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Autore: CaptainKonny    07/02/2017    6 recensioni
"Quando hai accettato la tua vita e sei pronta ad affrontare il tuo futuro.
Quando ti senti abbastanza forte, credendo che il passato non potrà mai tornare a farti del male.
...E poi arriva uno psicopatico a smontare il tutto."
***
Mi chiamo Serena Brooks e Aaron Hotchner è mio padre...e si è appena fatto rapire dal mio prossimo S.I.
Il vero problema è che io non voglio avere niente a che fare con mio padre.
***
[Dal testo della canzone "Daddy's little girl": Daddy, daddy, don't leave/I'll do anything to keep you right here with me/I'll clean my room, try hard in school/I'll be good, I promise you/Father, Father, I pray to you]
***
Un ringraziamento speciale ad una persona molto importante che ha contribuito alla revisione della storia una volta ultimata.
Genere: Azione, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Aaron Hotchner, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: Missing Moments, Movieverse, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 5

 
POV. HOTCH

Non so quanto tempo impiegai per tornare alla realtà, a me però sembrò un’eternità. Rumori, suoni, sensazioni, tutto appariva troppo lontano e distorto affinché potessi riuscire a metterlo a fuoco. Se da un lato mi sentivo bene nel mio stato confusionale, dall’altro percepivo l’urgenza di risvegliarmi. Non ricordavo il perché, ma dopo anni nell’FBI riconoscevo perfettamente quella sensazione che mi attanagliava: qualcuno era in pericolo e io dovevo fare di tutto per aiutarlo. Nel momento in cui tornai a vedere la testa parve esplodermi dal male, peggio di un post sbronza. Mi sentivo il corpo rigido e intirizzito per diversi motivi: primo fra tutti l’immobilità prolungata, in secondo luogo le contusioni e gli ematomi che mi ero procurato durante la colluttazione con il mio aggressore (senza contare quelli inferti gratuitamente) dolevano oltre ogni dire, mi sentivo un vero rottame. Per finire, la posizione. L’uomo aveva avuto l’accortezza di legarmi ad un letto malmesso, con il materasso polveroso di mesi, se non di anni, le braccia sollevate oltre la mia testa dove delle morse di ferro legavano insieme i miei polsi e la catena a cui erano legati li teneva inchiodati alla testata del letto. Avevo anche le caviglie chiuse nelle morse, queste però erano fissate agli angoli del letto. Non potevo assolutamente muovermi. Non so quanto avrei dato per poter abbassare le braccia, le mani le sentivo ghiacciate. In poco tempo avevo capito che quell’uomo era una persona estremamente calma, paziente ed organizzata. In poche ore mi aveva privato dell’autonomia, della capacità di difendermi e di aiutare gli altri. Tentai di muovere un poco il busto, tutto ciò che ottenni furono infinite fitte di dolore. Scrutai nel buio, non avevo la più pallida idea di dove mi trovassi. Sicuramente era un posto abbandonato da tempo e c’avrei scommesso l’osso del collo che non era vicino ad altre strutture funzionanti; in tal caso ero sicuro avrebbe provveduto a tapparmi anche la bocca. Non che me ne fosse rimasta molta di voce, mi sentivo la gola dolorante dal troppo mutismo e dall’arsura, non ricordavo nemmeno quando fosse stata l’ultima volta che avevo bevuto; sulla lingua sentivo solo il sapore ferroso del sangue. Ad ogni modo quel posto doveva essere abbastanza grande da avere almeno più stanze sullo stesso piano. Quella in cui mi trovavo doveva essere una vecchia dispensa, poiché l’umidità percepita era nettamente inferiore a quella che ci sarebbe dovuta essere in un posto del genere. Probabilmente in passato era stata usata per evitare che gli alimenti andassero a male.

Inoltre ero convinto che il mio rapitore non se ne andasse in giro mentre ero incosciente, in fin dei conti sapeva che la mia unità era la migliore al mondo e che presto o tardi avrebbero capito chi si nascondesse dietro la maschera.

Quando sentii la porta in metallo alle mie spalle cigolare mi irrigidii, il cuore aumentò il battito; dovevo nasconderglielo, dimostrargli la massima calma e freddezza. Aveva un’aria boriosa, il sorriso soddisfatto di chi è compiaciuto della propria opera. Vestito tutto di nero, senza maschera, stava in piedi di fronte a me. Che senso avrebbe avuto continuare a portarla quando la preda è incatenata?

