Salve
a tutti!
Sì,
lo so, è da agosto che non aggiorno e per questo chiedo
scusa! Solo
che tra preparativi per l'università, il trascolo e la
novità di
questa – il primo periodo mi stavo ambientando –
non ho avuto
tempo né ispirazione; oltretutto, ho avuto anche il pc fuori
uso per
un mese a causa di un guasto.
Comunque
sia, spero che questo capitolo sia di vostro gradimento, ho cercato
di farlo più lungo per in qualche modo scusarmi della mia
lunga
assenza. In questo capitolo continuo a sviluppare la storia per gli
eventi successivi, spero vi piaccia!
Cercherò
di scrivere il nuovo capitolo il prima possibile – finalmente
ho
finito la sessione di esami, ma avrò di nuovo le lezioni
quindi...
Comunque
sia, ora vi auguro buona lettura!
Un
abbraccio,
~Sapphire_
~It's too cliché
Capitolo sette
Il
risveglio di April fu piuttosto traumatico: la sveglia suonò
particolarmente rumorosa quella mattina e, persa com'era nel sonno
più profondo, fece in pratica un salto dal letto.
Allungò rapida
una mano per spegnere quel suono infernale, andando a tentoni con la
mano non avendo gli occhiali: così facendo, purtroppo,
finì per
urtare il bicchiere d'acqua che ogni sera metteva sul comodino;
cadde, rompendosi in mille pezzi e bagnando non solo il pavimento, ma
anche le pantofole e il tappeto ai piedi del letto.
«Merda!»
berciò April, riuscendo finalmente a spegnere la maledetta
sveglia e
trovando, dopo vari secondi di disperata ricerca, i suoi adorati e
più che necessari occhiali rossi.
Li
inforcò tra i capelli biondi sconvolti, rendendosi conto del
danno
appena fatto.
«No...»
mugolò vedendo l'acqua che inzuppava il tappeto e le
pantofole, più
i pezzettini di vetro sparsi più o meno ovunque.
Si
alzò con cautela, cercando di fare attenzione ai pezzi di
vetro:
sorrise soddisfatta quando era a un passo dalla porta –
felice di
non averne beccato nemmeno uno – peccato che proprio in quel
momento sentì una piccola fitta di dolore al piede destro e
urlò.
Iniziò
a saltellare in precario equilibrio, ma ovviamente non era la sua
giornata poiché inciampò sul suo stesso piede e
cadde per terra,
sbattendo con violenza il ginocchio sinistro.
«Cazzo!»
urlò di nuovo.
Rimase
poi lì per terra per poi esaminare il piede infortunato: una
piccola
scheggia di vetro era conficcata sulla pianta del piede e qualche
goccia di sangue usciva dalla ferita.
Ecco,
anche se non sembrava, c'era una cosa rossa che April odiava con
tutto il suo cuore: il sangue.
Impallidì
vedendolo e con timore si tolse la scheggia dal piede, per poi
correre in bagno a sciacquarselo; le bruciò un po', ma
almeno
quell'orribile liquido rosso scomparve.
Frugò
nei cassetti alla ricerca di un cerotto e quando lo trovò
evitò il
più possibile di guardare le nuove goccioline di sangue che
si
stavano formando sulla ferita: non era così grande, quello
no, e non
le faceva neanche tanto male. Forse però avrebbe dovuto
mettere
delle scarpe basse il giorno, più comode rispetto ai suoi
soliti
tacchi.
Appena
il sangue sparì dalla sua vista e tirò un sospiro
di sollievo a
quella tragedia mancata – la ferita ci avrebbe messo giusto
un
giorno a guarire – sentì però il dolore
sordo del ginocchio.
Lo
guardò sconsolata: la botta era stata brutta e qualcosa le
diceva
che le si sarebbe gonfiato di lì a poco.
Filò
in cucina scalza, per poi iniziare a frugare nel freezer e recuperare
del ghiaccio.
Se
lo mise sul ginocchio infortunato per poi iniziare a zampettare per
la cucina e prepararsi la colazione: giusto un cupcake avanzato dal
giorno prima – uno di quelli che aveva portato a May che
aveva a
sua volta insistito che se ne prendesse almeno uno da portare a casa
– e una tazza di latte bevuta al volo – il
caffé l'avrebbe preso
al lavoro o da qualche altra parte.
Quando
si riaffacciò nella propria camera e vide il disastro che
ancora vi
era – beh, in fondo era difficile che sparisse da un minuto
all'altro – mugolò nervosa e si adoperò
per pulire il meglio che
poteva: ovvero, raccolse i pezzi di vetro che riuscì a
vedere,
asciugò veloce con uno straccio e mise il tappeto e le
pantofole
all'aria ad asciugare; non poteva permettersi di più, era
già fin
troppo in ritardo.
Per
cui corse a farsi una doccia rapida – il piede col cerotto
lavato
con particolare attenzione per non bagnare la ferita – e si
vestì
più semplicemente del solito, con solo un paio di jeans a
sigaretta,
una camicetta primaverile bianca e delle vans rosse. A dire il vero,
tentò un paio di tacchi ma a sentire la fitta al piede
rinunciò
subito.
