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Autore: Torbida_jokes    26/01/2017    0 recensioni
Quando il mondo ti volta le spalle, non hai altra scelta se non quella di andare avanti. Lo sanno bene i Radurai, adolescenti senza il minimo ricordo di sé se non il proprio nome, gettati in un luogo anonimo e artificiale, la cui cornice è un enigmatico labirinto popolato da mostruose creature.
Nella Radura, a ogni morte corrisponde una nuova vita condannata, cosicché il numero dei ragazzi non sia mai né superiore né inferiore al trentasei. Ma quando Cassian apparirà nell'inquietante Scatola senza alcun crudele baratto, la regolarità numerica non sarà l'unico, oscuro cambiamento che stravolgerà le vite di tutti...
Judith ha un legame con lui, se lo sente fino alle ossa: quel ragazzo ha in qualche modo fatto parte della sua vita prima che le venisse cancellata la memoria, l'unico nesso con la sua sé del passato che abbia mai percepito da quel primo, traumatico risveglio.
Un amico da proteggere o un nemico da cui proteggersi? Nessuno le impedirà di indagare.
Sperando di non capire, solo quando capire non servirà più a niente.
Genere: Avventura, Drammatico, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Alby, Frypan, Minho, Newt, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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C'è per tutti noi la possibilità di un grande cambiamento nella vita, che equivale più o meno a una seconda possibilità di rinascere.
-Anonimo


 

2

L'ascensore fece un altro paio di scatti, ognuno seguito da vari gridolini di terrore e tonfi sul pavimento. 
Gli occhi di Judith non si erano ancora abituati al buio, quindi poteva solo ipotizzare il numero delle persone che correvano e urlavano spaventate tutt'intorno. Inclusa lei, non potevano essere più di una trentina ad occupare l'inquietante stanza di metallo, che per così tanta gente assumeva dimensioni quasi claustrofobiche. 
La persona accanto a lei continuava a tenerle la mano, e Judith si sentì contenta di avere qualcosa a cui aggrapparsi per non sprofondare nella sua stessa paura. 
D'un tratto, proprio quando sembrava che il cuore le stesse per schizzare fuori dal petto, sollevò lo sguardo e notò una piccola porzione di luce che troneggiava sopra le loro teste, come un Dio venuto a salvarli. Man mano che l'ascensore saliva, la luce si ingrandiva sempre di più, finché Judith fu costretta a sollevare una mano per schermarsi gli occhi. Non aveva intenzione di usarle entrambe.
Poi, quando sembrava di essere finiti direttamente sulla superfice del sole, lo sbatacchiare delle catene cessò e l'ascensore si fermò. 
Finalmente, dopo quei lunghi e angoscianti minuti, a una ad una le persone presenti smisero di fremere, e un silenzio carico di tensione si depositò nello spazio circostante. 
Quando Judith si tolse la mano dal viso, anche se con non poca fatica, poté dare un'occhiata ai suoi misteriosi compagni di sventura. 
Erano tutti preadolescenti, non più piccoli di undici anni, non più grandi di diciassette. Tra le etnie più svariate, Judith riconobbe gli occhi a mandorla tipici degli asiatici, la pelle scura afro-americana, i capelli biondicci made in Russia. Era come se qualcuno avesse usato uno di quei giochi per la pesca dei peluche, li avesse prelevati a caso uno per uno con quel braccio metallico, e li avesse gettati lì, trasformando quell'enorme ascensore in una macedonia di paesi. 
Gettò uno sguardo alla sua sinistra: il ragazzo stretto a lei aveva il collo piegato all'indietro, cosicché la testa fosse poggiata al muro, e ad occhi chiusi mormorava quella che sembrava una preghiera. 
Forse lui ricordava tutto, forse lei era l'unica ad avere quel problema. Forse non era una perdita di memoria momentanea dovuta allo shock, forse era qualcosa di irreversibile, che non sarebbe più tornato come prima. 
Si concentrò sul respiro: non avere un attacco di panico, non avere un attacco di panico. Stai andando benissimo, Judith, vai così. Seguendo l'esempio del ragazzo accanto, chiuse gli occhi e cercò di rilassarsi. Sentì la testa pesante, la percezione dell'ambiente circostante dissolversi pigramente. Gli occhi le bruciavano, e una lacrima di dolore sfuggì al suo controllo, scorrendole lungo una guancia e infrangendosi in terra, come una piccola, solitaria goccia di vetro.

