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Autore: CaptainKonny    06/02/2017    7 recensioni
"Quando hai accettato la tua vita e sei pronta ad affrontare il tuo futuro.
Quando ti senti abbastanza forte, credendo che il passato non potrà mai tornare a farti del male.
...E poi arriva uno psicopatico a smontare il tutto."
***
Mi chiamo Serena Brooks e Aaron Hotchner è mio padre...e si è appena fatto rapire dal mio prossimo S.I.
Il vero problema è che io non voglio avere niente a che fare con mio padre.
***
[Dal testo della canzone "Daddy's little girl": Daddy, daddy, don't leave/I'll do anything to keep you right here with me/I'll clean my room, try hard in school/I'll be good, I promise you/Father, Father, I pray to you]
***
Un ringraziamento speciale ad una persona molto importante che ha contribuito alla revisione della storia una volta ultimata.
Genere: Azione, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Aaron Hotchner, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: Missing Moments, Movieverse, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 4

 
“E forse capirai, quanto vali
Potrei darti il mondo, tranne me”
 
(FLASHBACK)

-Lo sai vero che non fa paura il tuo costume?-

-Se per questo neanche il tuo.-

-Io però ho la maschera.-

-Bambini basta litigare, altrimenti stasera niente giro del quartiere.- li riprese Haley.

I due bambini si guardarono in silenzio, scambiandosi ancora un paio di linguacce. Avevano aspettato con ansia quel giorno, la notte di Halloween, per poter stare svegli fino a tardi, bussando di casa in casa, sperando che i vicini riempissero di caramelle i loro sacchetti colorati. Si stavano provando per la centesima volta i loro costumi nuovi, rimirandosi davanti allo specchio come solo i bambini sanno fare. Serena si stava ravviando i capelli, indecisa se lasciarli sciolti o legarli, la coroncina d’argento scintillava come una stella sui suoi capelli scuri. Mentre il vestitino da fatina era di uno sgargiante rosa confetto, il tulle ricoperto di brillantini svolazzava sulle balze della gonna che le arrivava sopra il ginocchio. Sotto, un paio di calze lunghe bianche e scarpe da ginnastica del medesimo colore ai piedi. La bacchetta di plastica, ricoperta da brillantini d’argento, sostava sul mobiletto del bagno, sotto lo sguardo non convinto della sua padroncina. Aveva la netta sensazione che il contrasto creato dai suoi capelli e il vestito fosse decisamente eccessivo. Quando quella mattina aveva sottoposto il suo dubbio alla mamma, questa le si era messa guancia contro guancia davanti allo specchio e le aveva detto che secondo lei era bellissima e che anche l’amica di Trilli aveva i capelli scuri. Serena aveva precisato che quello era un cartone e la madre le aveva dato un sonoro bacio sulla guancia in risposta, aggiungendo che non tutte le fatine erano uguali ed era quello il bello, inoltre che lo sapeva che lei adorava i suoi capelli. La bambina aveva arricciato il naso in un’espressione molto buffa, ben sapendo che il motivo era che lei e suo padre si assomigliavano molto. Un destino più clemente invece era toccato al suo fratellone. Spiderman: costume in scatola chiusa, tutto completo. A partire dai pantaloni, la maglia, i guanti, gli stivali da infilare sopra le scarpe e poi c’erano la maschera e le ricariche di finta ragnatela. Si era accostato a lei davanti allo specchio, i pugni sui fianchi, gonfiando il petto e trattenendo il respiro. Serena lo aveva incenerito con lo sguardo dall’invidia, ma il bambino era talmente preso dalla sua immagine da non essersene nemmeno accorto. Mimava il suo cartone animato preferito, fingendo di scagliare ragnatele contro lo specchio.

-Sei ridicolo.- aveva commentato seria la sorella.

-Sei solo invidiosa perché vorresti averle anche tu.-

-Se fosse per quello mi sarei travestita anche io da Spiderman.-

-Tu non puoi.- quel commento secco le aveva fatto più male di quello che diede a vedere.

-Perché?-

-Perché sei una femmina.- Jack non lo disse con cattiveria, ma tutta quella superficialità iniziava a irritarla parecchio.

-Anche le femmine possono travestirsi da maschi.-

-No.-

-Sì, invece.-

-Invece no.-

-E invece sì.-

-E invece no.- senza accorgersene, nell’urlare il bambino aveva stretto troppo il piccolo pugno, azionando l’ingranaggio della finta ragnatela. Un getto di schiuma bianca colpì in pieno la gonna di Serena, la quale lo guardò con gli occhi spalancati, non credendo possibile che lui avesse potuto farlo davvero. Non bastava il suo riflesso, ci si metteva pure suo fratello. Quella serata non si era da fare. Urlò.

