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Autore: Yoko Hogawa    01/06/2009    9 recensioni
<< Allora, com’è successo? Li hai mostrati in pubblico o cosa?>> chiese, camminando tranquillamente con le mani in tasca.
Kiba rimase sorpreso dalla domanda, non capendo assolutamente cosa intendesse l’altro con quelle parole. << Cosa?>> chiese dunque, girando il volto verso Nara senza capirci esattamente molto del discorso.
Shikamaru si voltò in sua direzione, osservandolo con un sopracciglio alzato. << Cos’è, fai il finto tonto?>> rispose, forse sgarbatamente, lo studente.
Ok, ora cominciava a seccarlo. << Io non faccio il finto tonto, ti ho chiesto solamente “cosa” avrei dovuto mostrare >> rispose poi il castano, mettendosi sulla difensiva. Non gli piacevano per nulla le persone che gli davano del tonto senza conoscerlo, sua sorella lo aveva fatto anche abbastanza durante la sua turbolenta adolescenza femminile del cavolo.
[SasukexNaruto][ShikamaruxKiba]
Genere: Azione, Sovrannaturale, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Kiba Inuzuka, Naruto Uzumaki, Sasuke Uchiha, Shikamaru Nara
Note: Alternate Universe (AU) | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Scusatemi

Scusatemi. Scusatemi davvero.

Questo capitolo è in un ritardo assurdo, sì, me ne rendo conto.

E non ho intenzione di tirare fuori assurde scuse se non la verità: …non avevo più ispirazione *si angolizza e fa cerchietti*.

Fortunatamente, anche se a pezzo piccoli, ogni tanto scrivevo. Dunque, ecco qui il capitolo 15, dopo qualche mese di fermo.

 

Per lo stesso motivo di qualche capitolo fa, per questa volta non scriverò ringraziamenti ad personam; è passato un sacco di tempo e, come minimo, sia io che gli interessati non ricorderemmo nemmeno cosa abbiamo scritto/vogliamo scrivere XD

Perciò, solo per questa volta, un rigraziamento veloce ma non meno significativo va a Slice (che, cascasse il mondo, me la commenta sempre. E io non saprei davvero in che altro modo ringraziare questa persona, sul serio ç____ç mi dice tante belle cose sulla mia fantasia e sulla scrittura, e io ne sono sempre commossa T___T), Rosa_elefante (la sua richiesta di aggiornare presto… emh… lasciamo stare. Anche lei, come Slice, mi dice sempre tante belle cose T.T grazie davvero), CloudRibbon (donna, tu sai che senza i tuoi commenti-papiro ormai non vivo XD e sai anche che mi ci vorrebbe una pagina intera per risponderti, dunque mi devo astenere dal farlo per forza di cose XD) e Hiko_chan (anche lei sempre lì con la recensione. E sempre piena di complimenti. E sempre con le sue elucubrazioni quasi giuste! XD Grazie mille anche e te, Hiko, per tutte le recensioni puntuali che lasci! :*).

Concludo con il ringraziare anche Mika, Rei e Reki che so che leggono X°D

 

Ok, piccola considerazione ora. Ormai non so se includere il comportamento di Kiba in un momentaneo OOC, ma purtroppo è voluto dalla trama.

In questo capitolo aleggia un’atmosfera decisamente malinconica e pesante, confusa come la mente di Kiba che, purtroppo, ha attaccato la confusione anche a me @___@. Non esagero dicendo che, dal punto di vista di farli rimanere almeno pseudo-IC, questo sia il capitolo più difficile che abbia scritto.

Spero non sia venuto troppo male.

 

Per ultimo, sappiate che sto scrivendo uno Special decisamente demenziale. Un po’ di pubblicità occulta non ha mai fatto male a nessuno >.>

Dovrei postarlo per l’8 giugno, se riesco a scriverlo tutto; anche se è probabile che non lo inserirò qui come capitolo, ma lo metterò a parte come fanfic.

E dopo ciò, vi lascio la lettura, perché è veramente tutto. Al prossimo capitolo (il penultimo!).

 

 

 

Chapter 15 ~ Twelveth Echo

Cenere alla Cenere

 

 

C’era un fiume, davanti a lui.

Largo, nero, istintivamente pericoloso. Si infrangeva su rive invisibili con uno scrosciare fastidioso, unico rumore che si poteva udire in quella sottospecie di spazio vuoto, in penombra, in cui si trovava.

Non faceva nulla di particolare, guardava solamente. In avanti, rimanendo immobile con le braccia lungo i fianchi, senza sapere nemmeno perché lo stesse facendo, o quando mai avesse deciso di farlo.

Non riusciva a distogliere lo sguardo dalla riva opposta.

C’era qualcosa, dall’altra parte. Nella penombra riusciva a vedere solamente dei contorni molto sfocati, quasi da non capire nemmeno che cosa rappresentassero; ma c’era in assoluto qualcosa, al di là di quel fiume.

Sembravano… campanili.

Tetti a punta, pertugi dalla forma semi arrotondata, punte squadrate scavate direttamente nella pietra e lati spioventi in tegole simmetriche.

Dove li aveva già visti?

D’improvviso, un suono di campane riempì il silenzio, sormontando il rumore di fondo dell’acqua in movimento. Ridondanti, quei rintocchi volteggiavano nell’aria come se avessero avuto corpo, scandendo un tempo che non sapeva nemmeno quale fosse di preciso.

Giorno? Notte? In quel luogo non si capiva, non si vedeva né sole né luna.

Poi, una figura. Un ragazzo.

Dall’altra parte del fiume. Portava una divisa scolastica sporca e malridotta, i capelli scompigliati, le mani coperte di sangue.

Nella destra, stringeva mollemente l’elsa doro di una spada dalla lama di cristallo, macchiata di rosso per tutta la sua lunghezza e che gocciolava a terra, silenziosamente.

Non poteva vederne il volto, no. Però, sapeva che stava piangendo.

Se le immaginava quasi, le afone e posate lacrime di tristezza, rigare quel volto.

Prese fiato per parlare, ma non ci riuscì. Per qualche ragione la voce non voleva saperne di collaborare.

C’era Shikamaru, dall’altra parte di quel fiume… e lui non riusciva a chiamarlo.

Chiuse le labbra, prendendo fiato ancora una volta e bloccandosi, ancora una volta.

Eppure doveva riuscirci! Doveva provare!

Era importante! Era… vitale.

Doveva andare da lui a qualunque costo. A qualunque costo.

Stava piangendo. E anche se non riusciva ad inquadrare il motivo, sapeva che era colpa sua.

Allungò la mano, fece un passo in avanti…

…ma il fiume oscuro non era del parere di lasciargli fare quello che voleva.

Con un improvviso tumulto le acque si sollevarono, parandosi fra lui e il ragazzo dall’altra parte del fiume e avanzando minacciosamente verso di lui, che si ritrovò a fare due passi indietro, improvvisamente terrorizzato.

Non poteva scappare, però. Non senza sapere dove muoversi.

L’acqua salì, arrivando a bagnargli le caviglie, e lui non poté far altro che sussultare dalla sorpresa: era gelida, così tanto da fargli perdere sensibilità ai piedi, ed era viscida, come la pelle di un serpente.

