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Autore: catoptris    20/01/2017    2 recensioni
Los Angeles era argomento off-limits, lo sapevano tutti. La ragazza iniziava a dare in escandescenza al solo sentirlo nominare. O al sentir nominare la famiglia Blackthorn.
La verità è che le mancavano più di quanto realmente volesse ammettere: ricordava a malapena gli occhi di Ty, il volto dolce di Dru, la sicurezza con cui si muoveva Livvy, i piccoli versi che faceva Tavvy - anche se ormai aveva sicuramente imparato a parlare. Le mancava perfino Mark, sempre con quell'aria da ragazzo perfetto e imbattibile, che lo accumunava in maniera inquietante sia con Jace che con il popolo fatato, del quale possedeva i tratti. Li ricordava vagamente, ma sapeva con certezza che erano delicati e precisi. Ma più di tutti, era Julian a mancarle. Il suo migliore amico, con il quale aveva affrontato anche troppo a soli dodici anni. Sarebbero dovuti diventare parabatai e restare insieme, lì nell'Istituto di Los Angeles.
Genere: Angst, Fantasy, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Emma Carstairs, Julian Blackthorn, Un po' tutti
Note: AU, What if? | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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Naturalmente, Emma rimase a letto solo qualche minuto.

Il sole era già alto e filtrava dalle ampie finestre dell'Istituto riempiendo i corridoi deserti: al solo pensiero di quanto tempo aveva sprecato dormendo, Emma si sentiva quasi male.
Raggiunse la propria camera in poco tempo e, silenziosamente, si richiuse la porta alle spalle, entrando nella cabina armadio. Si cambiò guardando le pareti, sulle quali erano appese le foto dei corpi dei genitori che aveva rubato anni prima dall'ufficio di Jia Penhallow. Se Jules fosse stato lì con lei avrebbe avuto qualcuno con cui condividere tutte le sue preoccupazioni. Scacciò rapidamente quel pensiero dalla testa, infilandosi una delle magliette bianche che Jace le aveva regalato al suo arrivo – sono diventate troppo piccole per me, e tu avrai bisogno di qualcosa con cui allenarti; inoltre, a Clary stanno male. Viveva lì da ormai cinque anni, avrebbe dovuto trovare qualcuno con cui sfogarsi di tanto in tanto: ma teneva tutto dentro. Parlava con Alec solamente quando lui si precipitava da lei nel mezzo della notte, raccontandogli occasionalmente gli incubi che l'assillavano. Clary, di tanto in tanto, le faceva qualche runa antipaura, ma neppure quelle riuscivano a tranquillizzarla più di tanto. Avrebbe preferito se qualcuno della sua età fosse stato lì.
Uscì dalla sua stanza legandosi i capelli in una coda alta, dalla quale sfuggivano alcune ciocche troppo corte per essere raccolte completamente. Sicuramente, Alec aveva parlato con Jace, proibendogli di farla allenare, quindi escluse l'opzione in partenza – probabilmente lui e Clary ne avevano già approfittato, sparendo in qualche locale mondano per stare un po' da soli.
Che altro fare, se non andare a correre? Emma avrebbe preferito di gran lunga la spiaggia di Los Angeles alle strade affollate di New York, ma doveva accontentarsi. Si diresse quindi rapidamente all'ingresso.
Il momento prima che riuscisse ad aprire la grande porta principale, un braccio le si avvolse attorno i fianchi, sollevandola da terra e allontanandola.
"Dove pensi di andare, signorina?" Disse il ragazzo al suo fianco nel contempo, tentando di mascherare il tono divertito. Lei strinse le labbra, valutando se gridare o meno.
"Jace, mettimi immediatamente giù," protestò invece, posando le mani sul suo polso: la presa di Jace era salda, ferma e, in un certo senso, rassicurante. Emma ricordava ancora quando a dodici anni aveva una cotta per lui – chi non l'aveva? – e arrossiva anche solo nel vederlo da lontano: con un contatto del genere, a quel tempo, probabilmente si sarebbe sentita male. Ma lui era diventato il fratello che non aveva mai avuto, nonché suo allenatore.