-Mamma, Jack mi ha spruzzato la gonna con la bomboletta!-

-Jack, sbaglio o ti avevo detto di non usare quell’affare in casa? Tantomeno contro tua sorella.- disse la voce della madre dalla cucina.

-Ma è stato un incidente.- piagnucolò il bambino, sbuffando incompreso mentre Serena era corsa in cucina con le lacrime agli occhi dall’indignazione. Perché non gliene andava una giusta?
 

Adesso stavano finendo di mettere a posto le loro camerette, condizione che aveva imposto loro la mamma se volevano mangiare qualche dolcetto quella sera stessa. Haley nel frattempo aveva chiuso tutte le finestre e fatto entrare la “sorpresa” per i bambini di soppiatto in camera propria. Ne era certa, sarebbero rimasti letteralmente a bocca aperta.

-Bambini, mancano cinque minuti all’ora “x”, come siete messi?-

-Pronto.- Jack uscì in corridoio con la mano destra alzata sulla fronte in un saluto militare. Serena lo imitò con qualche secondo di ritardo, ma anziché fare il saluto, guardò confusa il fratello che la stava aspettando.

-Perché non hai messo il costume?- gli chiese lei, notando che Jack non indossava la tutina rossa di Spiderman, ma era vestito molto elegante: camicia, giacca e pantaloni classici e una cravatta allacciata un po’ a caso. L’unica cosa a essere fuori posto erano le scarpe da ginnastica bianche e blu. Jack non ebbe modo di rispondere, poiché la madre riscosse entrambi dai loro pensieri.

-Allora? Guardate che la sorpresa la tengo tutta per me altrimenti.-

Alla parola sorpresa i due bambini schizzarono di corsa in salotto, per poi bloccarsi di colpo all’ingresso della stanza. Dalle loro espressioni si capiva palesemente che erano indecisi tra lo stare ammutoliti e confusi oppure urlare di gioia.

Aaron Hotchner era in piedi dietro al divano, girato verso di loro, guardandoli con un sopracciglio alzato come quando sta per dire loro qualcosa di serio. A tradirlo gli angoli della bocca leggermente sollevati verso l’alto, divertito da quella buffa scenetta. Il loro papà era tornato! Ce l’aveva fatta. Era tornato per passare Halloween con loro. Visto che nessuno si decideva a rompere il ghiaccio ci pensò lui stesso.

-Wow, quello non assomiglia al costume di Spiderman.-

Jack lo fissò dal basso verso l’alto con i suoi grandi occhi marroni, prima di riuscire di nuovo a parlare.

-Sono te papino.- e sorrise, stringendo gli occhi e facendo così nascere due graziose fossette sulle piccole guance. Tutti videro Aaron accucciarsi ed allargare le braccia, permettendo al suo primogenito di fiondarglisi addosso, gettargli le braccine al collo e nascondere il viso nel maglione rosso. Lo sollevò, stringendolo delicatamente, ma trasmettendogli tutto l’affetto che un genitore prova per i propri figli. Nessuno però vide il respiro profondo che gli aveva gonfiato il petto d’orgoglio all’udire le parole del suo piccolo. Suo figlio gli aveva detto che si sarebbe travestito dal suo eroe. Haley gli aveva comunicato i vestiti che aveva comprato ai bambini. E lui che aveva pensato di fare una sorpresa a loro, era stato invece premiato con una sorpresa ancor più bella.

Serena era ancora ferma al suo posto, adesso tutto tornava e la punta della bacchetta rivolta verso il pavimento rispecchiava perfettamente il suo umore. Nel momento in cui aveva visto il padre tutto il mondo si era fermato, nemmeno Halloween e i dolcetti avevano più importanza. Solo che il suo papà era tornato a casa. Poi suo fratello aveva detto quelle tre parole ed era stato come se qualcuno le avesse rotto un uovo in testa. Brividi freddi e la paura di non saper fare altrettanto. Il suo papà non aveva mai fatto preferenze tra lei e suo fratello, ma se jack era un tipo spigliato ed espansivo, lei non lo era. L’unica persona con cui le piaceva parlare era il suo papà. Certe volte con uno sguardo si capivano al volo, tanto che la madre quando si arrabbiava con lei non mancava mai di aggiungere “Sei proprio figlia di tuo padre!”. Ma adesso che capiva l’importanza di quello che aveva fatto suo fratello, si sentiva inutile. Se prima il suo costume le era sembrato difettoso adesso era decisamente fuori posto. Oh, quanto avrebbe voluto avere lei quell’idea! Adesso, mentre li guardava abbracciati si sentiva incapace di attirare l’attenzione su di sé; perché certe cose dovevano essere così maledettamente difficili? Non se ne era resa conto, tantomeno si era posta il problema, quando l’immagine di Jack e suo padre aveva iniziato a farsi offuscata. Le lacrime le impedivano di vedere e le manine non le erano mai parse così pesanti ciondolanti ai suoi fianchi. Persino le loro voci apparivano lontane, come in un sogno.