Lo bloccava lì, non poteva più muoversi.

<< ti… trato >> sentì balbettare in mezzo al tumultuoso fiume nero, ormai elevatosi in un muro oscuro davanti a lui. Sussurrava qualcosa che non capiva, intervallando le parole con una risata a metà fra l’esasperato e il sadicamente divertito.

<< Ti… trovto >> ripeté, ma lui di nuovo non capì.

Era troppo occupato a tenere d’occhio l’acqua che, dividendosi in quelli che sembravano due enormi tentacoli bui, si dirigevano lentamente verso il suo volto.

Il suo istinto gli gridava di fuggire, ma i muscoli non collaboravano. Inoltre era bloccato, dunque non poteva fare nulla, nessun movimento gli era concesso con le gambe; e le braccia non servivano a nulla con l’acqua, per definizione senza una massa solida da respingere.

In un scatto, quei tentacoli lo afferrarono per il collo. Cominciarono a stringere, a stritolargli la gola sempre di più, finché non terminò l’ossigeno e non poté più prenderne altro. Finché non poté più respirare, cominciando ad annaspare, cercando inutilmente di afferrare quei tentacoli stretti alla sua gola, prendendo fra le dita solo acqua che subito scivolava via e tornava a soffocarlo.

Socchiuse gli occhi, ormai senz’aria. In quel momento, fra le risa estasiate di quella massa informe di liquido scuro, un volto prese forma.

Pallido e bianco, occhi gialli dalla pupilla allungata, bocca sfigurata nella pazzia, lunghi capelli neri che si perdevano nella massa altrettanto oscura di quel muro acquatico.

Orochimaru.

<< Ti ho trovato >> sibilò serpentino, aumentando la stretta. Stava per lasciarsi andare, impotente, sconfitto.

Finché due mani candide non lo smossero da quella presa soffocante, afferrandolo per le spalle e strattonandolo via da quelle grinfie, portandolo in salvo…

Chiamandolo, proprio con quella voce a cui tanto era affezionato e che tanto, troppo, aveva sperato di risentire.

Chiamava e chiamava, preoccupata forse, agitata, continuava a chiamare…

 

 

Riaprì gli occhi di scatto, con un gemito, quasi come se fare quel semplice movimento fosse stata la cosa più difficoltosa del mondo.

Un soffitto. Questa la prima cosa che si ritrovò davanti agli occhi, forzati nel riconoscere, fra la nebbia di alcune lacrime, la tonalità bianca dei muri della propria camera. Il colore puro era sporcato di un grigio spento, probabilmente a causa della fioca luce che penetrava dalle fessure della tapparella, inframmezzato da linee parallele più chiare dove la luce era più forte.

Quando l’aria divenne una priorità, si rese conto di non stare nemmeno respirando; aveva la bocca spalancata, gli occhi sgranati di qualcuno preda di un puro terrore ma tramite le labbra, così come tramite il naso, l’aria non passava.

Fu quando la prima boccata di ossigeno riprese a scavare il suo spazio giù per la trachea che, con un dolore penetrante, la gola sembrò bruciare. Tossì furiosamente, girandosi su un fianco e chiudendosi su se stesso. Serrò gli occhi nello sforzo, sentendo le corde vocali andare a fuoco e, al contempo, un brivido gelido corrergli lungo la schiena. Nel tossire, la ferita al fianco mandò una fitta dolorosa, che però si chetò quasi subito sormontata da un fastidio maggiore.

Quando ebbe ritrovato il controllo su se stesso e sul suo respiro – e si potrebbe dire anche sul cuore, che batteva come impazzito – si rimise supino e richiuse gli occhi, esausto.

Si sentiva uno straccio. Gocce di sudore freddo gli imperlavano la fronte e il collo, lasciando scie umide lungo le tempie e provvedendo a bagnare il collo della maglietta bianca usata biecamente come pigiama. Il battito del cuore, ancora accelerato, faceva contrarre appena i tendini delle dita e rimbombava prepotente nelle orecchie, quasi come per dimostrargli la sua effettiva agitazione. Il collo faceva male al tocco e, anche se non sapeva perché, gli occhi faticavano ancora a mettere a fuoco la camera e tutti gli oggetti che in essa erano contenuti.

Facendo un respiro profondo – ma doloroso – ascoltò i suoni della casa.

A giudicare dal lucore sbiadito non erano ancora le sei, ma alcuni rumori ovattati parvero pervenire dal piano di sotto. Probabilmente sua madre che trafficava con le pentole per la colazione, a giudicare dallo sferragliare poco abilmente attutito dalla donna.

Richiudendo gli occhi si concentrò su quello che era il suo senso più sviluppato: l’olfatto. E, non appena inspirò, un pungente odore di bruciato gli invase le narici, facendogli storcere il naso in un’espressione fiacca ma schifata.

Quella maledetta cenere, che da quasi due giorni non faceva altro che scendere, portava con sé quel fastidiosissimo sentore di bruciatura che lo faceva letteralmente impazzire. Se lo sentiva ovunque: addosso, nei vestiti, sui capelli… e non era al riparo da nessuna parte, dato che si accumulava in ogni anfratto come se fosse neve, solo un poco più sottile e leggera. E grigia, ovviamente.

Il verdeggiante Konohagakure si era rapidamente ridotto ad un universo sfumato in tonalità di grigio.

Ormai del tutto rientrato in sé cercò di sollevarsi, girandosi a pancia in basso e puntando le mani sul materasso. Rimase sgradevolmente sorpreso dal giramento di testa che gli impedì ogni altro movimento, costringendolo ad aspettare, in quella posizione alquanto scomoda, che il sangue portasse abbastanza ossigeno in giro per il suo corpo, e che dunque la sua testa smettesse di ballare in can-can non appena provava a mettersi diritto.

Era distrutto, e questa cosa era tutt’altro che normale.

Insomma, la gente perché dorme? Per riposarsi, no?

Come faceva lui ad andare a letto stanco e a svegliarsi, il giorno dopo, ancora più stanco di quando si era coricato?

Supponeva che nemmeno i sonnambuli, che avevano la scusa di camminare tutta notte, si svegliassero sfibrati quanto lui.

Quando finalmente la sua testa smise di fare girotondo poté sollevare lo sguardo, posandolo sul paesaggio all’esterno della finestra. Da quella posizione poteva vedere solamente le cime di alcuni alberi, un tetto e qualche comignolo, ma i cumuli grigi sopra ognuno di essi gli fecero presumere che altra cenere si fosse fastidiosamente accumulata sul villaggio, costringendo ormai le persone a doversi scavare la strada attraverso di essa.

Di certo non esistevano spazzaneve – o facenti funzione – in un villaggio in cui nevicava una volta all’anno per gentile concessione di una qualche corrente fredda molto persistente.

Si sedette a gambe incrociate sul materasso, toccandosi con la mano destra il collo. Dovette fare piano però, perché faceva un male sordo, al tocco.

Ci mancava anche quella. La sua mattina sfigata doveva essere segnata da qualche mistero, altrimenti il risveglio sarebbe stato troppo monotono.

