Scusatemi. Scusatemi
davvero.
Questo capitolo è in
un ritardo assurdo, sì, me ne rendo conto.
E non ho intenzione
di tirare fuori assurde scuse se non la verità: …non avevo più ispirazione *si angolizza e fa cerchietti*.
Fortunatamente, anche
se a pezzo piccoli, ogni tanto scrivevo. Dunque, ecco qui il capitolo 15, dopo
qualche mese di fermo.
Per lo stesso motivo
di qualche capitolo fa, per questa volta non scriverò ringraziamenti ad personam; è
passato un sacco di tempo e, come minimo, sia io che gli interessati non
ricorderemmo nemmeno cosa abbiamo scritto/vogliamo scrivere XD
Perciò, solo per
questa volta, un rigraziamento veloce ma non meno
significativo va a Slice
(che, cascasse il mondo, me la commenta sempre. E io non saprei davvero in che
altro modo ringraziare questa persona, sul serio ç____ç mi dice tante belle
cose sulla mia fantasia e sulla scrittura, e io ne sono sempre commossa T___T),
Rosa_elefante
(la sua richiesta di aggiornare presto… emh… lasciamo
stare. Anche lei, come Slice, mi dice sempre tante
belle cose T.T grazie davvero), CloudRibbon (donna, tu sai che
senza i tuoi commenti-papiro ormai non vivo XD e sai anche che mi ci vorrebbe
una pagina intera per risponderti, dunque mi devo astenere dal farlo per forza
di cose XD) e Hiko_chan
(anche lei sempre lì con la recensione. E sempre piena di complimenti. E sempre
con le sue elucubrazioni quasi giuste! XD Grazie mille anche e te, Hiko, per tutte le recensioni puntuali che lasci! :*).
Concludo con il
ringraziare anche Mika, Rei e Reki che so che leggono X°D
Ok, piccola
considerazione ora. Ormai non so se includere il comportamento di Kiba in un
momentaneo OOC, ma purtroppo è voluto dalla trama.
In questo capitolo
aleggia un’atmosfera decisamente malinconica e pesante, confusa come la mente di
Kiba che, purtroppo, ha attaccato la confusione anche a me @___@. Non esagero
dicendo che, dal punto di vista di farli rimanere almeno pseudo-IC,
questo sia il capitolo più difficile che abbia scritto.
Spero non sia venuto
troppo male.
Per ultimo, sappiate
che sto scrivendo uno Special decisamente demenziale. Un po’ di pubblicità
occulta non ha mai fatto male a nessuno >.>
Dovrei postarlo per
l’8 giugno, se riesco a scriverlo tutto; anche se è probabile che non lo
inserirò qui come capitolo, ma lo metterò a parte come fanfic.
E dopo ciò, vi lascio
la lettura, perché è veramente tutto. Al prossimo capitolo (il penultimo!).
Chapter 15 ~ Twelveth Echo
Cenere alla Cenere
C’era un fiume, davanti a lui.
Largo, nero, istintivamente pericoloso. Si infrangeva su
rive invisibili con uno scrosciare fastidioso, unico rumore che si poteva udire
in quella sottospecie di spazio vuoto, in penombra, in cui si trovava.
Non faceva nulla di particolare, guardava solamente. In
avanti, rimanendo immobile con le braccia lungo i fianchi, senza sapere nemmeno
perché lo stesse facendo, o quando mai avesse deciso di farlo.
Non riusciva a distogliere lo sguardo dalla riva opposta.
C’era qualcosa, dall’altra parte. Nella penombra riusciva
a vedere solamente dei contorni molto sfocati, quasi da non capire nemmeno che
cosa rappresentassero; ma c’era in assoluto qualcosa, al di là di quel fiume.
Sembravano… campanili.
Tetti a punta, pertugi dalla forma semi arrotondata, punte
squadrate scavate direttamente nella pietra e lati spioventi in tegole
simmetriche.
Dove li aveva già visti?
D’improvviso, un suono di campane riempì il silenzio,
sormontando il rumore di fondo dell’acqua in movimento. Ridondanti, quei
rintocchi volteggiavano nell’aria come se avessero avuto corpo, scandendo un tempo
che non sapeva nemmeno quale fosse di preciso.
Giorno? Notte? In quel luogo non si capiva, non si vedeva
né sole né luna.
Poi, una figura. Un ragazzo.
Dall’altra parte del fiume. Portava una divisa scolastica
sporca e malridotta, i capelli scompigliati, le mani coperte di sangue.
Nella destra, stringeva mollemente l’elsa doro di una
spada dalla lama di cristallo, macchiata di rosso per tutta la sua lunghezza e
che gocciolava a terra, silenziosamente.
Non poteva vederne il volto, no.
Però, sapeva che stava piangendo.
Se le immaginava quasi, le afone e posate lacrime di
tristezza, rigare quel volto.
Prese fiato per parlare, ma non ci riuscì. Per qualche
ragione la voce non voleva saperne di collaborare.
C’era Shikamaru, dall’altra parte di quel fiume… e lui non
riusciva a chiamarlo.
Chiuse le labbra, prendendo fiato ancora una volta e
bloccandosi, ancora una volta.
Eppure doveva riuscirci! Doveva provare!
Era importante! Era… vitale.
Doveva andare da lui a qualunque costo. A qualunque costo.
Stava piangendo. E anche se non riusciva ad inquadrare il
motivo, sapeva che era colpa sua.
Allungò la mano, fece un passo in avanti…
…ma il fiume oscuro non era del parere di lasciargli fare
quello che voleva.
Con un improvviso tumulto le acque si sollevarono,
parandosi fra lui e il ragazzo dall’altra parte del fiume e avanzando
minacciosamente verso di lui, che si ritrovò a fare due passi indietro,
improvvisamente terrorizzato.
Non poteva scappare, però. Non senza sapere dove muoversi.
L’acqua salì, arrivando a bagnargli le caviglie, e lui non
poté far altro che sussultare dalla sorpresa: era gelida, così tanto da fargli
perdere sensibilità ai piedi, ed era viscida, come la pelle di un serpente.
Lo bloccava lì, non poteva più muoversi.
<< ti… tr…ato >> sentì balbettare in mezzo al tumultuoso fiume
nero, ormai elevatosi in un muro oscuro davanti a lui. Sussurrava qualcosa che
non capiva, intervallando le parole con una risata a metà fra l’esasperato e il
sadicamente divertito.
<< Ti… trov… to >> ripeté, ma lui di nuovo non capì.
Era troppo occupato a tenere d’occhio l’acqua che,
dividendosi in quelli che sembravano due enormi tentacoli bui, si dirigevano
lentamente verso il suo volto.
Il suo istinto gli gridava di fuggire, ma i muscoli non
collaboravano. Inoltre era bloccato, dunque non poteva fare nulla, nessun
movimento gli era concesso con le gambe; e le braccia non servivano a nulla con
l’acqua, per definizione senza una massa solida da respingere.
In un scatto, quei tentacoli lo afferrarono per il collo.
Cominciarono a stringere, a stritolargli la gola sempre di più, finché non
terminò l’ossigeno e non poté più prenderne altro. Finché non poté più
respirare, cominciando ad annaspare, cercando inutilmente di afferrare quei
tentacoli stretti alla sua gola, prendendo fra le dita solo acqua che subito
scivolava via e tornava a soffocarlo.