-Papà, allora vieni anche tu stasera?- Jack si era staccato dal collo del padre per poterlo guardare e il genitore aveva sorriso divertito a quell’ovvia domanda.

-Ma certo. Così poi posso mangiare tutte le vostre caramelle.- e aveva finto di mangiare una mano del figlio, il quale era scoppiato in una risata sguaiata.

-Ehi Serena, hai sentito? Papà viene con noi!- il piccolo Hotchner si era interrotto subito, facendosi serio. Aveva visto il viso serio e rigato di lacrime della sorella e si era voltato verso il papà –Perché Serena piange?- poi si era fatto mettere giù.

Aaron depose a terra il figlio, sospirando; sapeva in cuor suo del perché la sua bimba stesse piangendo. Faceva la forte e la sostenuta, litigava e difendeva al contempo il fratello, ma la realtà era che era molto sensibile e fragile. E sapeva che il suo costante allontanamento era uno di quei motivi. Lo sapeva perché anche a lui mancava terribilmente la sua famiglia, i suoi figli prima di tutto, e ad affrontare peggio la cosa era Serena, perché lei era come lui, si teneva tutto dentro. Haley non sbagliava quando diceva che erano identici. Aveva posato Jack a terra per potersi avvicinare a Serena, ma il bimbo lo aveva preceduto. Era andato da lei e l’aveva circondata con le braccia, accarezzandole i capelli neri e dandole ogni tanto qualche bacio consolatore. La bimba si era portata le manine a coprirsi gli occhi, non tentando più di nascondere il suo pianto.

-Su non piangere.- le disse Jack.

Aaron le si avvicinò, accucciandosi alla loro altezza, le sue labbra piegate in un sorriso rassicurante, gli occhi nocciola luminosi come quelli del figlio.

-Ehi Principessa, che succede?- la bambina, piano piano, mostrò i suoi occhi pieni di lacrime. Il papà era davanti a lei e le stava sorridendo.

-Non vieni a salutarmi?- disse, allungando le mani verso di lei, i palmi alzati, aspettando. Serena avrebbe tanto voluto smettere di piangere, il suo papà era tornato e la stava invitando in uno dei suoi caldi e rassicuranti abbracci.

-Papà.- lo chiamò lei con voce impastata di pianto.

-Sono qui tesoro.- la rassicurò ancora lui.

-Papà…- questa volta Serena si scagliò in una breve corsa contro di lui, finendo dritta fra le sue braccia, buttandogli le proprie attorno al collo, stringendo il più forte possibile, come se fosse bastato quello a non farlo andare più via.

-Tesoro, così soffochi il papà!- disse dolcemente la madre, in piedi poco più in là. Ma nessuno dei due sembrava sentirla. Ad Aaron non dispiaceva quella stretta ferrea attorno al suo collo, anzi gli era mancata, come quella del suo piccolo Jack. Chiuse gli occhi, godendosi il momento di poter stringere a sé i suoi figli, ascoltando quei singhiozzo contro il palmo della sua mano che piano piano andavano diminuendo. D’altra parte Serena non ci pensò un solo momento di mollare la presa. Il papà non aveva detto niente, perciò andava bene così. Il viso affondato nel suo collo, inspirando il suo profumo attraverso il maglione; quanto le era mancato!

-Mi sei mancato tanto.- bofonchiò ad un certo punto, senza sollevare la testa. A quelle parole il genitore la strinse un poco più forte contro al suo petto.

-Anche voi mi siete mancati. Tanto.- rispose lui, facendo cenno a jack di avvicinarsi. Il bambino si aggrappò alla sua gamba e Aaron lo strinse a sé, in un abbraccio collettivo.

