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Autore: sam_di_angelo    08/02/2017    0 recensioni
«Non permettere alle tue ferite di trasformarti in ciò che non sei.»
Difficile, quando le tue ferite diventano quotidiano dolore, quando non si rimarginano, quando ti strappano qualcosa che non potrà mai più tornare indietro.
Prima dell'incidente, non ho mai dato peso a ciò che la natura mi ha regalato alla nascita: i fiori erano colorati, profumati, fragili sotto le dita, ma mi sembrava una cosa così scontata che solo Dio sa quanto stessi sbagliando.
Un ragazzo, un incidente, un dolore.
Una ragazza, niente memoria, un segreto.
La danza, l'amore, una storia.
© SamDiAngelo - Tutti i diritti riservati
Genere: Drammatico, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Park Jimin, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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BLIND - Oltre la nebbia


«Non permettere alle tue ferite di trasformarti in ciò che non sei.»

Difficile, quando le tue ferite diventano quotidiano dolore, quando non si rimarginano, quando ti strappano qualcosa che non potrà mai più tornare indietro.

Prima dell'incidente, non ho mai dato peso a ciò che la natura mi ha regalato alla nascita: i fiori erano colorati, profumati, fragili sotto le dita, ma mi sembrava una cosa così scontata che solo Dio sa quanto stessi sbagliando.

Dell'incidente ricordo tutto. Ricordo l'impatto, il dolore che esplodeva nel mio corpo, le ossa frantumarsi, la mia ultima preghiera; quella di morire. Sì, perché quando sei ad un passo dalla morte e vivere significa provare quel dolore straziante, lacerante, preferisci lasciarti cadere nelle sue braccia nere e farla finita.

I fari della macchina, l'ultima cosa che ho visto. Nel vero senso della parola. Da tre anni a questa parte, i fiori hanno perso i loro colori, e mi sono ritrovato addirittura a rimpiangere quella luce abbagliante. Quella che mi ha inondato lo sguardo, prima che mille schegge di metallo mi squarciassero i bulbi oculari.

***

«Jimin... Come ti senti, tesoro?» ignoro la voce di mia madre e mi allungo verso il comodino, il letto scricchiola sotto il mio peso. I miei polpastrelli incontrano il legno freddo e rugoso, scivolano sulla superficie in cerca del mio oggetto. Avverto un leggero fruscio accanto alla mia mano e capisco che la donna mi ha preceduto. La sento stagliarsi in piedi, come ogni giorno, accanto al mio letto.

«Tieni...» giro il palmo verso l'alto e lei ci lascia cadere il mio anello.

E' freddo, proprio come la giornata di oggi.

«Sei sicuro di non volere un passaggio?» stringo la presa e sento le unghie affondarmi nel palmo. Ancora una volta la ignoro e mi infilo il cerchio metallico all'anulare sinistro, come se fossi sposato con la mia disgrazia.

«Me lo chiedi ogni giorno. Mamma, sono cieco, non invalido.» mi metto a sedere, cerco il bastone appoggiato al letto. Fa freddissimo e come ogni mattina vorrei solo abbandonarmi fra le coperte e dormire.

«Jimin...» la pietà che traspare dalla sua voce mi rende matto. Ingoio il nodo che ho in gola e non appena trovo il mio fedele compagno di avventura mi dirigo lentamente verso la cucina.

Se c'è una cosa che ho sempre amato è la libertà, e l'indipendenza. Non poter vedere non significa dover rinunciare alla propria autonomia.

Mi siedo al mio tavolo e inizio a mangiare in silenzio quello che la mamma mi ha preparato. So benissimo dove posiziona il piatto, le posate, lo sciroppo d'acero da versare sui pancakes. E' una delle cose che più mi mancano dell'America. Quello sciroppo d'acero buono, paradisiaco e dolce sulla lingua.

Lascio che il passato scivoli giù nella mia gola accompagnato dal latte e caffè e mi alzo. Oggi è una giornata come tutte, e come sempre compio la stessa, noiosa routine.

Appoggio le mani al lavandino di ceramica. Ghiacciato anche questo. Lo ricordo bianco, lucido. Alzo la testa per incontrare il mio riflesso nello specchio, ma come al solito tutto ciò che vedo è il buio. Mia madre dice che sono bello come una volta, ma non le credo. Mi immagino: con le occhiaie nere, le cicatrici dei tanti interventi che ho subito, e, soprattutto, le iridi non più color nocciola, ma azzurre. Di un azzurro latteo, spento, segno che forse tre anni fa sono caduto davvero nelle braccia della morte, ma senza morire del tutto nel corpo. A dir poco terrificante.

Se c'è una cosa che ho imparato, è carpire gli sguardi. Riesco a leggerli sulla pelle, come se al momento in cui ho perso la vista io avessi accesso un sesto senso.