Socchiuse gli occhi, ormai senz’aria. In quel momento, fra
le risa estasiate di quella massa informe di liquido scuro, un volto prese
forma.
Pallido e bianco, occhi gialli dalla pupilla allungata,
bocca sfigurata nella pazzia, lunghi capelli neri che si perdevano nella massa
altrettanto oscura di quel muro acquatico.
Orochimaru.
<< Ti ho trovato >> sibilò serpentino, aumentando
la stretta. Stava per lasciarsi andare, impotente, sconfitto.
Finché due mani candide non lo smossero da quella presa
soffocante, afferrandolo per le spalle e strattonandolo via da quelle grinfie,
portandolo in salvo…
Chiamandolo, proprio con quella voce a cui tanto era
affezionato e che tanto, troppo, aveva sperato di risentire.
Chiamava e chiamava, preoccupata forse, agitata,
continuava a chiamare…
Riaprì gli occhi di
scatto, con un gemito, quasi come se fare quel semplice movimento fosse stata
la cosa più difficoltosa del mondo.
Un soffitto. Questa
la prima cosa che si ritrovò davanti agli occhi, forzati nel riconoscere, fra
la nebbia di alcune lacrime, la tonalità bianca dei muri della propria camera.
Il colore puro era sporcato di un grigio spento, probabilmente a causa della
fioca luce che penetrava dalle fessure della tapparella, inframmezzato da linee
parallele più chiare dove la luce era più forte.
Quando l’aria divenne
una priorità, si rese conto di non stare nemmeno respirando; aveva la bocca
spalancata, gli occhi sgranati di qualcuno preda di un puro terrore ma tramite
le labbra, così come tramite il naso, l’aria non passava.
Fu quando la prima
boccata di ossigeno riprese a scavare il suo spazio giù per la trachea che, con
un dolore penetrante, la gola sembrò bruciare. Tossì furiosamente, girandosi su
un fianco e chiudendosi su se stesso. Serrò gli occhi nello sforzo, sentendo le
corde vocali andare a fuoco e, al contempo, un brivido gelido corrergli lungo
la schiena. Nel tossire, la ferita al fianco mandò una fitta dolorosa, che però
si chetò quasi subito sormontata da un fastidio maggiore.
Quando ebbe ritrovato
il controllo su se stesso e sul suo respiro – e si potrebbe dire anche sul
cuore, che batteva come impazzito – si rimise supino e richiuse gli occhi,
esausto.
Si sentiva uno
straccio. Gocce di sudore freddo gli imperlavano la fronte e il collo,
lasciando scie umide lungo le tempie e provvedendo a bagnare il collo della
maglietta bianca usata biecamente come pigiama. Il battito del cuore, ancora
accelerato, faceva contrarre appena i tendini delle dita e rimbombava
prepotente nelle orecchie, quasi come per dimostrargli la sua effettiva
agitazione. Il collo faceva male al tocco e, anche se non sapeva perché, gli
occhi faticavano ancora a mettere a fuoco la camera e tutti gli oggetti che in
essa erano contenuti.
Facendo un respiro
profondo – ma doloroso – ascoltò i suoni della casa.
A giudicare dal
lucore sbiadito non erano ancora le sei, ma alcuni rumori ovattati parvero
pervenire dal piano di sotto. Probabilmente sua madre che trafficava con le
pentole per la colazione, a giudicare dallo sferragliare poco abilmente
attutito dalla donna.
Richiudendo gli occhi
si concentrò su quello che era il suo senso più sviluppato: l’olfatto. E, non
appena inspirò, un pungente odore di bruciato gli invase le narici, facendogli
storcere il naso in un’espressione fiacca ma schifata.
Quella maledetta
cenere, che da quasi due giorni non faceva altro che scendere, portava con sé
quel fastidiosissimo sentore di bruciatura che lo faceva letteralmente
impazzire. Se lo sentiva ovunque: addosso, nei vestiti, sui capelli… e non era
al riparo da nessuna parte, dato che si accumulava in ogni anfratto come se
fosse neve, solo un poco più sottile e leggera. E grigia, ovviamente.
Il verdeggiante Konohagakure si era rapidamente ridotto ad un universo
sfumato in tonalità di grigio.
Ormai del tutto
rientrato in sé cercò di sollevarsi, girandosi a pancia in basso e puntando le
mani sul materasso. Rimase sgradevolmente sorpreso dal giramento di testa che
gli impedì ogni altro movimento, costringendolo ad aspettare, in quella
posizione alquanto scomoda, che il sangue portasse abbastanza ossigeno in giro
per il suo corpo, e che dunque la sua testa smettesse di ballare in can-can non
appena provava a mettersi diritto.
Era distrutto, e
questa cosa era tutt’altro che normale.
Insomma, la gente
perché dorme? Per riposarsi, no?
Come faceva lui ad
andare a letto stanco e a svegliarsi, il giorno dopo, ancora più stanco di
quando si era coricato?
Supponeva che nemmeno
i sonnambuli, che avevano la scusa di camminare tutta notte, si svegliassero
sfibrati quanto lui.
Quando finalmente la
sua testa smise di fare girotondo poté sollevare lo sguardo, posandolo sul
paesaggio all’esterno della finestra. Da quella posizione poteva vedere
solamente le cime di alcuni alberi, un tetto e qualche comignolo, ma i cumuli
grigi sopra ognuno di essi gli fecero presumere che altra cenere si fosse
fastidiosamente accumulata sul villaggio, costringendo ormai le persone a
doversi scavare la strada attraverso di essa.
Di certo non esistevano
spazzaneve – o facenti funzione – in un villaggio in cui nevicava una volta
all’anno per gentile concessione di una qualche corrente fredda molto
persistente.
Si sedette a gambe
incrociate sul materasso, toccandosi con la mano destra il collo. Dovette fare
piano però, perché faceva un male sordo, al tocco.
Ci mancava anche
quella. La sua mattina sfigata doveva essere segnata da qualche mistero,
altrimenti il risveglio sarebbe stato troppo monotono.
Perché si sentiva
come il protagonista tormentato dai guai di una specie di narrazione no-profit in cui doveva per forza provare le pene
dell’inferno senza un motivo valido?
Sospirò per
l’ennesima volta, rumorosamente, mettendosi in piedi un po’ barcollante. Subito
sembrò che il pavimento oscillasse come il ponte di una nave, ma smise quasi
subito, dunque lui poté dirigersi a passo stanco verso il bagno.
In corridoio, l’odore
particolare del pesce gli stuzzicò piacevolmente le narici. (*1) Sua madre
aveva la fantasia di una ciabatta per la colazione, preparava sempre le stesse
cose… e non è che sua sorella fosse un genio dei fornelli, dunque si lamentava
per la monotonia ma lasciava fare alla donna più che volentieri.
Ignorando i sentori
del riso nel bollitore continuò il percorso, arrivando al bagno ed entrando
senza nemmeno chiudere la porta.