-Buongiorno agente Hotchner, dormito bene?- aveva una voce squillante a tal punto da sembrare vomitevole, tipo quella dei pupazzi stupidi nel talk show.

-Avrei dormito meglio nel mio letto.- risposi secco, faticando a far uscire la voce. Lui ampliò il suo sorriso.

-M’immagino.- poi si girò a prendere qualcosa che aveva portato con sé: da una borraccia versò dell’acqua in un bicchiere; istintivamente deglutii. Necessitavo di liquidi in quel momento.

-Ho pensato che avrebbe apprezzato.- disse lui facendosi vicino.

-E’ avvelenata?- gli domandai con le sopraccigli aggrottate; poteva sembrare stupido, ma non dovevo mostrarmi debole ai suoi occhi.

-Lei mi stupisce agente Hotchner. Perché avrei dovuto sprecare tanta fatica a portarla qui se la volevo morta? In tal caso l’avrei uccisa immediatamente, non crede?- spalancò gli occhi con fare psicopatico, piegando la bocca in una smorfia. Non lo avrei mai ammesso apertamente, ma quel tipo era inquietante. Tornò a sorridere. –Quindi cosa ha deciso? Si fiderà di me oppure no?- non so quanto a lungo lo fissai.

-Per favore, ho sete.- non gli avrei dato la soddisfazione di scendere a compromessi con lui. Se gli avessi detto che mi fidavo, gli avrei dato automaticamente il permesso di controllarmi, facendo apparire lui totalmente padrone della situazione; mi sarei strangolato con le mie stesse mani. Invece, così facendo, mi ero assicurato una via di fuga. I suoi occhi diedero in un guizzo; lui lo sapeva. Si accucciò in parte a me, porgendomi il bicchiere. Alzai il capo, ci provai vista la scomoda posizione. Le labbra sfiorarono la plastica del bicchiere che lui poco alla volta inclinava. L’acqua non mi era mai parsa così buona e fresca.

-Con calma agente, non vorrà strozzarsi.- mi prese in giro ridacchiando, ma avevo veramente tanta sete. Qualche goccia sfuggì, rigandomi il mento. Quando finii, tornò ad alzarsi, appoggiò sul tavolo alle sue spalle il bicchiere e poi si appoggiò al ripiano, guardandomi come si guarda un’opera d’arte di cui si è orgogliosi. Dovevo sapere cosa gli passava per la testa.

-Che hai da guardare?- gli domandai severo, come se non fossi incatenato ad un letto.

-Che c’è agente Hotchner? Ce l’hai ancora con me per quella telefonata?- sorrise.

Strattonai i polsi e strinsi i denti. Farabutto! Potevo fingere quanto volevo, ma lui lo sapeva bene e anche io. Le mie difese avevano iniziato a vacillare dopo quella telefonata.
 

Quella era stata la prima volta che mi ero svegliato.

Seduto su di una sedia, in mezzo alla stanza, legato con corde ruvide e strette che mi graffiavano la pelle, come se tutte le percosse che le avevano precedute non fossero state sufficienti. La luce sopra di me era talmente forte da ferirmi gli occhi. L’uomo in piedi di fronte a me era praticamente invisibile. Mi sentivo privo di qualsiasi energia, potevo sentire i muscoli pulsare dal male; ero impotente.

-Che cosa succede agente? Si sente poco bene?-

Quella voce. Avrei voluto tapparmi le orecchie tanto era acuta, persino i timpani mi facevano male. Assomigliava tanto all’odiosa vocina delle marionette, come quelle dei clown. Strizzai gli occhi. Più ascoltavo il mio corpo più mi sembrava di impazzire, persino respirare mi faceva dolere  il petto. Dovevo assolutamente distrarmi, pensare ad altro, la mente era la chiave di tutto, perché così era sempre stato. Mi sforzai per mettere a fuoco quel volto, immagini e colori riaffiorarono dai ricordi. Ricordavo di averlo già visto, così come ricordavo alcune caratteristiche del caso in cui lo arrestammo. No, io lo arrestai. Ecco perché ce l’aveva con me, come avevo potuto non arrivarci prima? L’unica cosa che continuava a sfuggirmi era il suo nome, non riuscivo proprio a ricordarlo. Eppure, qualcosa dentro di me mi diceva che era importante.