Con
sguardo sconsolato uscì per andare a lavoro.
Qualcosa
mi dice che questa non sarà una bella giornata.
Da
qualche altra parte, sempre a New York, nemmeno Aaron ebbe un
risveglio piacevole: a svegliarlo dieci minuti prima della sua
sveglia – e quando si hanno solo tre ore e mezza di sonno
perché
la sera prima si è dovuto finire un lavoro, quei dieci
minuti sono
necessari – fu il
telefono che iniziò a squillare.
Non
lo sentì subito, tanto che chiunque l'avesse chiamato chiuse
dopo
numerosi squilli; ma la persona non demordette e il telefono riprese
a suonare furiosamente, assordando il povero Aaron che si
svegliò
sentendo l'odio bruciare nella sua testa.
Diede
un'occhiata all'ora e, vedendo come mancassero solo dieci minuti alla
sua sveglia, gli venne da piangere.
Chiunque
sia, lo ucciderò.
Prese
il cellulare e con voce assonnata rispose.
«Chi
è?»
«Buongiorno
zuccherino»
«Tom»
Ok,
avrebbe ucciso il suo migliore amico. Non sapeva ancora la dinamica e
come farla franca, ma l'avrebbe fatto.
«In
tutto il suo splendore» ironizzò Tom,
dall'altro capo del filo.
Aaron
si schiacciò il cuscino in faccia con aria disperata,
l'istinto
omicida sempre vivo in lui.
Dopo
infiniti anni di amicizia, ancora non sapeva se amasse o odiasse il
suo migliore amico. Nel dubbio, faceva entrambi.
«Cosa
cazzo vuoi?» borbottò nervoso, la voce impastata
dal sonno.
«Bonjour
finesse!» continuò sarcastico l'altro e
Aaron pensò che, se ce
lo avesse avuto davanti, gli avrebbe di sicuro lanciato qualcosa.
«Se
mi hai chiamato solo per rompermi le scatole sappi che non la
passerai liscia»
Sentì
l'amico ridere dall'altro capo del telefono e sbuffò,
rinunciando
all'idea di dormire ancora per dieci minuti come in teoria avrebbe
dovuto fare: qualcosa gli diceva che non ce l'avrebbe fatta.
«A
dire il vero credevo fossi già sveglio. Sai, per la tua
corsa
mattutina»
Aaron
si alzò dal letto ciondolando, infilandosi le pantofole e
dirigendosi in bagno per farsi una doccia.
«Abbiamo
dormito meno di quattro ore e pretendi che io mi alzi per andare a
correre? Sei fuori di testa» abbaiò sempre
nervoso, iniziando a
spogliarsi e mettendo il viva-voce «A proposito, come diavolo
fai a
essere così energico?» borbottò mentre
si dava un'occhiata allo
specchio e notava le sue profonde occhiaie.
«Tre
caffè e una pasticca» celiò
Tom con voce soffice.
Aaron
ignorò le ultime due parole mentre terminava di spogliarsi e
metteva
tutto dentro il cesto della biancheria.
I
peli sulle braccia gli si drizzarono in una sensazione spiacevole una
volta nudo e corse ad aprire l'acqua.
«Ti
stai facendo la doccia?»
«A
te che sembra?» chiese a sua volta Aaron, entrando nel box e
mettendo il cellulare più vicino possibile per continuare a
parlare.
«Uh,
quindi sei nudo in questo momento. Mi stai avanzando proposte? Hai
deciso di lasciar perdere il genere femminile?»
chiese veloce
Tom, e ad Aaron stava già iniziando a svuotare la testa.
«No,
non ti sto avanzando proposte e sì, credo che
inizierò a lasciar
perdere il genere femminile» rispose, l'acqua calda che gli
scioglieva i muscoli dopo il sonno.
«Beh,
lo capisco dopo quello che è successo ieri...»
Aaron
per un attimo credette di essersi immaginato quelle parole a causa
dell'acqua che nascondeva in parte la voce, ma dopo qualche secondo
di silenzio capì che invece aveva capito proprio bene e
aprì di
scatto gli occhi precedentemente chiusi sotto il getto dell'acqua.
«Come
fai a saperlo?!» strillò con voce strozzata e
arrossendo.
«Me
l'ha detto un uccellino» ironizzò
l'amico.
«Dimmelo
subito»
Sentì
un sospiro provenire dal viva-voce mentre prendeva il bagnoschiuma.
«Vicky.
Credo glielo abbia detto Rosalie, o forse tua mamma, ma non so»
«Io
quelle le uccido!» urlò
incazzato Aaron, iniziando a
insaponarsi furiosamente mentre a causa dell'acqua i capelli erano
sparati in aria, facendolo sembrare ancora più sconvolto.
«Ma
dai, non è venuta a dirmelo apposta, stavamo parlando del
più e del
meno» cercò di tranquillizzarlo Tom.
Ma
Aaron sbarrò gli occhi ancora di più.
«Ti
stavi sentendo con mia sorella?! Ci stai provando con mia
sorella?!» tuonò irato.
«...Ma
no. Stavamo solo chiacchierando, non pensare male»
Aaron
impallidì di colpo.
