Flutti
mortali mi
circondarono, torrenti esiziali mi travolsero, mi avvolsero vincoli
infernali, mi avvinsero lacci di morte.
Salmi, 18,
5-6.
17.
Paradossalmente,
fu il silenzio a svegliarmi. Anche in un quartiere tranquillo come
quello, il respiro della città era impossibile da frenare.
L’usuale
sottofondo di auto, motorini, guaiti di cani e lotte furiose tra
gatti rivali non mancava mai.
Spalancai
gli occhi nella
penombra della mia stanza, consapevole che ci fosse qualcosa di
diverso in quella notte, qualcosa di…disumano.
Una parola semplice, comparsa dal nulla nella mia mente senza che
l’avessi evocata di proposito. Ma sembrava dannatamente
appropriata.
Tesi
l’orecchio, in una
quiete perfino angosciante, alla ricerca di qualsiasi cosa potesse
indicarmi il motivo della mia inquietudine. Eppure a prima vista
tutto era al posto giusto, la debole luce dei lampioni in strada e
quella pallida, lattea della luna penetravano nella stanza dalle
finestre, come tutte le altre sere in cui non serravo le persiane.
Tingendo gli interni della camera aiutava la vista a scorgere almeno
il profilo degli oggetti: la sedia, una pila di libri sulla scrivania
e il portatile proprio lì accanto.
Sbattei per
un paio di
volte le palpebre per mettere a fuoco il più possibile, ma
proprio
quando stavo per convincermi che la brutta sensazione che mi aveva
destata era solo una debole impressione, il mio sguardo fu catturato
da una chiazza scura sul tessuto bianco ed etereo della tenda, come
il fantasma di un film dell’orrore da quattro soldi.
Ci misi
qualche secondo
prima che il cervello riuscisse a realizzare che si trattava di un
ombra. Mi voltai di scatto verso la mia destra, trattenendo a stento
un grido e alzando le mani in un patetico tentativo di difendermi.
Il viso che
mi trovai ad
osservare era più serio del solito, e lo sguardo
imperscrutabile era
fisso su di me. Avrei dovuto sentirmi come minimo indignata per la
sua presenza, totalmente illegittima, invece fu quasi un sollievo
trovarmelo di fronte.
«Samuel...che
ci fai in
camera mia?» Non rispose, ma con un cenno del capo
indicò la porta
della stanza e all’improvviso, dal nulla totale di
quell’innaturale
silenzio, come se ad un suo gesto fosse corrisposta una precisa
conseguenza, da lì parve provenire un sottofondo
agghiacciante…erano
urla quelle che sentivo al di là di essa?
«Che
cos’è?» Chiesi di
nuovo, ma come alla prima domanda, anche a questa non seguì
nulla se
non un sorriso enigmatico. Quasi complice, sebbene non sapessi a cosa
potesse riferirsi. Di nuovo un cenno, poi il ragazzo mi porse la
mano, che strinsi senza questionare. Scivolai fuori dalle lenzuola
senza chiedere dove mi volesse portare, immaginando, anzi sapendo
che a tempo debito lui mi avrebbe svelato tutto.
Afferrò
la maniglia con
gesti lenti e controllati, e la sua stretta attorno alle mie dita si
fece più salda. Confortante.
«Qualsiasi
cosa tu veda,
non temere. Sono qui e non ti lascerò» disse
finalmente. Aprì la
porta e i suoni che poco prima mi erano giunti indistinti, ora erano
ben chiari. Non mi ero immaginata nulla e non avevo frainteso. Grida,
urla, schiamazzi e pianti.
Ma da dove
proveniva un
rumore tanto raccapricciante?
Davanti a me
si presentò
una lunga scalinata, tanto lunga che mi fu difficile individuarne la
fine, ma era ben illuminata da file di torce rudimentali affisse a
parenti in pietra. Mi ricordò gli accessi ai sotterranei di
qualche
antico castello, stanze segrete colme di tesori nascosti o, a
giudicare da ciò che sentivo, luoghi da incubo dove vittime
ignote
venivano sottoposte a indicibili torture.
