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Autore: Claire Penny    28/01/2017    1 recensioni
Sono passati tre anni dagli avvenimenti di “A tutto reality: All Star” e le strade degli ex-concorrenti si sono divise: c’è chi si è reinventato come cantante, attore o opinionista pur di continuare a far parte dello star system e chi invece ha preferito lasciarsi alle spalle l'esperienza il mondo dello spettacolo per dedicarsi ad altre carriere o progetti.
Di quest’ultima categoria fa parte anche Gwen, la quale, dopo un fallimentare periodo come studentessa universitaria, ha cercato di affermare la propria indipendenza lasciando la casa di famiglia e trovandosi un lavoro part-time. La ragazza però non è felice della sua vita e non sente di avere alcuna ambizione particolare, contrariamente ai suoi ex compagni di (dis)avventure.
Ogni problema però passa in secondo piano quando Chris fa la sua ricomparsa nelle vite di alcuni ex-concorrenti, invitandoli (o meglio, costringendoli liberamente) a prendere parte ad un’apparentemente innocente reunion del gruppo…
Ma ci si può davvero fidare delle parole di Chris McLean? E soprattutto, quante cose sono cambiate nel corso degli ultimi tre anni?
Genere: Avventura, Comico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: Lemon, Lime | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: Contesto generale
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[Un mese più tardi]
 
Bagaglio a mano, passaporto e biglietto aereo. Avevo fatto il check-in ed ero pronta per l’imbarco. Dal momento che sarei partita dal freddo inverno canadese per atterrare nella perenne estate polinesiana, mi ero vestita a cipolla, con un imprecisato numero di strati di indumenti sotto al mio cappotto invernale.
Seduta accanto a me, una famigliola felice composta da padre, madre e pargolo frignone, rendeva l’attesa dell’aereo un po’ più insopportabile di quanto già non fosse.
Avevo detto a mia madre, mia nonna e a mio fratello della mia partenza una settimana prima, ma solo questi ultimi due erano venuti a salutarmi, un paio di giorni prima e all’insaputa di mia madre. Era stata una visita breve, ma l’avevo apprezzata molto.
Chi invece non aveva apprezzato questa partenza dell’ultimo minuto oltre alla mia genitrice, era Marilyn, la quale mi aveva concesso con riluttanza le due settimane di ferie che le avevo chiesto, nonostante avessi cercato di spiegarle nel dettaglio come stavano le cose e il motivo per cui non mi rimaneva altra scelta se non quella di partire.
-Gwen, non è per il lavoro. Me la posso cavare senza problemi per un paio di settimane anche da sola- aveva precisato. -Solo non capisco perché tu abbia accettato così, senza protestare, senza cercare un modo di aggirare questo dannato contratto che, onestamente, comincia a sembrarmi peggio di un patto col diavolo. Hai già dimenticato lo stato in cui ti trovavi quando sei tornata da Wawanakwa l’ultima volta? Eri arrabbiata, triste, profondamente delusa dalle persone che avevi creduto amiche e da quello che nel frattempo era diventato il tuo ex. Eravamo tutti seriamente preoccupati per te. Poi però un giorno sei venuta da me, sorridente come non ti avevo mai vita, per annunciarmi che avevi deciso di iscriverti all’università. Certo, poi le cose non sono andate come avevi programmato ma per lo meno sembravi avere superato quella fase. E adesso vieni qui, a dirmi che tornerai a fare la star dei reality di punto in bianco-.
Non ero riuscita a trovare le parole adatte per risponderle, così ero rimasta in silenzio, e Marilyn aveva continuato.
-Gwen, ti conosco abbastanza bene da sapere che sei testarda, molto testarda. Se vuoi qualcosa, te ne freghi degli ostacoli, vai e la ottieni. La stessa cosa vale per quando cercano di importi qualcosa: se non lo vuoi, non lo fai. Quindi non venirmi a dire che devi farlo. La verità è che tu vuoi farlo, è inutile che menti a me, o a te stessa. Vuoi riscattarti dal modo in cui ne sei uscita l’ultima volta, ma lascia che ti dica una cosa: tu non devi dimostrare niente a nessuno, tanto meno a quegli idioti. Vogliono solo fare audience sfruttando qualunque cosa possa mettere te e gli altri in difficoltà. E io non voglio vederti tornare a casa depressa ee delusa ancora una volta-.
Sospirai, cercando di scacciare il ricordo di quella conversazione dalla mia mente e di riconcentrarmi sul mio momento di noia con sottofondo di lagne infantili. Nutrivo il fondato sospetto che nei giorni successivi la noia sarebbe diventata un lusso che non mi sarei più potuta concedere ed infatti ne ebbi conferma quando, pochi minuti più tardi, scorsi tra la gente che proveniva dal check-in una persona da me tanto conosciuta quanto detestata.