I movimenti erano
abituali, quasi sempre gli stessi tutti i giorni, dunque voltare lo sguardo
verso lo specchio sulla sua destra fu del tutto istintivo… ma ciò che vi vide
riflesso lo fece balzare all’indietro, facendo sì che la sua schiena sbattesse
malamente contro il mobiletto alle sue spalle, rovesciando quasi tutti i
flaconi di sapone, balsamo e shampoo.
<< Cos’è questo
casino, Kiba?! >> urlò sua sorella dal piano di sotto, mostrando di
avere, come al solito, un udito fine (oppure, al contrario, dimostrandogli che
aveva fatto una confusione infernale).
Ma lui, nonostante il
tono di Hana non fosse da mettere in discussione, non
rispose. I suoi occhi rimanevano puntati sul suo riflesso, che suo doveva
essere per forza, anche se di primo acchito non lo sembrava.
Pallido. Occhiaie
pronunciate sotto gli occhi, espressione che più che sbalordita sembrava
incredula… ma quello che lo turbava maggiormente non erano i logici segni di
una nottataccia passata alla mercé di un sogno senza capo né coda.
Più che altro, era la
linea livida che gli cingeva la gola come un collare, a spaventarlo. E no, non
era solo colore, magari lasciato dalle lenzuola o da un qualsiasi capo
d’abbigliamento viola che non aveva; era letteralmente un livido e lui, se la
memoria non lo ingannava – cosa che quasi sperava – ricordava benissimo il
tentato strangolamento subito nel sogno. Poteva essere una coincidenza, il
fatto che i tentacoli lo avevano afferrato esattamente nella stessa posizione?
No. Aveva smesso di
credere alle coincidenze. E la possibilità che avesse potuto farselo da solo
non era minimamente credibile; non si ricordava di essersi mai dato ai tentati
suicidi, durante le ore di sonno.
L’unica spiegazione
possibile, era quella che incolpava Orochimaru di quello sgradevolissimo
girocollo violaceo.
Il bello era il
controsenso che si creava quando, alla considerazione di essere stato quasi
strangolato da un sogno, l’unica frase che gli uscì dalla bocca fu un serafico:
<< Kiba, sei pazzo >>.
E poco ci mancava che
lo diventasse davvero.
Fece del suo meglio per
nascondere il livido alla gola, ma nessuna delle sue maglie aveva un collo
abbastanza alto.
Colpa sua. Non
sopportava di avere attorno al collo qualsiasi cosa, compreso un sottile strato
di stoffa innocuo per i più.
Ma non poteva farci
nulla, dopotutto. Se non voleva essere creduto un potenziale suicida, vittima
di maltrattamenti domestici o abituè di stili
sessuali discutibili - e non era proprio in caso - doveva nascondere la sua
gola color uva.
Così, per la prima
volta da quando gliela avevano consegnata al conseguimento del grado di chunin,
si trovò ad utilizzare la maglia che la divisa ufficiale degli shinobi di Konoha prevedeva.
Nera, fortunatamente.
Le divise più recenti avevano abolito quel blu scuro che non sapeva di niente,
sostituendolo con il colore più scuro per eccellenza, che sapeva ancora meno
del blu.
Già da subito,
guardandosi allo specchio, ebbe l’irrefrenabile istinto di strapparsi quel
colletto. Tenne a bada gli istinti di distruzione solo per pura
auto-commiserazione intellettuale, ciabattando senza energie verso il piano
inferiore. Con i pantaloni neri che portava di solito sembrava vestito per un
funerale, ma poteva sempre contare sulla spirale rossa che stava cucita sul suo
braccio sinistro… spaccava sul nero come un pugno nell’occhio, impossibile non
notarla.
Appena terminata la
rampa di scale, faticosa quando una scalata della rupe degli hokage fatta con
le caviglie legate, sua sorella ebbe l’onore di mostrargli la prima espressione
inorridita che, era sicuro, apriva la lunga fila che avrebbe ricevuto durante
la giornata.
<< Sembri un
morto, ma ti sei visto? >> fu il suo commento scazzato,
sintomo di una notte pessima e di un risveglio ancora peggiore.
Fortuna che non
dormiva male solo lui.
<< E tu sembri
scema, dunque devo dedurne che hai il solito aspetto di sempre >> fu la
sua risposta – strascicata, ma facciamo finta di no… - sputata senza nemmeno
considerare eventuali reazioni fisiche da parte della sorella.
Cosa che,
stranamente, non successe. Hana si divertiva a
tormentare il fratello minore, questo era vero, ma anche lei aveva rispetto per
le sue condizioni di salute… e quella mattina Kiba non sembrava di certo in
forma.
<< Dico sul
serio >> disse la ragazza, spostandosi dietro la schiena la lunga coda di
capelli castani: << cos’hai, l’influenza? >> chiese, posandogli una
mano sulla fronte senza nemmeno chiedere il permesso.
Era Hana Inuzuka, dopotutto. Lei la frase “chiedere il
permesso” non aveva la minima idea di che significato avesse.
Tuttavia il ragazzo
non si mosse, così come non evitò il tocco. Troppo stanco forse, il suoi
riflessi ne risentivano; ma sapeva anche che se la sorella non partiva a molla
con una sberla a 180 gradi, tutti gli altri contatti fisici che gli riservava
erano innocui.
<< No, ho solo
dormito male >> ribatté lui, aspettando che lei gli togliesse la mano
calda dalla fronte. << Voi piuttosto, dove andate? >> chiese,
entrando in cucina. Sua madre era appena uscita, aveva sentito la porta aprirsi
e chiudersi quando ancora era al piano superiore, e considerando che la sorella
si stava infilando i sandali, supponeva che presto l’avrebbe seguita.
<< In riunione
dalla Godaime >> disse lei, intenta ad
allacciarsi bene la fibbia: << nessuno ha la minima idea di dove provenga
questa cenere. Abbiamo controllato i dintorni; non c’è nessun incendio nei
paraggi e il vento tira dal mare, dunque non è possibile che l’abbia
trasportata fin qui da una sua probabile fonte. Inoltre ieri è cambiato, ma
questa dannata cenere continua a cadere come neve. Niente nubi, niente fuoco,
niente di niente. C’è chi pensa ad una tecnica ninja, ma oltre che dare gatte
da pelare a chi è in carica di pulire le strade, non causa altri disturbi di
nessun tipo, nemmeno medici… >> disse fluida, interrompendosi solo dopo
aver finito di prepararsi.
Si alzò, osservandolo
sulla porta della cucina, sistemandosi meglio la giacca. << Muoviti a
rimetterti, idiota di un fratello. Non puoi rimanere informato sui movimenti
dei ninja tramite quello che racimoli da me o da Nara >> disse, prima di
aprire la porta e sparire con un balzo.
<< La chiami
una cosa facile… >> sussurrò in risposta quando fu ormai lontana.
Sul tavolo, coperta
da un canovaccio, la sua colazione aspettava solo di essere mangiata. Riso in
bianco, verdure alla griglia avanzate dalla sera prima e pesce. (vedi *1)
Non era luculliana,
ma era pur sempre colazione. E considerando la sua attuale energia, che si
aggirava attorno ai livelli di un ultranovantenne con la sciatica, qualche
proteina per aprire la giornata non guastava.
Solamente mezz’ora
più tardi era sulla strada per l’ospedale di Konoha, preda della sua visita
settimanale alla strizzacervelli con la mania del
rifiuto.