«Ci
sta provando con mia sorella» esalò allucinato.
«Come
dici? Non ti ho sentito»
Aaron
allungò una mano fuori dal box, asciugandosela
sull'accappatoio
appeso lì affianco.
«Dico
che sei una merda!» urlò isterico e senza dare il
tempo all'altro
di replicare gli chiuse la chiamata in diretta, ritirando nuovamente
la mano nel box.
No,
quella giornata non presagiva niente di buono.
Quando
entrò nel suo ufficio – condiviso, ma comunque suo
– April pensò
che ci fosse qualcosa che non andava.
Non
capiva bene cosa, aveva semplicemente una brutta sensazione che non
si decideva ad abbandonarla e la sfortuna della mattina non
l'aiutava.
«Ciao»
disse solo in direzione di Melanie, l'unica presente in quel momento;
Gwen aveva il brutto vizio di fare tardi e spesso era stata ripresa
per questo.
La
collega rispose solo con un cenno, già presa dal proprio al
lavoro
al computer, perciò April mollò in silenzio la
borsa sul tavolo e,
dopo essersi tolta la giacca primaverile, andò nell'altra
stanza per
farsi un caffè.
Mentre
si gustava la sua bibita in tranquillità, assaporando il
gusto dolce
dopo le tre bustine di zucchero messe al suo interno, cercava di
rilassarsi prima di mettersi al lavoro e, soprattutto, di eliminare
quella fastidiosa sensazione che proprio non si decideva ad
abbandonarla.
Basta
April, smetti di farti condizionare da scemenze del genere. Non
esistono le “brutte sensazioni”,
pensò convinta.
Peccato
che, appena bevve l'ultimo sorso di caffè per poi buttare il
bicchierino di plastica, una persona entrò come una furia
nella
stanza facendola sussultare.
Si
voltò verso Gwen che la guardava con gli occhi azzurri che
lanciavano fiamme.
«Tu»
tuonò all'improvviso.
April
la fissò interdetta, notando come avesse ancora borsa e
giacca –
si era precipitata da lei senza darsi tempo.
«...io?»
replicò indecisa, l'ansia che le saliva un po' addosso.
Ok,
le brutte sensazioni esistono.
«Hai
intenzione di rubarmi tutti i ragazzi su cui poso gli occhi?»
sibilò
inviperita.
April
la fissò sorpresa e subito dopo le venne in mente quel Tom.
Beh, non
gliel'aveva mica rubato: non era colpa sua se il ragazzo aveva
mostrato interesse nei suoi confronti, e d'altro canto April non
aveva ricambiato proprio niente.
«Parli
di Tom?» fece, indecisa.
Non
le piaceva entrare in conflitti del genere, non sapeva mai come
comportarsi: a volte finiva per farsi mettere i piedi in testa, altre
volte per sbottare e fare la figura dell'irascibile, ma è
solo che
non riusciva a trovare la giusta via di mezzo.
«Non
solo lui» sibilò la ragazza, gli occhi azzurri
sempre
fiammeggianti.
April
la guardò spiazzata.
Allora
di chi cavolo sta parlando?, si
chiese tra sé.
Incrociò
le braccia, sulla difensiva.
«Allora
spiegati meglio» rispose, innervosendosi.
Gwen,
a sua volta, incrociò le braccia sul petto.
«Parlo
di Damian. Ce l'hai presente? Barba, occhiali scuri, fotografo,
tremendamente sexy» spiegò telegrafica.
Ecco
di chi parlava, Damian!
April
la guardò interdetta.
«Non
hai nulla da dirmi?» continuò Gwen, osservando
l'aria silenziosa di
April.
April,
a quelle parole, e già nervosa di suo per il grandioso
inizio di
giornata, sbottò.
«Cosa
vuoi che ti dica? Non è colpa mia se gli uomini preferiscono
me a
te. Evidentemente ho più attrattive. Non incolpare me per la
tua
inadeguatezza» fece sprezzante.
Sentendo
quelle frasi neanche troppo velatamente cattive, Gwen
arrossì di
frustrazione.
«Preferiranno
te a me, ma di certo non sono quella che viene scaricata il giorno
dopo» rispose acida la castana.
April
si immobilizzò, ma l'altra non le diede il tempo di
rispondere ed
uscì dalla stanza per dirigersi in ufficio.
Stringendo
le mani a pugno e percependo gli occhi pungenti, diede un calcio al
cestino dell'immondizia, rovesciandolo.
No,
quella continuava a preannunciarsi una pessima
giornata.
«Ma
stiamo scherzando?!»
La
voce di Aaron risuonò all'interno dell'auto ferma da
più di
mezz'ora nel traffico mattutino newyorkese, quella mattina fin troppo
intenso.
Suonò
il clacson per l'ennesima volta e imprecò notando che la
macchina di
fronte a lui avanzò di un solo centimetro.
Cazzo.
Questa volta mi uccidono se arrivo in ritardo.
Mentre
l'ansia gli strisciava addosso come la nebbia in una triste giornata
autunnale, la radio accesa ferma su un canale di news lo avvisava che
nella sua
zona, a causa di
un incidente, il traffico aumentava e non sembravano esserci margini
di miglioramento.
