversi che si declinano in un contrappunto caldo, incredibilmente famigliare. A Findaráto tornano in mente incontri in terre lontanissime. La gioia data dal trovarsi oltre le diversità, a quel tempo labili come la distanza tra due corpi che s’accostano per un abbraccio. E lui – lo ricorda sempre – è per due volte figlio di quegli incontri.
Ma in Ennor le differenze sono confini dolorosi, marchiati nel sangue. Nello scorrere del tempo.
Findaráto ha imparato ad accettarli, ha visto il momento in cui discrepanze apparentemente arginabili divengono un limite imprescindibile e si è tirato indietro, cosciente che il passo successivo l’avrebbe portato a smarrire se stesso.
Tuttavia, quando né tempo né sangue sono un discrimine, le barriere di Ennor si mostrano per il pretesto che sono. Per questo lui ha costruito una città che non ne contenesse.
Un tripudio di volte s’innalza sopra il suo capo, motivi architettonici ispirati alla natura, tipici dell’arte doriathrin, uniti al maniera dei Khazâd e all’astrazione ñoldorin: la sala che ha scelto per le riunioni del concilio incarna l’essenza di Nargothrond, ricettacolo di culture differenti.
“Sire.”
Il saluto di Edrahil lo riscuote da quei pensieri. I loro occhi s’incontrano e Findaráto sorride come sempre ha fatto, ma a differenza del solito non viene ricambiato.
Un’ombra corre sul viso del consigliere che s’affretta ad abbassare lo sguardo, improvvisamente interessato alle intarsiature del tavolo a cui sta sedendo.
Findaráto rimane a osservarlo, interdetto.
Il comportamento di Edrahil non è che una goccia di pioggia nel mare, un particolare così infinitesimale da non poter neppur veicolare lo spettro d’un presagio; tuttavia resta un elemento che sfugge alla sua sfera di controllo. Uno dei tanti, minuscoli, granelli che continuano a scivolargli tra le dita.
Nuovi passi rintoccano lungo i corridoi. Guilin entra nella sala, supera la seduta di Edrahil e rivolge a entrambi un saluto posato. Il viso stanco, lo sguardo ostaggio di un dolore conosciuto: il solito Guilin – dopo le Paludi di Serech.
Ma il singulto di quella goccia è un eco distorto nella mente di Findaráto.
Si porta una mano al collo, senza trovarvi gli intrecci d’oro e gemme della Nauglamír: quel giorno non l’ha indossata.
Altri consiglieri lo salutano, intrattenendosi con lui. E quando l’inizio della riunione si fa imminente, anche i Fëanárioni varcano la soglia della sala.
Curufinwë, nella solita divisa nera, è una presenza di fumo e ombre, concretizzata solo in quel suo viso affilato. Tyelkormo è il suo esatto opposto: emana una fisicità vigorosa, splendente, tanto che il suo corpo sembra scolpito nello spazio della sala.
È quest’ultimo a cercare lo sguardo di Findaráto. Lo fa con un sorriso accennato ma ferocissimo, e quello spettro di presagio comincia a prender forma.
“Possiamo iniziare, Sire?” Sta chiedendo qualcuno.
Lui acconsente: dà la parola a Guilin e prende tempo per sé.
I suoi pensieri ripercorrono le conversazioni avute con i cugini, una corsa a ritroso nelle memorie più prossime, scandendone ogni particolare.
Guilin parla delle riserve di grano, dell’autosufficienza di Nargothrond. Findaráto finge di seguire il discorso, mentre si sforza d’individuare ciò che – senza dubbio – gli è sfuggito.
Curufinwë gli siede di fronte. Le mani giunte, gli occhi puntati dinnanzi a sé, così tersi e gelidi da riflettere qualsiasi cosa.
È sempre e solo Tyelkormo a guardare Findaráto, e lo fa in modo sfrontato, eccessivo. Tanto che lui si trova quasi a rimpiangere i sotterfugi di Curufinwë, il camminare sul filo di una lama che ondeggia e ondeggia, e potrebbe non tagliarti mai come farlo improvvisamente, di continuo. Tyelkormo, invece, è la palla borchiata che s’agita a intervalli concentrici e regolari, prevedibili; ma quando colpisce frantuma.
Eppure, pensa Findaráto, io non sono ancora stato colpito. Ha negato una sola cosa ai propri cugini: uscire all’esterno per avere notizie dalle Marche, e l’unico che come loro potrebbe essere tentato di mettere in pericolo Nargothrond per avere simili notizie è Findaráto stesso.
O forse questa è solo un’ingannevole convinzione in cui vogliono si crogioli.
Evita lo sguardo di Tyelkormo, spostando la propria attenzione su Edrahil. Allora se ne accorge: gli occhi del consigliere sono puntati sui Fëanárioni, su Tyelkormo che gli siede perfettamente dinnanzi. E Findaráto non è più certo che lo sguardo ferino di suo cugino fosse rivolto a lui.
Le mani di Edrahil, abbandonate sulle carte che tiene di fronte a sé, tremano appena. Si tortura il labbro inferiore, poi si alza in piedi. “Vorrei porre all’attenzione del consiglio un argomento che ritengo essere di fondamentale importanza.”
I suoi occhi si aprono nel vuoto, quasi non stesse rivolgendo quel desiderio a Findaráto, ma a un’entità priva di forma, sospesa oltre le spalle dei Fëanárioni.
Lui osserva il corpo rigido del consigliere, le mani posate – aggrappate – al bordo del tavolo, divenuto il suo unico sostegno.
“Prego,” mormora senza distogliere lo sguardo: sa quanto sia difficile per Edrahil – in quel momento – sentirlo addosso. E coltiva l’ingenua speranza che tanto basti per farlo desistere, per farlo tacere. Ma sta ingannando se stesso; le successive parole di Edrahil gliene danno conferma.