Camminando sotto
l’ombrello rosso, per ripararsi dall’alone grigiastro che lasciava la cenere sui
vestiti e sulla pelle, non poté fare a meno di riflettere.
Poteva evitarsi
l’incombenza in eterno, o almeno provarci, ma il pensiero del sogno e dei
risultati che esso aveva provocato su di lui erano sempre presenti nella sua
mente, come un tarlo che si nasconde ma che non perde tempo per far sentire la
sua presenza.
Non poteva ignorarlo
in eterno, così come non poteva far finta che non gli importasse solo per
soddisfare il collettivo quieto vivere.
Qualcosa non andava,
sia al St. Michael che in quella dimensione. Insomma,
il sogno… era palese, no? Chiaro come il sole, o il cristallo. Shikamaru, lui…
piangeva.
E poi il biglietto,
vogliamo parlarne? E quando mai l’inglese era esistito, in quella dimensione?
Si parlava una sola lingua in quel mondo, tolti i vari dialetti, e di certo non
era inglese.
I suoi ricordi, poi.
Le sensazioni, la cicatrice sul fianco, il livido sul collo… non potevano
essere coincidenze, causalità, no. Erano troppe e
troppo frequenti.
Inoltre, ultimamente
stava cominciando a pensare che anche quella cenere dalla provenienza ignota
fosse, in realtà, un simbolo. Un segno di qualcosa, magari di una svolta.
Di qualcosa… che
avrebbe potuto consentirgli di tornare all’accademia.
Da lui.
Anche solo per poco…
qualche istante era sufficiente, purché potesse assicurarsi che fosse vivo, che
stesse bene.
Purché avesse potuto
dirgli addio.
Perché sì, ormai lo
aveva ammesso a se stesso. Sempre che non fosse pazzo, e gli appigli per
affibbiargli quella carica c’erano eccome, lui era comunque un ninja, uno shinobi di Konoha.
Lui era diverso. Non
era uno studente, un ragazzo patito per videogiochi e computers… non esistevano nemmeno, nel suo mondo fatto
di guerre e ninjutsu.
La sua realtà era
quella. Era una carica, un coprifronte, un simbolo a cui essere fedeli. Quella
foglia intagliata nel metallo era più che una semplice riconoscenza: era
lealtà. Prima Iruka e poi Naruto glielo avevano insegnato, facendogli capire
che quello che proteggeva tutte le volte che calpestava un campo di battaglia
non era l’onore, ma un villaggio composto da vite umane che dell’orgoglio di un
singolo ninja non se ne facevano nulla.
Deglutì, fermandosi
davanti all’entrata dell’ospedale.
Nonostante sapesse
che i suoi pensieri esprimevano una verità incontrovertibile, provava comunque
una sensazione di tremenda solitudine e tristezza. La sensazione di voler
piangere, di essere stati abbandonati… o peggio, di avere abbandonato.
Ci aveva rinunciato
ancora prima che questo pensiero si formulasse chiaramente nella sua mente,
penetrandogli nel cuore come una spina.
Alzò appena lo
sguardo sulla facciata tranquilla del presidio ospedaliero, facendo un passo
indietro e dandogli velocemente le spalle. Di mettere piede lì dentro non aveva
assolutamente voglia, ora come ora.
Era confuso. E tutto
quel casino in testa era stanco di averlo.
Una parte di lui gli
urlava di lasciar stare, di mettersi il cuore in pace. Di riprendere con la
vecchia vita, ora che poteva nuovamente stringerla fra le mani, e abbandonare
ogni ricordo alla deriva del tempo, dove sarebbe stato cancellato con il
trascorrere dei giorni. Un pezzo alla volta, giorno dopo giorno, e avrebbe
smesso persino di sognarlo.
L’altra invece,
quella che prendeva il nome “istinto”, gli diceva di continuare. Che non era
scemo, che c’erano troppi segni per ignorarli, che c’era ancora la possibilità
di vederlo, di chiedergli un “stai bene?” a cui lui avrebbe risposto con un sorrisetto strafottente e una frase ad
effetto da perfetto sapientone.
Chi ascoltare? Quale
delle due seguire?
Ragione o istinto,
apparente normalità o follia?
…adattamento o
orgoglio?
No. Non avrebbe dato
ascolto a nessuna delle due.
Doveva smettere di
pensare, almeno un momento. Un solo attimo e poi… poi avrebbe ripreso con calma.
Ma ora aveva solo
bisogno di silenzio, di solitudine e di non essere trovato.
E sapeva benissimo
dove dirigersi per ottenere questo risultato.
Sembrava che la
biblioteca fosse l’unico posto di tutto il villaggio a non avere la minima idea
di come si utilizzasse una scopa.
L’entrata, infatti, era
praticamente sommersa da cumuli di cenere, tanto che stava sinceramente
pensando che non fosse nemmeno aperta, e che fosse per questa ragione che
nessuno aveva provveduto a togliere i cumuli dalla scalinata esterna.
Il fatto strano era
che era aperta, effettivamente. Anche se si doveva nuotare nella cenere, la
biblioteca era in piena attività; come si stava premurando di comunicargli la
bibliotecaria, sbracciandosi dalla porta a vetri.
O almeno, il pezzo
che ancora si vedeva, della porta a vetri.
Non appena mise piede
all’interno dell’edificio richiuse l’ombrello, non prestando la minima
attenzione alle pedate scure che lasciò sullo zerbino all’ingresso. Sorridendo
alla bibliotecaria si spolverò con la mano alcuni residui di cenere che gli si
erano depositati sopra la spalla, ascoltando solo per metà le gentili lamentele
della donna sul fatto che il marito, il fruttivendolo del quartiere adiacente,
non avesse tempo per togliere di mezzo tutta quella cenere.
Aspettò che finisse
di parlare solo per cortesia, anche se non ascoltava una sola delle sue parole,
e quando fu la donna ad allontanarsi con lo stesso sorriso gentile di prima,
lui la seguì dopo qualche secondo. Lo anticipava di qualche passo, chiudendogli
la visuale della prima zona lettura, ma anche senza vederla completamente
poteva capire che era semivuota, e che solo gli assidui frequentanti della
biblioteca erano presenti.
Forse era per quello
che lui, che in biblioteca ci metteva piede per la seconda volta in vita sua,
era un ospite abbastanza insolito.
Senza parlare la
superò, dirigendosi svogliatamente verso la bacheca del gioco di ruolo a cui si
era iscritto. Non si aspettava di poter trovare risposta al suo biglietto
(erano passati solo due giorni e il villaggio era nel caos), ma su di essa un
altro pezzo rettangolare di carta prendeva il posto di quello che aveva
lasciato lui, e la calligrafia con cui erano vergate le lettere inglesi non era
di certo la sua.
Nonostante lo avesse
notato, non si mosse.
Rimase in piedi a
guardare quel foglietto, fissandolo senza in realtà osservarlo veramente.
Teneva gli occhi puntati lì solo per non guardarsi intorno, così da non
incontrare per sbaglio nemmeno un paio di quelli delle persone presenti, che
come minimo non si curavano nemmeno della sua presenza.
Non pensava a niente,
per la verità. Nemmeno a leggere quel biglietto, per scoprire magari cosa
contenesse.