Perché si sentiva come il protagonista tormentato dai guai di una specie di narrazione no-profit in cui doveva per forza provare le pene dell’inferno senza un motivo valido?

Sospirò per l’ennesima volta, rumorosamente, mettendosi in piedi un po’ barcollante. Subito sembrò che il pavimento oscillasse come il ponte di una nave, ma smise quasi subito, dunque lui poté dirigersi a passo stanco verso il bagno.

In corridoio, l’odore particolare del pesce gli stuzzicò piacevolmente le narici. (*1) Sua madre aveva la fantasia di una ciabatta per la colazione, preparava sempre le stesse cose… e non è che sua sorella fosse un genio dei fornelli, dunque si lamentava per la monotonia ma lasciava fare alla donna più che volentieri.

Ignorando i sentori del riso nel bollitore continuò il percorso, arrivando al bagno ed entrando senza nemmeno chiudere la porta.

I movimenti erano abituali, quasi sempre gli stessi tutti i giorni, dunque voltare lo sguardo verso lo specchio sulla sua destra fu del tutto istintivo… ma ciò che vi vide riflesso lo fece balzare all’indietro, facendo sì che la sua schiena sbattesse malamente contro il mobiletto alle sue spalle, rovesciando quasi tutti i flaconi di sapone, balsamo e shampoo.

<< Cos’è questo casino, Kiba?! >> urlò sua sorella dal piano di sotto, mostrando di avere, come al solito, un udito fine (oppure, al contrario, dimostrandogli che aveva fatto una confusione infernale).

Ma lui, nonostante il tono di Hana non fosse da mettere in discussione, non rispose. I suoi occhi rimanevano puntati sul suo riflesso, che suo doveva essere per forza, anche se di primo acchito non lo sembrava.

Pallido. Occhiaie pronunciate sotto gli occhi, espressione che più che sbalordita sembrava incredula… ma quello che lo turbava maggiormente non erano i logici segni di una nottataccia passata alla mercé di un sogno senza capo né coda.

Più che altro, era la linea livida che gli cingeva la gola come un collare, a spaventarlo. E no, non era solo colore, magari lasciato dalle lenzuola o da un qualsiasi capo d’abbigliamento viola che non aveva; era letteralmente un livido e lui, se la memoria non lo ingannava – cosa che quasi sperava – ricordava benissimo il tentato strangolamento subito nel sogno. Poteva essere una coincidenza, il fatto che i tentacoli lo avevano afferrato esattamente nella stessa posizione?

No. Aveva smesso di credere alle coincidenze. E la possibilità che avesse potuto farselo da solo non era minimamente credibile; non si ricordava di essersi mai dato ai tentati suicidi, durante le ore di sonno.

L’unica spiegazione possibile, era quella che incolpava Orochimaru di quello sgradevolissimo girocollo violaceo.

Il bello era il controsenso che si creava quando, alla considerazione di essere stato quasi strangolato da un sogno, l’unica frase che gli uscì dalla bocca fu un serafico: << Kiba, sei pazzo >>.

E poco ci mancava che lo diventasse davvero.

 

 

Fece del suo meglio per nascondere il livido alla gola, ma nessuna delle sue maglie aveva un collo abbastanza alto.

Colpa sua. Non sopportava di avere attorno al collo qualsiasi cosa, compreso un sottile strato di stoffa innocuo per i più.

Ma non poteva farci nulla, dopotutto. Se non voleva essere creduto un potenziale suicida, vittima di maltrattamenti domestici o abituè di stili sessuali discutibili - e non era proprio in caso - doveva nascondere la sua gola color uva.

Così, per la prima volta da quando gliela avevano consegnata al conseguimento del grado di chunin, si trovò ad utilizzare la maglia che la divisa ufficiale degli shinobi di Konoha prevedeva.

Nera, fortunatamente. Le divise più recenti avevano abolito quel blu scuro che non sapeva di niente, sostituendolo con il colore più scuro per eccellenza, che sapeva ancora meno del blu.

Già da subito, guardandosi allo specchio, ebbe l’irrefrenabile istinto di strapparsi quel colletto. Tenne a bada gli istinti di distruzione solo per pura auto-commiserazione intellettuale, ciabattando senza energie verso il piano inferiore. Con i pantaloni neri che portava di solito sembrava vestito per un funerale, ma poteva sempre contare sulla spirale rossa che stava cucita sul suo braccio sinistro… spaccava sul nero come un pugno nell’occhio, impossibile non notarla.

Appena terminata la rampa di scale, faticosa quando una scalata della rupe degli hokage fatta con le caviglie legate, sua sorella ebbe l’onore di mostrargli la prima espressione inorridita che, era sicuro, apriva la lunga fila che avrebbe ricevuto durante la giornata.

<< Sembri un morto, ma ti sei visto? >> fu il suo commento scazzato, sintomo di una notte pessima e di un risveglio ancora peggiore.

Fortuna che non dormiva male solo lui.

<< E tu sembri scema, dunque devo dedurne che hai il solito aspetto di sempre >> fu la sua risposta – strascicata, ma facciamo finta di no… - sputata senza nemmeno considerare eventuali reazioni fisiche da parte della sorella.

Cosa che, stranamente, non successe. Hana si divertiva a tormentare il fratello minore, questo era vero, ma anche lei aveva rispetto per le sue condizioni di salute… e quella mattina Kiba non sembrava di certo in forma.

<< Dico sul serio >> disse la ragazza, spostandosi dietro la schiena la lunga coda di capelli castani: << cos’hai, l’influenza? >> chiese, posandogli una mano sulla fronte senza nemmeno chiedere il permesso.

Era Hana Inuzuka, dopotutto. Lei la frase “chiedere il permesso” non aveva la minima idea di che significato avesse.

Tuttavia il ragazzo non si mosse, così come non evitò il tocco. Troppo stanco forse, il suoi riflessi ne risentivano; ma sapeva anche che se la sorella non partiva a molla con una sberla a 180 gradi, tutti gli altri contatti fisici che gli riservava erano innocui.

<< No, ho solo dormito male >> ribatté lui, aspettando che lei gli togliesse la mano calda dalla fronte. << Voi piuttosto, dove andate? >> chiese, entrando in cucina. Sua madre era appena uscita, aveva sentito la porta aprirsi e chiudersi quando ancora era al piano superiore, e considerando che la sorella si stava infilando i sandali, supponeva che presto l’avrebbe seguita.

<< In riunione dalla Godaime >> disse lei, intenta ad allacciarsi bene la fibbia: << nessuno ha la minima idea di dove provenga questa cenere. Abbiamo controllato i dintorni; non c’è nessun incendio nei paraggi e il vento tira dal mare, dunque non è possibile che l’abbia trasportata fin qui da una sua probabile fonte. Inoltre ieri è cambiato, ma questa dannata cenere continua a cadere come neve. Niente nubi, niente fuoco, niente di niente. C’è chi pensa ad una tecnica ninja, ma oltre che dare gatte da pelare a chi è in carica di pulire le strade, non causa altri disturbi di nessun tipo, nemmeno medici… >> disse fluida, interrompendosi solo dopo aver finito di prepararsi.