“Credo che occorra rivalutare la nostra posizione in merito all’invio di drappelli di ricognizione nel Beleriand.”
Ecco la goccia che diviene tempesta. Ecco il colpo senz’appelli: la volontà dei Fëanárioni divenuta parola sulle labbra del suo più fidato consigliere.
Findaráto non presta attenzione al brusio che si alza nella sala, né sposta la propria attenzione sui cugini al di là dal tavolo: non vuole incontrare i loro occhi, riconoscervi l’eredità d’un altro fuoco.
Guilin freme al suo fianco. “Questa proposta era già stata discussa e accantonata,” dice.
Findaráto inclina il capo in avanti, lasciandosi sfuggire un sospiro. Un Ñoldo che si oppone alla proposta indiretta di altri Ñoldor, un Sinda che la sostiene: quest’è il Nargothrond privo di barriere.
Lo sguardo di Edrahil è ancora vacuo, perso in una dimensione ineffabile. Le sue mani si stringono al bordo del tavolo – relitto d’un naufrago.
“Sono passate settimane da allora,” mormora rivolgendosi a Guilin. “Dobbiamo scoprire cosa ci circonda, quali sono state le conseguenze della guerra. Non possiamo rimanere asserragliati in Nargothrond per sempre.”
Guilin scuote la testa. “Come ho detto le riserve di grano basteranno a sfamare il popolo ancora per settimane e…”
Findaráto scorge Tyelkormo sollevare una mano. Un gesto brusco, che ricorda più il calar d’una lama che una richiesta di parola – o un’imposizione di silenzio.
“Il nostro arrivo ha aumentato il numero di abitanti. Sei certo che le riserve che tanto decanti possano bastare così a lungo?”
Dopo settimane, il viso di Guilin viene irrigidito da un sentimento che non è dolore. “Lo sono in relativa misura,” ammette piccato.
Allora una voce si alza dalla parte opposta del tavolo, una voce che potrebbe appartenere a chiunque; la voce di una coscienza collettiva che evoca i timori di tutti: “Ma che futuro avrebbe, Nargothrond, se aprendone il passaggio per permettere a drappelli di ricognizione di risalire il Beleriand ne svelassimo l’accesso?”
Findaráto lascia che la domanda fermenti nel silenzio della sala. Persino a Edrahil sfuggono le battute del proprio copione.
È Tyelkormo, infine, a riprendere parola: “I se portano a un eterno immobilismo. Inoltre noi non siamo solo bocche in più da sfamare, nel peggiore dei casi potrete far affidamento su un maggior numero di guerrieri.”
La sua dialettica non possiede la morbidezza e l’insidiosità propria di Curufinwë: è costruita su un assunto d’autorità che sembra precludere possibili contestazioni. Ma Findaráto, in quella sala, ha sempre esercitato un potere più sottile, che prende vita dal consenso – per quanto indirizzato sia. E così ha intenzione di fare ancora.
Quando torna a rivolgere la propria attenzione al resto del tavolo, ad accoglierlo è lo sguardo di Curufinwë, chiarissimo e affilato.
Findaráto avverte come una vibrazione elettrica che s’irradia da Curufinwë a lui, dalle sue mani affusolate – troppo per appartenere a un fabbro – alle proprie, e attraversa il corpo in un brivido. Allora sa che non può né vuole più aspettare.
“Capisco il bisogno di sapere cosa sta accendendo all’esterno,” dice, attirando su di sé l’attenzione dei presenti. “Ma il nostro primo pensiero dev’essere la salvaguardia di Nargothrond e dei suoi abitanti.”
Lascia scorrere il proprio sguardo sui consiglieri seduti attorno al tavolo. Il costrutto del suo discorso esclude i Fëanárioni a priori: non è loro che deve convincere ma la sua stessa gente.
“Per ora è più prudente farci bastare la certezza ricavabile dai rapporti delle sentinelle su Amon Ethir: il Nemico non ci ha ancora circondati.”
Le sua frase viene accolta dallo sbuffo sarcastico di Tyelkormo, mentre Curufinwë continua a mantenere il ruolo di silenzioso osservatore.
Cugino,” soffia Tyelkormo – una vocazione pronunciata come un insulto. “Arrivi alle conclusioni un po’ troppo in fretta.”
Si allunga in avanti con movenze felpate, eppure pregne di un’aggressività che trasuda dal tendersi dei muscoli sotto la casacca, dal gonfiarsi delle vene sulle mani.
“Dopo la tua ripiegata, la Talath Dirnen è sorvegliata solo di nome: quel misero drappello asserragliato su Amon Ethir non può certo vagliarla tutta. Dunque chi ci assicura che le orde di Morgoth non siano dispiegate attorno a noi, lungo il corso settentrionale del Narog e nella Talath Dirnen stessa, magari persino appostate sull’Andram?”
Un nuovo rumorio riempie la sala. Alcuni consiglieri scuotono il capo, altri si scambiano opinioni fugaci.
A Findaráto basta un gesto della mano, un gesto più gentile e leggero di quello fatto da Tyelkormo, perché torni il silenzio.
“Se fosse come tu dici, cugino, se le orde del Nemico fossero attorno a noi, in attesa, perché mai dovrei aprire le porte di Nargothrond, inviando drappelli di esploratori nel Beleriand?”
Guilin fa un cenno d’approvazione, altri consiglieri lo imitano. Ma Tyelkormo continua a sorridere come se la sua preda si fosse ormai tradita, e lui stesse assaporando quell’istante che precede il tiro d’un dardo decisivo.
“Per combatterle,” replica. “Per rioccupare tutti i fortini della Taleth Dirnen con i tuoi arcieri.”