Samuel mi
fece strada, in
silenzio e con lo sguardo concentrato e fisso davanti a sé.
Come
accadeva spesso in sua compagnia, mi interrogai su quale fosse il suo
stato d’animo e la natura dei suoi pensieri. Avrei dato ben
più di
un penny per conoscerli e risolvere il mistero che avvolgeva quello
strano ragazzo.
Mi schiarii
la gola e quel
tentativo di trovare le parole giuste riecheggiò tra le
fredde
pareti, aggiungendosi agli strilli e alle altre voci.
«Forse
dovrei chiederti
scusa…» mormorai. «Sì, per
come mi sono comportata stasera».
Era davvero successo solo quella sera? Mi sembravano secoli.
«Sono
stata brusca e mi dispiace. Ero un po’…tesa e
spaventata».
Scosse la
testa. «Non è
colpa tua. Sono stato poco chiaro fin dal principio, poco incisivo e
poco convincente. È normale non credere, ma ora
sarà tutto diverso.
Sono certo che riuscirò a mostrarti la verità una
volta per tutte».
Non sapevo perché, ma la serietà con cui
pronunciò quelle parole
riuscii a convincermi che avrebbe davvero fatto tutto il possibile
per rendere veri i suoi racconti.
Ogni passo
sui quei gradini
visibilmente consumati dal tempo fu accompagnato dal suo rimbombo
immediato, ogni gradino ci avvicinò a ciò che ci
attendeva alla
fine della scalinata, finché essa non terminò in
un prolungamento
circolare dei gradini. Libero dai limiti imposti dalle strette mura
che mi avevano affiancato poco prima, il mio sguardo ebbe la
possibilità di spaziare. Rimasi senza fiato.
Un’enorme sala si
apriva davanti a noi in una lucida distesa di marmo. Il pavimento
richiamava i motivi di una scacchiera, con un’alternanza di
bianchi
e neri seducente alla vista.
La nostra
scala era solo
una delle molte che portavano direttamente al pavimento, in tutto ne
contai sette, identiche a quella che io e Samuel avevamo sceso,
sormontate dall’imponenza e dall’eleganza di
altrettanti archi
ogivali. Al culmine di ogni ogiva, poco sopra il punto in cui le
linee dell’arco si univano, degli altorilievi sembravano
quasi
etichettare ogni scala, ognuno diverso dall’altro. Non
c’erano
finestre, vetrate o rosoni a donare un po’ di luce naturale
all’ambiente, solo altre fiaccole e tante, tantissime candele
poste
a terra intorno a noi o su candelabri di ogni stile e forma, semplici
o con i bracci intrecciati. Ne derivava un chiarore soffuso e
suggestivo che disegnava ombre su ogni particolare
dell’architettura.
«È
meraviglioso»
sussurrai, sapendo tuttavia che quel solo aggettivo era troppo debole
per riassumere lo splendore del luogo. «Ma dove ci
troviamo?»
«Credo
che a questo punto
tu lo abbia capito» rispose Samuel, continuando ad indossare
quella
maschera enigmatica che non l’aveva lasciato per un solo
istante
mentre mi aveva accompagnata lì.
«Il
Paradiso?» Si limitò
a guardarmi e a farmi gentilmente segno di proseguire avanti a lui.
Scesi gli ultimi gradini, notando che i rumori si erano fatti sempre
più distinti. Non era una voce singola quella che avevo
udito in
camera, ma appartenente a tante persone, unite in un unico grottesco
ululato. Un inquietante coro di cui tuttavia non conoscevo la
provenienza. E oltre a quello…i miei occhi ben attenti a
dove
mettevo i piedi su quei gradini consunti, si posarono su un
particolare che notai solo in quel momento e che era distribuito sul
bianco sporco del marmo in gocce che formavano una traccia sottile e
incostante.
Sangue.