Se c’era un fondo di verità nel detto “il buongiorno si vede dal mattino”, quella giornata, così come le successive quattordici, si preannunciavano un vero schifo.
Heather camminava tranquilla, tirandosi dietro un piccolo trolley rosso. Notai che i capelli le erano ricresciuti e che ormai avevano raggiunto la lunghezza che avevano prima che le venissero rasati per errore nella prima stagione.
Mi concessi un istante per gustarmi il ricordo di quel momento, lo stesso in cui avevo cominciato a credere nel karma senza sapere che, un paio di stagioni più tardi, avrei dovuto rendergliene conto a mia volta.
Quell’attimo di distrazione però durò un secondo di troppo e, quando tornai coi piedi per terra e ripresi a cercare Heather tra la folla con lo sguardo, mi accorsi che quest’ultima si trovava poco distante da me e stava ricambiando la mia occhiata.
Per qualche istante rimanemmo lì, immobili, a fissarci come due perfette cretine, indecise se ignorarci, insultarci o fare le persone mature salutandoci come se avessimo ormai seppellito l’ascia di guerra. Mentre ancora valutavo le alternative cercando di scegliere la più adatta, Heather decise per entrambe e compì il gesto più assurdo che mi sarei mai potuta aspettare da lei: sorrise.
In genere, i sorrisi di Heather erano rassicuranti come quelli del pediatra che da piccolo ti offriva il lecca-lecca per distrarti dal grosso ago che stava per infilarti nel braccio: falsi ed inquietanti. La vaga parvenza di sincerità che mi sembrò di intravedere in quello che mi stava rivolgendo lo attribuii al lungo periodo che avevo trascorso lontano da lei.
L’unica reazione che riuscii a produrre in risposta a quel gesto inaspettato, fu una smorfia che tentai invano di trasformare in un’espressione di distaccata cortesia.
Ero convinta che, dopo aver ricambiato quel sorriso da serial killer, la mia storica nemesi sarebbe andata ad aspettare la chiamata per il nostro volo ad almeno un chilometro da dove mi trovavo, invece successe il peggio: Heather venne verso di me e si accomodò proprio nel posto accanto al mio.
-Gwen! Come sono felice di rivederti!- esclamò.
E, proprio mentre cercavo di rendermi conto delle parole che mi aveva appena rivolto, questa si sporse verso di me e mi strinse in un abbraccio soffocante che durò non meno di quindici secondi. Quindici secondi di troppo durante i quali il mio cervello subì vari collassi e blackout nel tentativo di trovare il modo più corretto di elaborare quanto stava succedendo.
Una volta che mi ebbe lasciato andare, finalmente Heather parve accorgersi della mia espressione sconvolta e, a giudicare dalla sua reazione, sembrò rimanerci male.
-Oh, ehm...giusto, noi non ci vediamo da un po’, o meglio, da quando ero ancora una manipolatrice cinica ed egoista che usava le persone solo per il proprio tornaconto. Mi ricordi ancora così, vero? Lo sapevo, sapevo che avrei dovuto telefonarti, mandarti un messaggio, scrivere una lettera per scusarmi per tutto quello che vi ho fatto passare negli anni scorsi. Invece sono stata una codarda e ho preferito convincermi scioccamente che il tempo avrebbe sistemato tutto- disse, dopodiché sospirò, alzando gli occhi al cielo.
Okay, fermi tutti pensai. Sta forse cercando di convincermi che, nei tre anni in cui non ci siamo viste è improvvisamente diventata…buona?
Cercare di metabolizzare le parole che mi erano appena state rivolte si dimostrò alquanto difficile, in quanto stavo cercando contemporaneamente di capire in quale assurdo universo parallelo fossi finita mentre, ignara dei miei pensieri, Heather continuava a fissarmi con uno sguardo da cerbiatto innocente, in attesa di una mia replica.
Probabilmente, chiunque fosse in possesso di un briciolo di fiducia nell’umanità più della sottoscritta – qualcuno come Lindsay o Beth, ad esempio – avrebbe preso in seria considerazione l’idea di abbassare la guardia davanti a quell’atteggiamento all’apparenza così sincero e dispiaciuto. Del resto eravamo tutti cresciuti dall’ultima volta, no? Ci eravamo diplomati, avevamo trovato un lavoro o ci eravamo iscritti all’università, avevamo tutti lasciato le nostre case natali – tutti tranne DJ, che viveva ancora con sua madre – si supponeva quindi che, in tutto questo, avessimo trovato almeno un ritaglio di tempo per maturare e renderci conto di quanto ci fossimo comportati in modo infantile mentre, appena sedicenni, cercavamo di decidere se valesse di più la pena mantenere le amicizie costruite durante un assurdo campo estivo o di sfruttarle egoisticamente a nostro vantaggio per tentare di vincere una somma di denaro che era decisamente troppo cospicua per non solleticare la parte peggiore di noi e per non mettere a repentaglio qualunque nobile sentimento e proposito.