Nel frattempo lui continuava a parlarmi, ma io ero troppo confuso per capire quello che mi stava dicendo. L’unica cosa che sentii chiaramente, come lo schiocco di una frusta, fu la sua acutissima risata. Quando il silenzio calò e lui scomparì nell’ombra che mi circondava, mi concessi di avere paura, di non sapere dove fossi ne cosa mi sarebbe successo. Il dolore era talmente forte da mozzarmi il respiro di tanto in tanto. Passarono i secondi, i minuti, le ore. E io attesi. Quello che non mi aspettai fu il getto di acqua gelida che mi investì in testa. Annaspai. Non era molta ma era ghiacciata. Tutti i miei sensi si erano risvegliati di colpo e violentemente, facendomi scattare. Questo ovviamente fu la causa di una nuova ondata di fitte dolorose che mi attraversarono il corpo facendomi tremare. Inchiodai il mio sguardo truce contro quello del mio aguzzino, apparentemente tranquillo. Aveva proprio lo sguardo di un pagliaccio e si sa: i criminali più pericolosi sono quelli che sembrano innocui.

-Stia tranquillo, andrà tutto bene. Presto avremo gente.-

Non ero tranquillo, non lo ero per niente. Cosa voleva dire? Parlava di altri psicopatici come lui o di altre vittime? Il fatto che potesse coinvolgere altre persone innocenti nel suo gioco perverso mi provocò un tuffo al cuore: non sarei stato di alcun aiuto.

-Di che parli?-

La mia voce gracchiava dalla spossatezza, sulla lingua avevo il sapore del sangue dovuto alla colluttazione nel salotto di casa mia.

-Che ne diresti se Serena venisse a farci compagnia?-

Sbarrai gli occhi, non poteva essere! Il muro che mi ero costruito, quello che avrebbe dovuto permettere ad entrambi di essere al sicuro, si stava sgretolando tutt’intorno a me. Sarei precipitato se non fossi stato legato a quella sedia. Lui aveva pronunciato solo il nome, poteva trattarsi di chiunque altro, ma in quello sguardo che ci teneva legati capii che stava parlando proprio di lei, della mia Serena. Fui preso dal panico, non me l’aspettavo, e vacillai. L’agente speciale Hotchner stava per lasciare il posto ad Aaron, l’uomo. Ero cosciente che da quel momento in avanti mantenere il mio perpetuo distacco, con quell’uomo sarebbe stato impossibile. Non glielo diedi a vedere, ma in quel momento quei suoi occhi neri come pece sembravano riuscire a leggermi l’anima.

-Che c’è? Il gatto le ha mangiato la lingua?-

-Non so di cosa tu stia parlando.-

Mentire in quel momento sembrava la scelta migliore. Per lo meno potevo guadagnare tempo, farlo parlare e quindi scoprire qualcosa di lui; come le sue debolezze. Tuttavia, se lui non sembrava volermi dar corda, il mio cervello era praticamente diviso in due: la parte che voleva interrogare il rapitore senza nome e la parte che ancora non si capacitava di come potesse sapere di Serena. Come aveva fatto a sapere di lei? Ero stato attentissimo a non lasciare tracce nel corso degli anni. Avevo sacrificato il nostro rapporto per proteggerla dalla gente come lui e ora sembrava non essere servito a niente.

Strinsi le mani attorno alle corde, dovevo resistere, non dimostrarmi debole. Lui rise, sinceramente divertito dalla mia affermazione. Quando tornò a guardarmi capii che sapeva, che ero uno sciocco se pensavo davvero di cavarmela così. Non lo disse apertamente, il suo sguardo bastò per farmi chiudere la bocca dello stomaco, preoccupato oltre ogni dire per quello che sarebbe potuto succedere da quel momento in avanti. Non c’era più solo la mia vita in ballo adesso e la persona predestinata a condividere la mia sorte non era una qualsiasi. Le carte in tavola erano state cambiate radicalmente, tutte a suo favore. Dopo aver aspettato che assorbissi quella notizia, giusto per farmi crollare un poco alla volta, si spostò di lato, mostrandomi cosa c’era appoggiato sul tavolino alle sue spalle: un telefono bianco, di quelli con la cornetta ancora collegata all’apparecchio. Un brivido freddo mi percorse da capo a piedi quando afferrò la cornetta e iniziò a comporre il numero.