Diedi un
lieve strattone
alla mano di Samuel per attirare la sua attenzione. «Come mai
c’è
del sangue su questi gradini? E chi sono queste persone?
Perché
strillano?» Mi guardò di sottecchi, come se la
risposta fosse più
che scontata.
«Non
penserai sul serio
che chi è destinato a scendere queste scale lo faccia
docilmente…o
sì?» Un brivido mi corse lungo la spina dorsale e
la consapevolezza
si fece strada nella mia mente insinuandosi come una serpe tra i miei
pensieri. Non mi sentivo più tanto a mio agio dopo
l’affermazione
del ragazzo e sebbene continuassi a pensare che attorno a me fosse
tutta una meraviglia, qualcosa di sinistro era andato ad intaccare
l’equilibrio formale e l’armonia delle strutture.
«Non
è il Paradiso, vero?
È l’Inferno…»
«Molto
brava, Amber. Vedo
che cominci a comprendere come stanno le cose. Ora vieni con
me». I
suoi passi rimbalzarono in un’eco tra pareti e colonne
marmoree,
accompagnati subito dal suono dei miei. Mi sforzai di non seguire con
lo sguardo l’inquietante tracciato del sangue.
Giunti alle
estremità del
pavimento a scacchiera, un tremito percorse il marmo producendo un
boato così potente da scuotermi le viscere. Afferrai il
braccio di
Samuel con tutte le mie forze e mi sforzai di non crollare, mentre
delle venature scalfivano la superficie opaca del suolo, scheggiando
ogni riquadro e spezzando a metà quell’alternarsi
poetico di
bianco e nero, come ghiaccio troppo sottile sottoposto ad un
eccessivo peso. Dal centro fino a pochi passi da noi, il pavimento
cedette e si aprì un’enorme voragine. In pochi
secondi il rimbombo
cessò e senza più alcun ostacolo ad attutirle, le
grida mi giunsero
più intense e terrificanti che mai.
«Guarda»
ordinò Samuel.
Scossi la testa, sentendo il sudore cominciare ad imperlarmi la
fronte, ma sedotta dalla mia curiosità non potei impedire al
mio
corpo di sporgersi abbastanza per cogliere ciò che lo
squarcio nel
terreno celava.
Solo
un’occhiata. Dovevo
vedere.
Diavoli,
ovunque. Diavoli
dalle forme più strane, uno più spaventoso
dell’altro, dai vari
colori. Pelli scure, nere, rosse e grigiastre, peli, scaglie, zanne.
Tutti in un
fremito
d’entusiasmo brandivano lance, forconi, lunghi ferri uncinati
e tra
risate sguaiate e un baccano che quasi mi costrinse a tapparmi le
orecchie, ghermivano corpi nudi, ferivano con le unghie, deridevano,
pungolavano, sputando e minacciando.Vidi un uomo dilaniato cercare di
scappare invano dal suo inseguitore, una giovane donna sfigurata da
un Diavolo raggrinzito che premeva sul suo viso un ferro rovente, e
centinaia di altre vittime di quella malvagia frenesia.
Chiusi gli
occhi. Mi
sembrava troppo e assurdo. Volevo solo andare via, ma non riscrivo a
muovere un muscolo, come se il desiderio di guardare meglio vincesse
ogni altro sentimento di ribrezzo e panico. Rimasi immobile,
congelata dal terrore, mentre la mia mente continuava a volersi
ribellare a quella scena.
«Terrificante,
non è
vero?» Tornare a fissare Samuel fu una benedizione, un
temporaneo
rifugio dall’orrore. Le sue iridi celesti erano rese ancora
più
brillanti dalle brutture che ci circondavano.
«È
orribile vedere fin
dove gli uomini si possano spingere». Commentò,
con lo sguardo
perso in quella visione raccapricciante.
«So
cosa stai pensando»
fece ancora prima che potessi anche solo aprire la bocca.
