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Autore: flama87    02/02/2017    1 recensioni
Ogni trecentosessantacinque anni, il Dio Sole sceglie una donna mortale da sposare e la indica ai fedeli con il suo Stemma. Quando il tempo è giunto, gli abitanti del regno di Lactea sono obbligati a consegnarla all'Ordine, il quale permetterà alla Dama Bianca di convolare a nozze con la divinità.
Eppure della Ventiquattresima Sposa non vi è alcuna traccia, il tempo del Viaggio di Nozze è oramai vicino. Impauriti davanti all'idea d'infrangere l'antica alleanza e non volendo incorrere nelle ire divine, il Sovrano di Gennaio e il Sommo Cardinale d'Agosto daranno il via a una caccia agli eretici sanguinosa e cruenta.
E se fosse la Sposa a non voler essere trovata?
Genere: Drammatico, Fantasy, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Lime | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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21.1 Primi rintocchi di lode.


Sebastian non si aspettava di trovare un luogo così ampio. Si sentiva ancora affaticato: la battaglia precedente, anche a causa del suo arto fratturato, si era rivelata più ostica. I suoi avversari non erano che sgorbi, armati male e addestrati anche peggio; in circostanze comuni, li avrebbe sgominati senza difficoltà, ma aveva dovuto pagare dazio per la sua disattenzione. A peggiorare le cose, non aveva chiuso occhio o riposato per tutta la durata dei Patti: sentiva le palpebre pesanti come macigni.
Il tempietto in legno in cui era entrato faceva da facciata a una spaccatura nella roccia, che conduceva, tramite un passaggio, ad un’altra caverna. Un posto immenso.
“Sotto la capitale… è come se ci fosse un’altra città. Incredibile” ma la sua sorpresa non era certo conclusa lì: una torre si ergeva dal basso, occupando un’area circolare delineata da un anello di colonne e architravi. Dalla posizione in cui si trovava, il sicario notò dapprima la sommità della torre: una scala solitaria, ormai unica testimone degli antichi fasti, correva a chiocciola verso il cielo alla ricerca di qualcosa che non c’era più. Un piccolissimo accenno di pavimento, un rettangolo di marmo, stava sospeso alla fine dell’ultimo gradino; l’estremo atto di coraggio di quel rudere, per raccontare ai visitatori la gloria di un tempo perduto.
Sebastian allora seguì con gli occhi il profilo della struttura, ammirando come la serie continua di archi, sovrapposti alla parete, oltre a fungere da elemento puramente decorativo, mettessero in risalto le line curve del monumento. Scendendo con lo sguardo, contò a mente un massimo di otto anelli o piani, di cui l’ultimo per metà delineato ormai soltanto da ciò che ne restava di archi e pareti. Sbirciando oltre il bordo in rovina, era certo che la torre fosse cava al suo interno, avendo per tanto due sole stanze di conseguenza: una alla sommità, che conteneva forse una campana, e l’ultima alla base. Ironicamente, la cella campanaria ora si trovava a pochi passi dall’ingresso della torre: la sommità era crollata, rovinando a terra e trascinando con sé la campana e la porzione di colonnato su cui era andata schiantandosi. L’impatto doveva essere stato tremendo, dal momento che le fondamenta avevano ceduto facendo pendere da un lato la torre e allagando per metà l’anello di colonne ancora intatte. “Certa gente non sa proprio prendersi cura delle proprie cose” ironizzò la Serpe, nonostante comprendesse che i danni alla struttura erano stati provocati da qualcosa di molto più dannoso dell’uomo. Forse, un dio.
Sebastian raggiunse presto un nuovo punto da cui osservare meglio la torre. Una scalinata scolpita nella roccia scendeva sul fianco della caverna, giungendo in uno spiazzo a strapiombo sul vuoto. Quivi mani artigiane avevano smussato, levigato e disegnato colonne ed architravi; formavano una porzione di rettangolo nella parte più interna del costone di roccia, aprendosi poi la torre tramite un ponte di legno.
«Una topaia degna di voi, grande madre!» gridò allora il sicario, consapevole che l’eco del suo veleno avrebbe rimbombato nella caverna. Così fu. La sua voce sprezzante, s’impregnò del suo dileggio e corse ad informare la dea Cipride che lui era sempre più vicino. Poi la vide, affacciarsi all’interno di un anello e sporgersi dagli archi.
«Bifolco!» berciò. «Essere inferiore! Profani la mia casa! Assopisci i miei figli! Mi insulti e mi umili! Ho diritto alla mia vendetta, dovrai pagare col sangue per ciò che hai fatto! E dopo di te, i tuoi amici. O forse pensi di poterti prendere la mia testa? Sei un folle. Sì, cos’altro potresti essere: un folle privo di senno!»