 
Quella fu la serata più piacevole di tutte. Sembrava che persino il freddo di Novembre avesse deciso per quella sera di ritirarsi, lasciando al suo posto un lieve tepore; probabilmente proveniente dalle tante bancarelle al cui fianco stavano accesi fuochi con sopra ogni tipo di leccornia. La famiglia Hotchner procedeva lungo il marciapiede con passo tranquillo: marito e moglie a braccetto, lei con la testa appoggiata sulla spalla di lui, entrambi con il sorriso sulle labbra mentre i loro occhi osservavano vigili sui due bambini pochi metri avanti a loro, saltellando tra una risata e l’altra, scuotendo in maniera poco rassicurante i sacchetti carichi di dolci. Erano rare le giornate come quella e forse proprio perché erano poche, avevano imparato a non sprecarne ogni singolo momento, godendone appieno.

Quando rientrarono era molto tardi. Serena e Jack trascinavano esausti i piedini sul pavimento. Gli occhi si chiudevano ad ogni passo barcollante che facevano. Aaron ed Haley li accompagnarono a lavarsi i denti e infilarsi il pigiamino, poi via sotto una montagna di coperte. Essendo poche le volte che era a casa, quando c’era spettava a lui rimboccare le coperte ai figli, in modo che non avvertissero quella differenza quando era assente. Haley diede la buonanotte, dando a ciascuno un bacio sulla fronte; la stanza illuminata solo dalle abatjour sui due comodini. Aaron si chinò prima accanto al letto di Jack, quasi completamente addormentato, lo guardava con occhi stretti stretti.

-Buonanotte Campione.- gli sussurrò sorridendo.

Siamo stati grandi stasera, vero papà?- domandò il bambino esibendosi contemporaneamente in un prodigioso sbadiglio. Aaron gli scompigliò i capelli.

-Certo, grandissimi. Ora dormi. Ci vediamo domattina.- e gli diede un bacio sulla fronte.

-Buonanotte.-

-Notte.- guardò il figlio girarsi su un fianco e addormentarsi all’istante. Spense la lampada e si avvicinò all’altro letto dove invece Serena sembrava aver recuperato le energie. Ma dietro quei grandi occhioni l’uomo riusciva ad intravedere la stanchezza celata. Si chinò su di lei.

-E tu perché non dormi? Non hai sonno?-

-Posso chiederti una cosa? Ma solo se non lo dici a mamma.-

-Non riesci proprio ad aspettare domani?- Serena non rispose, ma per Aaron quel silenzio valeva più di mille parole: sì avrebbe potuto aspettare, ma quello era un momento propizio dove poter parlare indisturbati e il giorno dopo non poteva promettere che al loro risveglio ci sarebbe stato; erano piccoli, ma alla fine lo avevano capito. –D’accordo allora, cosa vuoi chiedermi?-

-Tu non ci lascerai mai, vero?- eccola, la domanda tipica che ogni bambino prima o poi, nella sua breve infanzia pone al genitore. Nel suo caso però poteva essere interpretata in modi diversi: che intendesse lasciarli ogni giorno oppure che morisse? Faceva il poliziotto e di conseguenza correva dei rischi, alcune volte non indifferenti. Aaron ricordava perfettamente che anche per Haley non era stato facile accettare l’idea di vederlo uscire, partire per il mondo, tutti i giorni e ogni volta non sapere se avrebbe fatto ritorno a casa. Per quanto riguardava lui aveva dovuto accettare il fatto e conviverci, era il suo lavoro e gli piaceva, quindi non poteva fare altrimenti. Questo non voleva dire che non gli importasse della sua famiglia; assolutamente. Rivedere i loro visi a fine giornata, nel peggiore dei casi a fine indagine, era la ricompensa più grande per lui.

-No, tesoro. Non vi lascerò mai, ne te, ne Jack, ne la mamma.-

-Sai, ho visto un sacco di cartoni, ma in tutti muore qualcuno. Bambi perde la mamma, Simba il papà, Biancaneve e Cenerentola la mamma. Io non voglio che tu muoia, piuttosto preferisco non diventare grande.- gli occhi le si erano inumiditi mentre parlava.

-Ehi ehi ehi, dov’è la mia bambina coraggiosa?- cercò di fermare in tempo quel pianto, prendendole il faccino tra le grandi mani e passando sulle morbide guance i pollici, in un gesto rassicurante –Non devi pensare queste brutte cose.-

-Sì, ma tu vai via sempre. Fai il poliziotto e mamma dice che è pericoloso e lei è triste quando tu vai via.-

-Anche io sono triste e mamma ha ragione nel dire che è un lavoro pericoloso. Ma ti voglio dire una cosa: anche quando non sono a casa io sono sempre con voi, qui dentro- le mise un dito all’altezza del cuore –proprio come voi siete con me. Lo saremo sempre, qualunque cosa accada. Hai capito?- Serena annuì con la testa.