“Lo faremo a tempo debito.”
“E quando sarà questo tempo?” L’incalza Tyelkormo, la voce gonfiata da un ardore terribilmente simile a quello che smosse coscienze nella piazza di Tirion, sulle rive di Araman. “Quando l’ultimo rapporto da Amon Ethir sarà databile mesi?”
Findaráto s’inumidisce le labbra. Le cose sono diverse da quei giorni al di là del Mare, le persone che siedono al concilio di Nargothrond sono diverse. E lui sa come far leva nei loro animi: gentilmente, spegnendo fiamme con calma e razionalità.
“Per assediare Nargothrond occorre occupare una zona sicura e muovere da essa. Amon Ethir, forse, ma come tu stesso hai esplicitato, l’ultimo rapporto che ci viene dal drappello lì stanziato non è ancora databile mesi, anzi risale giusto a qualche giorno fa.”
Tyelkormo si sporge in avanti, quasi volesse ribattere o aggredirlo o forse fare entrambe le cose. È Curufinwë a trattenerlo – una mano ad artigliare l’incavo del suo braccio – probabilmente cosciente del limite raggiunto.
È vero, pensa Findaráto. Loro sono due, due Fëanárioni dalla mente acuta e dallo spirito ardente, mossi da un terribile Giuramento. Ma quella è la sua casa, il suo Regno e forse... Forse.
Findaráto dischiude le labbra per concludere il proprio discorso, quando Edrahil l’anticipa.
“Il forte di Bar Erib, al di là dell’Andram.”
Una manciata di parole che snuda l’illusione d’una vittoria impossibile.
“Bar Erib sarebbe una postazione ideale per muovere un assedio a Nargothrond, inoltre era occupato da un gruppo di Edhil. Dalla nostra gente.”
Ed è in quel momento, prim’ancora che Tyelkormo prospetti le terribili conseguenze d’un attacco mosso dal forte, prima che altri esprimano la loro apprensione per la possibile sorte di quel gruppo di Sindar, prima che i consiglieri – tutti a esclusione di Guilin – votino a favore della spedizione; è in quel momento che Findaráto ha la percezione d’essere un estraneo nella propria casa. Nel proprio regno.
Poi c’è lo sguardo di Curufinwë, ancora limpido come cristallo ma non più lontano: ora è una lama che lo attraversa da parte a parte e rimane lì, conficcata nel suo orgoglio.
Findaráto stringe i denti, lascia che l’aria scivoli nelle narici e sgusci dalle labbra. Infine sorride, mesto, stanco, ma sorride come sa che lui non s’aspetta. Come sa che lui detesta.
Si guardano fintanto che Curufinwë non lascia il proprio posto con un movimento essenziale ed elegante, senza abbassare gli occhi.
Un battito di palpebre e la sala torna a riempirsi di quel vociare eterogeneo. Cigolii di sedie che vengono scostate dal tavolo. Rintocchi di passi.
Ma Findaráto, ora, osserva il vuoto lasciato da Curufinwë, forse quella stessa porzione di spazio da cui gli occhi di Edrahil erano calamitati. Una piega di nulla in cui convergono pensieri oscuri.
Poi una mano si posa sul suo braccio, richiamandolo alla realtà. Edrahil si è dileguato, eppure Guilin è ancora al suo fianco.
“Mio Re,” lo chiama piano, gli occhi velati da un nervosismo che ha diradato parte del suo dolore. “Mio Re, sono certo sia opera dei tuoi cugini. Devono aver… fatto qualcosa.”
Findaráto fa un cenno d’assenso col capo. < br> “Edrahil non avrebbe mai preso una posizione diversa dalla tua in condizioni normali.”
“Lo so.”
Guilin s’inumidisce le labbra e gli si accosta di più. Una delle conterie che ornano le sue trecce cattura il riverbero delle fiaccole.
“Mio figlio… Gwindor,” precisa – l’abitudine a imporsi sulla consapevolezza della perdita. “Gwindor mi ha rivelato d’aver fermato il principe Curufin presso il portale d’ingresso. Era con Normaed, il capitano dei suoi guerrieri. Hanno detto di voler visitare le caverne di quell’ala e hanno proseguito lungo il corridoio destro, verso il corso del Narog.”
Findaráto pensa ai progetti della città richiesti da Curufinwë, e un quadro di cui fatica ancora ad afferrare i contorni inizia a comporsi nella sua mente.
“Sire,” continua Guilin, “non sono subito accorso a dirtelo perché non amo i pregiudizi, ancor meno nei confronti di principi Ñoldor.”
Lui sbatte le palpebre. Pregiudizi. Vorrebbe ridere dell’ingenuità di Guilin, della propria. Perché i Fëanárioni scardinano pregiudizi o li trasformano in realtà con la volubilità del mare.
E quella cicatrice che corre fra le sue memorie torna a bruciare. Il sangue, scurissimo sulle banchise un tempo candide come neve, come latte, come la pelle di Amarië. Il sangue della sua gente. Infine il gelo, l’interminabile notte di stenti. Il dolore folle, viscerale di Turukáno.
Anche Guilin vi ha assistito, solo che differenza di Findaráto non si è mai divertito a omettere quel dogmatico a mezzo nel sangue che segue la parola cugino; a coltivare l’illusione di essere un’unica famiglia – come il nonno voleva. Un’illusione che alla luce di certi sorrisi sembrava persino potersi fare realtà.
Ma Findaráto ha deciso tempo addietro: non incespicherà su certi ricordi, le sue memorie felici appartengono ad altri.
E se è solo ai Fëanárioni di oggi che deve pensare, il pregiudizio – per quanto terribile – è uno strumento di sopravvivenza.
“Guilin,” chiama, “nel caso Gwindor o chiunque altro ti riportasse informazioni sui miei cugini, vieni a comunicarmele.”