"Papà Alec è stato abbastanza chiaro, devi restare qui e riposare," replicò lui. A quel punto, Emma scoppiò a ridere; non era la prima volta che Jace chiamava il suo parabatai papà Alec, specialmente da quando era arrivato Max. Si divertiva a stuzzicarlo, prendendolo in giro e chiamandolo paparino quando Magnus non c'era – altrimenti l'avrebbe trasformato in un appendiabiti. Emma si era spesso chiesta se avere un parabatai fosse anche quello: c'era il lato legato alla battaglia, certo, e alle sensazioni che uno provava. Ma c'era di più, giusto? Leggendo dal Codice, sembrava tutto unicamente finalizzato al combattimento, ma per Jace e Alec era diverso – e, a loro tempo, anche per Jem e il suo parabatai, Will, era stato diverso. Erano legati insieme, i due: un'anima divisa in due corpi. Si era spesso chiesta anche se, con Jules, sarebbe stato lo stesso. Insomma, loro due erano già parecchio vicini, combattevano perfettamente coordinati – ma come sarebbe stato averlo come parabatai?
"Avanti, Jace! Volevo solamente andare a correre!" Continuò la bionda, mentre lui – sollevandola da terra – la riportava verso la sua stanza.
"Non se ne parla, leggi un libro piuttosto," le disse, salendo l'ultima rampa di scale e infilandosi in uno degli stretti corridoi. A quel punto, Emma distese le gambe abbastanza da toccare terra, e si impuntò, premendo con il proprio corpo contro quello di Jace: avvolse le dita attorno il suo avambraccio, spingendolo in avanti così che la presa sul suo busto si facesse quasi nulla e, ruotando su un piede, gli passò alle spalle, portando in questo modo il braccio dietro la sua schiena, bloccandolo. Jace, dal canto suo, era rimasto spiazzato da quel gesto, e non era riuscito a ribattere abbastanza in fretta, finendo faccia al muro.
"Come vedi sono in perfetta forma," gli disse scherzosamente la bionda, posando il mento contro la sua spalle e dischiudendo le labbra in un ampio sorriso.
"Sei stata sleale, Carstairs," borbottò, con la guancia premuta al muro e le labbra arricciate. La minore a quel punto sollevò le spalle quasi con noncuranza.
"In guerra ogni cosa è lecita, Herondale," fu la sua risposta. Quindi lasciò la presa sull'altro e indietreggiò di un passo. "Allora, posso andare a correre o hai intenzione di chiamare Clary per farmi andare in camera?" Gli disse, posandosi le mani sui fianchi e inclinando il capo da un lato. Lui, massaggiandosi di nascosto il polso indolenzito – per l'Angelo, si stava davvero arrugginendo a fare il capo – si voltò nuovamente nella sua direzione, inarcando un sopracciglio. Poi scosse la testa, affranto.
"Andiamo, ragazzina, abbiamo del lavoro da fare," le disse, ruotando quindi sui tacchi per allontanarsi lungo il corridoio.

"Quando hai parlato di lavoro, non credevo ti riferissi a del vero lavoro," protestò Emma, emergendo dal mucchio di scartoffie in cui Jace l'aveva seppellita. Lui le rivolse un'occhiata dall'altro lato della scrivania, le labbra distese in un ghigno divertito.
"Coraggio, biondina, ci manca poco, poi potrai prendermi a calci nel sedere quanto vuoi," le replicò, scarabocchiando una firma sul foglio che teneva in mano. Lei gli rivolse un'occhiata glaciale.