«Sei
spaventata da ciò che i Diavoli stanno facendo, ti sembra
crudele e
brutale, ma è colpa degli uomini. È sempre stato
così». Allargò
le braccia come per indicare tutto ciò che quella voragine
conteneva. La mia mente era piena d’orrore ma nonostante
questo i
miei occhi non si staccavano dalla scena di tortura poco sotto di
noi.
«Ecco il
frutto del
peccato. Ecco il castigo eterno». La sua voce aveva un che di
solenne, di imprescindibile come se avesse appena confessato una
verità assoluta. Non batteva ciglio di fronte a quelle
immagini,
sembrava quasi sforzarsi di fissare la scena senza distogliere lo
sguardo.
«Non
c’è nulla che si
possa fare? Nemmeno tu?» chiesi in un filo di voce. Avrei
voluto
aggiungere nemmeno
tu che sei un Angelo?
ma mi sarebbe sembrata ancora una frase assurda, sebbene la
verità
mi si fosse presentata casualmente davanti agli occhi. Gli rivolsi
uno sguardo colmo di supplica e sentii la frustrazione crescere
quando lo vidi scuotere la testa.
«Hanno
scelto» sentenziò.
A
distogliere la mia
attenzione fu un grido improvviso, acuto e angosciante. Dalla
scalinata accanto a quella dove ci trovavamo, un corpo massiccio
dalle fattezze solo lontanamente umane e seminudo come una sorta di
orrendo gladiatore degli inferi, scendeva i gradini stringendo una
pesante catena che si era posato in spalla come un curioso bagaglio.
Incatenata alla sua estremità vidi la figura snella di una
ragazza,
che gridava e lottava con tutte le forze per evitare la sua sorte.
Con le mani si aggrappò ad ogni scalino che trovava, ma non
poté
nulla contro la forza bruta del suo carceriere, che la trascinava
sempre più in basso.
«Aiuto!»
Non appena mi
scoprii a fissarla tese una mano nella nostra direzione, come se
potesse afferrarsi anche a me e assicurarsi la salvezza. «Ti
prego,
aiutami!» Per un secondo parve riuscire nel suo intento, ma
la
delusione fu ancora più amara quando con uno strattone,
l’uomo, o
meglio la bestia, la trascinò sul pavimento.
«No,
no! Per favore, non
farlo!» Con una sorta di ringhio, l’essere
ignorò le sue
suppliche, l’afferrò per le caviglie e la
scaraventò giù,
godendosi gli strilli prolungati e penosi che seguirono. Non ci
tenevo a scoprire come i Diavoli si stessero divertendo con lei,
perciò cambiai soggetto. Tra il sangue versato e la carne
viva
esposta a causa dei colpi crudeli di quei seviziatori, mi
catturò
un’immagine se possibile peggiore. Una donna tentò
di tenere a sé
il bambino appena nato, ma uno dei suoi aguzzini glielo
strappò
dalle mani e iniziò a divorarlo, dilaniandolo con i denti.
Mi passai le
mani sugli
occhi, scoprendo di tremare. Chi avrebbe mai potuto scegliere di
vivere una simile esistenza? Chi mai avrebbe desiderato una punizione
tanto straziante? Dov’erano Dio e la sua clemenza?
«Portami
via di qui…»
mormorai, implorante. «Ti prego».
«Devi
vedere, devi capire
qual è il destino di chi infrange le regole». La
voce di Samuel mi
parve diversa, più bassa di tono, più melliflua e
seducente.
Qualcosa mi sembrò famigliare in quell’inflessione
carezzevole.
«Ma non sei qui solo perché volevo convincerti,
cara piccola
Amber».
Tolsi le
mani e incontrai
uno sguardo ben diverso da quello di Samuel: occhi verdi, con una
luce di follia che ricordavo bene. Il respiro si spezzò in
gola e mi
sentii quasi sfuggire un grido per il turbamento. Simon.
