Serie TV > Sherlock (BBC)
Segui la storia  |       
Autore: LarcheeX    16/02/2017    0 recensioni
Un impercettibile sorriso comparve sulla sua faccia, e per quanto fosse sadico, non potè sembrarmi più dannatamente sincero.
“Il nome è Sherlock Holmes. Sono il primo consulente investigativo al mondo."
~~~
“Ti sei ripreso da ieri?”
Era Watson.
Da vicino era ancora più stanco e acciaccato di quanto avessi constatato in precedenza, e sembrava profondamente annoiato, o semplicemente era il suo viso. Eppure sembrava che si aspettasse qualcosa da me.
{ Teen!lock || Storia a quattro mani }
Sherlock's POV: Larcheex
John's POV: DoubleDisasterDi
Genere: Generale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna, Het | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Eeeee niente, rieccoci qui, un mese dopo.
Siamo state puntuali.
Che brave.

Buona lettura a tutti!



6. Of inevitable relations and silly presents.
 
Non sapevo davvero perché, ma quel giorno ero talmente affamato che l’ora della pausa pranzo non mi era mai sembrata così piacevole e attesa. Scattai fuori da chimica, che ormai frequentavo esclusivamente perché potevo mettermi vicino a John, senza curarmi dei libri e del bloc-notes, e, afferrato al volo giusto il cellulare, mi precipitai giù per i due piani di scale che mi separavano dal soddisfare il mio bisogno urgente di mangiare.
Mycroft avrebbe di sicuro avuto una spiegazione per quello strano avvenimento, una spiegazione ragionevole senza dubbio, ma talmente irritante per causa di chi la pronunciava che nella mia testa sarebbe stata automaticamente bollata come sbagliata, quindi, ignorando completamente tutte le supposizioni sul caso che rimbombavano nella mia testa con la fastidiosa voce di mio fratello, superai un paio di umani atti solo a consumare quanta più aria possibile parlando di chissà quale test difficilissimo e mi lanciai dietro all’ultimo in fila, afferrando un vassoio con impazienza.
Mi feci dare tutto ciò su cui riuscii a mettere gli occhi e, con un certo nervosismo febbrile, sbattei la mia persona sul tavolo più vicino e cominciai a mangiare.
La causa più probabile di quella voracità era il fatto che, con l’avvicinarsi del Natale, i casi su cui Lestrade riusciva a mettere mano diventavano sempre più blandi e poco interessanti, per cui la mia inattività cresceva insieme al languore dello stomaco.
Almeno compensavo i periodi in cui, preso dalle investigazioni del momento, non mangiavo nemmeno le invitanti frittelle di mio padre. Almeno John non si sarebbe lamentato.
Parlando di John, giunse al mio tavolo solo dopo un discreto quarto d’ora, e io non avevo nemmeno finito di mangiare. Mi osservava col suo solito sguardo esasperato, con già in bocca probabilmente qualche parola di rimprovero per aver lasciato tutta la roba in classe e averlo costretto a recuperarla e trascinarsela dietro insieme a tutta la propria, ma lo precedetti: “Era inevitabile, John” lo vidi contorcere le labbra nel suo solito atteggiamento da ‘non ho nemmeno parlato, smettila’, ma non gli diedi il tempo di continuare a cercare di proferir parola, che lo anticipai di nuovo: “Sapevo che avresti preso la mia roba, perché avrei dovuto preoccuparmene?”
John respirò a fondo, mi lanciò il bloc-notes in faccia e si sedette di fronte a me.
Lanciai un’occhiata al suo vassoio: da quando avevamo avuto quella strana conversazione sul suo trauma collegato al padre, John aveva cambiato quasi tutte le sue abitudini, tra cui anche quella legata al cibo; se prima si portava un piatto, sfornito e acciaccato panino malamente avvoltolato nella stagnola, ora aveva preso l’abitudine di passare alla mensa e comprare qualcosa di più sostanzioso, probabilmente usando l’abbonamento della scuola per chi non poteva permettersi il pranzo da solo. Era sempre estremamente discreto nell’usarlo, ma non se ne vergognava come pensava che sarebbe successo.