Sul volto di Sebastian capeggiò un sorriso maligno. Spalancò le braccia e fece pochi passi in avanti.
«Non siete la sola che cerca vendetta, grande madre. Non siete la sola che brama vedere qualcuno affogare nel suo stesso sangue. Vedete, sarei una brutta persona se avessi mentito ai miei compagni, pur di avere l’occasione di essere qui e darvi la caccia». Rise e fece spallucce. «Ma in realtà, io sono una cattiva persona. Mi hanno pagato profumatamente per staccarvi la testa dal collo e non ho intenzione di fallire: ne va della mia reputazione!»
Un grido di rabbia seguì. «Per così poco dovevano addormentarsi i miei figli?»
«Non state guardando la cosa dalla giusta prospettiva», replicò l’altro, corrompendo il viso con una smorfia indisponente. «I vostri figli adorati ora dormono per una giusta causa: la mia ricompensa. Vi sembra poco?»
Un altro urlo emerse dal torace della dea. Occhi vispi e maligni si aprirono nel buio della caverna, e lentamente presero a risalire verso l’alto, arrampicandosi lungo le pareti di roccia.
«Miei figli adorati!» chiamò la Grande Madre. «I vostri fratelli chiamano! Quest’uomo è sporco del loro sangue: banchettate sul suo cadavere!»
Rapidamente, Sebastian si fiondò verso il pontile di legno e vi giunse esattamente a metà. Le Orme Bianche, furono presto ammassate ai due lati dello stesso. Ora che erano prive dei caratteristici manti bianchi, il sicario poteva finalmente vederli per quel che erano: creature amorfe, solo vagamente umane, prive di pelle e deformi. Esseri che nemmeno la luce del divino sole amava riscaldare, poiché essi erano ripugnanti. Allora la Serpe alzò la sua spada e, fissando bene un braccio attorno a una delle funi portanti, lanciò un ultima invettiva.
«Spero tu abbia ancora fiato in gola per gridare Grande Madre, perché tra poco metterò a dormire i tuoi schifosi figli!»
E tagliò.


21.2 Rintocchi di Solstizio


Rosanne aveva passato la mattinata a ricongiungersi con tutta la banda di mercenari, partiti in missione assieme a lei, Mithra e Claudiette. Gunmar le fece da cicerone, mostrandole il luogo ove si erano rifugiati e spiegandole anche che cosa era successo nel contempo.
«Eravamo accampati poco distanti dal bosco. Nessuno di noi si aspettava una sortita del genere! Ma la Luna nel cielo e il caos nel regno sono stati un tiro mancino del fato: un drappello di cavalieri ci ha scovati e ha tentato di arrestarci con la forza. Ovviamente abbiamo risposto all’aggressione ma non eravamo pronti. Alla fine ho ordinato la ritirata, e l’unica soluzione era addentrarci nel bosco!»
Rosanne si guardò intorno. La capitale si ergeva su sette colli ma, tra ognuno di questi e intorno, una fitta boscaglia si estendeva e copriva, in particolare, tutto il versante settentrionale fin dove l’occhio poteva ammirare. Dal momento che la boscaglia era a un livello notevolmente più basso rispetto alla città, e poiché quel bosco era comunque sotto la benedizione della dea Luna, nessuno si era mai azzardato a danneggiarlo. Solo i taglialegna avevano accesso libero ad esso e, inoltre, proprio in virtù del fatto che le foreste erano sacre alla Luna, erano anche i soli ad avere permesso speciale di officiare antichi riti propiziatori.
«Come siete arrivati qui?» domandò la donna, curiosa.
«Una cosa assurda! Ci siamo persi, abbiamo vagato fino a ieri senza trovare una via di uscita. Non puoi capire: questo posto è peggio che un labirinto! Abbiamo girato in tondo non so quante volte, poi Vlad ha notato un lago. E indovina? C’era una scala! Una scala! E indovina? Abbiamo trovato una tribù di taglialegna!»
Rosanne inarcò un sopracciglio. «E cosa c’è di strano?»
Gunmar sorrise. «Che non sono quei taglialegna. Capisci? Sono eretici: quelli che non vollero scendere a patti con il Sommo Sacerdote e l’Ordine, e si dispersero nei boschi».
«Incredibile» fece stupefatta la donna.
Gunmar non riuscì a trattenere l’enfasi. «Questi tizi vivono qui da solo il divino Sole sa quanto! Non ci hanno ospitati ma ci hanno detto di aver ricevuto dalla loro dea il compito di farci passare e condurci qui».