«Porca
puttana» sibilò irato.
Bene,
avrebbe fatto di sicuro ritardo anche quel giorno. L'avrebbero
squartato vivo, ne era sicuro.
Abbandonò
la testa sul volante, premendo per un attimo il clacson che
suonò
nella strada insieme a quelli di altre centinaia di macchine, e
chiuse gli occhi inspirando a fondo.
Rimase
cinque minuti così, cercando di calmarsi ed eliminare il
nervoso che
lo attanagliava.
Infine
sollevò la testa e afferrò il cellulare,
componendo il numero di
Tom. Sperava che, avvisando, non gli avrebbero fatto troppo male.
Il
telefono fece tre squilli prima che il suo amico rispose.
«Ti
prego, non dirmi che farai tardi» lo accolse la
voce familiare.
Aaron
si morse un labbro, a disagio.
«Vuoi
veramente una bugia?» replicò.
Sentì
una vaga imprecazione dall'altro capo del filo, poi qualcosa che
cadeva a terra e un breve silenzio.
«Cazzo,
Aaron, ma mi vuoi spiegare come diavolo fai? Davvero, è
qualcosa di
assurdo, anzi, è impossibile»
«Ti
giuro, non è colpa mia! C'è stato un incidente e
il traffico è
bloccato!» tentò di spiegare.
«Certo,
ovvio, succede sempre qualcosa. Il giorno in cui arriverai in orario
sarà il giorno in cui scoperai con qualcuna»
fece sarcastico
Tom. Aaron arrossì.
«Fanculo,
Tom» borbottò «Avvisa che
farò tardi» concluse poi e, senza
lasciare il tempo all'altro di rispondere, chiuse la telefonata,
giusto in tempo per notare che il traffico iniziava finalmente a
muoversi: pareva che lo stessero finalmente deviando.
Che
giornata grandiosa.
April
sospirò per l'ennesima volta in quella interminabile
giornata.
Lanciò
una veloce occhiata carica di astio a Gwen, che da quando era
arrivata a lavoro quel giorno – dopo averle praticamente
gridato
contro, ovvio – era seduta alla sua postazione lavorando
senza
sosta.
Da
quando le aveva detto quelle parole non faceva che ripensarci.
È
vero, gli uomini la scaricavano sempre dopo la prima notte. Non
capiva perché, non capiva cosa diceva o faceva che potesse
indurli a
un comportamento del genere. Le sembrava di fare ciò che
tutte le
altre donne facevano, e non le sembrava neanche di vestirsi in
chissà
quale modo da far fraintendere qualcuno.
Eppure
anche l'ultimo tizio, di cui si era già dimenticata il nome,
l'aveva
scaricata senza troppi preamboli.
Era
stanca di quella situazione, ma non poteva farci molto, d'altronde.
Si
stiracchiò, decidendo di fare una pausa: aveva la testa
altrove e
continuando così non avrebbe portato a termine nulla quel
giorno;
riposarsi e staccare la testa un attimo le avrebbe fatto bene, per
poi rimettersi al lavoro ancora più carica di prima.
Si
alzò e si mise la giacca, per prenderdere poi la borsa e
uscire
dalla stanza senza salutare nessuno: Melanie era troppo concentrata
su ciò che stava facendo, Gwen non le avrebbe risposto.
Si
diresse quindi verso l'uscita dell'edificio, e una volta fuori il
tipico rumore del traffico newyorkese la tranquillizzò.
Da
sempre il clacson delle macchine, il continuo vociare e pulsare di
quella città sempre sveglia, quel caos
la
facevano calmare. Era
strano, considerando che di solito metteva più ansia che
altro.
Le
venne in mente con un sorriso ciò che le raccontava la
madre, ovvero
che per farla addormentare doveva accendere la tv o la radio, o in
casi estremi portarla in macchina fino alla città
più vicina e
girovagare a vuoto.
Il
ricordo della madre le provocò una punta di fastidio che
cercò di
scacciare subito, insieme a quei ricordi di un'infanzia già
passata.
Si
guardò intorno, indecisa su dove andare, per poi ricordarsi
dello
Starbucks in cui le aveva portate Gwen quella famosa volta.
Scrollò
le spalle per poi decidere di incamminarsi in quella direzione.
Non
ci mise molto ad arrivare, anche se se lo ricordava più
lontano –
forse era la fame che le aveva dilatato il tempo, l'ultima volta
–
e appena entrò il profumo dolce delle caffetteria l'avvolse
in una
nuvola di piacevole serenità.
Ordinò
distrattamente al bancone mentre con gli occhi ripassava tutto il
locale, cercando neanche lei sapeva cosa – o forse,
inconsciamente,
cercando quello strano tipo che finiva sempre per incrociare in quel
luogo, Tom.
Non
vedendolo, si disinteressò subito alla questione,
perciò prese
veloce la sua ordinazione e si mise in uno dei tavolini vicino alla
vetrata che costituiva la parete confinante con la strada;
lasciò la
sua mente divagare negli ultimi pensieri molesti fino a quando, presa
da un lapsus improvviso, afferrò il cellulare e compose un
numero
che conosceva a memoria.