Non sapeva dire con certezza se si fosse addormentata o se fosse svenuta. Stava di fatto, che al suo risveglio la sua mente era ancora completamente vuota, e il suo corpo debole e fiacco ancora in quell'ascensore, ora col soffitto aperto su chissà quale mondo.
Le persone intorno a lei erano ridotte di numero: alcune erano riuscite a uscire, e chissà se si stavano preoccupando di trovare un modo per permetterlo anche alle altre. Qualcuno graffiava disperatamente il metallo, come un cane in una gabbia, e pregava di essere tirato fuori. 
< Judith sobbalzò. Il ragazzo accanto a lei, che non le teneva più la mano, le mostrava un sorriso tenero e stanco. Era di razza caucasica, con degli spessi dreadlock neri legati in un codino alto. Aveva divaricato le gambe e inarcato la schiena, in un atteggiamento rilassato, ma dai suoi occhi azzurri strabordava una paura non ancora del tutto passata. 
<> fece lei, incoraggiando quel tentativo di approccio tanto fuori luogo. < <> rispose il ragazzo. <> Parlava lentamente, con dolcezza; nella sua voce c'era qualcosa di molto simile a una ninna nanna. 
Judith non sapeva come continuare la conversazione. Non si conosceva, ma se c'era una cosa che aveva compreso era di non essere particolarmente loquace. Si alzò e, mentre si stiracchiava le gambe, il ragazzo le fece la domanda che temeva di porre lei: < La ragazza scosse la testa. < <> disse lui. <> Sorrise. E lei non riuscì a non fare altrettanto.
Senza dirsi niente, come complici di un tacito accordo, i due cercarono di arrampicarsi sulla parete per uscire. Quando si resero conto che il soffitto dell'ascensore era troppo alto, tentarono un'altra strategia: Eric si abbassò, e Judith si arrampicò sulle sue spalle, allungando le braccia. Ma non funzionò, e ben presto i due finirono a terra, in un pietoso groviglio di membra umane. 
Lei si sentì imbarazzata, anche perché c'erano altri ragazzi intorno che li osservavano, sbirciando dalla finestra del loro terrore. Ma Eric non fece commenti: si limitò ad aiutarla ad alzarsi e a piegare le gambe, intrecciando le dita e tenendo i palmi sollevati. Judith incrociò il suo sguardo e annuì, afferrando le sue intenzioni. Mise un piede sulle sue mani.
<> disse lui. < Nello stesso istante in cui Eric fece forza verso l'alto, seppur poca, Judith usò l'appoggio offertole a mo' di rampa di lancio, le braccia sollevate. Sbatté contro la parete come una zanzara su un vetro, una fitta di dolore la attraversò soprattutto all'altezza del mento, ma riuscì ad aggrapparsi. Le nocche le si sbiancarono quasi subito, ma miracolosamente mantenne la presa il tempo necessario affinché, con una forte spinta, potesse gettare una gamba oltre il bordo dell'ascensore, poi il resto del corpo. Eric esultò: -Grande!
Il terreno su cui era ricaduta era duro. Pietra. Si concesse qualche secondo per riprendere fiato, poi, lentamente, si alzò.
Non ricordava nulla del suo passato, ma era assolutamente certa di non aver mai visto un posto simile in vita sua. Un immenso spazio si ripeteva per decine e decine di metri, fino a venire interrotto bruscamente da quattro mastodontiche mura di pietra, che lo chiudevano in un quadrato perfetto. 
Fece un giro completo su se stessa, ancora incredula. In un angolo del luogo, vi era un edificio non esattamente nuovo di zecca, con qualche asse di legno che sporgeva qua e là. In un altro, una specie di foresta introdotta da alcuni alberi malati. Poi, diverse recinzioni contenenti vari animali da allevamento: pecore, capre, maiali, mucche. Quello che sembrava essere un orto spoglio e non coltivato. E, infine, proprio accanto a dove si trovava, un secondo edificio tozzo dalla porta di ferro. 