Si alzò, osservandolo sulla porta della cucina, sistemandosi meglio la giacca. << Muoviti a rimetterti, idiota di un fratello. Non puoi rimanere informato sui movimenti dei ninja tramite quello che racimoli da me o da Nara >> disse, prima di aprire la porta e sparire con un balzo.

<< La chiami una cosa facile… >> sussurrò in risposta quando fu ormai lontana.

Sul tavolo, coperta da un canovaccio, la sua colazione aspettava solo di essere mangiata. Riso in bianco, verdure alla griglia avanzate dalla sera prima e pesce. (vedi *1)

Non era luculliana, ma era pur sempre colazione. E considerando la sua attuale energia, che si aggirava attorno ai livelli di un ultranovantenne con la sciatica, qualche proteina per aprire la giornata non guastava.

 

 

Solamente mezz’ora più tardi era sulla strada per l’ospedale di Konoha, preda della sua visita settimanale alla strizzacervelli con la mania del rifiuto.

Camminando sotto l’ombrello rosso, per ripararsi dall’alone grigiastro che lasciava la cenere sui vestiti e sulla pelle, non poté fare a meno di riflettere.

Poteva evitarsi l’incombenza in eterno, o almeno provarci, ma il pensiero del sogno e dei risultati che esso aveva provocato su di lui erano sempre presenti nella sua mente, come un tarlo che si nasconde ma che non perde tempo per far sentire la sua presenza.

Non poteva ignorarlo in eterno, così come non poteva far finta che non gli importasse solo per soddisfare il collettivo quieto vivere.

Qualcosa non andava, sia al St. Michael che in quella dimensione. Insomma, il sogno… era palese, no? Chiaro come il sole, o il cristallo. Shikamaru, lui… piangeva.

E poi il biglietto, vogliamo parlarne? E quando mai l’inglese era esistito, in quella dimensione? Si parlava una sola lingua in quel mondo, tolti i vari dialetti, e di certo non era inglese.

I suoi ricordi, poi. Le sensazioni, la cicatrice sul fianco, il livido sul collo… non potevano essere coincidenze, causalità, no. Erano troppe e troppo frequenti.

Inoltre, ultimamente stava cominciando a pensare che anche quella cenere dalla provenienza ignota fosse, in realtà, un simbolo. Un segno di qualcosa, magari di una svolta.

Di qualcosa… che avrebbe potuto consentirgli di tornare all’accademia.

Da lui.

Anche solo per poco… qualche istante era sufficiente, purché potesse assicurarsi che fosse vivo, che stesse bene.

Purché avesse potuto dirgli addio.

Perché sì, ormai lo aveva ammesso a se stesso. Sempre che non fosse pazzo, e gli appigli per affibbiargli quella carica c’erano eccome, lui era comunque un ninja, uno shinobi di Konoha.

Lui era diverso. Non era uno studente, un ragazzo patito per videogiochi e computers  non esistevano nemmeno, nel suo mondo fatto di guerre e ninjutsu.

La sua realtà era quella. Era una carica, un coprifronte, un simbolo a cui essere fedeli. Quella foglia intagliata nel metallo era più che una semplice riconoscenza: era lealtà. Prima Iruka e poi Naruto glielo avevano insegnato, facendogli capire che quello che proteggeva tutte le volte che calpestava un campo di battaglia non era l’onore, ma un villaggio composto da vite umane che dell’orgoglio di un singolo ninja non se ne facevano nulla.

Deglutì, fermandosi davanti all’entrata dell’ospedale.

Nonostante sapesse che i suoi pensieri esprimevano una verità incontrovertibile, provava comunque una sensazione di tremenda solitudine e tristezza. La sensazione di voler piangere, di essere stati abbandonati… o peggio, di avere abbandonato.

Ci aveva rinunciato ancora prima che questo pensiero si formulasse chiaramente nella sua mente, penetrandogli nel cuore come una spina.

Alzò appena lo sguardo sulla facciata tranquilla del presidio ospedaliero, facendo un passo indietro e dandogli velocemente le spalle. Di mettere piede lì dentro non aveva assolutamente voglia, ora come ora.

Era confuso. E tutto quel casino in testa era stanco di averlo.

Una parte di lui gli urlava di lasciar stare, di mettersi il cuore in pace. Di riprendere con la vecchia vita, ora che poteva nuovamente stringerla fra le mani, e abbandonare ogni ricordo alla deriva del tempo, dove sarebbe stato cancellato con il trascorrere dei giorni. Un pezzo alla volta, giorno dopo giorno, e avrebbe smesso persino di sognarlo.

L’altra invece, quella che prendeva il nome “istinto”, gli diceva di continuare. Che non era scemo, che c’erano troppi segni per ignorarli, che c’era ancora la possibilità di vederlo, di chiedergli un “stai bene?” a cui lui avrebbe risposto con un sorrisetto strafottente e una frase ad effetto da perfetto sapientone.

Chi ascoltare? Quale delle due seguire?

Ragione o istinto, apparente normalità o follia?

…adattamento o orgoglio?

No. Non avrebbe dato ascolto a nessuna delle due.

Doveva smettere di pensare, almeno un momento. Un solo attimo e poi… poi avrebbe ripreso con calma.

Ma ora aveva solo bisogno di silenzio, di solitudine e di non essere trovato.

E sapeva benissimo dove dirigersi per ottenere questo risultato.

 

 

Sembrava che la biblioteca fosse l’unico posto di tutto il villaggio a non avere la minima idea di come si utilizzasse una scopa.

L’entrata, infatti, era praticamente sommersa da cumuli di cenere, tanto che stava sinceramente pensando che non fosse nemmeno aperta, e che fosse per questa ragione che nessuno aveva provveduto a togliere i cumuli dalla scalinata esterna.

Il fatto strano era che era aperta, effettivamente. Anche se si doveva nuotare nella cenere, la biblioteca era in piena attività; come si stava premurando di comunicargli la bibliotecaria, sbracciandosi dalla porta a vetri.

O almeno, il pezzo che ancora si vedeva, della porta a vetri.

Non appena mise piede all’interno dell’edificio richiuse l’ombrello, non prestando la minima attenzione alle pedate scure che lasciò sullo zerbino all’ingresso. Sorridendo alla bibliotecaria si spolverò con la mano alcuni residui di cenere che gli si erano depositati sopra la spalla, ascoltando solo per metà le gentili lamentele della donna sul fatto che il marito, il fruttivendolo del quartiere adiacente, non avesse tempo per togliere di mezzo tutta quella cenere.

Aspettò che finisse di parlare solo per cortesia, anche se non ascoltava una sola delle sue parole, e quando fu la donna ad allontanarsi con lo stesso sorriso gentile di prima, lui la seguì dopo qualche secondo. Lo anticipava di qualche passo, chiudendogli la visuale della prima zona lettura, ma anche senza vederla completamente poteva capire che era semivuota, e che solo gli assidui frequentanti della biblioteca erano presenti.

Forse era per quello che lui, che in biblioteca ci metteva piede per la seconda volta in vita sua, era un ospite abbastanza insolito.

Senza parlare la superò, dirigendosi svogliatamente verso la bacheca del gioco di ruolo a cui si era iscritto. Non si aspettava di poter trovare risposta al suo biglietto (erano passati solo due giorni e il villaggio era nel caos), ma su di essa un altro pezzo rettangolare di carta prendeva il posto di quello che aveva lasciato lui, e la calligrafia con cui erano vergate le lettere inglesi non era di certo la sua.