La mia mente
era annebbiata
per lo shock, le parole non trovarono via d’uscita. Ancor
prima che
tentassi di pensare a qualcosa, le mani del ragazzo scattarono in
avanti e in meno di un secondo mi trovai sospesa nel vuoto, con la
schiena all’indietro proprio sopra i Diavoli. Mi affannai per
mantenere la presa sullo sperone con i piedi, ma già sapevo
che non
sarei resistita a lungo. La sola cosa che mi impediva di cadere di
sotto, erano le dita di Simon strette attorno alla stoffa della
canottiera.
«Fermati!
Fermati! Ti
prego, non farlo!»
«Ah
no? Non dovrei?» Il
suo viso era tranquillo, solo un sorriso gli increspava le labbra.
Sentivo il vuoto sotto di me, vampate di calore che mi lambivano la
schiena semi scoperta e le grida eccitate dei Diavoli. Non avrei
dovuto guardare giù, ma voltai la testa e il mio sguardo
raggiunse
uno dei mostri nel vallone. Rideva e mi fissava come se non vedesse
l’ora di avermi tra gli artigli. Brandiva una lunga lancia
che
puntò verso di me, reggendola con due mani. Sebbene non
riuscisse a
raggiungermi, sapevo che cosa avrebbe significato cadere. Non avrei
potuto evitare di rimanere infilzata.
«No!
Per favore!» Le
lacrime iniziarono a riempirmi gli occhi e a rotolare lungo le
guance. I singhiozzi mi squassavano il petto, mentre con le mani
tentavo di restare ancorata a lui, stringendogli i polsi. Il sudore
mi impediva di mantenere una presa salda.
«Pensi
di essere capitata
qui per puro caso?» chiese Simon con uno sguardo folle. Uno
sguardo
che solo qualche giorno prima mi aveva quasi fatto cadere ai suoi
piedi e che ora riusciva solo a riempirmi di terrore. «Sei
qui per
una ragione…per i tuoi peccati».
«Non
ho fatto niente!»
«Tu
sei una peccatrice,
come tutte le anime qua sotto e come me. Hai rinnegato il Signore, e
lo hai fatto volontariamente. Perciò meriti una punizione
adeguata.
Ogni anima che arriva all’Inferno viene giudicata in base
agli
errori che ha commesso e percorre la scala riservata al peccato che
in vita l’ha guidata. I percorsi sono rappresentati dagli
altorilievi nella pietra. Sette scale, sette peccati, sette
punizioni. Ti sei presa il disturbo di osservare bene quale immagine
rappresenta la tua via?» Colsi il suggerimento.
L’altorilievo
rappresentava una donna velata, con il viso rivolto al cielo e le
mani alzate, strette a pugno.
«Superbia,
mia cara. Tu sei una superba. Sai che cosa vuol dire?» Non mi
lasciò
il tempo di rispondere, ma anche provandoci non sarebbe uscita una
sola parola dalle mie labbra. Tremavo così tanto che mi
sentivo le
gambe deboli, ma non avevo il coraggio di cedere per paura che
ciò
significasse cadere di sotto e firmare la mia condanna a morte.
«Significa
che sei una
ragazzina altezzosa e gonfia di orgoglio, che ha deciso da sola che
l’unico Dio degno di governarla non è altro che se
stessa. Mi
sbaglio?» Scossi la testa, la gola stretta per il pianto. Non
volevo
morire, e se fossi sopravvissuta, cosa improbabile, non volevo finire
tra i Diavoli.
«Perché
mi fai questo?»
riuscii finalmente a dire, dopo aver incamerato aria sufficiente a
poter articolare suoni. Il ragazzo si strinse nelle spalle.
«Te
l’ho già detto, non
è nulla di personale, hai fatto tutto da sola. Sei tu che
hai deciso
di ergerti a giudice della tua vita e così hai scelto la
condanna
adatta a te. Di solito apprezzo chi sa ribellarsi con stile al suo
Dio, ma ciò non significa che non possa divertirmi un
po’ con te.
Questo è solo l’inizio del tuo incubo».