"Ok, primo questo non è poco," disse lei, allontanando una pila di documenti. "Secondo, non chiamarmi biondina," aggiunse, lanciandogli contro una delle matite spuntate con cui aveva lavorato fino ad allora. Jace scostò il capo per evitarla, lasciandosi sfuggire una bassa risata.
"Perché? Trovo sia carino," si giustificò lui, allontanando un'altra pila di documenti. La ragazza assottigliò gli occhi, furente.
"Perché nessuno può chiamarmi biondina e salvarsi le rotule," borbottò tra sé e sé. Jace riuscì comunque a sentirla e reclinò il capo all'indietro, scoppiando a ridere di gusto. Non aveva mai riso tanto quanto in quel periodo, con Clary al suo fianco, Alec e Izzy nell'Istituto insieme a lui e tutto che andava per il verso giusto. Emma pensava fosse quello il significato di "sentirsi appagati"; dopotutto, non parlava molto con le persone, e aveva imparato a conoscerle con uno sguardo. Le riusciva quasi sempre. Inoltre, le era utile per i combattimenti: ci metteva poco a riconoscere il linguaggio del corpo del suo avversario, e annientarlo era semplicissimo. Persino se era un demone. Era, a detta degli altri, la Shadowhunter più determinata della sua età. Aveva superato anche il grandioso Jace Lightwood (o Herondale che fosse). Forse era questo che si otteneva nel restare orfani.

"Ancora," disse Emma, con il fiato corto e la punta della lancia a sfiorare il petto di Jace, steso a terra. Rivoli di sudore gli colavano dalla fronte, sul volto e lungo il collo, i capelli – ancora troppo lunghi, soprattutto secondo Clary – erano tirati indietro, con le punte arricciate leggermente bagnate. Si allenavano ininterrottamente da quasi quattro ore, e lui iniziava a perdere colpi. Emma, al contrario, nonostante i vestiti attaccati al corpo, i capelli scombinati sfuggenti dalla coda e il fiato tirato, sembrava stare bene. Era caduta una volta sola, rialzandosi prima che Jace le desse il colpo finale.
"Ragazzina, ti hanno sostituita con un robot o qualcosa di simile?" ansimò il ragazzo, scostandosi la lancia da davanti il petto per tirarsi a sedere. Lei si poggiò su di questa come se fosse un bastone, posando la mano libera contro il fianco e osservandolo con un sopracciglio inarcato.
"Magari sei tu che stai invecchiando," gli rispose con un ghigno a incresparle le labbra. "Oppure il lavoro da ufficio ti rende fiacco," aggiunse. Lui le rivolse un'occhiataccia prima di tirarsi in piedi. La verità è che si sentiva davvero fiacco.
Recuperò il suo bastone e si chinò appena in tempo per evitare il colpo della minore. Si muoveva come una furia, menando fendenti precisi e capaci di tramortire chiunque fosse nell'arco di tre metri. Jace l'ammirava per la sua forza e per la sua caparbietà; difficilmente lo avrebbe ammesso a voce alta, ma le ricordava lui prima che incontrasse Clary – o venisse trafitto con una spada che gli aveva riversato del fuoco celestiale nelle vene. In quel momento non poteva certo lamentarsi se lo chiamavano testa calda.
L'asta lo colpì nello stesso punto delle sette volte precedenti, facendolo ricadere su di un fianco con un gemito sofferente.
"Cosa sta succedendo qui?" chiese una voce autoritaria sulla porta della sala, facendo voltare il capo sia di Jace che di Emma con uno scatto. Alec era fermo sulla soglia con le braccia incrociate al petto e un cipiglio a corrugargli la fronte. I due si scambiarono una rapida occhiata, quindi tornarono a guardare l'altro che, con aria impaziente, attendeva una spiegazione.
"Tu dovresti riposare," dichiarò, quindi, indicando Emma. "E tu dovevi controllare che non si sforzasse," aggiunse, rivolgendosi a Jace.