Nonostante lo avesse notato, non si mosse.

Rimase in piedi a guardare quel foglietto, fissandolo senza in realtà osservarlo veramente. Teneva gli occhi puntati lì solo per non guardarsi intorno, così da non incontrare per sbaglio nemmeno un paio di quelli delle persone presenti, che come minimo non si curavano nemmeno della sua presenza.

Non pensava a niente, per la verità. Nemmeno a leggere quel biglietto, per scoprire magari cosa contenesse.

Magari risposte. Magari indizi, ancora. Però non aveva il coraggio di leggerlo, nemmeno alla prospettiva di togliersi almeno uno dei dubbi che lo tormentavano.

Ma ad incuriosirlo (o a disturbarlo) ci pensò la stessa bibliotecaria: << sai che la vostra quest sta attirando l’attenzione di un sacco di giocatori? >> chiese retorica, sorridendogli gentile.

Sembrava una persona troppo pura per essere trattata male… come Hinata. Non ci riuscivi a risponderle male, anche se magari ti disturbava o seccava.

<< In che senso? >> chiese dunque, cercando inutilmente di non sembrare così distrutto come invece sapeva perfettamente di essere.

<< Curiosità, credo >> rispose quella, probabilmente lasciando perdere il suo aspetto da straccio usato: << siete la prima coppia che comunica in codice, credo sia un diversivo molto efficace per attirare attenzione e dare un sapore diverso al gioco >> concluse la considerazione, allegra.

Già, forse. Peccato che a lui non interessava il gioco come non aveva mai avuto intenzione di iscriversi per farselo piacere. Si era iscritto solo perché c’era un tizio che parlava inglese in un mondo dove quel linguaggio non esisteva. Si era iscritto perché questo tizio spruzzava St. Michael da tutti i pori, ecco perché stava lì a fissare quella bacheca.

Beh, in ballo lo era comunque…

Sospirando affranto si avvicinò, staccando con un gesto secco il bigliettino dalla tavola di compensato e leggendolo velocemente.

 

When you can see the other side of the Moon.

In the heart of the Leaf, time always end and restart.

 

“Quando puoi vedere l’altro lato della Luna. Nel cuore della Foglia, il tempo sempre finisce e riparte”.

Aggrottò un sopracciglio. Bene… e ora dove o trovava uno che gli spiegava cosa volesse dire?

Era un indovinello? Si stavano divertendo a prenderlo per il culo o, chiunque fosse il finto britannico, rappresentava solo un altro indizio che si sarebbe tramutato molto presto in illusione?

Sospirò, sentendosi ancora più distrutto di quando si era “svegliato”. Il collo e la gola facevano ancora male, la mente era annebbiata dal sonno e dalla stanchezza, gli occhi bruciavano.

Per il momento, più per salvare i suoi pochi neuroni che per altro, decise di evitare ogni ragionamento sconclusionato potesse venirgli alla mente. Si infilò il biglietto in tasca, accartocciandolo alla bene e meglio con la mano, evitando di incontrare lo sguardo della bibliotecaria, che sembrava delusa da quella sua inconscia decisione.

<< Non rispondi subito? >> chiese infatti, guidata più dalla sua curiosità innocente che dal vero dispiacere di non averlo più come giocatore.

Dovette sforzarsi per rispondere cortesemente e, soprattutto, con una parvenza di serenità in volto. La guardò con un sorrisetto veramente tirato, scuotendo negativamente il capo. << Posso farlo anche un’altra volta, giusto? >> chiese, fintamente ingenuo, allargando appena il sorriso all’assenso un po’ deluso della donna.

Annuendo a sua volta, più per riflesso condizionato che per altro, si inoltrò fra gli scaffali, ignorando per la prima volta il sentore di vecchio e polveroso che avevano i libri intorno a lui.

Rimase lì quasi per tutto il giorno. E la cosa migliore, fu che nessuno lo venne a cercare.

 

 

Uscì dalla biblioteca quando ormai era sera e il cielo si era completamente oscurato. Essendo estate, dovevano essere come minimo le nove.

Aveva mangiato qualcosa a mezzogiorno, alcuni tramezzini che la bibliotecaria gli aveva appoggiato davanti al volto mentre faceva finta di leggere un volume sulle erbe curative, ma dato il pranzo scarsamente abbondante, al momento sentiva una certa fame.

Fuori scendeva ancora, la cenere. Non si era fermata, nemmeno quel giorno, e continuava a cadere alla stessa velocità di sempre, coprendo con un altro velo grigio la già ingrigita cittadina.

Si dimenticò persino di prendere l’ombrello, ma non tornò indietro a recuperarlo. Ormai si era già incamminato, più stanco e abbattuto che mai, e non aveva la minima voglia ed intenzione di voltarsi e tornare sui suoi passi.

Per un giorno intero non aveva fatto altro che ignorare i suoi pensieri, facendo finta di non vederli quando spuntavano dall’angolo di un suo ragionamento. Nascevano spontanei a volte, insinuandosi superficialmente, così che lui dovesse addentrarsi in quel senso sbagliato di inadeguatezza per scoprirli, e poi lasciarli perdere di nuovo.

Un gioco a nascondino con se stesso che lo uccideva piano piano, lasciandolo confuso.

Non sapeva più a chi credere e, quel che è peggio, aveva perso ogni concezione del suo istinto. Anzi, era più giusto dire che aveva perso fiducia in esso, dunque in se stesso.

I suoi capelli si riempirono velocemente di fiocchi cinerei, così come la maglia ne risultò impolverata molto presto. Tuttavia, nonostante l’odore gli desse fastidio e gli provocasse la nausea, non aumentava il passo e non si affrettava a ritornare a casa.

Poteva trovare diversi motivi, volendo: la curiosità per la riunione con l’hokage, le impressioni di sua madre sul caso, sapere se la strizzacervelli aveva telefonato per sapere dove fosse e perché non si fosse presentato… tutte cose che avrebbe scoperto a casa, che lo incuriosivano (anche se in modo molto moderato) ma non sentiva l’urgenza di presentarsi sotto il tetto domestico.

Non per prendere ancora quei farmaci. Non per sognare di nuovo un mondo in cui non poteva più mettere piede.

Avrebbe sognato di nuovo Shikamaru, l’altro Shikamaru, e lui avrebbe di nuovo pensato di poterlo dimenticare, un giorno, forse…

Ma ci avrebbe pur sempre pensato. E non si dimentica, pensando.

Non voleva riaddormentarsi, chiudere gli occhi… lo avrebbe fatto solamente quando non sarebbe più stato in grado di reggersi in piedi o, comunque, quando avrebbe stretto fra le mani la ricetta per un sonnifero che gli donasse un sonno senza sogni.

Fortunatamente per lui (per la sua testa dolorante un po’ meno…) il destino aveva deciso che quella sera non l’avrebbe passata da solo.

<< Ohi, Kiba! >> sentì chiamare da lontano; un tono di voce che riconobbe al volo, ma che non seppe definire se portatore o meno di guai. Solitamente lo era.