Non
dovette attendere molto.
«Ehi,
tesoro»
La
voce familiare di May la accolse allegra, mentre dentro di
sé già
si sentiva più rilassata.
«Ehi»
rispose «Che fai?» domandò poco dopo.
«Oggi
ho il turno di pomeriggio, quindi sono un po' in centro a fare
shopping. Tu invece? Non dovresti essere a lavoro?»
April
fece una smorfia, invidiandola.
«Pausa.
Se fossi rimasta lì un minuto in più credo che mi
sarei buttata
dalla prima finestra» borbottò
«Shopping? Voglio venire con te!»
continuò con tono piagnucolante.
May,
dall'altra parte del telefono, rise.
«Non
fare la bambina. Questo fine settimana andiamo a farci un giro
assieme, ok?» tacque un attimo, poi riprese
«Perché dici
così, comunque? È successo qualcosa?»
la interrogò.
April
sbuffò, indecisa se parlarne per telefono o lasciare la
conversazione a una sera, con un bel drink davanti. O meglio due.
Scrollò
le spalle tra sé: aveva bisogno di parlarne, se no non ne
sarebbe
uscita.
«Hai
presente Gwen?» non attese la risposta a quella domanda
retorica
«Ecco, stamattina è arrivata con un diavolo per
capello, urlandomi
praticamente addosso di essere la causa di tutti i suoi flirt andati
male» snocciolò.
Sentì
May ridere con un tono scandalizzato.
«Ma
è fuori di testa quella ragazza? Non ha pensato che magari
il
problema è lei?» chiese, aggiungendo
subito dopo «E poi,
“tutti i suoi flirt”... Mi sembra che tu le abbia
“rubato”
solo quel tipo dello Starbucks, no?» sulla parola
“rubato”,
accentuò il tono in modo sarcastico.
April
fece l'ennesima smorfia di quella mattina.
«Hai
presente Damian, il fotografo?»
«Sì»
«Ecco,
pare che l'avesse puntato lei da un po' di tempo. O, almeno, questo
è
quello che ho capito, dato che mi ha accusato di starglielo
rubando»
spiegò.
Sentì
May ridere ancora.
«Beh,
ammetto che c'è del divertente nel modo in cui entrambi gli
uomini
di cui si era infatuata abbiano preferito te»
puntualizzò.
«Mh,
non credo che quel Tom fosse particolarmente interessato a me, te
l'ho già detto. Era strano, piuttosto»
«Comunque
fosse, aveva di certo mostrato più interesse a te che a lei,
no?»
«Questo
è vero» le diede ragione April, dando un morso
alla sua ciambella.
Il sapore dolce del cioccolato la confortò, ma nell'esatto
momento
la fece sentire in colpa: i suoi fianchi non sarebbero stati contenti
di quel cibo.
«Dovresti
fregartene. Insomma, tu non ci puoi fare molto, no? E poi, di quel
Tom non te ne frega nulla, mentre di questo Damian...?»
si
interruppe, non sapendo bene neanche lei come continuare.
April
sospirò.
«Non
lo so, mi interessa, ma sai com'è» rispose vaga.
«Beh,
se ti piace continua ad uscirci. Non sei sua amica, non hai nessun
“codice di amicizia” da rispettare. Se piace a
entrambe e lui ha
mostrato interesse per te, lasciarlo perdere sarebbe un'occasione
sprecata» ragionò May.
April
tacque per un paio di secondi.
«Ma
la situazione a lavoro diventerebbe pesante» disse infine.
«Sarà
pesante a prescindere quando inizierà a scadere il periodo
dello
stage, lo sapevi già o sbaglio? E poi, certo, andare
d'accordo con i
propri colleghi è sempre consigliato, ma una cosa del genere
non ha
senso. Che impari ad accettare quando viene rifiutata»
continuò
con tono sempre più convinto l'amica, tanto che per un
attimo April
se la immaginò mentre annuiva tra sé soddisfatta
di ciò che
diceva.
Sorrise.
«Hai
ragione. Dovrei semplicemente ignorare tutto questo. Anche
se...» si
interruppe, indecisa se dirlo o meno.
«Anche
se...?» continuò May, incuriosita.
Beh,
ormai ho iniziato,
pensò April.
«Non
so quanto possa andare bene con Damian. Gwen mi ha fatta riflettere
su una cosa: anche se gli uomini possono scegliere me e non lei,
almeno da lei non fuggono dopo una sola notte» fece asciutta,
il
malumore che tornava più forte di prima.
Dirlo
ad alta voce lo faceva sembrare ancora più brutto di quanto
non
fosse nei suoi ricordi.
«E
chi ti dice che da lei non fuggano? Insomma, non mi sembra che abbia
un ragazzo fisso, da quello che tu mi hai raccontato. Ha solo avuto
un paio di ragazzi da quando la conosci, no? E dopo la prima cena di
cui non faceva che raccontare, poi smetteva di parlarne
improvvisamente. Questo non ti sembra strano?»
April
si rifletté per qualche secondo.