Magari risposte.
Magari indizi, ancora. Però non aveva il coraggio di leggerlo, nemmeno alla
prospettiva di togliersi almeno uno dei dubbi che lo tormentavano.
Ma ad incuriosirlo (o
a disturbarlo) ci pensò la stessa bibliotecaria: << sai che la vostra quest sta
attirando l’attenzione di un sacco di giocatori? >> chiese retorica,
sorridendogli gentile.
Sembrava una persona
troppo pura per essere trattata male… come Hinata. Non ci riuscivi a
risponderle male, anche se magari ti disturbava o seccava.
<< In che
senso? >> chiese dunque, cercando inutilmente di non sembrare così
distrutto come invece sapeva perfettamente di essere.
<< Curiosità,
credo >> rispose quella, probabilmente lasciando perdere il suo aspetto
da straccio usato: << siete la prima coppia che comunica in codice, credo
sia un diversivo molto efficace per attirare attenzione e dare un sapore diverso
al gioco >> concluse la considerazione, allegra.
Già, forse. Peccato
che a lui non interessava il gioco come non aveva mai avuto intenzione di
iscriversi per farselo piacere. Si era iscritto solo perché c’era un tizio che
parlava inglese in un mondo dove quel linguaggio non esisteva. Si era iscritto
perché questo tizio spruzzava St. Michael da tutti i
pori, ecco perché stava lì a fissare quella bacheca.
Beh, in ballo lo era
comunque…
Sospirando affranto
si avvicinò, staccando con un gesto secco il bigliettino dalla tavola di
compensato e leggendolo velocemente.
When you can see the other side of the Moon.
In the heart
of the Leaf, time always
end and restart.
“Quando puoi vedere
l’altro lato della Luna. Nel cuore della Foglia, il tempo sempre finisce e riparte”.
Aggrottò un
sopracciglio. Bene… e ora dove o trovava uno che gli spiegava cosa volesse
dire?
Era un indovinello?
Si stavano divertendo a prenderlo per il culo o, chiunque fosse il finto
britannico, rappresentava solo un altro indizio che si sarebbe tramutato molto
presto in illusione?
Sospirò, sentendosi
ancora più distrutto di quando si era “svegliato”. Il collo e la gola facevano
ancora male, la mente era annebbiata dal sonno e dalla stanchezza, gli occhi
bruciavano.
Per il momento, più
per salvare i suoi pochi neuroni che per altro, decise di evitare ogni
ragionamento sconclusionato potesse venirgli alla mente. Si infilò il biglietto
in tasca, accartocciandolo alla bene e meglio con la mano, evitando di
incontrare lo sguardo della bibliotecaria, che sembrava delusa da quella sua
inconscia decisione.
<< Non rispondi
subito? >> chiese infatti, guidata più dalla sua curiosità innocente che
dal vero dispiacere di non averlo più come giocatore.
Dovette sforzarsi per
rispondere cortesemente e, soprattutto, con una parvenza di serenità in volto. La
guardò con un sorrisetto veramente tirato, scuotendo negativamente il capo.
<< Posso farlo anche un’altra volta, giusto? >> chiese, fintamente
ingenuo, allargando appena il sorriso all’assenso un po’ deluso della donna.
Annuendo a sua volta,
più per riflesso condizionato che per altro, si inoltrò fra gli scaffali,
ignorando per la prima volta il sentore di vecchio e polveroso che avevano i
libri intorno a lui.
Rimase lì quasi per
tutto il giorno. E la cosa migliore, fu che nessuno lo venne a cercare.
Uscì dalla biblioteca
quando ormai era sera e il cielo si era completamente oscurato. Essendo estate,
dovevano essere come minimo le nove.
Aveva mangiato
qualcosa a mezzogiorno, alcuni tramezzini che la bibliotecaria gli aveva
appoggiato davanti al volto mentre faceva finta di leggere un volume sulle erbe
curative, ma dato il pranzo scarsamente abbondante, al momento sentiva una
certa fame.
Fuori scendeva
ancora, la cenere. Non si era fermata, nemmeno quel giorno, e continuava a
cadere alla stessa velocità di sempre, coprendo con un altro velo grigio la già
ingrigita cittadina.
Si dimenticò persino
di prendere l’ombrello, ma non tornò indietro a recuperarlo. Ormai si era già
incamminato, più stanco e abbattuto che mai, e non aveva la minima voglia ed
intenzione di voltarsi e tornare sui suoi passi.
Per un giorno intero
non aveva fatto altro che ignorare i suoi pensieri, facendo finta di non
vederli quando spuntavano dall’angolo di un suo ragionamento. Nascevano
spontanei a volte, insinuandosi superficialmente, così che lui dovesse
addentrarsi in quel senso sbagliato di inadeguatezza per scoprirli, e poi
lasciarli perdere di nuovo.
Un gioco a nascondino
con se stesso che lo uccideva piano piano,
lasciandolo confuso.
Non sapeva più a chi
credere e, quel che è peggio, aveva perso ogni concezione del suo istinto.
Anzi, era più giusto dire che aveva perso fiducia in esso, dunque in se stesso.
I suoi capelli si
riempirono velocemente di fiocchi cinerei, così come la maglia ne risultò
impolverata molto presto. Tuttavia, nonostante l’odore gli desse fastidio e gli
provocasse la nausea, non aumentava il passo e non si affrettava a ritornare a
casa.
Poteva trovare
diversi motivi, volendo: la curiosità per la riunione con l’hokage, le
impressioni di sua madre sul caso, sapere se la strizzacervelli
aveva telefonato per sapere dove fosse e perché non si fosse presentato… tutte
cose che avrebbe scoperto a casa, che lo incuriosivano (anche se in modo molto
moderato) ma non sentiva l’urgenza di presentarsi sotto il tetto domestico.
Non per prendere
ancora quei farmaci. Non per sognare di nuovo un mondo in cui non poteva più
mettere piede.
Avrebbe sognato di
nuovo Shikamaru, l’altro Shikamaru, e
lui avrebbe di nuovo pensato di
poterlo dimenticare, un giorno, forse…
Ma ci avrebbe pur
sempre pensato. E non si dimentica, pensando.
Non voleva
riaddormentarsi, chiudere gli occhi… lo avrebbe fatto solamente quando non
sarebbe più stato in grado di reggersi in piedi o, comunque, quando avrebbe
stretto fra le mani la ricetta per un sonnifero che gli donasse un sonno senza
sogni.
Fortunatamente per
lui (per la sua testa dolorante un po’ meno…) il destino aveva deciso che
quella sera non l’avrebbe passata da solo.
<< Ohi, Kiba!
>> sentì chiamare da lontano; un tono di voce che riconobbe al volo, ma
che non seppe definire se portatore o meno di guai. Solitamente lo era.
Si fermò e, cercando
di scrollarsi un po’ di cenere dai corti capelli castani, si voltò. A qualche
metro dietro di lui, protetti da tre ombrelli rossi dal manico in bambù,
Naruto, Choji e Shikamaru si stavano dirigendo dalla
sua stessa parte, probabilmente di ritorno da qualche missione o incarico
importante. Il primo sembrava particolarmente allegro, quel giorno, e non
faceva altro che correre e saltellare in sua direzione come se gli avessero
regalato l’abbonamento annuale all’Ichiraku Ramen.
