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Autore: DarkYuna    14/02/2017    1 recensioni
"Inarca le sopracciglia, livida in viso, sta per dare sfogo alla furia e il malcapitato è il sottoscritto. Se è in fase premestruale posso iniziare a scrivere il mio necrologio. Migé avrebbe potuto cantare al funerale o magari Linde, un’Ave Maria Heavy Metal, con chitarre distorte e voci roboanti."
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti, Ville Valo
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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12.
*Che la fine abbia inizio*








 
L’odore di disinfettante impregna il corridoio lungo, dalle pareti bianche e sterili dell’ospedale mezzo vuoto. La luce al neon si riflette su un pavimento lucido del blu più brutto che abbia mai visto.
L’anziana infermiera ha detto che è la camera dodici del reparto femminile, al quarto piano. Ascensore rotto, sto sfiatando, spaventosamente fuori forma. A che servono le ore trascorse in bicicletta a scorrazzare per la città, se non ce la faccio neppure a farmi un paio di rampe di scale? Dannate sigarette!
 
 
La mano destra è occupata da un mazzo di fiori: girasoli, tulipani e papaveri. Mai pari, non ho voluto sapere il perché. Il negoziante ha detto che sono l’ideale per augurare un “guarisci presto”… certo… l’ideale, se non fossi stato io la causa della “malattia”.
 
 
Con che faccia tosta mi presento in ospedale da Irina, dopo che è stato proprio il sottoscritto a mandarcela? A che pro regalare dei fiori ad una donna a cui non ho regalato neanche un minuto di felicità?  
Sentirmi in colpa è un sottile eufemismo, per spiegare lo stato d’animo da merda pestata! Non ho chiesto consiglio a nessuno, Migé non mi parla, Linde è indaffarato, i miei genitori sono fuori dalla lista e Jesse troppo impegnato con il Cd.
E poi Amelia… che mi ha mollato, quando ho mostrato la parte più debole e fragile. Che fregature le donne! Specialmente quelle che ti piacciono e che ti feriscono a morte. Ho provato a chiamarla tre volte, l’orgoglio è un subdolo nemico che avvelena la mente e i pensieri.
 
 
L’ho vista uscire stamattina con degli amici, non sorrideva, era pallida, sembrava non avesse dormito, di nuovo spenta. Si teneva in coda al gruppo, assorta da chissà quali pensieri angosciati e, prima di salire nella macchina, ha alzato il viso verso la torre, l’unico istante in cui un guizzo luminoso le ha attraversato il viso spossato. E poi di nuovo l’oblio.
 
 
Sono io che riduco così le persone, ha ragione Migé, sono tossico per chi mi sta attorno, faccio del male gratuito, non so amare e quel che è peggio, ferisco chi prova affetto per me.
 
 
Camera dodici.
 
 
Un indistinto chiacchiericcio proviene dalla stanzetta illuminata da un pallido sole, che è destinato a sparire nell’arco di qualche minuto, è la televisione, trasmette un programma di intrattenimento stupido e poco istruttivo. Io e Irina siamo esattamente l’opposto anche in questo.
Ieri notte, mentre ero sul divano ad impigrire, avevo immaginato di avere più coraggio, mille discorsi diversi, un’entrata trionfale, mentre adesso sbuco come un pagliaccio che si è mangiato la lingua. Non posso cincischiare a lungo, devo entrare.
Provo ad aggiustare almeno la giacchetta sgualcita, con poco successo, i fiori sono la cosa più bella, non spero che possa perdonarmi in qualche modo, ma tentar non nuoce.
 
 
Irina è sdraiata supina, i capelli di un biondo sbiadito sono intrecciati tra di loro lungo la spalla, ha un colorito giallognolo, le iridi di ghiaccio quasi trasparenti, assomiglia ad un cadavere. La flebo risale dal braccio destro, ha due bendaggi ai polsi: non ha tentato solo di avvelenarsi. È peggio di quanto credessi.
La signora nel lettino adiacente si accorge di me prima di lei e se ne esce con una frase infelice e parecchio fuori luogo. È una di quelle che apre la bocca, solo per farne uscire castronerie di livello apocalittico.
 
 
<< E questo bel giovanotto, è venuto a trovare te? >>. Solo le anziane mi etichettano “giovanotto” a quasi quarant’anni suonati.
 