-Che vuoi fare?-

Tentai di mantenere la voce controllata, ma in fondo in fondo si poteva distinguere un’inclinazione di terrore. Si limitò a guardarmi, senza rispondere. Temevo che stesse veramente per telefonare a mia cognata, che Serena quindi fosse stata in pericolo ancora prima che io potessi saperlo. Che pessimo padre ero stato; e poi mi ritenevo un ottimo agente dell’FBI. Sudavo freddo, al diavolo il dolore, quello era passato in secondo piano.

-Pronto?-

Chiusi gli occhi e tirai un sospiro di sollievo quando sentii la voce di JJ dall’altra parte dell’apparecchio. L’uomo confessò il mio rapimento, parlando con baldanza ai miei agenti, dimostrando che li conosceva. Riconobbi David che prendeva in mano la situazione dopo che Morgan aveva perso le staffe. Lui gli disse che voleva parlare con Serena Brooks, senza rivelare che fosse mia figlia. Gli piaceva il gusto della caccia, così come quando la preda ero stata io. Lo eccitavano l’attesa e la conquista. Inoltre capii che lui non sapeva dove si trovasse Serena, il suo scopo era quello di utilizzare la mia squadra per arrivarci. Astuto, ma non aveva messo in conto che quando i ragazzi avrebbero trovato Serena, non l’avrebbero mai messa in pericolo. Se avessi dovuto affidare la mia stessa vita nelle mani di qualcuno, quella era la mia unità. Perciò il sapere di avere ancora tempo e che lei sarebbe stata al sicuro era tutto ciò che mi occorreva per tranquillizzarmi. Le sue minacce di usare me come passatempo non sembrarono poi così minacciose dopo quelle certezze.

Mi osservò con uno sguardo curiosamente calmo per tutto il resto della telefonata. Quando riagganciò passarono alcuni secondi di silenzio, in cui decisi che con lui non avrei mentito su quella storia, tanto sapeva che io volevo trovare un modo per esporlo, farlo uscire allo scoperto. In poche parole farlo andare fuori di sé, cosa non proprio ottimale considerando che ero io quello legato alla sedia.

-Devi lasciarla in pace.-

La sua espressione mutò con una velocità allarmante. Mi guardava come se gli avessi fatto il più grande torto della sua vita. Con una lentezza paurosa si slacciò la cintura e se la tolse, arrotolando la parte in eccesso attorno alla mano sinistra, il tutto senza perdere il contatto visivo. Mezzo metro di cintura ciondolava inesorabile come un pendolo che scandisce il tempo, la fibbia in fondo. Il cuore mi batteva furioso nel petto, sapevo che stava per succedere qualcosa. Fu uno scatto, rapido e letale come quello di un cobra. Per un lungo momento vidi rosso e sentii bruciare. Strinsi i denti per non urlare. La fibbia mi aveva colpito alla tempia con violenza, ero certo mi avesse procurato un taglio dal bruciore, ma niente di grave. Voleva farmi del male, glielo leggevo in quegli occhi calmi, dietro cui si nascondeva una personalità malata di violenza, ma non mi avrebbe ucciso. Anche la sua voce era calma quando mi parlò.

-Davvero? Altrimenti, cosa mi farai? Non puoi più proteggerla agente Hotchner. Hai smesso di farlo nel momento stesso in cui l’hai abbandonata.-

-Non l’ho abbandonata.-

-No? Sta pur certo che glielo chiederemo. Dopo tutti questi anni. Sola. Cosa credi abbia pensato? Il mio paparino preferisce il suo lavoro a me.- fece il verso sorridendo; sapeva di aver toccato un tasto dolente.

Non risposi, non avrei saputo cosa dire. Non era vero che preferivo il mio lavoro alla mia famiglia, Serena era tutto ciò che mi rimaneva. Ma era pur vero che in tutti quegli anni ci eravamo sentiti talmente poco…non sapevo nemmeno che faccia avesse. Negli ultimi tempi ci eravamo sentiti solo tramite telefonate, lettere o cartoline. Vivevamo a poche ore di distanza, ma era un modo come un altro per sentirci vicini, come un gioco.

-Cosa fai? Non rispondi più? Eh? Non rispondi più?-

La fibbia calò su di me ancora, e ancora, e ancora. In punti diversi. Con forza. Lividi si sarebbero andati a formare insieme a quelli già esistenti.
 