«Hai
ragione. Però non mi interessa della sua vita. Non voglio
consolarmi
pensando al fatto che lei sia nella mia stessa situazione:
ciò non
cambia che, dopo il sesso, nessun uomo è più
interessato a me»
«Perché
sono tutti degli emeriti coglioni che credono che una bionda sia
stupida. Mai pensato di tingerti i capelli?»
ironizzò l'altra.
April
rise per un attimo alla battuta, per poi ripiombare nella sua
tristezza.
«Ma
è impossibile che nemmeno uno
abbia provato ad andare oltre. Evidentemente, l'immagine che do di me
è solo di una donna stupida e che vuole solo divertirsi,
maniaca
dell'aspetto e prototipo della donna stupida e superficiale»
continuò, piagnucolando.
Dall'altra
parte del telefono, sentì May sbuffare arrabbiata.
«Senti:
ripeti un'altra volta queste parole e non ci sarà
più nessuna
donna, ti farò sparire io. Se sei convinta di dare
quell'impressione
tu darai
quell'impressione. Renditi conto della realtà: sei una bella
donna a
cui piace curarsi, sì, ma sei anche intelligente, spiritosa,
inserita nel mondo del lavoro e con mille opportunità di
fronte a
sé. Un uomo dovrebbe sentirsi fortunato ad averti»
Sentire
quelle parole le scaldò il cuore; per un attimo le vennero
gli occhi
lucidi, ma poi ruppe il momento romantico scoppiando a ridere.
«Hai
ragione. Devo smetterla di buttarmi giù da sola, non
migliorerò la
situazione in questo modo»
«Ecco,
questa è la April che conosco, finalmente!»
trillò May.
«Grazie»
«E
di cosa? Ti ho solo detto quello che penso, e che dovresti infilarti
in testa pure tu»
«Ci
proverò!» rispose April, di nuovo con un sorriso
sulle labbra tinte
di rosso.
«Grazie
per la chiacchierata, ora è meglio che torni a lavoro che se
si
accorgono della mia assenza, altro che “inserita nel mondo
del
lavoro”... Sarò una disoccupata!»
«Certo
tesoro, vai pure. Ci sentiamo stasera, va bene?»
«Assolutamente!
A stasera» concluse.
«A
stasera!»
April
allontanò il telefono dall'orecchio premendo la cornetta
rossa che
lampeggiava sullo schermo.
Sorrise.
Sì,
le sensazioni erano tutte nella mia testa.
Quando
Aaron varcò la soglia dell'ascensore – che in
quell'ultimo periodo
lo accompagnava nei suoi ritardi con la sua sempre più
estrema
lentezza – non tentò nemmeno di fingere di
salutare Daphne, la
segretaria: si lanciò verso l'ufficio di Tom, esattamente di
fronte
al suo, spalancando la porta di scatto e facendola sbattere.
«Eccomi
eccomi eccomi. Sono
arrivato!»
quasi urlò quelle parole, un leggero fiatone che lo
accompagnava.
Tom,
seduto di fronte alla sua scrivania, non alzò gli occhi dal
suo
computer.
«Ed
era anche l'ora» rispose seccato.
Aaron
alzò gli occhi al cielo.
«Avanti,
non fare così! Ti ho già detto che c'è
stato un incidente e-»
«...e
il traffico era bloccato. Sì, lo so» lo
anticipò, alzando
finalmente lo sguardo verso di lui.
«Nevil
ha detto qualcosa?» bofonchiò il rosso, dopo
qualche secondo. Tom
fece spallucce.
«No.
Credo che in qualche modo se lo aspettasse, ormai ti conosce»
rispose.
«Perfetto.
Allora...» si interruppe, guardandolo dubbioso. Mettergli
fretta o
no? Minimo ci avrebbe guadagnato un fermacarte in testa.
Infatti
Tom gli lanciò un'occhiataccia.
«Allora
cosa? Sono io che sto aspettando te eh. Muoviti a mollare le tue cose
in ufficio, io ti aspetto da Nevil» fece Tom, alzandosi e
afferrando
una chiavetta sul tavolo.
Aaron
non protestò – anche perché non avrebbe
potuto permetterselo –
e corse nel proprio ufficio, levandosi giacca, poggiando la borsa e
tirando fuori cartelle varie e album da disegno.
Prima
di uscire, si diede un leggero sguardo allo specchio posto vicino
all'entrata – che poi, perché c'era uno specchio
in un ufficio?
Certo, era utile, ma... - e notò i suoi capelli sconvolti:
con uno
sguardo sconsolato cercò disperatamente di sistemarli in
qualche
modo, ma quelli non avevano la minima intenzione di rimanere
giù,
perciò si arrese al ciuffo in mezzo alla testa che sembrava
intenzionato a rimanere lì impalato, come uno
spaventapasseri in un
campo di grano.
La
giornata continua sempre meglio,
pensò funereo.
Andò
nell'ufficio di Nevil e, trovando la porta chiusa, bussò
educato.
Una
voce bassa gli rispose dall'interno, invitandolo ad entrare,
perciò
abbassò la maniglia ed entrò in quell'ufficio
grande almeno tre
volte il suo; beh, Nevil era il capo, sarebbe stato strano il
contrario.