Qualcosa di gelido si
strinse attorno alla mia caviglia, una massiccia catena simile a
quella che avevo visto trascinare l’altra peccatrice.
«Io
non ti ho fatto
niente!» ripetei, tentando di convincerlo. «Ti
scongiuro. Adesso ci
credo, ci credo!» Mi trasse verso di se, allontanandomi dal
vuoto e
riempiendo il mio cuore di speranza. Il suo respiro sapeva di morte,
un odore che mi spezzò il fiato in gola, così
diverso dal profumo
che mi aveva attratta la prima volta che lo avevo incontrato. Quando
il suo viso fu a pochi centimetri dal mio, fece un profondo sospiro.
«Dillo
in modo esatto, per
cortesia. A cos’è che credi?»
«A
Dio! Credo in Dio e a
tutto il resto, lo giuro. Ma ora tirami su!»
Scosse la
testa divertito.
«No, tu menti».
«Ho
detto che te lo
giuro…per favore». La mia voce era sottile, ma ero
certa che mi
avesse sentita anche in tutto quel fracasso.
Fece un
altro profondo
sospiro e annuì. «D’accordo, mi hai
convinto. Sono felice che tu
ti sia decisa a credere». Le mie lacrime si trasformarono in
sollievo, seccandosi sulle guance per le ondate di calore che mi
lambivano la pelle. Simon parve issarmi sullo sperone, poi mi
regalò
nuovamente quel suo sorriso ammaliante. Negli occhi scorsi qualcosa
di profondamente malvagio e capii ancora prima che parlasse di nuovo.
Le sue labbra mi sfiorarono l’orecchio. «Questo
però non cambia
nulla…»
Con una
lentezza quasi
estenuante, le sue dita si aprirono una dopo l’altra e io mi
sentii
scivolare giù. Percepii con orrore il vuoto sotto di me,
l’aria
che mi sibilava nelle orecchie, le risate dei Diavoli. Scioccamente
mulinai le braccia in aria, come se potessi di colpo realizzare di
avere le ali e potermi salvare, ma continuai a cadere mentre lo
sperone si allontanava, assieme a Simon che fissava la scena con le
labbra increspate in un sorriso soddisfatto.
Non potei
fare altro che
attendere e lo strattone giunse, violento, doloroso. Ogni fibra del
mio corpo parve gridare e io, frastornata, non fui in grado di
mettere subito a fuoco ciò che mi attorniava. Mi stupii che
le mie
gambe non si fossero staccate di netto per lo strappo a fine catena,
come una bambola di pezza contesa a forza tra due bambine, ma il
sollievo durò poco. Attesi di smettere di oscillare, con i
volti
deformati dei Diavoli che mi sfilavano capovolti davanti agli occhi e
i corpi dei dannati come macabro preannuncio di ciò che mi
aspettava. Le orecchie mi ronzavano talmente forte che mi era
difficile anche solo pensare o temere per la mia vita. Ero come
annebbiata e non sapevo se considerarlo un vantaggio o una sciocca
imprudenza da parte mia.
Stavo quasi
per abituarmi
al dolore acuto alle giunture e al calore delle fiamme che mi lambiva
il viso, quando nel mio campo visivo tra le lacrime causate dal fumo
acre, comparve il viso disumano dello stesso Diavolo che avevo visto
sulla sommità della spaccatura, quando ancora le centinaia,
migliaia
di persone nella voragine erano solo vittime e io la privilegiata al
sicuro. Ero diventata una di loro.
«Perdona
la mia
sbadataggine». La voce di Simon era lontana, difficile da
collocare
in tutta quella confusione, ma mi immaginavo il suo volto insolente e
arrogante rivolto verso di me, con un barlume cinico negli occhi.
«Ho
dimenticato di accennarti in che cosa consiste la tua punizione, cara
Amber. Ho detto che sarai dannata tra i superbi, e che cosa fa di
preciso il superbo nel suo peccare? Alza gli occhi verso il cielo in
aria di sfida, proprio come hai visto nell’altorilievo.