Ma non era solo quello: come già ebbi modo di notare, anche i suoi vestiti cominciavano a essere più puliti e più curati, i suoi capelli meno arruffati, il suo viso più disteso; anche nei modi di fare era cambiato, diventando più aperto e audace, soprattutto nel conoscere altra gente: dove prima era teso, evitava il contatto fisico e contraeva qualsiasi muscolo vicino a estranei, fuggendo il loro sguardo, in quel momento era quasi spavaldo, dallo sguardo alto e sicuro nonostante la bassa statura e l’apparente timidezza iniziale veniva quasi del tutto eliminata dopo qualche scambio.
Pensai che la cosa fosse prevalentemente merito mio, e lo era, ovviamente, anche se mi infastidiva alquanto condividere una piccola parte di quel merito con Sarah, quell’anonimo ammasso di atomi con cui John passava qualche venerdì sera all’insegna di un noioso film e una cena in qualche sciatto locale del quartiere.
Ogni tanto li avevo anche visti.
John non disse nulla finché era impegnato a mangiare la sua zuppa, poi quando cominciò la carne, alzò i suoi occhi dal piatto per cercare i miei, ancora impegnatissimi sull’hamburger: “Sherlock?”
Fu solo quando lo ripeté per la quarta volta che mi degnai di dedicargli l’attenzione che cercava: “Cosa?” sbottai, chiaramente irritato.
Alzò gli occhi al cielo, pregando che qualcuno mi trovasse un caso per distrarmi, pensiero che lessi non solo nel suo sguardo, ma anche nella fronte corrugata e le sopracciglia arcuate verso l’esasperazione: “Hai parlato con Molly?”
“Non l’ho proprio vista in tutta la mattinata.” Feci un abbozzo di spallucce per far capire che non fosse colpa mia.
“Ma era in classe con noi!”
“Davvero?”
E la conversazione finì lì, sia perché non avevo intenzione di continuarla, per quanto poco mi importasse di ciò che Molly aveva da dire, sia perché ero davvero troppo impegnato a finire le patatine. “Poco male,” ricominciò John, appoggiando la guancia sulla mano chiusa a pugno, mentre ripuliva col cucchiaio il piatto: “sembra che stia venendo lei stessa.”
La sua constatazione fu accompagnata dalla voce timida ma allegra di Molly, che, dopo aver posato lo zaino vicino al nostro tavolo, si sedette accanto a me con un certo nervosismo.
Non riuscii ad ascoltare le parole di saluto che scambiò con John, perché ero attratto da un odore strano proveniente dalla sua borsa, ma poi lo lasciai perdere, distratto da un poderoso calcio che il mio amico mi indirizzò da sotto al tavolo, indicandomi di stare attento.
“S-stavo dicendo…” ricominciò Molly, che evidentemente si era costretta a interrompersi perché si era accorta che non l’ascoltavo per l’ennesima volta: “Il diciannove dicembre è il mio compleanno, e stavo pensando… ecco… di fare una piccola festa nel giardino di casa mia, tra una settimana.”
“Oh, bene.” Dissi, sperando che il discorso finisse lì.
“Grazie per averci invitato, allora!” sorrise John, decisamente raggiante. In effetti una festa, per lui, era un’occasione ben più piacevole: significava vivere come una persona normale, dopo una depressione abbastanza pesante, e un po’ questa cosa mi piaceva.
O meglio, mi era piaciuta finché non intesi l’orrido significato del plurale che John aveva usato per ringraziarla.
Averci?!” sbottai, a metà tra lo stizzito e l’arrabbiato, ma non ebbi modo di protestare oltre, perché Lestrade mi fece notare il suo arrivo con un buffetto sulla mia nuca, e distrasse Molly dal mio intento di maleducazione perché lei si mise a spiegare la stessa cosa che aveva detto a noi.