Si fermò e, cercando di scrollarsi un po’ di cenere dai corti capelli castani, si voltò. A qualche metro dietro di lui, protetti da tre ombrelli rossi dal manico in bambù, Naruto, Choji e Shikamaru si stavano dirigendo dalla sua stessa parte, probabilmente di ritorno da qualche missione o incarico importante. Il primo sembrava particolarmente allegro, quel giorno, e non faceva altro che correre e saltellare in sua direzione come se gli avessero regalato l’abbonamento annuale all’Ichiraku Ramen.

Sospirò. Beato lui che non aveva problemi al mondo o, se ne aveva, se ne fregava altamente.

<< Naruto, ragazzi… >> salutò Kiba senza energie, evitandosi persino la falsa di non sembrare distrutto. Lui ERA distrutto, c’era poco da fare.

<< Accidenti Kiba, sembri un morto >> disse Choji non appena si furono avvicinati abbastanza, trovando come assenso l’espressione più stralunata che Naruto avesse mai assunto in tutti gli anni in cui si conoscevano.

Era già le seconda persona che glielo diceva da quella mattina, tolti i due passati accanto al suo tavolo a metà pomeriggio, che non glielo avevano detto ma di sicuro lo avevano pensato.

Sospirò, trovando in sé la miracolosa pazienza di non incavolarsi anche con loro. Non gli avevano fatto nulla, per la miseria, non poteva mostrarsi così dannatamente lunatico e agitato.

<< Lascia perdere, una nottataccia >> disse solamente, grattandosi un occhio come per amplificare con i gesti la validità delle sue parole. << Voi? Che fate in giro? >> chiese.

La classica domanda che si fa a tutti, ma pazienza; a parte Shikamaru era da due settimane che non parlava con loro nemmeno per sbaglio.

<< Cena! >> esclamò subito il biondo: << torniamo ora da una ricognizione, e io non vedo l’ora di mettere sotto i denti qualcosa. Vieni con noi? E’ da un pezzo che non mangiamo un boccone tutti e quattro insieme! >> esclamò il biondo, avvicinandosi e mettendogli un braccio intorno alle spalle.

A volte invidiava quel comportamento maledettamente spontaneo dell’Uzumaki. Non si preoccupava di niente, lui, o almeno non prima che fosse il momento di affrontare il problema. Forse era per quello che lo chiamavano in ninja imprevedibile…

<<  Mi piacerebbe, ma devo dire di no >> disse lui, che in realtà era già intenzionato di rifiutare. Sul serio, non si reggeva in piedi… dubitava che una cena fuori potesse durare poco, e lui non ci reggeva a cazzeggiare in giro fino a notte fonda.

Parole che effettivamente disse, usando la verità come scusa per congedare gli amici.

Ma se Choji e Naruto accettarono la sua spiegazione senza battere ciglio, l’altro componente del gruppo non sembrava altrettanto convinto.

Infatti, prendendo parola da quando si erano incontrati, fu Shikamaru a rivolgersi agli altri: << sentite, io lo accompagno >> disse, veloce e rapido, una mano in tasca e l’altra a reggere il manico in dell’ombrello.

E cos’era? L’animo da buon samaritano? Che se lo tenesse!

<< So arrangiarmi, sai? >> sputò a metà fra il risentito e la finzione.

<< E’ una seccatura, ma non lascio un simil-morto a camminare in mezzo alla strada >> rispose a tono Nara, zittendolo con la sola mossa di mettersi al suo fianco. << Voi andate, ci vediamo domani mattina >> aggiunse in direzione degli altri due, con la solita flemma annoiata.

Se gli scocciava così tanto poteva anche fare a meno.

No, non gli scocciava, era quello il punto. Aveva solo il brutto vizio di far sembrare tutto una seccatura.

Una volta che l’Akimichi e Naruto si furono incamminati verso il ristorante di carne alla griglia, loro due presero a risalire la strada, continuando nella direzione in cui stava camminando Kiba prima che fosse raggiunto dagli altri.

<< L’ombrello? >> chiese il moro dopo un po’, tenendo facilmente il suo passo un poco strascicato.

<< Dimenticato >> rispose lui solamente, non trovando la necessità di aggiungere nient’altro.

Non gli dispiaceva, camminare con Shikamaru. Magari per ritornare a casa, o per andare da qualsiasi altra parte.

Due sere prima si erano detti chiaramente che erano ancora amici, che Shikamaru a lui credeva.

Solo che… aveva ancora quella spina che faceva male ogni volta che, anche se per sbaglio, paragonava il suo migliore amico a chi, nell’altra dimensione, lo stadio del migliore amico lo aveva superato da un po’.

Liberarsene era difficile. Stava cominciando a pensare che fosse impossibile.

Fu quando notò che i fiocchi di cenere più vicini al lui avevano smesso di cadere, che rialzò lo sguardo verso l’altro. Fermatosi, Shikamaru aveva allungato il suo ombrello sopra di lui.

<< Ti sporcherai >> disse solamente, osservandolo con espressione… insolita.

<< Lo sono già… >> rispose l’Inuzuka in un sospiro.

<< Non è un buon motivo per peggiorare la situazione >> fu la considerazione del moro, sui cui capelli cominciavano a cadere alcuni detriti cinerei.

Perché quel ragazzo doveva sempre essere così maledettamente gentile, con lui? Perché doveva per forza dimostrargli tutta questa considerazione?

<< Già… >> sospirò << ma ti sporcherai tu, così >> aggiunse, guardandolo.

Shikamaru fece spallucce, chiudendo gli occhi con aria di sufficienza: << non è mai morto nessuno >> disse solo.

Non poté impedire ad un sorrisetto di comparirgli sulle labbra.

Prendendo dalle mani di Nara il manico dell’ombrello si avvicinò a lui, di modo da poter coprire entrambi. << Problema risolto >> semplificò, senza riuscire però a togliersi dalle labbra quel sorrisetto compiaciuto che vi si era stampato sopra.

Forse vivere di tare mentali non portava a niente, alla fine. Forse avrebbe fatto meglio a vivere e basta, punto.

Distrattamente, portò una mano a massaggiarsi la nuca, appena dolorante a causa della notte insonne.

Forse fu in quel momento. Magari aveva abbassato il colletto della maglia senza accorgersene, scoprendo la parte livida della sua pelle; magari Shikamaru se ne era reso conto dalla sua piccola smorfia dolorosa…

Non poté mai definire come, l’unica cosa che sentì furono le dita calde di Shikamaru afferrare il colletto della maglia e, con un gesto rapido, abbassarlo per scoprire il collo.

Non ci fu bisogno di parlare. Almeno, non subito.

Kiba abbassò semplicemente il capo, pensando di spostarsi ma senza che il corpo ne seguisse la volontà.

Era stato disattento, ma di impedire all’altro di vedere quel livido non sembrava averne l’intenzione.

Il suo corpo si era congelato, così come i suoi pensieri.

<< Come te lo sei fatto? >> chiese Nara dopo qualche momento, servitogli probabilmente ad analizzare la situazione, magari a cercarne le possibili cause.