Sospirò. Beato lui
che non aveva problemi al mondo o, se ne aveva, se ne fregava altamente.
<< Naruto,
ragazzi… >> salutò Kiba senza energie, evitandosi persino la falsa di non
sembrare distrutto. Lui ERA distrutto, c’era poco da fare.
<< Accidenti
Kiba, sembri un morto >> disse Choji non appena
si furono avvicinati abbastanza, trovando come assenso l’espressione più
stralunata che Naruto avesse mai assunto in tutti gli anni in cui si
conoscevano.
Era già le seconda
persona che glielo diceva da quella mattina, tolti i due passati accanto al suo
tavolo a metà pomeriggio, che non glielo avevano detto ma di sicuro lo avevano
pensato.
Sospirò, trovando in
sé la miracolosa pazienza di non incavolarsi anche con loro. Non gli avevano
fatto nulla, per la miseria, non poteva mostrarsi così dannatamente lunatico e
agitato.
<< Lascia
perdere, una nottataccia >> disse solamente, grattandosi un occhio come
per amplificare con i gesti la validità delle sue parole. << Voi? Che
fate in giro? >> chiese.
La classica domanda
che si fa a tutti, ma pazienza; a parte Shikamaru era da due settimane che non
parlava con loro nemmeno per sbaglio.
<< Cena!
>> esclamò subito il biondo: << torniamo ora da una ricognizione, e
io non vedo l’ora di mettere sotto i denti qualcosa. Vieni con noi? E’ da un
pezzo che non mangiamo un boccone tutti e quattro insieme! >> esclamò il
biondo, avvicinandosi e mettendogli un braccio intorno alle spalle.
A volte invidiava
quel comportamento maledettamente spontaneo dell’Uzumaki. Non si preoccupava di
niente, lui, o almeno non prima che fosse il momento di affrontare il problema.
Forse era per quello che lo chiamavano in ninja imprevedibile…
<< Mi piacerebbe, ma devo dire di no >>
disse lui, che in realtà era già intenzionato di rifiutare. Sul serio, non si
reggeva in piedi… dubitava che una cena fuori potesse durare poco, e lui non ci
reggeva a cazzeggiare in giro fino a notte fonda.
Parole che effettivamente
disse, usando la verità come scusa per congedare gli amici.
Ma se Choji e Naruto accettarono la sua spiegazione senza battere
ciglio, l’altro componente del gruppo non sembrava altrettanto convinto.
Infatti, prendendo
parola da quando si erano incontrati, fu Shikamaru a rivolgersi agli altri:
<< sentite, io lo accompagno >> disse, veloce e rapido, una mano in
tasca e l’altra a reggere il manico in dell’ombrello.
E cos’era? L’animo da
buon samaritano? Che se lo tenesse!
<< So
arrangiarmi, sai? >> sputò a metà fra il risentito e la finzione.
<< E’ una
seccatura, ma non lascio un simil-morto a camminare
in mezzo alla strada >> rispose a tono Nara, zittendolo con la sola mossa
di mettersi al suo fianco. << Voi andate, ci vediamo domani mattina
>> aggiunse in direzione degli altri due, con la solita flemma annoiata.
Se gli scocciava così
tanto poteva anche fare a meno.
No, non gli
scocciava, era quello il punto. Aveva solo il brutto vizio di far sembrare
tutto una seccatura.
Una volta che l’Akimichi e Naruto si furono incamminati verso il ristorante
di carne alla griglia, loro due presero a risalire la strada, continuando nella
direzione in cui stava camminando Kiba prima che fosse raggiunto dagli altri.
<< L’ombrello?
>> chiese il moro dopo un po’, tenendo facilmente il suo passo un poco
strascicato.
<< Dimenticato
>> rispose lui solamente, non trovando la necessità di aggiungere
nient’altro.
Non gli dispiaceva,
camminare con Shikamaru. Magari per ritornare a casa, o per andare da qualsiasi
altra parte.
Due sere prima si
erano detti chiaramente che erano ancora amici, che Shikamaru a lui credeva.
Solo che… aveva
ancora quella spina che faceva male ogni volta che, anche se per sbaglio,
paragonava il suo migliore amico a chi, nell’altra dimensione, lo stadio del
migliore amico lo aveva superato da un po’.
Liberarsene era
difficile. Stava cominciando a pensare che fosse impossibile.
Fu quando notò che i
fiocchi di cenere più vicini al lui avevano smesso di cadere, che rialzò lo
sguardo verso l’altro. Fermatosi, Shikamaru aveva allungato il suo ombrello
sopra di lui.
<< Ti
sporcherai >> disse solamente, osservandolo con espressione… insolita.
<< Lo sono già…
>> rispose l’Inuzuka in un sospiro.
<< Non è un
buon motivo per peggiorare la situazione >> fu la considerazione del
moro, sui cui capelli cominciavano a cadere alcuni detriti cinerei.
Perché quel ragazzo
doveva sempre essere così maledettamente gentile, con lui? Perché doveva per
forza dimostrargli tutta questa considerazione?
<< Già…
>> sospirò << ma ti sporcherai tu, così >> aggiunse, guardandolo.
Shikamaru fece
spallucce, chiudendo gli occhi con aria di sufficienza: << non è mai
morto nessuno >> disse solo.
Non poté impedire ad
un sorrisetto di comparirgli sulle labbra.
Prendendo dalle mani
di Nara il manico dell’ombrello si avvicinò a lui, di modo da poter coprire
entrambi. << Problema risolto >> semplificò, senza riuscire però a
togliersi dalle labbra quel sorrisetto compiaciuto che vi si era stampato sopra.
Forse vivere di tare
mentali non portava a niente, alla fine. Forse avrebbe fatto meglio a vivere e
basta, punto.
Distrattamente, portò
una mano a massaggiarsi la nuca, appena dolorante a causa della notte insonne.
Forse fu in quel
momento. Magari aveva abbassato il colletto della maglia senza accorgersene,
scoprendo la parte livida della sua pelle; magari Shikamaru se ne era reso
conto dalla sua piccola smorfia dolorosa…
Non poté mai definire
come, l’unica cosa che sentì furono le dita calde di Shikamaru afferrare il
colletto della maglia e, con un gesto rapido, abbassarlo per scoprire il collo.
Non ci fu bisogno di
parlare. Almeno, non subito.
Kiba abbassò
semplicemente il capo, pensando di spostarsi ma senza che il corpo ne seguisse
la volontà.
Era stato disattento,
ma di impedire all’altro di vedere quel livido non sembrava averne
l’intenzione.
Il suo corpo si era
congelato, così come i suoi pensieri.
<< Come te lo
sei fatto? >> chiese Nara dopo qualche momento, servitogli probabilmente
ad analizzare la situazione, magari a cercarne le possibili cause.
Era sicuro che gli
avrebbe rivolto una domanda simile, quasi se l’aspettava. Per questo non
rispose, preferendo il silenzio alla risposta che, se detta con sincerità,
sicuramente non sarebbe stata creduta possibile.
Shikamaru era un
cervellotico, un genio nel vero senso della parola. Qualcuno che usa la ragione
non crede a ciò che non è razionalmente spiegabile.