Era chiaro che non sarei comunque andato, anche con un invito, soprattutto perché non mi interessava mescolarmi con la normalità e il suo banale modo di divertirsi: ci sarebbe stata musica, patatine e panini, e i pochi altri amici che una ragazza insignificante e timida come Molly Hooper avrebbe potuto farsi e probabilmente qualche cugino.
Noioso.
È proprio mentre mi perdevo a pensare queste cose che l’odore prima individuato si ripropose più forte che mai quando Molly spostò lo zaino verso di me mentre si metteva più comoda per mangiare. In quel momento fui in grado di capire cosa fosse, e la mia intuizione mi fece scattare di lato con un certo schifo: “Molly Hooper, perché il tuo zaino puzza di pipì di gatto?”
Lei arrossì e mise una mano su di esso, e capii immediatamente che dentro ci fosse qualcosa o di estremamente prezioso o di estremamente fuori dalle regole, e optai per la seconda, dato che difficilmente un oggetto di valore puzzava a quella maniera.
Lei, vedendo il mio sguardo fisso sulla zip, dopo un sospiro e dopo essersi guardata attorno con fare timoroso, si decise ad aprirla estraendo un batuffolo arruffato di pelo grigio e nero che sembrava, ed era, alla fine, un gatto minuscolo semi addormentato.
Lestrade allungò immediatamente una mano per accarezzarlo, e quello non fece storie: osservò le sue lunghe dita con occhi assonnati, decise di accordargli il permesso di toccarlo e tornò a sonnecchiare.
“Perché lo tenevi lì dentro?” chiese John, quasi candidamente, ma ero troppo annoiato dalla situazione per interromperlo con supponenza e chiarificargli una situazione fin troppo ovvia: Molly l’aveva trovato venendo a scuola e non avendo cuore di lasciarlo lì dove stava, lo aveva portato con sé per adottarlo.
“… ma ha una zampina ferita, devo curarlo con qualcosa.” Concluse, mentre finalmente finivo di mangiare.
“Potremmo provare a curarlo!” propose Mike, arrivato nel frattempo poco dopo Lestrade, che annuì convinto, mentre John sorrideva accondiscendente.
Improvvisamente, tutti mi guardarono. Mancavo io.
“No.”
 
“Cosa stiamo facendo?!” chiesi, stizzito e infreddolito, mentre mi annodavo la sciarpa al collo e, una volta tanto, venivo trascinato da John da qualche parte a me ignota.
Era così strana, per me, quella situazione, che quasi mi rifiutavo di crederci: per una volta ero io quello a non avere idea di cosa stesse succedendo.
“Ovviamente stiamo cercando di aiutare Molly a curare il micio!”
“Ovviamente no, perché basterebbe semplicemente portarlo da un veterinario e aspettare che lui adempia alla funzione per cui è pagato ed eviteremmo di dover vagare a vuoto mentre gli altri sono a casa propria.”
John non disse nulla, si limitò a sorridere con un’aria che definii abbastanza ebete: probabilmente era il pensiero di Sarah a renderlo così rimbambito, e il fatto che Molly gli avesse permesso di invitarla non solo mi aveva infastidito, ma stava facendo diminuire ancora di più la mia voglia di presentarmi alla festa che, se c’era mai stata, seppur minima, in quel momento era svanita.
John entrò nel negozio di fotografia che trovavamo sempre sulla via di casa, nella cui vetrina erano esposti vari modelli di macchinette, dalle più economiche alle più elaborate, professionali e costose. Mi chiesi se effettivamente le stessimo regalando una macchina fotografica, dato che lei non sembrava esattamente il tipo di ragazza che amasse farsi ritrarre in foto né dotata di particolare talento per catturare gli oggetti o i paesaggi, ma mi importava così poco rispondermi che persi la voglia e continuai a seguire docilmente John mentre chiedeva con un po’ di timidezza di farsi mostrare la macchinetta esposta per trentacinque sterline.
Non era particolarmente moderna né particolarmente bella, ma immaginai che fosse il massimo che uno come John si potesse permettere, anche perché ero abbastanza sicuro che, poco abituata com’era a ricevere gesti d’affetto o regali, Molly non solo avrebbe apprezzato ma si sarebbe commossa.