Era sicuro che gli avrebbe rivolto una domanda simile, quasi se l’aspettava. Per questo non rispose, preferendo il silenzio alla risposta che, se detta con sincerità, sicuramente non sarebbe stata creduta possibile.

Shikamaru era un cervellotico, un genio nel vero senso della parola. Qualcuno che usa la ragione non crede a ciò che non è razionalmente spiegabile.

Eppure… una parte di sé stesso gli diceva che non era così. Una parte celata, nascosta in profondità da quando era “tornato”, una voce che non voleva più ascoltare collegata a ricordi che non voleva più rivivere.

Non si può… vivere con il cuore a cavallo fra due mondi non si può.

<< Kiba >> ripeté Shikamaru poco dopo, rendendo più autorevole il tono della voce: << chi te l’ha fatto? >> domandò nuovamente, variando significativamente il senso e la formulazione della domanda.

Ora implicava un “chi”, non un “come”. Ora implicava una persona responsabile.

Con un gesto rapido della mano, ma non seccato, scacciò quella di Shikamaru dal suo collo, sistemandosi il fastidioso colletto in stoffa quasi per riflesso. << Non è niente, tutto ok >> fornì come risposta, riprendendo a camminare e allontanandosi dalla protezione dell’ombrello.

<< Non è quello che ti ho chiesto >> insisté però il moro, fermo nello stesso punto.

L’Inuzuka arricciò il naso. << E’ l’unica risposta che ti darò, dunque adeguati >> ribatté secco, voltandosi lentamente verso di lui ma non completamente, guardandolo di sbieco.

L’espressione di Shikamaru non trasmetteva nulla. Non agitazione, arrabbiatura o anche solo quel lieve risentimento di chi non risponde in maniera esaustiva ad una tua domanda.

Rimaneva a guardarlo, serio ed immobile, il volto in penombra a causa del cono d’ombra causato dall’ombrello e dalla luce del lampione sotto cui era in piedi.

Kiba non si mosse. Conosceva abbastanza bene Shikamaru per sapere che stava riflettendo, unendo i punti di un complicato ragionamento a più variabili.

Però, la domanda con cui se ne uscì, non fece altro che lasciarlo letteralmente di stucco.

<< Si può sapere tu dove sei? >>

Sentì quasi il cuore mancare un battito.

Perché quella domanda, perché fatta a quel modo?

Perché aveva usato il “dove”?

Nella sua incredulità cercò di non apparire sorpreso. A dire il vero, cercava di non dare a vedere che, dal suo punto di vista, la domanda di Shikamaru aveva più senso di molte altre cose al mondo, in quel frangente.

Era quasi spaventato, terrorizzato dalla capacità intuitiva di Nara, se veramente aveva capito qualcosa da quei pochi indizi che si era lasciato sfuggire.

Ma no… come poteva aver capito? Come poteva aver creduto? Era impossibile.

No. Non poteva essere vero.

<< In che… senso? >> chiese l’Inuzuka, storcendo le labbra in un sorriso distorto, un ghigno.

Shikamaru assottigliò gli occhi. << Da quando siamo rientrati da quella missione, tu non sei mai stato qui >> disse, aspettando un momento, per poi riprendere: << potrai essere qui con il corpo, certo, ma la tua mente è perennemente da un’altra parte. Sei immerso in un altro mondo, talmente tanto che non ti rendi nemmeno conto del tuo comportamento del tutto inusuale >> terminò, esponendo quella inconsapevole verità come se in realtà avesse assistito per tutto il tempo.

Dopo il primo battito andato a vuoto, ora il suo cuore batteva così forte che poteva forse uscirgli dal petto. Al contrario, l’aria faticava ad essere immessa nei polmoni e bruciava, come quella notte, come al risveglio.

Forzò una risata, che però risuonò più ipocrita che veritiera. << Che cavolate, ma ti senti quando parli? >> cercò di mascherare: << io sono qui, mi vedi, no? Dove vuoi che sia? >>

<< Questo non sono io a saperlo >> rispose però il moro, che a tutta quella recita non credeva nemmeno per sbaglio. Si vedeva dagli occhi, che nemmeno per un istante si erano spostati dai suoi. << Tu sei distratto da qualcosa… o da qualcuno >> concluse, calcando sull’ultima parola come se fosse la più fastidiosa da pronunciare.

Kiba non si lasciò sfuggire la reazione e, come se fosse la sua ancora di salvezza, si aggrappò ad essa. << Cos’è? >> esclamò con finta e instabile strafottenza: << sei geloso, forse? >>

Come al solito, la risposta dell’altro impiegò poco a giungere: << e se ti dicessi di sì? >> domandò biecamente in risposta.

Il battito accelerato del suo cuore mancò di nuovo, questa volta bloccando anche il respiro.

In un lampo, la mente fu attraversata dai ricordi, da una voce, da parole pronunciate e mai più dimenticate…

 

<< Che c’è? >>

<< Se ti dicessi che ero geloso guardandovi, mi prenderesti per scemo? >>

<< Guarda che potevi chiederle un ballo, io mica mi offendevo. Anzi, mi facevi anche un favore! >>

<< Non di lei… di te >>

 

Sancivano l’inizio di tutto, quelle frasi.

L’inizio di un sentimento che si trova dal nulla ma che al nulla non si può più restituire.

Ed erano simili, quasi le stesse. Lo stesso significato per persone diverse, mondi diversi…

Ma erano poi così tanto dissimili?

Già una volta si era posto quella domanda, guardando lo Shikamaru che ora attendeva risposta e paragonandolo con quello dei suoi ricordi quasi simili a sogni, a illusioni.

Non ebbe la forza di rispondere nulla. Abbassò semplicemente lo sguardo, abbandonando la sceneggiata.

Per la prima volta aveva provato lui, ad indossare una maschera… non ci era riuscito.

Le sue emozioni dovevano venire lette e quella era la prova che, anche se provava a nasconderle, c’era sempre qualcuno in grado di scoprirle senza sforzo.

Ed era sempre quel qualcuno, a dispetto del tempo e della dimensione.

Ancora prima di vederlo avvicinarsi, fu i rumore dei suoi passi attutito dalla cenere che rivelò la presenza di Shikamaru accanto a sé. Sollevò solo di un poco lo sguardo, il necessario per vedere le sue mani cingerlo e avvicinarlo, finchè non si ritrovò con il volto appoggiato alla sua spalla e il suo corpo a contatto con il proprio. Di nuovo al riparo dell’ombrello, di nuovo al sicuro in un abbraccio.

Avevano lo stesso profumo, lo stesso calore, la stessa gentilezza nei gesti. Come poteva convincersi che quello non era il ragazzo che amava, quando tutto gli dimostrava il contrario?

Forse si era arreso all’evidenza, o forse ne aveva semplicemente bisogno. Forse, magari, si era arreso all’evidenza di averne semplicemente bisogno.

Ricambiò l’abbraccio, sollevando le braccia e appoggiando le mani sulle sua schiena, aggrappandosi al gilet verde della divisa da shinobi che l’altro sempre indossava. Poi, chiuse gli occhi.

Si lasciò andare, dissipando per la prima volta da due settimane quel blocco di cemento sul fondo dello stomaco che gli impediva di pensare senza rimpiangere.