-Sì, ma non è la stessa cosa di quando sei qui.-

-Senti, facciamo un patto: io ti prometto che mi impegnerò a tornare sempre a casa, se tu mi prometti che sarai forte, più forte dei cattivi pensieri. Affare fatto?-

-Okay.- Aaron si chinò a baciarle la fronte.

-Buonanotte Principessa.-

-Buonanotte papà.- Serena gli strinse ancora una volta le braccia al collo in un breve abbraccio, gli diede un tenero bacino sulla guancia e lo lasciò andare.

Serena rimase a guardare il padre spegnere l’ultima luce della stanza, alzarsi, dare un ultimo sguardo ai suoi figli, finchè la porta non si fu chiusa del tutto.

Aaron appoggiò per un istante la fronte al legno della porta, ancora preso da quell’ultimo scambio di parole –Non vi abbandonerò mai Serena, ne te ne Jack. Te lo prometto.- bisbigliò, forse più a sé stesso. Quello che non poteva sapere era che la bambina, con gli occhi ancora spalancati nel buio, aveva sentito tutto, ancora fissando il punto in cui lui era scomparso –Ti voglio bene papino.- mormorò alla porta chiusa.

(FINE FLASHBACK)
 

BAU TEAM

-Trovata! La macchina è parcheggiata in Broadway St.- annunciò la voce squillante di Penelope dall’altoparlante della macchina.

-E’ dove abita Hotch.- constatò amaramente Derek –Questo vuol dire che il rapitore lo ha atteso pazientemente in auto, aspettando che arrivasse a destinazione per mettere in atto il suo piano. Oppure…-

-Sapeva dove abitava e ha aspettato semplicemente che tornasse.- concluse per lui David, seduto sul sedile del passeggero.

-Se è così, il rapitore ha avuto molto tempo per organizzarsi e questo potrebbe voler dire che è stato molto attento a non lasciare tracce.- osservò l’agente di colore. Quella storia lo stava facendo innervosire parecchio.

-Allora speriamo che non sia così. Grazie Garcia, chiamaci se hai altre novità!-

-Agli ordini, passo e chiudo.-

La tranquillità del quartiere trasmetteva una sorta di disagio nei due agenti. La gente chiacchierava, faceva jogging, curava il giardino, senza sapere che un loro vicino quella notte era stato rapito; quando la vittima avrebbe potuto essere chiunque di loro. Derek parcheggiò di fronte al vialetto della casa del proprio capo. Le tapparelle abbassate suggerivano che in casa non ci fosse nessuno, troppo tardi perché il proprietario potesse essere ancora a dormire. In quel momento il cuore dell’agente prese a pompare forte, un terribile dubbio lo aveva colto alla sprovvista, facendo vacillare le proprie certezze.

-Morgan, tutto a posto?- Rossi si era voltato indietro, notando che il collega non lo aveva seguito quando si era avviato verso la scena del crimine. In quel momento notò quanto la preoccupazione contraesse i lineamenti del giovane uomo. Derek levò gli occhi nocciola a cercare un sostegno in quelli dell’amico più anziano.

-Stavo pensando, l’S.I. ha detto di aver rapito Hotch. E se invece lo avesse ucciso?-  condividere quel brutto pensiero lo fece da un lato sentire meglio, ma dall’altro fu come conferire concretezza a quell’idea.

-Come ti salta in mente una cosa del genere? Ascolta, capisco tu sia scombussolato, lo siamo tutti. Ma, se ci rifletti, lo sai benissimo anche tu che Hotch non è in quella casa. Sei un ottimo profiler e sai bene che l’S.I. non avrebbe mai ucciso Hotch, in tal caso non ci avrebbe telefonato e non avrebbe fatto richieste. È una faccenda personale per lui. Adesso però bisogna che ritorni in te, non ci servirai a niente se non riuscirai ad essere lucido. Quindi prendi un bel respiro e quando sei pronto io sarò dentro ad aspettarti.-

Bastarono quelle parole, furono come acqua gelida, ebbero il potere di farlo tornare in sé. Sapeva che David aveva ragione, ma in quel momento aveva avuto bisogno di qualcuno che gli confermasse i fatti. Hotch era stato come un padre per loro e adesso che lui non c’era si sentiva un po’ smarrito, quasi dubitasse delle proprie capacità. No, doveva concentrarsi. Hotch aveva bisogno di loro e se c’era qualcuno che poteva scoprire come aveva agito l’S.I. e perché, quello era lui. Derek avanzò con aria determinata lungo il vialetto, Rossi scrutava le inferriate cercando di individuarne una qualche anomalia.