Vide
l'uomo bellamente spalmato sulla sua poltrona in pelle nera, di
fronte a lui un bicchiere di acqua e limone, che lo guardava senza
espressione.
Era
vestito con il solito abito scuro, che in qualche modo stonava con
l'ambiente attorno, ricco di gadget per videogiochi, console, foto
appese che lo ritraevano con guru del mondo del gaming; vederlo
così
serio in un ambiente più casual faceva sempre un po'
sorridere
Aaron.
«Buongiorno
Nevil» fece educato, con un cenno di sorriso. L'uomo aveva
sempre
insistito per venire chiamato con il solo nome, per
“aumentare il
cameratismo in questo posto”, diceva lui. Non che per loro
fosse un
problema, anzi, toglieva quella rigidita formalità propria
di tutti
i rapporti capo-sottoposti.
«Aaron.
Anche oggi in ritardo, eh?»
Aaron
arrossì imbarazzato, avvicinandosi alla scrivania.
Lanciò uno
sguardo a Tom, seduto su una delle due poltrone di fronte al tavolo,
che lo guardava con un ghigno divertito.
Bastardo.
«Mi
spiace, c'è stato un incidente e sono rimasto bloccato nel
traffico»
tentò di scusarsi.
«Sì,
sì, Tom mi ha già spiegato. Rimane il fatto che
sei sempre il
solito che si becca tutte le sfortune» fece con un sorriso a
metà
tra l'ironico e il divertito.
«Che
ci posso fare, la sfortuna mi ama» replicò Aaron,
sforzandosi di
non mandarlo a quel paese: era pur sempre il suo capo, suvvia.
«Tom
mi stava dicendo che avete finito le bozze per il nuovo progetto.
Come sembra?» fece poi, cambiando di netto argomento.
Mentre
Tom si alzava per inserire la chiavetta nella televisione nella
parete opposta, Aaron aprì l'album da disegno.
«Allora,
ci hanno consegnato i temi e la bozza della storia base: il materiale
è buono, sembra interessante, questi sono i primi schizzi
che ho
fatto come prova. Io e Tom abbiamo scelto i migliori e io li ho
sviluppati con il programma, mentre Tom si occupava di fare le
ambientazioni. Ci è parso di capire che la struttura doveva
essere
medievaleggiante ma combinare l'antico con strutture tecnologiche.
È
abbastanza complesso combinare i due elementi senza farli stonare
troppo, io e Tom ci stiamo lavorando» spiegò;
porse vari fogli a
Nevil, alcuni con schizzi in bianco e nero e altri a colori. Nel
frattempo Tom apriva la cartella sulla televisione e iniziava a far
scorrere le varie immagini, mentre Nevil alternava lo sguardo tra i
fogli nelle sue mani e la tv.
Non
diceva nulla, tanto che Aaron e Tom si lanciarono uno sguardo
dubbioso: possibile che gli facesse schifo?
«Non
ti piace?» azzardò dopo vari secondi Tom.
I
due ragazzi guardarono Nevil con sguardo dubbioso, lanciandosi poi
un'occhiata.
Ok,
gli fa schifo,
pensò depresso Aaron. Eppure non gli sembrava
così male; cioè, ci
avevano pure lavorato tutta la notte, il risultato non era da
buttare. Certo, c'era bisogno di alcuni aggiustamenti, ma come prima
presentazione non era per niente male.
«Eh?»
rispose Nevil, quasi cadendo dalle nuvole.
I
due ragazzi lo guardarono confusi.
«Non
ti piace?» ripeté Tom.
Nevil
lo guardò e poi scoppiò a ridere.
«No,
no, certo che mi piace! È un buon lavoro come sempre,
ragazzi. Stavo
pensando a una cosa» rispose.
Aaron,
dentro di sé, tirò un sospiro di sollievo.
«E
cosa?» si azzardò poi a chiedere.
Nevil
lo guardò di sottocchio, un poco dubbioso. Poi
sospirò, poggiò i
fogli sulla scrivania e si lasciò andare sulla poltrona,
incrociando
le braccia.
Ok,
questa cosa non mi sta piacendo,
pensò con un brivido Aaron.
Sembrava
tanto serio, e la cosa non gli piaceva.
«C'è
stata fatta una proposta per creare un gioco sulla base di una
graphic novel»
iniziò.
Aaron
lanciò uno sguardo a Tom, che ricambiò l'occhiata.
Beh,
proprio non capiva il motivo del suo tono serio. Certo, entrambi
preferivano lavorare su prodotti originali, piuttosto che basare i
giochi su fumetti, graphic novel o simili – avevano maggiore
libertà, e lavorare con gli autori spesso era fastidioso
– ma alla
fine l'avevano già fatto e non era andato male.
«E
quindi?» chiese Tom.
«Quindi...»
iniziò Nevil, tacendo un attimo, poi guardò Aaron
«Il problema non
è tanto Tom, ma tu, Aaron»
Aaron
si immobilizzò.
Oddio,
pensò solo. E ora che aveva fatto?
Ora
mi licenzia,
fu l'unica cosa che gli venne in mente. Bene, poteva dire addio al
suo appartamento e tornare a casa dai suoi. Che tristezza.