Quando il consigliere lascia la sala ormai vuota, Findaráto rimane ancorato alla propria sedia. Colonne e volte a troneggiare su di lui come l’eco d’una maledizione.
Ma non può essere così: quello è il Nargothrond, la sua casa. Il suo sogno.
Un lamento di cardini si leva nel silenzio. Lui si volta, pronto ad aggrapparsi a qualunque cosa la realtà abbia da offrirgli pur di sfuggire ai propri pensieri. Sulla soglia della sala, però, compare la figura di Edrahil.
Sembra lo spettro di se stesso, il viso contratto in un’espressione di dolore stagnante, tanto che Findaráto non sa se cacciarlo o andargli incontro.
Alla fine è Edrahil ad avanzare di qualche passo malfermo, lo sguardo incapace di rimane legato a quello di Findaráto.
Prima di arrivare al tavolo si ferma, china il capo e s’inginocchia. Come se stesse giurando ancora fedeltà. Come se stesse attendendo una condanna.
“Perdonami,” dice, e ogni sillaba è una vertigine. “Perdonami.”
Findaráto spinge la sedia all’indietro e cammina verso di lui.
“Mi dirai mai cos’è accaduto?”
Il suo tono è comprensivo, delicato, quasi stesse allungando le mani verso un cucciolo terrorizzato. Ma in verità pensa alla fedeltà di Edrahil vinta dai sotterfugi di Curufinwë, dalle pressioni di Tyelkormo. Ne valeva la pena, vorrebbe chiedergli. Voltare le spalle a me per collezionare le loro menzogne, ne valeva la pena?
Nella gola di Edrahil ballano un singhiozzo e una manciata di parole: “Vorrei potertelo dire, mio Re.”
Findaráto chiude gli occhi, può quasi sentire la propria voce dire no, non chiamarmi così. Non ora.
Poi ricorda lo sguardo luminoso di Edrahil la prima volta che scesero nelle profondità delle caverne. La polvere sul suo viso, tra i suoi capelli, mentre gli mostrava cunicoli che s’inabissavano nella terra, immaginando con lui volte e tortili e stucchi a modellarli. I suoi sentimenti erano così trasparenti, quasi che non avesse altro desiderio se non quello di condividerli.
Findaráto dischiude le palpebre, tornando a scrutare Edrahil ancora a capo chino.
“Prenditi il tempo che ti occorre,” sospira. “Affinché il tuo volere e le tue possibilità tornino a convergere.”
Allunga una mano in avanti, facendo scivolare le dita sotto il suo viso. Gli solleva il mento. I loro occhi s’incontrano e lo sconforto di Edrahil è un tremito liquido nello sguardo.
“Frattanto io continuerò a riporre la mia fiducia in te.”
Una bugia che veste i panni di un’affermazione sacrale, eroica. Ciò che gli occorre perché Edrahil torni da lui, ciò che occorre a Edrahil per dissipare la propria angoscia.
Un nobile pretesto per giustificare una volgare fandonia, sibila la voce di Curufinwë nella sua mente, ma a scacciarla sono le parole dello stesso Edrahil.
“Non lo merito. Non lo merito, Sire.”
Si alza in piedi, una lacrima scivola dalle sue ciglia.
Findaráto gli si avvicina tanto da posargli una mano sulla spalla. Le dita ad arricciare il tessuto della blusa che indossa. “Lascialo decidere a me.”
Edrahil rabbrividisce, scuote il capo. Una mano corre a trattenere un singulto. Poi fa un passo indietro, un breve inchino.
“Perdonami,” è il suo commiato.
Findaráto l’osserva allontanarsi, le parole che sfuggono come fumo nel vento, mentre Edrahil sguscia nello spiraglio aperto fra le ante della porta. Così se ne va, collettore di menzogne. E lui rimane solo con il peso delle proprie.