Forse, se al posto di Heather ci fosse stato qualcun altro, avrei anche potuto concedergli/le il beneficio del dubbio, ma la ragazza che avevo davanti, in apparenza diversissima dall’ultima volta che l’avevo vista sia nell’aspetto che nel comportamento, era in ogni caso la stessa che per quattro anni aveva manipolato qualunque persona avesse commesso l’errore di mostrarsi insicura o vulnerabile ai suoi occhi, aveva tentato di mettere gli altri partecipanti l’uno contro l’altro e non si era tirata indietro nemmeno di fronte alle peggiori bassezze pur di riuscire a conquistare ciò a cui ambiva. Aveva persino spezzato il cuore di Alejandro, probabilmente l’unica altra persona sulla faccia della Terra a possedere, ben nascosto sotto uno strato di caliente sensualità latina, un cuore di pietra abbastanza dura da riuscire ad accendere una scintilla di affetto dopo essere entrato in contatto con quello di Heather.
Anche se in quell’occasione i soldi non c’entravano nulla, per quale motivo avrei dovuto fidarmi di lei, dopo tutto quello che aveva fatto?
-Senti Heather…non ci vediamo da tre anni. Non ho idea di cosa tu abbia fatto in tutto questo tempo ma spero tu non mi consideri così ingenua da credere in un tuo improvviso abbandono del lato oscuro, dopo tutto quello che io e gli altri abbiamo passato a causa tua-.
La reazione che seguì alle mie parole, non mi sorprese più di tanto: si limitò a guardarsi la punta delle scarpe con aria rassegnata. Non che mi illudessi che avrebbe gettato la maschera dopo una provocazione così debole: quella ragazza amava le sceneggiate di quel genere, per questo avevano sempre fatto parte dei suoi piani subdoli. A volte mi chiedevo come mai non avesse deciso di darsi alla recitazione come aveva fatto Lindsay. Avrebbe potuto avere molto più successo di lei.
-Mi dispiace che la pensi così, Gwen, ma in effetti non potevo certo aspettami una risposta diversa da parte tua. Del resto hai tutte le ragioni del mondo per non fidarti. Spero che ora che non ci sono più soldi, alleanze e strategie di mezzo, capirai che questa volta sono sincera- si limitò a dire.
Non provai nemmeno a replicare e tentai di lasciare semplicemente cadere la conversazione. Peccato solo che le intenzioni della mia imprevista ed indesiderata compagna di attesa non coincidessero esattamente con le mie. Dopo solo qualche minuto di silenzio infatti, riprese a parlare come se niente fosse.
-Allora, che fai ultimamente? Lavori? Studi?- incalzò.
In quel momento mi fu tutto chiaro: Heather aveva abbandonato il lato oscuro per dedicarsi a quello molesto.
-Lavoro con un’amica in un negozio di abbigliamento alternativo- risposi, leggermente a disagio. Era sempre stata brava a mettere il dito nella piaga e in qualche modo era riuscita a farlo anche in un argomento di cui – in teoria – non sapeva nulla, scegliendo proprio quello che al momento mi metteva più a disagio.
-Oh, magnifico! Ti ci vedo proprio in un ambiente del genere. Quindi tu e la tua amica gestite questo negozio insieme? Siete socie?- chiese, conservando quel tono fastidiosamente innocente che non le si addiceva per niente.
-Ehm, non proprio- farfugliai, sempre più in imbarazzo. -Il negozio è suo e io sono una semplice…commessa-.
Considerato ciò a cui stavo assistendo, sarei dovuta essere preparata a qualunque reazione di quella versione riprogrammata di Heather, invece quando lei finalmente capì di avere fatto la scelta più sbagliata per cercare di portare avanti la conversazione, l’espressione affranta e colpevole che mi rivolse fu così spiazzante che per un attimo mi sembrò di udire un triste assolo di violino in sottofondo alla scena a cui stavo assistendo. Tanto ormai la situazione stava diventando talmente demenziale che niente avrebbe più potuto fare la differenza.