Eppure… una parte di
sé stesso gli diceva che non era così. Una parte celata, nascosta in profondità
da quando era “tornato”, una voce che non voleva più ascoltare collegata a
ricordi che non voleva più rivivere.
Non si può… vivere
con il cuore a cavallo fra due mondi non si può.
<< Kiba
>> ripeté Shikamaru poco dopo, rendendo più autorevole il tono della
voce: << chi te l’ha fatto? >> domandò nuovamente, variando
significativamente il senso e la formulazione della domanda.
Ora implicava un
“chi”, non un “come”. Ora implicava una persona responsabile.
Con un gesto rapido
della mano, ma non seccato, scacciò quella di Shikamaru dal suo collo,
sistemandosi il fastidioso colletto in stoffa quasi per riflesso. << Non
è niente, tutto ok >> fornì come risposta, riprendendo a camminare e
allontanandosi dalla protezione dell’ombrello.
<< Non è quello
che ti ho chiesto >> insisté però il moro, fermo nello stesso punto.
L’Inuzuka arricciò il
naso. << E’ l’unica risposta che ti darò, dunque adeguati >>
ribatté secco, voltandosi lentamente verso di lui ma non completamente,
guardandolo di sbieco.
L’espressione di
Shikamaru non trasmetteva nulla. Non agitazione, arrabbiatura o anche solo quel
lieve risentimento di chi non risponde in maniera esaustiva ad una tua domanda.
Rimaneva a guardarlo,
serio ed immobile, il volto in penombra a causa del cono d’ombra causato
dall’ombrello e dalla luce del lampione sotto cui era in piedi.
Kiba non si mosse.
Conosceva abbastanza bene Shikamaru per sapere che stava riflettendo, unendo i
punti di un complicato ragionamento a più variabili.
Però, la domanda con
cui se ne uscì, non fece altro che lasciarlo letteralmente di stucco.
<< Si può
sapere tu dove sei? >>
Sentì quasi il cuore
mancare un battito.
Perché quella
domanda, perché fatta a quel modo?
Perché aveva usato il
“dove”?
Nella sua incredulità
cercò di non apparire sorpreso. A dire il vero, cercava di non dare a vedere
che, dal suo punto di vista, la domanda di Shikamaru aveva più senso di molte
altre cose al mondo, in quel frangente.
Era quasi spaventato,
terrorizzato dalla capacità intuitiva di Nara, se veramente aveva capito
qualcosa da quei pochi indizi che si era lasciato sfuggire.
Ma no… come poteva
aver capito? Come poteva aver creduto?
Era impossibile.
No. Non poteva essere
vero.
<< In che…
senso? >> chiese l’Inuzuka, storcendo le labbra in un sorriso distorto,
un ghigno.
Shikamaru assottigliò
gli occhi. << Da quando siamo rientrati da quella missione, tu non sei
mai stato qui >> disse, aspettando un momento, per poi riprendere:
<< potrai essere qui con il corpo, certo, ma la tua mente è perennemente
da un’altra parte. Sei immerso in un altro mondo, talmente tanto che non ti
rendi nemmeno conto del tuo comportamento del tutto inusuale >> terminò,
esponendo quella inconsapevole verità come se in realtà avesse assistito per
tutto il tempo.
Dopo il primo battito
andato a vuoto, ora il suo cuore batteva così forte che poteva forse uscirgli
dal petto. Al contrario, l’aria faticava ad essere immessa nei polmoni e
bruciava, come quella notte, come al risveglio.
Forzò una risata, che
però risuonò più ipocrita che veritiera. << Che cavolate, ma ti senti
quando parli? >> cercò di mascherare: << io sono qui, mi vedi, no?
Dove vuoi che sia? >>
<< Questo non
sono io a saperlo >> rispose però il moro, che a tutta quella recita non
credeva nemmeno per sbaglio. Si vedeva dagli occhi, che nemmeno per un istante
si erano spostati dai suoi. << Tu sei distratto da qualcosa… o da qualcuno >> concluse, calcando
sull’ultima parola come se fosse la più fastidiosa da pronunciare.
Kiba non si lasciò
sfuggire la reazione e, come se fosse la sua ancora di salvezza, si aggrappò ad
essa. << Cos’è? >> esclamò con finta e instabile strafottenza:
<< sei geloso, forse? >>
Come al solito, la
risposta dell’altro impiegò poco a giungere: << e se ti dicessi di sì?
>> domandò biecamente in risposta.
Il battito accelerato
del suo cuore mancò di nuovo, questa volta bloccando anche il respiro.
In un lampo, la mente
fu attraversata dai ricordi, da una voce, da parole pronunciate e mai più
dimenticate…
<< Che c’è? >>
<< Se ti dicessi che ero
geloso guardandovi, mi prenderesti per scemo? >>
<< Guarda che potevi
chiederle un ballo, io mica mi offendevo. Anzi, mi facevi anche un favore!
>>
<< Non di lei… di te >>
Sancivano l’inizio di
tutto, quelle frasi.
L’inizio di un
sentimento che si trova dal nulla ma che al nulla non si può più restituire.
Ed erano simili,
quasi le stesse. Lo stesso significato per persone diverse, mondi diversi…
Ma erano poi così
tanto dissimili?
Già una volta si era
posto quella domanda, guardando lo Shikamaru che ora attendeva risposta e
paragonandolo con quello dei suoi ricordi quasi simili a sogni, a illusioni.
Non ebbe la forza di
rispondere nulla. Abbassò semplicemente lo sguardo, abbandonando la
sceneggiata.
Per la prima volta
aveva provato lui, ad indossare una maschera… non ci era riuscito.
Le sue emozioni
dovevano venire lette e quella era la prova che, anche se provava a
nasconderle, c’era sempre qualcuno in grado di scoprirle senza sforzo.
Ed era sempre quel qualcuno, a dispetto del tempo e
della dimensione.
Ancora prima di
vederlo avvicinarsi, fu i rumore dei suoi passi attutito dalla cenere che
rivelò la presenza di Shikamaru accanto a sé. Sollevò solo di un poco lo
sguardo, il necessario per vedere le sue mani cingerlo e avvicinarlo, finchè
non si ritrovò con il volto appoggiato alla sua spalla e il suo corpo a
contatto con il proprio. Di nuovo al riparo dell’ombrello, di nuovo al sicuro
in un abbraccio.
Avevano lo stesso
profumo, lo stesso calore, la stessa gentilezza nei gesti. Come poteva
convincersi che quello non era il ragazzo che amava, quando tutto gli
dimostrava il contrario?
Forse si era arreso
all’evidenza, o forse ne aveva semplicemente bisogno. Forse, magari, si era
arreso all’evidenza di averne semplicemente bisogno.
Ricambiò l’abbraccio,
sollevando le braccia e appoggiando le mani sulle sua schiena, aggrappandosi al
gilet verde della divisa da shinobi che l’altro
sempre indossava. Poi, chiuse gli occhi.
Si lasciò andare,
dissipando per la prima volta da due settimane quel blocco di cemento sul fondo
dello stomaco che gli impediva di pensare senza rimpiangere.
<< Quando ne
avrai voglia, vorrei che mi raccontassi tutto >> mormorò il moro accanto
al suo orecchio, moderando il tono data la vicinanza.