<< Quando ne avrai voglia, vorrei che mi raccontassi tutto >> mormorò il moro accanto al suo orecchio, moderando il tono data la vicinanza.

<< Non è una storia che hai già sentito? >> rispose nel medesimo modo Kiba. Dopotutto, il racconto delle sue “gesta” infradimensionali si era sparso come l’aria, nel villaggio.

<< Sì, ma preferisco sentirla da te >> ribatté l’altro, chiudendo tacitamente il discorso in quel modo.

Rimasero abbracciati ancora a lungo, anche se Kiba non riuscì a stabilire quanto. Shikamaru aspettava che fosse Kiba a voler sciogliere il contatto, probabilmente, ma l’Inuzuka sarebbe rimasto lì per ore, in silenzio, anche solo a godersi quella vicinanza a lungo bramata e rimpianta, nostalgica.

Finché non decise, ad un certo punto, di fornire una risposta adeguata a quella maldestra dimostrazione d’affetto… almeno questa volta.

<< Sai… non mi dispiace >> cominciò, sorridendo appena contro la spalla del moro.

<< Cosa? >> chiese quello, probabilmente colto in contropiede.

<< Che tu sia geloso >>.

Il castano non poté vedere il sorrisetto comparso sul volto di Shikamaru anche se, in un qualche modo, se lo immaginò.

Come se fossero d’accordo, insieme sciolsero l’abbraccio. Si osservarono per un momento, un istante in cui si mescolarono sicurezza ed imbarazzo inespresso, prima di proseguire la camminata, sempre in silenzio.

<< Ah, Shikamaru… >> esordì poi Kiba, chissà per quale motivo stuzzicato da quell’idea improvvisa.

<< mh? >>

<< sapresti risolvere un indovinello? >> chiese, incuriosito dal foglietto giacente nella sua tasca.

Nonostante le preoccupazioni fossero svanite, in quel piccolo lasso di tempo in compagnia di Nara, il mistero dell’inglese era un fatto che lo incuriosiva e al contempo attirava.

Magari poi si sarebbe scoperto che sì, lui era sonnambulo, e durante la notte entrava di straforo in biblioteca per rispondere ai suoi stessi biglietti.

Aveva molta fantasia, questo era certo.

<< Sentiamo >> acconsentì il moro, nonostante la sue espressione fosse palesemente seccata. Chissà che fatica, dover usare il cervello ad un’ora così tarda!

<< “Quando puoi vedere l’altro lato della Luna. Nel cuore della Foglia, il tempo sempre finisce e riparte” >> recitò a memoria, evitandosi l’inglese per il bene comune.

Non ci volle molto, al di là delle sue aspettative, perché Shikamaru trovasse la soluzione all’enigma.

<< E’ un appuntamento >> disse infatti, portandosi le mani dietro la nuca.

Kiba aggrottò un sopracciglio. << E da cosa lo capisci, scusa? >>

<< Dal testo dell’indovinello >> rispose logicamente, anticipando la spiegazione ancora prima che Kiba potesse buttarsi in una battuta stile “è ovvio, porca miseria!”: << ci sono ora, luogo e periodo. L’altro lato della luna è quello oscuro, dunque il novilunio. E’ un periodo del mese, stasera per la precisione >> specificò, puntando in alto con il dito.

Inclinandosi per vedere il cielo oltre l’ombrello, effettivamente Kiba notò che la luna non era visibile.

<< Il cuore della Foglia è la rupe degli Hokage >> continuò poi il moro non appena riebbe la sua attenzione. << E’ proprio dietro al palazzo dell’Hokage, che è il cuore nevralgico del sistema governativo del villaggio >> spiegò diligentemente.

<< E il tempo che si ferma e riparte? >> chiese Kiba, seguendo il ragionamento.

<< L’ora. Pensaci, quand’è che il tempo del giorno finisce e riparte da capo? >>

Non ci volle molto a Kiba, per capire anche quell’ultima parte dell’indovinello. Nel medesimo istante, quasi come se le campane della torre dell’orologio avessero voluto aiutarlo, il primo di dodici rintocchi risuonò nell’aria.

<< Mezzanotte >> pronunciò allora, incontrando in cenno affermativo di Nara.

Chiunque aveva scritto quel messaggio cifrato, voleva incontrarlo quella sera a mezzanotte alla rupe degli Hokage. Quindi, in poche parole, in quel preciso istante quasi dall’altra parte del villaggio.

Con un ultimo suono, i dodici rintocchi della mezzanotte finirono di battere e si dispersero nel vuoto e silenzioso villaggio, sparendo senza lasciare traccia.

Quasi nello stesso istante, la cenere che per giorni aveva coperto il villaggio smise di cadere.

<< Ha smesso… >> fece notare infatti Kiba, allungando la mano fuori dall’ombrello come si farebbe per afferrare la pioggia. Nessun fiocco grigio si posò più su quella mano… ma qualcos’altro.

Allargandosi come una macchia bianca ed inconsistente, un raggio di luce calda illuminò la pelle di Kiba e, a tratti, anche alcuni pezzi del territorio circostante. Erano letteralmente sottili coni di luce che, come se provenienti da uno stroboscopio, cadevano con differenti inclinazioni sul villaggio.

<< Luce? >> domandò interdetto Shikamaru, togliendosi l’ombrello da sopra la testa per osservare quello strano fenomeno.

<< Ma… non è mezzanotte? >> domandò a sua volta l’Inuzuka, cercando con gli occhi la fonte di quella luce calda e potente, che sembrava tanto…

<< Il sole. Com’è possibile? >>

<< Non è possibile >> ribatté il moro, osservando a sua volta la bislacca scena che si era presentata loro davanti.

Proprio a ridosso della rupe degli Hokage, il cielo sembrava crepato e squarciato. Da quello squarcio usciva una luce che era sicuramente quella del sole.

A quella vista, lo stomaco di Kiba si serrò definitivamente. Quando mai si è visto il cielo crepare e sgretolarsi? E il sole uscire da dietro al cielo? Stravolgeva ogni legge fisica, ogni osservazione astronomica e, per che se ne dica, anche il comune buon senso.

Era a questo, dunque, che il biglietto in inglese si riferiva?

Ma soprattutto, chi mai lo aveva scritto per sapere tutte quelle cose, quello che sarebbe accaduto.

<< Che sta succedendo, Kiba? >> chiese Shikamaru con un filo di voce, anche lui impietrito davanti a quello spettacolo sicuramente inusuale quanto incredibile.

Perché diamine lo chiedeva a lui?!

<< Non… lo so. Non lo so proprio… >> rispose però, guardando sempre il cielo in quella sua particolare e inquietante magnificenza.

Fu quando vide qualcosa cadere a peso morto oltrepassando lo squarcio nel cielo, che trattenne il fiato per l’ennesima volta.

Sembrava… un uomo. Un essere umano.

Ma no, non lo era.

Kiba Inuzuka si rese davvero conto di non essere pazzo, nel momento in cui quell’essere dalla forma umana cominciò a planare magistralmente nell’aria.

E un paio d’ali dorate si spalancarono nella notte, risplendendo baciate dalla luce.

 

Chapter No.15 ~ End

   
 
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