Appesa come
un salame come potrai farlo?» La sua risata mi fece
rabbrividire fin
nelle ossa e il Diavolo si avvicinò lentamente. Quando fu
sotto di
me, brandì la lancia e l’avvicinò al
mio viso sfiorandomi con la
punta. Il freddo del metallo sembrava quasi irreale in quella gola di
fiamme.
«Ma
questo non sarà
sufficiente, lo puoi immaginare anche da sola. Facciamo in modo che
quei begli occhi nocciola non siano più veicolo di
alterigia». Gli
strilli mi avvolgevano con in un manto tangibile, talmente acuti che
non riuscivo a capire se fossero solo grida estranee o se stessi
supplicando anche io assieme ai dannati.
Il Diavolo
mi regalò un
sorriso mellifluo e colmo di promesse cruente, mentre la punta
metallica seguiva il contorno della mia gola, del mento e del naso,
avvicinandosi a un occhio.
«No…ti
prego, per
favore…no…» Il mondo si
offuscò, annegato nelle lacrime che mi
velarono gli occhi, e la voce si spezzò nella gola stretta
in una
morsa gelida di terrore. Avrei voluto tenere gli occhi chiusi, ma
riuscii solo a tenerli spalancati e a seguire con lo sguardo i
movimenti lenti della lancia, come se non potessi distogliere
l’attenzione dalla mia fine ormai vicina. Quando cominciai a
credere o a sperare che il Diavolo si fosse dimenticato del suo
compito, lo vidi stringere la lancia come per prendere meglio la mira
e la punta scattare verso il mio viso, finché non rimase
altro che
oscurità e dolore.
Lo stesso
buio che mi aveva
allarmata, divenne una sorta di liberazione, quando aprii gli occhi
in un’oscurità meno pesante e opprimente rispetto
a quella del
sogno.
Era un buio
familiare,
affettivo. Finalmente riuscivo a scorgere ciò che prima mi
era stato
negato, il profilo dell’armadio, della sedia e della
scrivania, la
cornice della finestra e della tenda, con la luce opalescente della
luna, le ombre scure del comodino e dell’abat-jour.
Il silenzio
della notte era
scandito solo dal mio respiro affannoso. Dalle labbra senza controllo
mi sfuggirono dei singhiozzi che tentai di celare coprendomi la bocca
con una mano. Sapevo di aver strillato nel sonno, riuscivo a sentire
nelle orecchie il grido che avevo gettato a causa
dell’incubo. Il
dolore percepito era cessato, ma la paura mi era rimasta incollata
alla pelle come una sostanza tossica. Mi passai una mano sul viso,
come per scacciare il ricordo angosciante della lancia che mi
trapassava un occhio. Per un attimo fui terrorizzata all’idea
di
ritratte la mano macchiata di sangue, ma sulle dita brillava solo un
velo di sudore.
Strinsi le
ginocchia
attorno al petto, nel tentativo di ritrovare un certo contegno, di
infondermi coraggio e calmare il mio corpo scosso dai tremiti e dai
singulti. Le guance già bagnate di lacrime accolsero
nuovamente il
pianto, il cuore rimbombava nella testa e sbatteva nel petto come una
furia, mentre nella mente riecheggiavano le parole di Simon, il suo
timbro di voce vellutato e seducente e lo schiamazzo inquietante dei
Diavoli.
Con la mano
ancora premuta
sulla bocca e le spalle che tremavano, senza potervi porre rimedio
continuai a singhiozzare, per quanto continuassi a rassicurarmi e a
ripetermi che era stato solo un brutto sogno, immagini durate un
attimo e senza alcun peso. Una menzogna dell’immaginazione.
La mente
gettò un nuovo
allarme. Spalancai gli occhi in ascolto di alcuni tonfi in
lontananza. Tesi l’orecchio. Dopo qualche secondo i rumori si
ripeterono e il cuore mi schizzò in gola, quando realizzai
che si
trattava di passi, lenti e ritmati lungo le scale di legno che
conducevano al piano di sopra. Alla mia camera.