"Sai, è stata molto persuasiva nel dimostrarmi che non aveva alcun bisogno di riposo," replicò Jace, ancora a terra e con il fiato corto. Alec sollevò lo sguardo al cielo, sospirando esasperato.
"Andate a darvi una lavata, devo parlare di una cosa quando ci saremo tutti," si rassegnò. Emma si ritrasse da Jace che, rivolgendo uno sguardo sollevato al proprio parabatai, si alzò e uscì di corsa dalla palestra. La bionda rimase ancora qualche istante, tirandosi le braccia indolenzite mentre riponeva gli attrezzi al suo posto.
"Pensavo di averti detto di restare a letto," le disse Alec dalla porta, con le mani posate sui fianchi. Avvicinandosi, lei inclinò appena il capo.
"In realtà, me l'ha detto Izzy al posto tuo," precisò. Lui sospirò per l'ennesima volta, portandosi le mani sul volto.
"Emma–" iniziò, con voce poco più alta. La ragazza, in risposta, sollevò le mani vicino al capo.
"Vado, vado," replicò, passandogli accanto.

Arrivò in biblioteca con Church al fianco che le miagolava contro. Forse perché si era legata i capelli ancora bagnati e aveva sgocciolato lungo tutto il tappeto. Raggiunse l'ultima poltrona libera e vi affondò, sospirando, e il gatto le saltò rapidamente sulle gambe, acciambellandosi e iniziando a ronfare. Alec si guardò attorno, come accertandosi che ci fossero tutti – Clary, apparentemente, era andata a trovare Luke e Jocelyn, e non poteva essere con loro – quindi sospirò e si poggiò contro la scrivania, incrociando le gambe all'altezza della caviglia.
"Allora, come sapete sono stato a Buenos Aires per una serie di attacchi da parte di vampiri e, per un certo periodo, ho fatto avanti e indietro da qui a lì con Magnus," iniziò, tamburellando le dita contro il bordo della scrivania a un ritmo costante. Emma sollevò un sopracciglio osservandolo: non era da Alec esser così nervoso. "Non lo facevo per dei controlli, la situazione era abbastanza stabile, ma mentre ero lì ho – sì, ecco, ho incontrato uno Shadowhunter," Jace dischiuse le labbra come per dire qualcosa, ma Izzy gli tirò una gomitata tra le costole per zittirlo. "Di cinque anni," aggiunse quindi, e Jace parve rilassarsi. "I suoi genitori sono rimasti vittime della strage all'Istituto durante la Guerra Oscura. È rimasto solo lui e, ecco – Mag!" la porta della biblioteca venne aperta di nuova e, in controluce, Emma scorse un uomo che teneva un bambino in braccio e uno per mano che, subito, si staccò e corse verso Izzy, richiamandola e saltandole al collo per abbracciarla. Lei rise, stringendo a sé il piccolo bambino dalla pelle blu, mentre lo stregone avanzava.
"Ragazzi, lui è Rafael," disse Magnus, con un piccolo sorriso. "Rafael Santiago Lightwood-Bane," aggiunse, rivolgendo uno sguardo a Alec che, riconoscente, chinò il capo. Lentamente, l'uomo depositò a terra il bambino che, subito, barcollò in direzione di Alec, guardandosi attorno con fare spaesato. Church, nel vederlo, si alzò e andò via con un miagolio di protesta, facendo sfuggire una piccola risata a Jace. Jace. Emma immaginava che Alec avesse fatto tutto quello per ottenere l'approvazione del suo parabatai e di sua sorella. Ma stava guardando lei, tenendo per le mani il bambino estremamente magro. La ragazza dischiuse appena le labbra, alternando lo sguardo da lui a Magnus, quindi a Rafael. Poi sorrise.
"Andrà bene," mimò con le labbra, e un ampio sorriso dischiuse le labbra di Alec, che prese il piccolo tra le braccia. Andrà bene.

   
 
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