Fuori dalla sala, le ombre del corridoio sembrano tendersi più lunghe e inquiete: una sconfitta per le luci delle fiaccole. Gli affreschi sulle pareti sfumano in un amalgama cupo, solo i profili netti e dorati delle decorazioni che corrono sotto di essi, riescono a emergere dal buio.
“L’oscurità ti spaventa?”
Gli ci vuole un istante per rendersi conto che quella voce è reale, non l’ennesimo scherzo della sua mente.
Si volta verso il fondo del corridoio e Curufinwë è lì, ammantato delle ombre in cui attende. La schiena appoggiata al muro, il viso bianchissimo; lo sguardo rivolto dinnanzi a sé.
Non ora, pensa Findaráto. E vorrebbe abbracciare il silenzio, dargli le spalle come Edrahil ha fatto con lui. Ma il profilo di Curufinwë sembra scolpito da quella stessa oscurità di cui parla; quella che ha richiamato su di sé, pronunciando il Giuramento della propria Casata.
Findaráto, così, sente la propria risposta farsi suono ancor prima di rendersene conto: “Non più di quanto dovrebbe spaventare te, Curufin.”
Sindarin a esorcizzare la loro lingua, perché per quanto suo cugino creda il contrario, lui sa quanto sia fastidioso un simile scongiuro.
Curufinwë corruga la fronte, ma non sposta il proprio sguardo dalla parete che ha dinnanzi. “Per quale ragione credi che sia qui?”
“Per godere dei frutti della tue macchinazioni, suppongo.”
Suo cugino si volta, premiandolo con un sorriso tanto insinuante da riscuoterlo: non è questo il modo in cui può affrontarlo.
Allora Findaráto rilassa il viso, svuota la mente e sospira. Il Quenya ad ammorbidire le sue parole, mentre torna quello di sempre.
“Forse la mia preoccupazione è infondata. Forse l’esplorazione dei drappelli che verranno inviati darà i suoi frutti. E le informazioni che ne ricaveremo potranno essere usate per difendere Nargothrond al meglio.”
Il volto di Curufinwë s’irrigidisce improvvisamente. Lo sguardo che gli rivolge, poi, è accesso d’una fiamma mercurica, uno scintillio spettrale tra le ombre del corridoio.
“Dimmi, cugino, persino il tuo respiro riesce a essere un tale concentrato di falsità?”
Findaráto sbatte le palpebre. Non sa che via scegliere: allargare il proprio sorriso, lasciandosi scivolare addosso simili parole, o tornare ad attaccarlo direttamente, inutilmente. Genuinamente.
È Curufinwë a toglierlo da un simile impiccio: si scosta dal muro con un movimento fluido e avanza verso di lui. Passi cadenzati nel silenzio del corridoio.
Quando gli è abbastanza vicino, si sporge in avanti. Il viso affilato dalle luci delle fiaccole, i capelli parte dell’oscurità. “Provo quasi pietà per il tuo consigliere,” sibila.
Allora Findaráto serra le labbra, stringe i denti. E dall’espressione soddisfatta di Curufinwë, sa che la propria rabbia ha fatto breccia in quella maschera di compostezza che ha indossato per lui.
Poi Curufinwë allunga una mano verso la sua. Lo tocca come si toccherebbe uno strumento: in modo anonimo, essenziale. E le sue dita sono gelide, irruvidite dalla forgia, eppure sottili, eleganti, mentre si chiudono sul suo polso. Il pollice a premere sopra una vena pulsante.
Lo sguardo di Curufinwë è uno spiraglio argenteo, appena velato dalla ciglia scure. A lui sembra coglierlo indugiare sul suo collo, privo della Nauglamír, ma infine lo vede abbassarsi.
Un istante e Curufinwë gli volta la mano, aprendola dito per dito.
Findaráto non oppone resistenza; osserva i bagliori emanati dagli anelli di Curufinwë, le sue unghie corte e perlacee. E quando suo cugino gli preme qualcosa sul palmo, sussulta.
Le sue dita si chiudono attorno a un involucro di tessuto nel quale avverte una sagoma solida, allungata, di poco più piccola della propria mano.
Curufinwë cerca i suoi occhi ancora una volta.
“Io vedo attraverso le tue ipocrisie,” dice e le sue parole sono come le ombre: un castigo e un sollievo assieme.