Il corpo
reagì molto prima
di poter riflettere sulla cosa, mi tuffai sotto le lenzuola,
stringendole sopra la testa come quando da bambina ero terrorizzata
dai mostri celati nel buio. Avvolsi la stoffa nelle mani, stringendo
convulsamente nel tentativo di creare una protezione da qualsiasi
eventuale pericolo.
I passi si
avvicinarono, il
legno non riuscì ad attutirli. Serrai con forza gli occhi,
come se
non vedere significasse diventare invulnerabile. Quando capii che i
rumori si erano spostati nel corridoio, il caldo sotto le lenzuola
era diventato soffocante e io ero in un bagno di sudore. Sentii la
porta della camera aprirsi, i passi avvicinarsi.
È
qui. Non puoi
scappare.
I capelli
erano incollati
al viso, alla fronte, le lacrime bagnavano la stoffa del cuscino e le
dita mi dolevano per la forza con cui mi ostinavo inutilmente a
stringere a me le coperte. Dentro di me speravo ardentemente che
fosse un altro incubo o che in realtà io non mi fossi
davvero
svegliata dal primo, ma sapevo in cuor mio che era solo
un’altra
vana illusione.
Iniziai a
tremare quando il
peso di un corpo si posò sul materasso e opposi in silenzio
resistenza, quando qualcuno tentò di sottrarmi le coperte
dalle
dita, riuscendoci solo qualche secondo dopo.
Qualcuno
o qualcosa.
Rimasi
immobile, raggelata
e irrigidita dalla paura. Anche se fossi scappata, dove potevo
nascondermi? Non avevo scampo. Davanti agli occhi mi danzava
l’immagine del Diavolo che mi aveva infilzata nel sogno, il
suo
sguardo colmo di malignità, i denti aguzzi e marci che mi
sorridevano quasi con malizia.
Avrei forse
dovuto lottare,
ma la mano che si posò sulla mia testa sembrava
tutt’altro che
minacciosa. Dita fresche mi allontanarono i capelli umidi dalla
fronte imperlata di sudore e io riconobbi il profumo di mia madre. La
sentii salire sul letto con tutto il corpo, sebbene stringessi ancora
le palpebre come se gli occhi rifiutassero la realtà che mi
circondava.
«Amber?»
sussurrò, nel
buio. «Stai dormendo?»
Non volevo
rispondere, ma
il mio respiro irregolare avrebbe potuto tradirmi. Deglutii e tentai
di inspirare ed espirare profondamente come se fossi immersa nel
sonno. Senza aver ricevuto risposta, si sistemò sul letto
avvicinandosi a me. Sentii il suo braccio posarsi sul cuscino sopra
la mia testa e l’altra mano accarezzarmi il volto con un
tocco
leggero che ormai avevo dimenticato. Quando tempo era passato da
quando mi era stata così vicina? Quand’era
l’ultima volta che
ricordavo di aver ricevuto il suo affetto? Abbastanza perché
mi
convincessi che il contatto con me fosse divenuto per lei fastidioso.
Il suo tocco
fresco fu un
sollievo dopo le vampate di calore e paura che mi avevano aggredita
sotto le coperte. Mi accarezzò la fronte, gli zigomi, le
guance,
come se stesse contemplando ogni tratto del mio volto.
Asciugò le
lacrime con il dorso della mano, in gesti lenti che mi cullarono come
nella litania di una ninna nanna. Poi interruppe il contatto,
scivolò
via dal letto e si alzò in piedi. I suoi passi,
così come con
terrore li avevo uditi avvicinarsi, si allontanarono e la porta si
richiuse con un lieve scatto.
Rimasi sola,
sentendomi
sciocca per la sensazione di panico che mi aveva inutilmente
attanagliato le membra poco prima e domandandomi se ciò che
era
appena accaduto fosse reale o un altro frammento di sogno.