-Io passo dalla porta principale, tu dal retro. Ci vediamo dentro.-

Derek eseguì. Fece il giro della casa, scrutando alberi, cespugli, muretti, qualunque cosa potesse indicargli che da lì era passato qualcuno o si era appostato per un breve periodo di tempo, persino un vaso fuori posto. Nulla. La porta era massiccia tanto quella d’entrata. Provò ad aprirla, niente. I vetri erano intatti, perciò era da scartare anche quell’idea. Si accucciò al livello della serratura, analizzandone la fessura. Ad una rapida occhiata sembrava intatta, ma vi si potevano notare, con un po’ più di attenzione, dei graffi come se qualcuno avesse tentato di aprirla con qualcosa di affilato. Derek notò inoltre che la placchetta rettangolare che la ricopriva, aveva una delle quattro viti allentata. Non di tanto, ma la cosa bastò per attirare la sua attenzione. Tastò con una mano la stabilità della placchetta, era fissata perfettamente, eppure quella vite fuori di due giri lo insospettiva. Tirò fuori la sua torcia portatile, puntandola contro l’oggetto incriminato. Con la mano libera afferrò meglio che poté la placca, tirandola in avanti. La luce illuminò quello che aveva tutta l’aria di essere un foro sfalsato. L’ S.I. a quanto pareva aveva svitato l’intera serratura, per poi entrare in tutta comodità e rimettere tutto a posto. Derek bussò al vetro, aspettando che il collega venisse ad aprirgli.

-Trovato qualcosa?- gli chiese quest’ultimo.

-Guarda qua! Ha smontato e rimontato tutto alla perfezione, ma ha sbagliato un foro.-

-Qualcuno deve averlo pur sentito usare il trapano.-

-Magari ha usato un cacciavite.- propose Derek.

-No, ci avrebbe messo troppo tempo.-

-Se ha usato un trapano di notte di sicuro qualcuno l’ha sentito, questo è un quartiere tranquillo, non fai casino dopo una determinata ora. Mentre se lo avesse fatto di giorno qualcuno di sicuro l’ha visto.-

-Potrebbe essersi fatto passare per un operaio, nessuno ci avrebbe fatto caso.-

-Ad ogni modo, sapeva di avere il tempo e a propria disposizione. Ha commesso un errore, ma ha fatto tutto con calma calcolata. Forse non gli importava nemmeno che capissimo come aveva fatto ad entrare. Tu, trovato qualcosa?-

David gli fece cenno di seguirlo in casa. L’interno era buio pesto, Rossi accese la luce della cucina e a seguire quella della sala. La scena di fronte a loro lasciava ben poco all’immaginazione: mobilia rovesciata, soprammobili rotti, schizzi di sangue sul tappeto e sulle pareti.

-Hotch ha lottato prima di venire sopraffatto dall’S.I.- constatò Derek.

-E’ quello che ho pensato io. Quello che mi chiedo è perché? Sarebbe stato molto più facile per lui neutralizzarlo per poi portarlo via. Invece ha preferito lo scontro diretto.- disse con cipiglio pensieroso l’agente più anziano.

-Come hai detto tu prima, per il rapitore è una cosa personale. Riuscire ad avere un faccia  a faccia con lui potrebbe essergli stato motivo di adrenalina. Sa di riuscire nel suo piano, perciò fa in modo di godersi ogni singolo momento prolungandolo il più a lungo possibile.-

-Hotch è di corporatura massiccia e sa come difendersi, questo vuol dire che il nostro uomo è in ottima salute, sa combattere e molto probabilmente non supera la cinquantina di anni. Bisogna tener conto che non solo ha messo al tappeto un agente, ma lo ha anche trascinato fuori e caricato in macchina; questo denota una certa resistenza.-

-Non sono state usate armi da fuoco, almeno quella di Hotch non ha sparato.- disse Derek, dopo aver trovato la pistola del proprio capo abbandonata vicino al corridoio d’entrata.
-L’S.I. non avrà voluto far rumore.-

-Avrebbe potuto usare un silenziatore.-

-Troppo rapito, sarebbe successo tutto troppo in fretta, quindi non ne avrebbe tratto alcuna scarica emotiva.- Derek percorse il corridoio adiacente alla stanza.