 
Irina ci impiega qualche secondo per capire che la signora sta parlando con lei. Volta fiacca la testa, gli occhi raccapriccianti mi mettono a fuoco, non risplendono, nessuna vita, il sole è tramontato per sempre e mi ricordano Amelia quella mattina, aveva lo stesso sguardo vitreo ed inanimato.
 
 
Schiarisco la voce, sono completamente in imbarazzo.
<< Salve. >>, farfuglio a disagio. Attraverso ad occhi bassi la stanzetta bianca e sterilizzata, poggio il mazzo di fiori sul tavolino sotto la finestra e sosto per poco in quell’angolo: cerco un coraggio che non ho. Fisso la punta consumata delle converse usurate, prendo una grande boccata d’ossigeno e quando sono certo di iniziare un discorso sensato di scuse, Irina mi precede.
 
 
<< A che servono? >>, chiede atona, con una voce stanca, bassa, rauca, che a stenti riconosco. Sta parlando dei fiori. << Non sei mai stato tipo da fiori e cioccolatini… l’hai detto la sera stessa che ci siamo conosciuti. >>. Trovo assurdo che rammenti ciò che ho detto quasi un anno fa.
 
 
È la stessa frase che ho ripetuto ad Amelia, è la frase che dico a tutte, la frase che uso come alibi per non mostrare troppo affetto per chi mi sta accanto. Lo faccio perché, scegliere un regalo per qualcuno, significa dargli importanza, spendere del tempo scegliendo il meglio, è il chiaro segnale di essere innamorati per davvero e non solo a parole.
Vuol dire trasformare in gesti, quel che è solo nel cuore.
E non l’ho mai fatto davvero, perché non sono stato sul serio innamorato negli ultimi anni.
 
 
<< Migé mi ha detto. >>, è la ridicola risposta. Non so dire altro e vorrei sputarmi in faccia, per la freddezza delle parole, il distacco nei gesti e l’impassibilità dinanzi a ciò che le ho fatto, anche ora che sono faccia a faccia con la mia colpa.
 
 
<< Sei venuto a compatirmi? >>, interroga con sdegno. << O forse sei qui per il perdono? >>.
 
 
La signora nel lettino accanto, capisce che non è aria, scalcia le coperte e farfuglia qualcosa a proposito del bagno, sparendo dietro la piccola porta che conduce alla toilette. Ci si barrica quasi dentro. Forse così pettegola non è, dopotutto.
 
 
<< Nessuna delle due. Sono venuto a chiederti perché? Perché sei arrivata a questo? Era necessario? Cosa credevi di fare? >>.
 
 
Un riso di scherno si apre sulla bocca slavata.
<< Proprio tu vieni a farmi simili domande, Ville? >>. Mi guarda a lungo, gli occhi sono delle lame insanguinate che le trafiggono l’animo, vorrebbe che provassi lo stesso dolore e lo vorrei anche io, in fondo sono abituato. << Credevo che il mio amore sarebbe bastato per entrambe, che un giorno ti saresti svegliato e ti saresti accorto che provavi qualcosa per me. Poi ti ho visto con quella ragazza nel bar, come la guardavi, il modo in cui le tenevi la mano, il tuo sorriso… ed ho capito, anche se lo sapevo. Rassegnarsi è tutto un altro discorso, credevo di essere più forte, ma non lo sono. >>. Ecco chi aveva detto a Migé di avermi visto nel bar assieme ad Amelia e, mentre io ero felice, spensierato e tranquillo, nello stesso momento stavo spezzando il cuore ad un’altra persona.
 
 
Piego le spalle, sono sobbarcate dal ponderoso peso del mio sbaglio, aver messo in chiaro le cose, non l’ha preservata dal finire in un lettino d’ospedale, perché il suo amore per me è così devastante da non volerlo più provare.
 
 
<< Avrei pagato oro per vederti guardare me, come guardavi lei, gesti affettuosi, tenermi la mano, sorridermi solo perché eri felice di vedermi. Solo perché ero io! >>, le parole si spezzano malamente, trattiene un singhiozzo, le lacrime però scivolano bollenti sul viso smunto. Si volta dall’altra parte, non vuole che la veda piangere, preferisce preservare la dignità. << Non so cosa hai raccontato a quella ragazza, se sapeva di me… non farle ciò che hai fatto a me, perché, mentre tu nel petto non hai un cuore, le persone che fai entrare nel tuo letto ce l’hanno un cuore e lo usano. >>, termina gelida. Non aggiunge più niente, non riesco a replicare alcunché, ha ragione, cosa potrei mai dire? Vuole che me ne vada.
 