Quello che sento sul mio viso adesso è compassione, dolore e sofferenza. Immagino gli occhi di mia madre, pieni di lacrime. Neanche me lo ricordo più il suo viso. Ho il terrore di dimenticarlo, ed è per questo che continuo a tenermi in allenamento, sforzando la mente a disegnare i contorni dolci del suo viso, con tutti i colori caldi che gli appartenevano: la pelle ambrata, i capelli color cioccolato, morbidi come onde, le labbra piene e rosee, le guance, gli occhi a mandarla e i denti bianchi e dritti. Mi manca da morire poter vedere il suo sorriso. O poter sentire il suo sorriso. Non sorride mai.

Dalla Corea, all'America. Dall'America, all'Italia. Penso, ripercorrendo a ritroso la mia esistenza. Ho imparato a parlare tre lingue diverse. Sono finito in una piccola città nel sud dell'Italia, proprio nel tacco, e da tre anni a questa parte posso benissimo capire e parlare italiano. Una delle cose di cui i miei genitori sono fieri, delle poche cose.

Mentre aspetto l'autobus che mi porterà a scuola, al mio liceo scientifico, assaporo l'odore del mare e penso: chissà se è azzurro come nelle fotografie. Dicono che il mare italiano sia il più bello; non potrò mai saperlo.

Il bus arriva. Si aprono le porte e mi avvicino leggermente.

«Questo è il numero cinque?» sto sudando sotto gli occhiali da sole che ho sul naso.

«Sì, figliolo, sono Franco.» sorrido.

«Buongiorno Frank!» sento l'autista spegnere il motore e scendere dal mezzo. Si dirige verso di me, mi prende sotto braccio e mi aiuta a salire e a trovare un posto per sedermi.

«Grazie Frank, gentilissimo come sempre.»

«Sai che lo faccio con piacere.» adoro i giorni in cui Franco è di servizio. E' una delle persone più gentili che conosca. Le macchine dietro il bus iniziano a suonare i clacson. Franco li manda a quel paese con un'espressione del dialetto di questa città e riparte.

E io sorrido sentendolo.

***

Conto i minuti che mi separano dalla libertà. Il mio dito scivola sui pallini in rilievo mentre leggo il Paradiso di Dante. O almeno, ci provo. Sono così annoiato che non sto capendo nulla.

La mia carriera, da ballerino. Dio, quanto mi manca.

Avrei dovuto fare il mio debutto in Corea in un gruppo musicale formato da altri sei ragazzi, un gruppo k-pop. Mi allenavo costantemente, e pensavo solo e soltanto alla danza.

Poi, dopo l'incidente, sono volato in America per sei mesi, sono stato sotto i ferri dei migliori chirurghi. I miei hanno speso tutto il loro patrimonio, per nulla. Nessuna tecnica innovativa ha funzionato, e io mi sono risvegliato cieco, con la voglia di morire e senza niente nel petto.

Però, la cecità non mi ha impedito di continuare a ballare. Ogni giorno, per tutto il pomeriggio, mi chiudo nella scuola di danza vicino casa. La mia insegnante, Aurora, mi aiuta a creare coreografie a dir poco meravigliose. Lo so, anche se non posso vedermi. Mi immagino.

Quando ballo mi sembra di poter volare: chiudo tutto il mondo fuori. Ci sono solo io, la musica che riempie il mio vuoto, ed è tutto magia.

L'unico momento in cui mi sento davvero vivo.

Non mi importa dei concorsi, delle competizioni, e Aurora lo sa: ballo soltanto per vivere. Lei dice che vede me come la pura essenza della danza, vede la purezza e la bellezza. Ma purezza e bellezza per me, è solo e soltanto la danza, non sono io.

Le lancette dell'orologio sembrano pigre e lente, più del solito.

«Che ore sono?» domando a Matilda, la mia professoressa di sostegno. Mi aiuta negli studi e coordina il mio lavoro scolastico. E' molto dolce e gentile, anche se a volte mi da così tante cose da studiare che vorrei sparire dalla faccia della terra.

«Jimin, ancora? Me lo hai chiesto due minuti fa...» faccio spallucce.

«Voglio andare a danza.» le dico sinceramente.

«Lo so, ma se non ti concentri, il tempo passerà ancora più lentamente.» sento la sua mano poggiarsi sulla mia. Il suo tocco è tiepido e delicato, proprio come la sua voce. «Dai, leggiamo insieme.» ha ragione, se mi concentro il tempo passerà più in fretta. Prendo coraggio e leggo.

"Quel sol che pria d'amor mi scaldò 'l petto, di bella verità m'avea scoverto, provando e riprovando, il dolce aspetto."

 
   
 
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