-Scusami, non volevo insinuare che…voglio dire, la commessa è un lavoro onesto, ha molti aspetti positivi e…sai, con questa crisi avere un lavoro vuol dire molto, dovremo essere grate per…-
-Sì, è un lavoro come un altro, ci pago cibo e bollette, quindi non ho niente di cui lamentarmi- tagliai corto, stanca dei giri di parole con cui stava cercando di porre rimedio alla sua figuraccia.
Durante i pochi secondi di silenzio che seguirono, considerai l’idea di farmi dare il numero del medico che aveva scavato nei meandri di quel suo cervellino malefico fino a trasformarla in una parodia di sé stessa. Ormai avevo perso il conto delle volte in cui avevo preso in seria considerazione la possibilità di sottopormi a mia volta a qualche seduta di elettroshock che mi facesse dimenticare tutta la mia vita fino a quel momento per poter finalmente ricominciare da capo.
-Scusami, non sapevo di aver toccato un nervo scoperto- ricominciò Heather.
-Non fa niente- risposi secca, mettendo un punto a quell’assurda parentesi.
Per qualche minuto calò il silenzio. Il bambino aveva smesso di frignare e Heather stava digitando un messaggio sul suo smartphone muovendo le dita ad una velocità impressionante. Per ammazzare il tempo presi dal bagaglio a mano che avevo con me il libro di Edgar Allan Poe che avevo portato con me ed iniziai a leggere, sperando che le interruzioni indesiderate fossero finite.
Speranza a cui mi affidai senza tenere conto che quel giorno la fortuna aveva per qualche ragione deciso di non prendermi in simpatia. Dì lì a pochi minuti infatti, il telefono di Heather iniziò a squillare.
-Pronto?- rispose. –Sì, sì, sono in aeroporto. Va tutto bene?-
Cercai di rimanere concentrata sul mio libro, invano. Con la coda dell’occhio mi accorsi che, mentre dall’altro capo del telefono il suo interlocutore parlava, sul volto di Heather stava comparendo a certa espressione, ma non una qualsiasi. Era di un genere molto raro, specialmente nel suo caso. Non avrei mai potuto immaginare di vivere abbastanza a lungo da vederla impressa su colei che avevo sempre considerato come la personificazione stessa della perfidia, eppure era palese.
L’espressione da triglia lessa.
-Oh, lo so, anche tu mi mancherai, ma saranno solo due settimane. Non dirmi così, altrimenti sopportare la lontananza sarà ancora più difficile…sì, ti penserò tutti i giorni e tutte le notti. Tu farai lo stesso vero, amore mio?- stava dicendo.
Ascoltando la risposta Heather si morse il labbro inferiore, mentre fissava un punto vago davanti a lei con aria sognante.
-Okay tesoro, adesso devo lasciarti, non voglio che tu faccia tardi al lavoro per colpa mia- disse, in tono melenso.
Seguì la risposta da parte del tizio che però non riuscii a comprendere.
-Sei il mio orsacchiotto, non dimenticarlo. Ti amo anch’io. Ciao ciao- concluse, dopodiché finalmente riagganciò e sospirò, sempre continuando a sorridere come un’ebete.
Fortunatamente Heather era così impegnata a crogiolarsi nell’aura di cuoricini rosa che le fluttuavano intorno da non accorgersi della mandibola che si era staccata dal resto della mia faccia e in quel momento stava rotolando in giro per l’aeroporto a causa dello choc dovuto alla conversazione che avevo mio malgrado origliato.
Heather era in grado di provare dei sentimenti?
O meglio, Heather era in grado di provare dei sentimenti positivi verso un altro essere vivente?
Il livello di assurdità di quel momento stava raggiungendo picchi decisamente troppo elevati da sopportare.
Per quanto una parte di me desiderasse disperatamente sapere quale esemplare di ibrido tra uomo e demone fosse riuscito a conquistare e sciogliere l’iceberg in cui Heather aveva tenuto ibernato il suo cuore negli ultimi vent’anni e, soprattutto, in che modo, decisi di tenere per me quella curiosità per due ragioni: primo, non ero sicura al 100% di possedere la preparazione psicologica sufficiente per conoscere la risposta; secondo, non volevo certo essere io dare alla mia (ex?) nemesi un pretesto per ricominciare a parlare.
Peccato che l’universo non ne volesse sapere di farmi stare tranquilla per più di un minuto e ventitré secondi. Doveva averci preso nuovamente gusto a giocare a “rendiamo la vita impossibile a Gwen”.
Trascorso il suddetto lasso di tempo infatti, Heather riprese la parola, ma questa volta la sua voce fu il minore dei mali. Quello che disse infatti, mi spiazzò molto di più.
-Ehi, non sono Duncan e Courtney, quelli che stanno venendo verso di noi?-
   
 
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