 
Abbasso la testa colpevole, non chiedo scusa, non c’è perdono in terra per averla annientata. Vorrei provare odio per me stesso, ma non c’è niente dentro di me, un vuoto incolmabile che si è allargato e che rischia di trascinarmi al suo interno.
Esco nel corridoio, incontro l’infermiera che mi ha dato le indicazioni e la saluto con un cenno, devo avere una faccia terribile, visto che mi scruta confusa, nemmeno fossi un fantasma.
 
 
E per la prima volta da quando sto frequentando Amelia, ho paura. Ho paura che possa fare la stessa fine, ho paura di romperle il cuore, ho paura di farla soffrire, ho paura che lei, anziché finire in ospedale, finisca direttamente al cimitero. Nello stesso momento in cui me la figuro bellissima, cerea, priva di vita, adagiata nella tomba, una bestia ferita si contorce convulsa nel petto e ulula un dolore che non è in grado di sopportare.
Ha ragione Migé, non posso continuare così, non posso usare le persone a mio piacimento e poi gettarle, non posso dare speranza a chi prova qualcosa per me e poi spingerle fuori dalla mia vita senza pietà. Questo circolo vizioso deve finire.
 
 
Svolto l’angolo, sono assorto da diversi pensieri, alcuni sono sensati, altri no. Forse la devo smettere di essere un tipo che non regala fiori e cioccolatini, forse per trovare un po’ di pace in questa vita, devo dare una grande svolta e lavorare su me stesso. Decido, non appena esco dall’ospedale, vado di filata al primo fioraio e compro delle rose, poi la migliore marca di cioccolatini, magari mi faccio consigliare da qualche commessa, visto che non sono un patito di cibi zuccherini.
 
 
Alzo lo sguardo disattento e, in fondo al corridoio illuminato da forti luci al neon, riconosco una chioma castana familiare. L’amica di Amelia è qui, con lei ci sono due ragazzi, uno con lunghi capelli biondi e ricci, che le tiene un braccio dietro la schiena e l’altro con capelli corti e neri. Stanno parlando con un medico, hanno una mimica agitata, afflitta, sembra che il dottore gli stia comunicando una notizia terribile.
D’un tratto la ragazza affonda il viso tra le mani e scoppia in un pianto convulso. Quello con i capelli lunghi e ricci l’abbraccia e l’altro le lambisce affettuoso un braccio.
Una terribile sensazione si aggroviglia alla bocca dello stomaco, come di uno spaventoso presagio che mi inchioda sul posto. Sono sul punto di rimettere il miscuglio rivoltante di caffè e sigarette. Vorrei avvicinarmi di più per sentire la tragica notizia, al contempo ho il terrore di ascoltare delle parole che non voglio sentire. La voce nella testa grida un solo nome.
 
 
Nelle orecchie riecheggiano le parole che ho usato per descrivere gli occhi di Irina e che hanno rimembrato lei: “non risplendono, nessuna vita, il sole è tramontato per sempre.”.
 
 
Deve essere questo il grande segreto, il segreto che lei cercava di non rivelarmi, il segreto che la sua amica ha provato a farmi capire invano, il segreto che, benché non ne intuisca i risvolti, conosco perfettamente.
Il cervello mi obbliga a fuggire via il più lontano possibile, mentre i piedi, un battito funereo alla volta, si avvicinano inesorabili al quartetto.
 
 
Il capellone è il primo a vedermi, sussurra concitato qualcosa nell’orecchio della ragazza e l’obbliga a voltarsi. Il dottore se ne va e l’altro ragazzo mi squadra sbalordito. Non capisco se è perché sanno chi sono o perché sanno chi sono per Amelia.
Si asciuga in fretta le lacrime, ma le è impossibile nascondere l’evidenza. Un miliardo di domande si riversano sulla lingua, nessuna di essa si articola a parole, non ho il coraggio di chiedere ragguagli su ciò che è praticamente evidente ai miei occhi. Non può mentirmi.
E prima che possa pretendere un chiarimento, lei alza una mano per fermarmi. È così distrutta che fatica perfino a respirare. Qualsiasi sia il problema, le fa talmente male che non ha la forza per affrontarmi.
 