Rosanne si guardò nuovamente intorno. «Qui?»
«Questa è l’antica città dei taglialegna!» rispose l’uomo, visibilmente emozionato. «Questa città, o ciò che ne resta, è la più antica costruzione mai eretta dall’uomo. E risale al periodo perfino precedente alla nascita della Prima Sposa!»
«Frena Gunmar, aspetta». La donna, visibilmente confusa, agito le mani per interrompere l’altro; e subito aggiunse: «Io sono arrivata qui da un ascensore, che porta a una chiesa, che a sua volta fa parte della vecchia Ras Alhague. La vecchia capitale era in rovina, c’erano i resti dei precedenti abitanti ovunque e un sigillo del Sommo Cardinale Tabit Ori che…»
Allora Gunmar a sua volta la interruppe, dicendo: «Lo so da dove vieni, i taglialegna ce l’hanno detto. Ci hanno raccontato tutto: una grande fetta del loro popolo si è spostato assieme ai membri dell’Ordine e alle famiglie fondatrici della capitale. Da dove pensi che abbiano preso il legname per alzare una città? Avevano un patto con il Sommo Sacerdote: avrebbero potuto continuare a venerare segretamente la dea Luna, in cambio del legname.
Per motivi che nemmeno loro sanno, quella parte della loro tribù si assopì quasi completamente nell’incendio che divorò la vecchia capitale. Gli unici passaggi, quello che hai preso tu, e quello usato da noi, erano conosciuti solo alle due tribù di taglialegna. Assopiti gli uni, sono rimasti solo quelli incontrati da noi. Ma, ovviamente, chi sarebbe così folle da entrare nella foresta sacra alla Luna, ora che la Luna è addirittura in cielo?»
Rosanne restò un attimo in silenzio, come pensosa. Poi esordì: «Non mi piace tutto questo, Gunmar».
L’uomo espresse perplessità. «Che intendi?»
«Sappiamo che sotto la Grande Cattedrale c’è la casa della Prima Sposa e che, secondo Mithra, nasconde un altro grande segreto: qualcosa di potente, che perfino il Dio Sole teme e che l’Ordine ha voluto sigillare.
Non esiste nessuna via per arrivare alla vecchia capitale. Ci hanno letteralmente costruito la nuova sopra, e il colle su cui era stata eretta è in parte sprofondato rivelando la presenza di un sistema di caverne e grotte. Mi segui?»
L’altro annuì. «Direi di sì».
«Non vi è accesso diretto alla vecchia capitale, se non usando i passaggi delle Orme Bianche. Tuttavia, seppure tu trovassi queste vie, due servi della dea erano a guardia. Perché? Perché proteggevano ciò che Mithra sta cecando!
Ecco cosa penso Gunmar: l’insediamento originale cresce perché, come leggenda vuole, la Ventesima Sposa nasce esattamente dove era nata la Prima. Crescendo, si rivolgono ai taglialegna per farsi aiutare. Una bella fetta accetta, l’altra si disperde. Quelli rimasti però scovano, forse per caso, l’oggetto che anche noi dovevamo trovare. Il Sommo Cardinale, che intanto aveva allargato la città, decide di seppellire quel segreto col fuoco: assopisce tutti, incendia tutto e sigilla la porta.
Poi, non so come, mettono una divinità a sorvegliare quel posto, sicuro che nessuno risalirà verso la vecchia capitale per la via che avete usato voi. Forse qualche taglialegna sopravvive nella parte povera della nuova città, così da fuoco anche a quella per essere sicuro di liberarsene.
O forse sto solo farneticando».
Gunmar scosse il capo. «Non saprei dirti. Il tuo ragionamento fila; cosa può mai esserci sotto questa benedetta capitale di così importante, da arrivare a commettere simili atrocità?»
«Mi è venuta a mente prima, mentre parlavo. Te la ricordi la storia della Prima Sposa?»
«Certo, tutti la sanno: salvò il mondo e…»
«Non quella, l’altra».
Gunmar trasalì. Si alzò in piedi. «Tu pensi che Mithra sia venuta qui per prendere Eclissi?»
Rosanne lo guardò. «Claudiette è stata assopita. Voi siete allo sbando. Sebastian è disperso e lei non si sa dove sia. Secondo te?»
«Per la barba di Giove».
«Se Mithra trova Eclissi e, ammesso che riesca a maneggiarla, nessuno potrà più fermarci.
Nessuno».