<> domandò Eric dal basso, dietro di lei. < Judith non si voltò, attratta e inquietata da quel misterioso paesaggio. < Quasi metà della gente era sparsa in giro, ma non con l'aria serena di chi passeggia in un parco dopo una giornata di lavoro. Dovunque guardasse, vedeva ragazzi e bambini immobili come statue, come se avessero assorbito la pietra sotto i loro piedi. Alcuni sembravano ipnotizzati, gli occhi spenti rivolti verso un passato troppo lontano da raggiungere. Altri si erano accovacciati e si dondolavano come per cullarsi, tenendosi le orecchie con le mani e mormorando qualcosa. Qualcuno era steso in terra. Qualcun altro urlava. 
La maggior parte stava piangendo.
Avvertì il bisogno impellente di fare qualcosa, di mettersi in moto, perché sapeva che, se fosse rimasta a guardare, anche lei avrebbe perso il controllo. Si affacciò all'ascensore. <> disse ad Eric. < Eric annuì. < Il suo primo istinto fu quello di raggiungere lo strano edificio diroccato. Assomigliava a una di quelle case abbandonate che sapeva di aver visto, ma che effettivamente non ricordava. Era certa che qualunque cosa stesse cercando, l'avrebbe trovata lì.
In pochi istanti, fu davanti alla porta con la vernice verde scrostata, e si fermò. Per qualche motivo, decise che sarebbe stato più sicuro bussare. Forse si aspettava che sarebbe uscita fuori qualche vecchietta gobba e scorbutica, brandendo un bastone sopra la sua testa, e domandandole isterica cosa mai ci facessero trenta ragazzini nella sua preziosa fattoria. Ma apparentemente, in quell'edificio non c'era nessuno.
La porta scivolò sui cardini con un tremendo cigolio. Judith indugiò qualche secondo sulla soglia per guardarsi intorno.
L'atrio era quasi completamente spoglio, ad eccezione di un tavolino a tre gambe, che sembrava essere stato messo lì a caso. Sopra vi era un vecchio vaso impolverato e una foto in bianco e nero. Avvicinandosi, Judith vide che ritraeva una donna anziana in un semplice abito bianco. Allora forse ci vive davvero una vecchietta qui, pensò. Il solo pensiero le mise i brividi. 
Alzando lo sguardo, notò due rampe di scale piuttosto storte che conducevano al piano di sopra. Si disse di aspettare per vedere cosa ci fosse. Prima doveva ispezionare di sotto.
Il piano terra dell'edificio conteneva poche stanze: una cucina spaziosa, un salottino, un ripostiglio che puzzava di muffa, un bagno sporco e una specie di spogliatoio con delle docce. Ma in nessuna di queste trovò qualcosa che potesse aiutare i ragazzi a tirarsi fuori dal loro buco. 
Alla fine, dopo un attimo di esitazione dovuto alla mancata stabilità delle scale, decise di andare di sopra. Ogni gradino scricchiolava sotto i suoi piedi, ma Judith si costrinse a continuare a salire, anche se molto lentamente e con il supporto della ringhiera impolverata.
Percorse una seconda rampa di scale, e finalmente raggiunse il secondo piano dell'edificio. Era un lungo corridoio, sul quale si aprivano diverse stanze, tutte con la porta chiusa. 
Judith bussò ad ognuna, senza mai ricevere risposta. Le camere contenevano un letto, una scrivania e un armadio a due ante, ma si vedeva lontano un miglio che non venivano pulite da tempo. 
In una delle camere, sulla scrivania, trovò un coltello abbastanza affilato in una federa. Judith pensò che chiunque occupasse quella stanza in precedenza dovesse essere un tipo davvero paranoico. Lo prese e lo incastrò nella salopette di jeans che indossava, sul lato, per evitare che qualcuno lo trovasse e lo utilizzasse per seminare il panico.
Aveva contato sei stanze in totale, tre su un lato del corridoio e tre su un altro. E nessuna di quelle - sotto il letto, dentro l'armadio - conteneva una stramaledetta corda o una stramaledetta scala a pioli.
Si lasciò sfuggire un'imprecazione. 
Scese le scale e uscì fuori dall'edificio più in fretta che poté per controllare la situazione dei suoi compagni. Doveva farsi venire in mente qualcosa, o non avrebbe avuto il coraggio di farsi guardare in faccia. I suoi occhi caddero sulla parete di pietra più vicina. Solo allora notò che le quattro mura che delimitavano la fattoria erano ricoperte di tralicci d'edera più o meno spessi. Eureka. Sorrise a se stessa, facendo scivolare una mano sul coltello appena trovato: aveva un piano.