“Perché, mio Signore?”
La voce incespicante di Balan si perdeva nell’immensità dei soffitti che li sovrastavano. Lo sguardo offuscato dalla febbre, le labbra aride.
“Perché ti costringi a quest’espressione?”
Findaráto guardava l’intarsio di rughe che era il suo viso e si sentiva perduto, perduto in un modo differente da che aveva avvertito il peso della propria maledizione.
Discorsi vuoti sulla volontà di Eru vorticavano nella sua mente e si erano persino fatti parola. “Andrà bene,” diceva, pensava, pregava. Mentiva. Un sorriso paternalistico a tremare sulle labbra.
Balan aveva tossito, ancor e ancora. Le membra che sussultavano a ogni colpo, quasi che un terremoto stesse aprendo faglie nel suo corpo, portandolo al collasso.
Findaráto temeva di toccarlo: ogni cosa in lui pareva troppo fragile, prossima a disfarsi come una foglia secca nel vento.
Era una tortura strana, quella. Una tortura che si era scelto volontariamente. E nei momenti in cui cercava il viso di Balan e vi trovava quello di un estraneo, di un vecchio su cui il tempo aveva scolpito una storia parallela alla propria, avrebbe voluto tornare indietro. Non sedersi in quella radura, non intonare quel canto.
Ma poi qualcosa s’accendeva nello sguardo di Balan: il residuo d’una vivacità antica, un fiamma che guizzava nei recessi dei suoi occhi e che Findaráto tratteneva per sé, aggrappandovisi.
Vorresti davvero che Elfi e Uomini non si fossero mai incontrati? La luce della fiamma, che altrimenti mai avresti visto, non ti è di alcun conforto neppure ora?
Alla fine Balan aveva allungato una mano, increspata e tremante, verso di lui. Gli aveva carezzato il viso, sorridendo con una saggezza profonda, conquistata in una vita che era stata una scintilla, uno sbattere di ciglia.
Così la maschera di compostezza di Findaráto si era sgretolata, il sorriso spento. Una lacrima gli aveva bagnato il viso, infrangendosi sulle dita dell’uomo.
“Ecco,” aveva sospirato Balan.
E Findaráto era stato se stesso, piangendo come si piange dinnanzi a un’ingiustizia.