 
<< Non io. È alla macchinetta degli snacks. >>. Indica un punto indefinito alle sue spalle, nell’altro corridoio.
 
 
Scorgo una piccola saletta quadrata, provvista di due divani ed una lunga panca bianca. Amelia è seduta nel bel mezzo di quest’ultima, scruta il paesaggio innevato al di fuori della finestra, ha un viso sbattuto, gli occhi vitrei, scuri, non ride più. È rannicchiata, tiene strette le ginocchia al petto, come se intendesse colmare un vuoto che nessuno riesce a riempire. Gli ultimi bagliori del giorno invernale, la trasformano in un angelo bellissimo, etereo, quasi impalpabile, un mero frutto di un’arida immaginazione.  
Deve essere la vita, penso, mentre trascino le gambe pesanti, ciò che ho fatto ad Irina si sta ripercuotendo sull’unica persona che è in grado di farmi sentire vivo, felice ed amato.
 
 
Io ho tolto qualcosa a lei, il destino sta facendo ugualmente a me.
 
 
Il rumore dei passi mi annunciano, lei si volta di scatto, credendo che fossi qualcuno dei suoi amici, non si aspetta di vedermi e, se possibile, impallidisce maggiormente.
Boccheggia sconvolta, deglutisce e scende piano le gambe sul brutto pavimento dalle mattonelle blu.
<< Che ci fai qui? >>, domanda innocente, sta cercando di insabbiare l’accaduto, di evitare le spiegazioni, prende tempo per inventare una bugia.
 
 
 
 
Fino ad oggi ci siamo ripromessi di essere sinceri, non intendo spezzare questa catena, pertanto vado dritto al sodo, come piace a lei, come piace a me, come piace a noi.  
 
 
<< Quanto tempo? >>. Ho la saliva azzerata, un fuoco infernale che sta divampando nel petto, le lingue incandescenti inceneriscono i polmoni, il cuore e soprattutto l’anima. Vorrei essere sordo per non sentire la risposta, cieco per non guardarla in quello stato e muto per non chiedere.
Se la sua amica è distrutta a tal punto, non si tratta di una banale influenza o di una malattia curabile. La morte è venuta a farle visita e, come in una fiaba degli orrori, lo sgomento di vederla stesa in una bara, fredda ed immobile, sta prendendo mostruosamente vita.
 
 
Le linee di apprensione sulla fronte si appianano, ha smesso di cercare una scusa per spiegare la presenza in ospedale.
<< Due mesi. >>, annuncia la dolce voce da bambina, che in un istante intossica il sangue e mi uccide sul colpo. La mano cerca un appiglio sul muro liscio, le gambe tremano e non riesco a sorreggere il peso.
 
 
<< Cos’è? >>. Voglio sapere il nome del demone che me la sta strappando via per sempre.
 
 
<< Linfoma di Hodgkin allo stadio terminale. >>. Ne ho sentito parlare, ma non so cosa sia, il perché nessuno l’abbia curata o perché diavolo devono restare due mesi proprio a lei. << Credevo di avere più tempo. >>, aggiunge e con mio sommo terrore comprendo.
 
 
<< Tu lo sapevi? >>, sbotto scandalizzato. Non ho ancora incassato il colpo, che ne ricevo subito un altro, non fa male come il primo, ma mi centra dritto in faccia. Sul naso, considerando che non respiro più. Ho bisogno di fumare.
 
 
Annuisce, abbassa la testa e allunga le gambe, forse intorpidite dalla precedenza posizione.
<< So anche chi sei. La sera che ho bussato a casa tua la prima volta, sapevo benissimo chi fossi. >>, confessa, non ha il coraggio di guardarmi in faccia. Le ho chiesto la verità la sera che ha impedito che mi uccidessi, ed è la verità che mi sta raccontando.
 
 
Terzo pugno in faccia, in bocca stavolta, non sono più in grado di proferir parola. Non so se sono più disperato perché la ragazza di cui sono innamorato sta per morire o perché tutto ciò che ho vissuto con lei fino ad oggi è una fottuta menzogna.
 
 
<< Sono ad Helsinki perché volevo spendere, ciò che rimaneva della mia vita, con te. Non speravo di riuscire ad avvicinarmi tanto, non speravo molto ad essere sincera, anche come amici andava bene. Ma quando hai aperto la porta, quella notte, ho capito che nessuna misura affettiva sarebbe stata abbastanza, se non l’amore stesso. >>.
 