-L’S.I. lo stava aspettando in sala quando è arrivato. Hotch ha avuto solo il tempo di entrare, chiudere la porta e depositare gli effetti personali. Dopo di che…ha estratto la pistola.-

-E se l’avesse tirata fuori dopo il faccia a faccia con l’S.I.?-

-L’S.I. ci ha dimostrato di conoscere molto bene tutta la squadra. Ha un piano e vuole rispettarlo. Sa che Hotch è un ottimo profiler, cercare il faccia a faccia senza prima neutralizzarlo avrebbe voluto dire correre il rischio che qualcosa andasse storto.-

-Perché non uscire allora? O telefonarci? Avremmo capito che c’era qualcosa che non andava.- David aveva la netta impressione che qualcosa continuasse a sfuggirgli, Derek sospirò amareggiato.

-Non lo so. Probabilmente avrà pensato di potercela fare da solo, oppure che l’S.I. capisse di essere stato scoperto e quindi poi agendo velocemente non sarebbe riuscito a difendersi.-

Rossi tornò in salotto, guardando con sguardo preoccupante quegli inquietanti schizzi cremisi.

-Ad ogni modo chiama la scientifica, voglio sapere tuto ciò che riescono a trovare.- era preoccupato. Si era aspettato di tutto, ma il ritrovamento di tracce di sangue era pur sempre un’incognita difficile da decifrare.

-A cosa pensi?- gli chiese Derek dopo aver riposto il telefono.

-Dalla quantità di sangue Hotch è ferito, ma dovrebbe cavarsela.-

-L’S.I. ci sarà andato giù pesante se voleva sopraffarlo senza una pistola.-

-Spero che parte di quel sangue sia dell’S.I.- Rossi volse lo sguardo verso il collega e fu il suo turno di trovarlo pensieroso –Cosa c’è che non ti convince?-

-Niente, sembra tutto fin troppo chiaro. Spero solo che l’S.I. non abbia usato quel silenziatore.-

-Credi che possa averlo usato?-

-Potrebbe essere se Hotch fosse stato in netto vantaggio su di lui.-

-Quindi il proiettile non sarebbe uscito.-

-In tal caso non abbiamo la più pallida idea di in che condizioni sia.- concluse Rossi; quel caso stava mettendo le loro menti e il loro sangue freddo a dura prova.

Fecero un breve giro del quartiere, bussando di casa in casa, chiedendo se qualcuno avesse visto o sentito qualcosa. I vicini che abitavano di fronte a Hotch erano in vacanza, perciò quella che avrebbe potuto essere una traccia importante se la videro sfumare davanti agli occhi: se ci fossero stati avrebbero avuto una perfetta visuale dell’S.I. e avrebbero potuto dare una svolta all’indagine, invece nulla. Gli altri andavano avanti e indietro dal lavoro, qualcuno non aveva visto nessuno, altri pensavano di aver visto un operaio e sentito rumori di trapano, ma nessuno era abbastanza sicuro da poterlo confermare al cento per cento. In poche parole in mano non avevano niente. Avevano bisogno di buone notizie.

-La Dea del Sapere è in ascolto.- annunciò la voce di Penelope all’altoparlante.

-Bambolina dicci che hai trovato qualcosa.- rispose Derek con un sospiro.

-Non esattamente. Di criminali messi in prigione da Hotch e poi fatti uscire per diversi motivi ce ne sono davvero tanti.-

-Garcia, restringi il campo a quelli vendicativi che possono essere venuti a conoscenza della vita privata di Hotch.- le suggerì David, tornando alla carica. Hotch era una persona riservata e dopo l’omicidio di Jack aveva fatto in modo che nessuno sapesse dell’esistenza della figlia. In tal caso l’assassino poteva risalire da prima della morte di Jack. Eppure una vocina dentro di lui sembrava imporgli la calma, di non dare giudizi troppo affrettati per non cadere in errore. Di errori, con i minuti contati, non se ne potevano permettere. La famiglia Hotchner era stata spezzata per ben due volte, adesso toccava a loro impedire che accadesse una terza.

-Mi ci vorrà un po’ di tempo. Farò un controllo incrociato, magari l’S.I. ha saputo tutto da qualche detenuto ancora in prigione.-

-Siamo nelle tue mani.- sospirò David prima di riattaccare.

Quando l’ascensore si aprì sull’openspace i due agenti trovarono i colleghi radunati attorno alla scrivania di JJ. Spencer era seduto su una sedia, lo sguardo pensieroso, ragionando ad una qualche teoria, mentre mordicchiava il fondo di una matita col fare tipico di un ragazzino, JJ e Emily erano in piedi, la prima con le braccia incrociate, più nervosa dell’altra, e stavano parlando con qualcuno.

-Eccoli, trovato niente?- la prima a notarli fu la bionda, visibilmente in ansia.

-L’S.I. è entrato in casa sua ed è rimasto ad aspettarlo.- rispose David.

-Qualcuno l’ha visto?- si aggiunse Emily, anche lei nel medesimo stato emotivo della collega.