Ma
non fece in tempo a dire qualsiasi cosa, dato che Nevil riprese
subito a parlare dopo aver preso un sorso dal suo bicchiere di acqua
e limone.
«Il
progetto su cui dovreste lavorare è bello, molto
interessante,
basato su un target over 18, ha già un numero sostanzioso di
fan
quindi ci sarebbero buone vendite – ovviamente, se riuscirete
a essere abbastanza fedeli alla storia, sapete come sono i fan in
queste cose: si attaccano a qualsiasi insulso dettaglio
sbagliato»
continuò.
«E
dove starebbe il mio problema?» chiese a quel punto Aaron,
confuso
da tutto ciò. Non riusciva proprio a capire dove fosse.
«L'autore
ha chiesto di essere partecipe del progetto, altrimenti non se ne fa
niente» continuò Nevil, continuando a evitare il
nocciolo del
problema.
«L'abbiamo
già fatto altre volte, Nevil. Puoi essere più
chiaro riguardo il
problema relativo ad Aaron?» insistette Tom.
«L'autore
è una ragazza» rispose secco l'uomo.
«Oh»
disse Tom.
Oh,
pensò solo Aaron, sbiancando.
«Dimmi
che scherzi» fece solo funereo. Nevil sospirò
esausto.
«Perché
dovrei scherzare su questo?» chiese retorico
«Aaron, ascoltami
bene: è un buon progetto, potrebbe portarvi molta fama
– la
graphic novel ha ottenuto molto successo – voi siete tra i
migliori
qui, mi fido del vostro modo di lavorare e credo che possiate fare un
buon lavoro... Ma tu devi mettere da parte la tua stupida
fobia»
fece secco.
Aaron
strinse i pugni, cercando di ignorare quel
“stupida” che lo fece
irritare e basta.
«Pare
che tutti pensino che io mi causo questa fobia da solo, giusto per
dar fastidio alle persone» disse solo sarcastico.
«Aaron...»
lo richiamò Tom.
Aaron
lo guardò infastidito, ma consapevole che avesse ragione.
Non poteva
di certo mettersi a litigare con il suo capo.
«Posso
provarci. Ma non ti prometto nulla» disse alla fine.
“Provarci”
era una parola grossa: non avrebbe soltanto dovuto scambiarci due
parole, ma lavorarci assieme per vario tempo – e ok, c'era
Tom, ma
questo non migliorava la situazione.
«Ti
lascio i disegni qui, se c'è qualcosa che non ti convince
chiamami»
disse infine, ed uscì dall'ufficio con un “buona
giornata” che
di buono non aveva proprio niente.
Andò
nel suo ufficio e si chiuse dentro, prendendo una bottiglietta
d'acqua e bevendola tutta nella speranza che lo facesse in qualche
modo calmare. Non cambiò la situazione.
Si
sedette sulla sedia girevole dietro la scrivania, sospirando.
Evviva.
Fino
a quel momento il suo lavoro non gli aveva mai dato grossi problemi
relativi a quella sua fobia – escludendo la segretaria e
altre
poche donne che ogni tanto facevano capolino lì dentro, ma
in fondo
non gli era mai capitato di dover lavorare con altre donne.
Generalmente quello non era un campo amato dal sesso femminile, era
stato tranquillo crogiolandosi in quell'idea che, sapeva, fosse
comunque molto labile. Non era comunque strano che una ragazzza si
appassionasse a cose del genere, però c'era sempre stata
quella –
stupida – speranza.
«Posso
entrare?»
La
voce di Tom lo distolse dai suoi pensieri, facendogli alzare lo
sguardo; la porta era socchiusa e la testa di Tom sporgeva dentro.
«Sì»
rispose solo.
L'amico
entrò chiudendo la porta dietro di sé e poi
mettendosi le mani in
tasca; Aaron sentiva il suo sguardo addosso in maniera fastidiosa.
«Puoi
parlare eh» disse alla fine.
«Sei
stato un po' brusco» disse l'amico.
Aaron
scrollò le spalle. Lo sapeva, ma non gli importava.
«Dovresti
fare qualcosa per farti passare questa fobia. Non puoi andare avanti
così, ti causa anche problemi al lavoro. Hai detto che ci
proverai,
ma sai anche tu che poi dovrò sopportare tutti i tuoi
attacchi
isterici» continuò Tom.
Aaron
si alzò di scatto.
«Cosa
credi, che la situazione mi diverta? Lo ripeto, dato che magari sono
stato poco chiaro: non
mi causo la fobia da solo.
Mettetevelo in testa» disse secco.
Tom
sbuffò.
«Lo
so, che credi? Proprio perché non te la crei da solo, non
pensi di
dover andare da qualcuno che possa aiutarti?» chiese, stanco.
Aaron
rise sarcastico.
«No.
Ci penserò da solo» disse infine. Poi
andò verso la porta e la
spalancò «Ora vorrei lavorare. Grazie»
Tom
lo guardò in silenzio. Non disse nulla e uscì
dalla stanza,
lasciando che Aaron la chiudesse dietro di lui.
Finalmente
da solo, il rosso si passò una mano sui capelli e
sospirò.
Ok,
è ufficialmente una giornata di merda.