Si avvicinò, con molta cautela, a uno degli imponenti muri. Vedendolo da lontano, aveva constatato che doveva essere alto più o meno cinquanta metri. Ora, per guardarlo tutto, non bastava nemmeno inclinare la testa. Sentendosi infinitamente piccola, avvertì un senso di vertigine. 
<> fece a voce alta qualcuno alla sua sinistra. 
Un ragazzino, pochi metri più in là, era accasciato in preda ai conati e rigettava il contenuto del suo stomaco ai piedi del muro; un altro, rivolto verso di lei, gli batteva una mano sulla schiena. Non riuscì a vederlo bene in viso, a causa della distanza. 
<> rispose lei, alzando la voce a sua volta. Il ragazzo disse qualcos'altro che non capì, ma non gli chiese di ripetere: la sua attenzione era tutta per un traliccio, che soccombeva, con non poca fatica, alla lama del coltello.
Quando arrivò al bordo dell'ascensore, l'edera tra le mani, Judith si chinò e ciò che vide la lasciò perplessa. Eric era seduto a gambe incrociate di fronte ad alcuni ragazzini, mostrando loro quelle che parevano tecniche di respirazione. 
<> esordì. Diede anche un colpo di tosse per attirare l'attenzione, ma nessuno la sentì, troppo assorti dagli esercizi. 
Un ragazzo di colore, che se ne stava in disparte, avanzò da un angolo dell'ascensore. Il suo sguardo cadde sul traliccio. <> chiese, chiaramente incredulo. Era robusto e abbastanza alto, con una voce già profonda, da adulto scorbutico. Aveva sui sedici anni.
Judith deglutì, intimidita. <> ribatté, con involontario tono di scuse. Fece calare l'edera nell'ascensore.
Il ragazzo guardò prima lei, quasi dubitasse delle sue parole, poi i ragazzi dietro; afferrò saldamente il traliccio, e senza troppi giri di parole le ordinò di essere tirato fuori da quella gabbia di matti. 
Era così pesante che per poco non cadde di sotto. Ma cosa hanno dato da mangiare, a questo qui?, chiese a una goccia di sudore che le scorreva sulla tempia. 
<> disse qualcuno. Judith riconobbe la stessa voce che aveva udito poco prima, e subito dopo un altro paio di mani si avvolse attorno alla corda di fortuna. 
Stringendo e tirando fino a farsi esplodere le braccia, finalmente portarono il ragazzone all'aperto. Si guardò intorno, e se era spaventato, non lo diede a vedere. Poi squadrò Judith da capo a piedi, con aria circospetta, mettendola in forte soggezione. <> le domandò.
<> rispose con voce roca. <> si affrettò ad aggiungere per non sembrare stupida, schiarendosela.
< < Alby annuì lentamente, come se lei avesse soddisfatto le sue aspettative. Raccolse il traliccio e richiamò il gruppo in ascensore, con l'intento di ripetere la stessa azione.
<> esclamò qualcuno. Si voltò. Il ragazzo che l'aveva aiutata: si era quasi dimenticata della sua presenza.
Aveva grandi occhi color miele, ora strabuzzati, e folti capelli color castagna; il naso, graziosamente all'insù, era punteggiato da piccole lentiggini. Non poteva avere più di tredici o quattordici anni. 
Judith sorrise a quell'entusiasmo infantile: il trovarsi in una situazione catastrofica e inusuale, da mettersi le mani nei capelli e strapparseli dalla disperazione, eppure felici, perché consapevoli di non essere soli. 
Il ragazzino, vedendo la sua reazione, assunse di colpo un'espressione seria. <> si corresse maldestramente. 
<> gli disse Judith. < Lui parve pensarci su un istante. Poi il suo volto si illuminò. <> rispose, tutto orgoglioso. < <> Gli scompigliò i capelli. Lui arrossì, soffocando un sorriso nelle gote. 
<> ricominciò Danny, marcando il suo nome con la voce, < <> ripeté lei. < <> Danny guardò alle sue spalle, < Mentre parlava, Judith non si era accorta che Alby aveva già tirato fuori ogni singola persona presente nell'ascensore. Si erano tutti sparpagliati nello spazio aperto, mescolandosi con chi era riuscito ad uscire da prima. 
E mentre si guardava intorno esaminando a uno ad uno i volti dei presenti, quella bizzarra e inquietante consapevolezza si fece strada dentro di lei. Qualcosa di evidente fin da subito, ma a cui Judith non aveva fatto attenzione fino a quel momento, in cui Danny l'aveva notato.
Tra tutte quelle persone, lei era l'unica ragazza.


--------Angolo autore--------
Dopo taaaaanto tempo mi sono decisa a pubblicare anche su EFP il secondo capitolo della mia storia infinita... Tra un po' i miei stessi personaggi mi manderanno a quel paese ^^"
Spero che piaccia!
A presto,
Torbi Dust (talmente sfigata che dopo tre mesi ancora non mi cambiano il nickname T_T)

  
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