20.3 Ultimi rintocchi di solstizio


Meroll era ormai certa del da farsi: avrebbe preso una delle carovane fuori città, per fare ritorno al suo villaggio natio. Mancava da così tanto tempo; si domandò in che condizioni fosse il piccolo tumulo di pietre che aveva fatto per sua figlia. La piccola Serene: quel ricordo non l’aveva mai abbandonata. Ricordava ancora la strana visione che aveva avuto sotto l’Arco del Trionfo, ed era ormai certa che non fosse più un caso. Qualcuno o qualcosa le stava dicendo che era giunto il momento di tornare a casa. Non era ancora sicura di cosa avrebbe fatto di preciso, ma una volta arrivata lì, senza dubbio, avrebbe omaggiato il ricordo della sua amata Serene e, solo dopo, avrebbe deciso il resto.
L’ingresso della città era stato eretto sul colle più basso dei sette, che si innalzava lentamente dal livello del mare come una rampa naturale. Approfittando di questa conformazione, col tempo l’accesso alla capitale era stato ulteriormente fortificato: una struttura che ricordava l’Arco di Trionfo, dunque quadrata e scolpita nel marmo, ma di portoro fino ai capitelli e pentelico sulla parte superiore, poggiava su un piedistallo a gradini ricavato anch’esso dal marmo pentelico. La singola facciata era caratterizzata da una costruzione a volta con un solo arco, da cui lati si alzava o si abbassava l’enorme e robusto cancello in ferro.
Ai lati dell’arco, due imponenti torri si alzavano poco oltre l’architrave, congiungendo internamente le mura fortificate con gli ambienti di guardia. Meroll ricordava che tale misura era stata adottata dopo che Rober il Senza Padre, con la complicità di alcuni soldati e popolani, era riuscito a farsi aprire il cancello della capitale, entrandovi trionfante e senza assediarla, come aveva orchestrato il Sovrano dell’epoca.
Una piccola area esterna, al termine del ponte d’ingresso, era stata dedicata alla regia dogana: qui era possibile trovare ogni genere di merce diretta a Ras Alhague, oltre che carovane in attesa di ripartire. Ai commercianti, abilitati all’ingresso nella capitale dopo aver pagato un dazio, erano concesse alcune vie secondarie costruite appositamente per far facilitare i cavalli e i carri merci; questi percorsi erano collegati a un sistema di chiuse, in modo tale che potessero essere inondati in qualsiasi momento, cosicché nessuno le adoperasse per infiltrarsi rapidamente in città.
Meroll si avvicinò all’area delle carovane, cercando qualcuno diretto verso nord. Trovò rapidamente un mercante, riconoscendo dall’accento la sua provenienza. Gli si avvicinò, porgendogli una piccola sacca di monete.
«Ho bisogno di un passaggio; oltre a pagarvi il servigio, sono abile a cacciare, ad occuparmi delle vettovaglie e a combattere. Posso proteggervi durante il cammino».
Era costume offrire danaro per un viaggio ma, in molti casi, era ancora più abitudine offrire altro al proprietario della carovana: una persona capace di combattere o cacciare, ad esempio, era assai gradita durante i viaggi verso il freddo nord; in caso di incidenti, vuoi di banditi, vuoi di danni alla carovana, il mercante e chi trasportava avrebbero resistito più a lungo. L’uomo, per tante, accettò ben volentieri, ma di lì a poco un’altra mano paventò dal nulla un altro sacchetto di monete.
«Mi aggrego alla signorina», fece la voce gelida di un uomo con abiti sacerdotali. «Due persone capaci di combattere sono meglio di una e, inoltre, avrete dalla vostra anche la benedizione del divino».
Il mercante si ritenne particolarmente fortunato, quel dì: due sacchi d’oro, una cacciatrice e un sacerdote al seguito, entrambi condottieri. Cosa poteva andare storto?
«Spero condividere il posto con un uomo dell’Ordine non sia per voi sgradito, signorina».
«Signora» puntualizzò lei.
«Perdonatemi, allora» e si apprestò ad eseguire un baciamano elegante. Meroll, benché ne fosse infastidita, si finse cortese e accennò un sorriso. «Mi chiamo Undine Basile, lieto di accompagnarla in questo viaggio».
«Io sono Meroll. Il piacere è mio».
A dispetto della loro cortesia, una strana tensione c’era tra i due: il sacerdote avvertiva ciò che si nascondeva nell’animo della donna e ne aveva, senza ragione, un vago timore; lei riusciva ad avvertire, con i suoi sensi sviluppati, che quell’uomo dovrebbe essere più vecchio di quanto suggerito dal suo aspetto; ed emanava uno odore particolare, come di terra e fiori tombali.
   
 
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