Note:

- Talath Dirnen (Piana Sorvegliata), è la piana che si estende a nord di Nargothrond sino ad Amon Ethir (Colle della Spia), un colle artificiale eretto da Finrod a protezione del suo stesso regno.
Quando Beren si appropinqua a Nargothrond, percorre proprio la Talath Dirnen e in quest’occasione ci viene detto di come nella piana fossero stati costruiti fortini controllati da arcieri. Io però ho creduto plausibile che nel momento storico in cui questo capitolo si svolge la sorveglianza non fosse stata ancora ripristinata a causa delle ingenti perdite della guerra.

- Bar Erib (Dimora di coloro che sono soli/dei solitari) viene menzionato ne I Figli di Húrin, dove si fa riferimento a esso per indicare gli estremi del perimetro controllato dagli alleati di Túrin e Beleg.
Dal testo sembra plausibile che il fortino fosse una preesistenza. Nella zona in cui è situato non vi sono noti insediamenti di Uomini, ma è assodato che nelle vicinanze di quello che sarebbe divenuto Nargothrond vivessero gruppi di Sindar, per cui ho ipotizzato che il fortino fosse controllato proprio da quest’ultimi.


Normaed è la sindarizzazione che ho ipotizzato per il nome Nármaitë, è composta dai termini naur- “fuoco” e maed “abile”/“pratico”.


Precisazioni:

Guilin è un personaggio di cui si sa ben poco. Ne The Lay of Children of Húrin è scritto che possiede una coppa proveniente da Valinor, dunque io ho immaginato che fosse vissuto in Aman e avesse compiuto la traversata dei ghiacci fra le schiere di Finrod e Fingolfin.
Nel racconto si esprime in Sindarin pur parlando con Finrod, perché credo preferisse la suddetta lingua al Quenya (di cui utilizza comunque qualche vocabolo stigmatizzante). Quest’idea deriva dal fatto che del suo nome e di quello dei suoi due figli si conoscono solo le versioni Sindarin e io ritengo plausibile che Gwindor e Gelmir (nel mio immaginario nati entrambi in Terra di Mezzo) non abbiano ulteriori nomi in lingua Quenya.

Le frasi Vorresti davvero che Elfi e Uomini non si fossero mai incontrati? La luce della fiamma, che altrimenti mai avresti visto, non ti è di alcun conforto neppure ora? sono citazioni di due domande poste dallo stesso Finrod ad Andreth ne Athrabeth Finrod ah Andreth.


Inutile dire che sono letteralmente terrorizzata dalla mia resa di Finrod, ma spero che, per quanto esplorato sotto una luce nuova, possa risultare tendenzialmente in linea con il personaggio canonico.


Grazie per aver letto.



   
 
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