<< Non è una
storia che hai già sentito? >> rispose nel medesimo modo Kiba. Dopotutto,
il racconto delle sue “gesta” infradimensionali si
era sparso come l’aria, nel villaggio.
<< Sì, ma
preferisco sentirla da te >> ribatté l’altro, chiudendo tacitamente il
discorso in quel modo.
Rimasero abbracciati
ancora a lungo, anche se Kiba non riuscì a stabilire quanto. Shikamaru
aspettava che fosse Kiba a voler sciogliere il contatto, probabilmente, ma
l’Inuzuka sarebbe rimasto lì per ore, in silenzio, anche solo a godersi quella
vicinanza a lungo bramata e rimpianta, nostalgica.
Finché non decise, ad
un certo punto, di fornire una risposta adeguata a quella maldestra
dimostrazione d’affetto… almeno questa volta.
<< Sai… non mi
dispiace >> cominciò, sorridendo appena contro la spalla del moro.
<< Cosa?
>> chiese quello, probabilmente colto in contropiede.
<< Che tu sia
geloso >>.
Il castano non poté
vedere il sorrisetto comparso sul volto di Shikamaru anche se, in un qualche
modo, se lo immaginò.
Come se fossero
d’accordo, insieme sciolsero l’abbraccio. Si osservarono per un momento, un
istante in cui si mescolarono sicurezza ed imbarazzo inespresso, prima di
proseguire la camminata, sempre in silenzio.
<< Ah,
Shikamaru… >> esordì poi Kiba, chissà per quale motivo stuzzicato da
quell’idea improvvisa.
<< mh? >>
<< sapresti
risolvere un indovinello? >> chiese, incuriosito dal foglietto giacente
nella sua tasca.
Nonostante le
preoccupazioni fossero svanite, in quel piccolo lasso di tempo in compagnia di
Nara, il mistero dell’inglese era un fatto che lo incuriosiva e al contempo
attirava.
Magari poi si sarebbe
scoperto che sì, lui era sonnambulo, e durante la notte entrava di straforo in
biblioteca per rispondere ai suoi stessi biglietti.
Aveva molta fantasia,
questo era certo.
<< Sentiamo
>> acconsentì il moro, nonostante la sue espressione fosse palesemente
seccata. Chissà che fatica, dover usare il cervello ad un’ora così tarda!
<< “Quando puoi
vedere l’altro lato della Luna. Nel cuore della Foglia, il tempo sempre finisce
e riparte” >> recitò a memoria, evitandosi l’inglese per il bene comune.
Non ci volle molto,
al di là delle sue aspettative, perché Shikamaru trovasse la soluzione
all’enigma.
<< E’ un
appuntamento >> disse infatti, portandosi le mani dietro la nuca.
Kiba aggrottò un
sopracciglio. << E da cosa lo capisci, scusa? >>
<< Dal testo
dell’indovinello >> rispose logicamente, anticipando la spiegazione
ancora prima che Kiba potesse buttarsi in una battuta stile “è ovvio, porca
miseria!”: << ci sono ora, luogo e periodo. L’altro lato della luna è
quello oscuro, dunque il novilunio. E’ un periodo del mese, stasera per la
precisione >> specificò, puntando in alto con il dito.
Inclinandosi per
vedere il cielo oltre l’ombrello, effettivamente Kiba notò che la luna non era
visibile.
<< Il cuore
della Foglia è la rupe degli Hokage >> continuò poi il moro non appena
riebbe la sua attenzione. << E’ proprio dietro al palazzo dell’Hokage,
che è il cuore nevralgico del sistema governativo del villaggio >> spiegò
diligentemente.
<< E il tempo
che si ferma e riparte? >> chiese Kiba, seguendo il ragionamento.
<< L’ora.
Pensaci, quand’è che il tempo del giorno finisce e riparte da capo? >>
Non ci volle molto a
Kiba, per capire anche quell’ultima parte dell’indovinello. Nel medesimo
istante, quasi come se le campane della torre dell’orologio avessero voluto
aiutarlo, il primo di dodici rintocchi risuonò nell’aria.
<< Mezzanotte
>> pronunciò allora, incontrando in cenno affermativo di Nara.
Chiunque aveva
scritto quel messaggio cifrato, voleva incontrarlo quella sera a mezzanotte
alla rupe degli Hokage. Quindi, in poche parole, in quel preciso istante quasi
dall’altra parte del villaggio.
Con un ultimo suono,
i dodici rintocchi della mezzanotte finirono di battere e si dispersero nel
vuoto e silenzioso villaggio, sparendo senza lasciare traccia.
Quasi nello stesso
istante, la cenere che per giorni aveva coperto il villaggio smise di cadere.
<< Ha smesso…
>> fece notare infatti Kiba, allungando la mano fuori dall’ombrello come
si farebbe per afferrare la pioggia. Nessun fiocco grigio si posò più su quella
mano… ma qualcos’altro.
Allargandosi come una
macchia bianca ed inconsistente, un raggio di luce calda illuminò la pelle di
Kiba e, a tratti, anche alcuni pezzi del territorio circostante. Erano
letteralmente sottili coni di luce che, come se provenienti da uno
stroboscopio, cadevano con differenti inclinazioni sul villaggio.
<< Luce?
>> domandò interdetto Shikamaru, togliendosi l’ombrello da sopra la testa
per osservare quello strano fenomeno.
<< Ma… non è
mezzanotte? >> domandò a sua volta l’Inuzuka, cercando con gli occhi la
fonte di quella luce calda e potente, che sembrava tanto…
<< Il sole.
Com’è possibile? >>
<< Non è
possibile >> ribatté il moro, osservando a sua volta la bislacca scena
che si era presentata loro davanti.
Proprio a ridosso
della rupe degli Hokage, il cielo sembrava crepato e squarciato. Da quello
squarcio usciva una luce che era sicuramente quella del sole.
A quella vista, lo
stomaco di Kiba si serrò definitivamente. Quando mai si è visto il cielo
crepare e sgretolarsi? E il sole uscire da dietro
al cielo? Stravolgeva ogni legge fisica, ogni osservazione astronomica e, per
che se ne dica, anche il comune buon senso.
Era a questo, dunque,
che il biglietto in inglese si riferiva?
Ma soprattutto, chi
mai lo aveva scritto per sapere tutte quelle cose, quello che sarebbe accaduto.
<< Che sta
succedendo, Kiba? >> chiese Shikamaru con un filo di voce, anche lui
impietrito davanti a quello spettacolo sicuramente inusuale quanto incredibile.
Perché diamine lo
chiedeva a lui?!
<< Non… lo so.
Non lo so proprio… >> rispose però, guardando sempre il cielo in quella
sua particolare e inquietante magnificenza.
Fu quando vide
qualcosa cadere a peso morto oltrepassando lo squarcio nel cielo, che trattenne
il fiato per l’ennesima volta.
Sembrava… un uomo. Un
essere umano.
Ma no, non lo era.
Kiba Inuzuka si rese
davvero conto di non essere pazzo, nel momento in cui quell’essere dalla forma
umana cominciò a planare magistralmente nell’aria.
E un paio d’ali
dorate si spalancarono nella notte, risplendendo baciate dalla luce.
Chapter No.15 ~ End