 
 
Un precipizio si apre sotto i miei piedi e ci cado dentro, come Alice nel Paese delle Meraviglie, ma non sono meraviglie quelle che vivo, sono delle atrocità disumane.
La fisso con le palpebre sbarrate, sono sconvolto, traumatizzato, affranto, avverto i lucciconi pungermi gli occhi, voglio urlare e prendermela con lei, per essersi avvicinata a me, nonostante fosse consapevole che mi avrebbe dato un dolore devastante. La miccia è vicina dall’esplodere, però non accade, lo stoppino si spegne e d’un tratto la furia per le menzogne si affievolisce: ci sono cose più importanti.
Solo ora mi è chiaro il motivo per cui i suoi amici si sono trasferiti dall’altra parte d’Europa per lei, perché suo padre era contrario, perché ha quel modo leggero di vivere, perché fa tutto ciò che le passa per la mente, perché ha confessato in fretta i suoi sentimenti.
 
 
Mi siedo sul divano davanti a lei, ci sprofondo dentro, getto la testa sull’apice dello schienale ed è come essere morto. Scruto il soffitto senza vederlo davvero.
<< Perché non mi hai dato possibilità di scelta? >>. Non sono adirato, non posso esserlo, tuttavia ho uno squarcio dentro, che ha aperto lei, alla fine mi ha fatto del male, ma non come lo avevo immaginato. << Perché hai permesso che mi innamorassi di te in questo modo? >>.
 
 
Ispira brusca, mentre le rivelo per la prima volta che sono innamorato di lei, perdutamente, senza possibilità di redenzione, dannato per l’eternità. A che serve tacerglielo?
<< Se avessi avuto possibilità di scelta, non avresti scelto tutto questo, non avresti scelto me, Ville… non ti saresti mai innamorato di una persona in fin di vita. >>.
Mi conosce meglio di quanto mi conosca io.
 
 
Sollevo la testa pesante, l’emicrania è in agguato. È bellissima, nonostante sia provata, deve essere venuta in ospedale per delle analisi o per una cura che è stata inefficace. È lo splendore di una condannata a morte, o forse sono io che la sto guardando con occhi diversi, gli occhi di qualcuno che osserva intensamente una persona che sa gli verrà portata via. Cerco di imprimere nella memoria i tratti, la forma della bocca, le iridi cangianti, il naso piccolo, i capelli a caschetto, le mani affusolate. Il profumo dolce, le sensazioni violente che mi trasmette.
No, non riesco ad accettarlo, non sopravvivrò a tale scoperta. La sua amica ha pianto, io farò molto peggio.  
 
 
<< Quando avevi intenzione di dirmelo? >>.
 
 
<< Mai. >>.
 
 
<< Mi hai scaricato di proposito? >>.
 
 
Tortura le dita, arpiona gli indici tra di loro, le costa molto essere schietta in tale frangente.
<< Volevo che non fosse troppo tardi per te. Ho capito che era da egoisti cercare la mia felicità, a discapito della tua… non era giusto. >>, riconosce. Lei ha fatto esattamente quello che ho fatto io con tutte le altre, con Irina, solo che si è fermata prima. Non abbastanza, comunque, altrimenti non farebbe così male.
Amelia è la versione di me al femminile, ma con un cuore.
 
 
Protendo la mano e la poggio sulle sue, ha la pelle gelida, sta più male di come appare, mi si stringe il cuore, deve amarmi ad un tale livello per essersi trasferita ad Helsinki per me, per scegliere me come compagno in questo ultimo viaggio, ma ha preferito preservare il mio cuore, per non farmi soffrire.
Il secondo dopo l’ho strattonata tra le mie braccia, sulle mie ginocchia, le bocche un sigillo estremo che suggellano l’amore e la morte. La stringo con una tale forza a me, che ho paura di spezzarla, ma adesso le avverto, una dopo l’altra, le onde devastanti di sofferenza brutale che mi abbattono e mi fanno colare a picco nei meandri degli abissi.   








Note: 
E niente, penso che il capitolo sia già abbastanza carogna di suo, senza che io aggiunga nulla. 

Complimenti a chi c'era arrivato. Ah, e Buon San Valentino a tutti xD 


La storia può presentare errori ortografici.

Un abbraccio.
DarkYuna   
 
 
  
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