-Nessuno è sicuro di quello che ha visto. Si parla di un operaio, ma niente che ci possa essere di aiuto.- disse Derek.

-Abbiamo chiamato la scientifica, vediamo cosa riescono a trovare. In questo momento Garcia sta facendo un controllo incrociato fra i detenuti; speriamo trovi qualcosa.-

Passarono un paio di minuti di silenzio dopo le parole di David, preparando la domanda bomba, quella di cui tutti volevano la risposta, ma nessuno osava porla.

-Siete riusciti a capire come l’hanno rapito?- coraggiosa JJ.

-A quanto pare l’S.I. ha cercato il confronto diretto, la pistola di Hotch era sul pavimento ancora carica.- rispose Derek, non sapendo se accennare o omettere il dettaglio delle tracce di sangue, almeno finchè non ne avessero saputo di più. Fu David a scegliere per entrambi.

-C’erano anche…delle tracce di sangue.- ecco gli effetti della bomba, JJ si portò una mano alla fronte e Emily sbarrò gli occhi, Reid corrugò le sopracciglia. Derek sapeva che così facendo il più giovane del gruppo inspessiva la propria muraglia, cercando di autosalvaguardarsi. Si odiò per questo, sin dal primo giorno per lui Spencer era stato come un cucciolo da proteggere e lui si era autoproclamato suo protettore, poco importava se il cucciolo aveva dato prova di essere cresciuto, di sapersela cavare, per lui le cose sarebbero rimaste sempre così. Eppure in quel momento si sentiva terribilmente inutile. –Non sappiamo se appartenga a Hotch, all’S.I. o a entrambi. In tal caso possiamo presumere che non sia ferito gravemente, non se l’S.I. vuole passarci del tempo.-

-Ci sarà andato giù pesante, Hotch non è uno che si fa mettere al tappeto facilmente.- disse Emily, tirando le somme.

-E’ quello che abbiamo pensato anche noi.- convenne Derek.

-E se invece gli avessero sparato?- la voce provenne da dietro le due donne, che subito si fecero in disparte, troppo curiose di ricevere gli aggiornamenti del caso tanto che si erano dimenticate della loro ospite.

I due uomini si ritrovarono a fissare una ragazza alta quasi quanto JJ, dal vestiario si sarebbe mescolata tranquillamente tra di loro, passando inosservata: jeans, camicia bianca, maglioncino nero a collo largo e maniche lunghe strette sui polsi. A colpirli di più però fu il suo viso, per la precisione il suo sguardo. I capelli scuri erano tagliati corti, divisi sul lato sinistro e tenuti al loro posto col gel; proprio come Hotch. La bocca aveva labbra piene, ma era dritta e seria; proprio come lo era il più delle volte quella del loro capo. I suoi occhi erano chiari, di diverse sfumature tendenti al verde; diversamente da Hotch che li aveva marroni. Ma il suo sguardo, freddo e distaccato, calcolatore, era proprio quello dell’agente speciale Aaron Hotchner. David e Derek non poterono fare a meno di pensare che quella che avevano davanti era niente poco di meno che un Aaron Hotchner in gonnella. La domanda nel frattempo era rimasta sospesa tra di loro qualche secondo di troppo. David fu il primo a riscuotersi.
 
-Abbiamo pensato anche a quello, ma non avendone la certezza è preferibile basarci su quello che abbiamo. Bossoli e fori di proiettile non ne abbiamo trovati, perciò ritengo che per quanto ferito l’agente Hotchner stia bene. Tu devi essere Serena Brooks.-

-Sì, sono io.- rispose l’altra, accennando un cordiale sorriso in segno di educazione, gli occhi le brillarono e David seppe che li stava analizzando, proprio come loro si sarebbero comportati con chiunque altro. Non teneva le braccia incrociate, in segno di difesa, anzi teneva le mani nelle tasche anteriori dei jeans, segno che non li temeva e non li riteneva ostili, si reputava all’altezza della situazione. David trattenne una risata; pur essendosi persi di vista per così tanto tempo i due Hotchner si assomigliavano più di quanto essi stessi potessero immaginare.

-Ben arrivata. Io sono l’agente David Rossi e lui è l’agente Derek Morgan. Siamo felici tu abbia accettato di collaborare.-

-Agente Rossi, voglio ricordarle che l’agente speciale Aaron Hotchner è pur sempre mio padre.- i quattro agenti nella stanza rimasero basiti, persino la pacatezza era la stessa del loro capo.

-Cosa stiamo aspettando? Diamoci da fare.-
  
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