-Agente? Agente, si è per caso incantato?-

Tornai nella cella, incatenato al letto. Quanto a lungo mi ero perso nei meandri della mia mente? Lui stava in piedi di fronte a me, appoggiato al tavolo, studiandomi.

-Perché si comporta così? Perché non ce la sbrighiamo tra noi?-

-Ahahah, troppo semplice agente Hotchner.- rise lui, divertito quasi si trattasse di un patetico sotterfugio da parte di un bambino.

-Siamo abbastanza grandi per poterlo fare mi sembra.- insistetti con diplomazia.

Sghignazzò, mentre si riavvicinava al letto, osservando qualcosa al di sotto del mio viso. Mi preparai afferrando la catena, qualunque cosa avesse in mente di fare non era assolutamente innocua. I suoi occhi scattarono nei miei, come uno spettro che ti compare davanti all’improvviso, le sue sopracciglia si sollevarono.

-Bel tentativo.-

Tirò violentemente. Il nodo della cravatta sempre più in alto, sempre più stretto. Strattonai le braccia inutilmente. Strinsi i denti, non potevo difendermi. Il respiro mozzato, non mi arrivava aria. Il cuore batteva sempre più forte. Il suo sorriso sopra di me. Non avevo più fiato. Dalla bocca aperta non usciva e non entrava niente. Persino l’udito era scomparso, sentivo solo il battito cardiaco. Davanti ai miei occhi iniziarono a comparire dei puntini neri. Poi, come mi era stato tolto, il permesso di respirare mi fu riaccordato. L’uomo si sollevò da me, in una mano il coltello che mi aveva salvato, nell’altra la mia cravatta tagliata che fissava pensieroso. Tossii, tornando a respirare. Quanto avrei voluto massaggiarmi la gola bruciante. Altro sangue mi si riversò sul palato, forse dovuto alla rottura di qualche piccola vena secondaria.

-Adesso, anche tu pagherai.- si voltò a guardarmi –Per quello che hai fatto.- ed eccola, la sua rabbia, mascherata sotto una facciata di autocontrollo.

-Ricordi? Sei stato tu a darmi la caccia e sei stato sempre tu a mettermi dietro le sbarre. La domanda è: perché?- sembrava veramente inconsapevole del motivo, ma sapevo che era un’altra domanda trabocchetto. Se avessi dato la risposta sbagliata me la sarei vista ancora più brutta di quello che già mi spettava. Così non dissi nulla.

-Io avevo solo protetto i miei figli. E per questo tu mi hai dato la caccia.-

Scagliò lontano la cravatta, i suoi occhi mandavano lampi.

-Lo sai cosa mi hanno fatto agente? Eh, lo sai? Mi hanno picchiato. Un buon padre di famiglia come me! Non importava che fosse giorno o notte, loro non mi lasciavano in pace. Ed è stata solo colpa tua.- dopo lo sfogo, prese un bel respiro profondo, chiudendo gli occhi, richiamando la calma.

-Perciò. Adesso. Anche tu pagherai agente Hotchner. Per quello che hai fatto a tua figlia.- si avvicinò minaccioso ed io lanciai un fugace sguardo allarmato al coltello che ancora teneva in mano.

-Non puoi paragonarmi a te. Lo sai bene. Tu hai ucciso i tuoi figli.- dissi e lui si bloccò sul posto, scrutandomi. Lo presi come un invito a continuare e lo feci –Hai assassinato i tuoi figli, tua moglie e altre famiglie innocenti.-

Uno. Due. Tre. Violenti colpi al fianco, inferti con il manico del coltello. Avevo gli occhi lucidi dal male, senza contare i postumi del quasi soffocamento di poco prima. Il rapitore era così vicino, abbassò la voce quando dovette parlare, quasi dovesse rivelarmi un segreto.

-Hai ragione. L’ho fatto. E adesso, anche tu, vedrai morire tua figlia. E tutto per causa tua. Ma prima…- si sollevò, pronto ad infliggere la propria sentenza.

A quelle parole una morsa mi aveva attanagliato all’altezza del petto. Riuscii a sperare solo che i presupposti che mi ero fatto sulla mia squadra fossero esatti, prima che l’impugnatura di quel coltello cadesse su di me così tante volte, con così tanta violenza, da quasi impedire di oppormi, fino a perdere i sensi.
  
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