“Sherlock, mi devi diciassette sterline e mezzo.” Disse John, una volta usciti dal negozio con la macchinetta ma senza pacchetto regalo, anche se non mi chiesi perché. Non mi interessava.
“Cosa?”
“Questo è il nostro regalo per Molly, quindi devi darmi la metà.”
“Io non verrò alla sua festa, per cui non vedo perché dovrei essere coinvolto in una cosa del genere.”
John alzò gli occhi al cielo, come se si fosse aspettato quella risposta dall’esatto momento in cui Molly dato la notizia, e davvero non capivo come lui, pur sapendo cosa avrei detto, aveva deciso di andare avanti con quella ridicola situazione.
Dopo un attimo di sconforto, riprese: “Okay, non mi importa delle sterline che mi devi, però devi venire, Molly ci tiene davvero tanto che tu ci sia!”
“Fammi capire, John” cominciai, irritato, stanco, affamato – di nuovo, e assolutamente convinto a metter in chiaro le mie ragioni, bloccandomi improvvisamente a metà strada: “mi hai trascinato qui con la scusa di dover trovare un non si sa bene cosa per curare un gatto in modo casalingo pur sapendo che per queste medicazioni serva un esperto per comprare una macchinetta fotografica a Molly Hooper, di cui non penso m’importerà mai qualcosa, né di lei, né della sua festa?”
John mi fissò.
Dal suo sguardo deluso e arrabbiato capii di aver detto qualcosa di brutto o sconveniente, ma mi dissi di non aver fatto nulla di male, dato che non avevo pronunciato nessuna di quelle parole di fronte alla persona interessata, per cui feci spallucce e mi voltai dall’altra parte.
John non disse nulla, continuò a camminare verso casa, con la busta del regalo appesa al braccio, come se mi stesse ignorando, ma sapevo che stesse rimuginando sulle mie parole e sulla mia poca sensibilità.
“Ora dove vai?” chiesi, azzardando qualche passo verso di lui per evitare di perderlo tra la folla che cercava regali freneticamente e istericamente.
“A prendere qualcosa per quel povero micio, Sherlock.”
Non aggiunse altro, ma io lo seguii.
 
Fare pace con John, quella volta, impiegò qualsiasi mia risorsa cerebrale, di pazienza e comprensione.
Prima di tutto dovetti impegnarmi al massimo per capire perché si fosse arrabbiato con me, dato che non c’era nulla di sbagliato che avessi fatto, e parlare male di Molly non l’avevo nemmeno incluso in una delle possibili cause del suo iroso silenzio, dato che per me il fatto che non l’avessi detto di fronte a lei già comportava un enorme sforzo e grande privilegio nei suoi confronti.
Comunque sia John si fece accompagnare fino a casa, ma rifiutò il mio invito a venire da me, e fu da lì che dedussi che avrei dovuto fare qualcosa per farmi perdonare, qualsiasi cosa avessi fatto.
Prima di tutto, dovetti accompagnarlo a riempire la macchinetta di fotografie: l’idea di John era inserirci tutti i ricordi importanti della nostra amicizia con lei, così che lei non potesse dimenticare quanto il primo anno di liceo fosse stato importante anche per la sua presenza. Almeno per lui.
Quindi per la settimana che ci separava fui ingaggiato per far foto di nascosto, dato che per me era una qualità molto più sviluppata rispetto a quella di John, per le innumerevoli volte che ero stato costretto a scattarne sulle varie scene del crimine a cui non avevo avuto accesso per via ufficiale: Mike e Lestrade, John e Molly, Molly e Mike, Lestrade e John che facevano boccacce, Molly e Lestrade, Mike che storceva gli occhi, tutti mentre reggevano un cartello “ciao Molly, buon compleanno”, tutto ovviamente senza che lei se ne accorgesse, perché altrimenti saltava tutto. Evitai accuratamente di rientrare in alcuna delle foto, giusto per sottolineare la mia estraneità a tutto, e che se ero in quella situazione, era solo ed esclusivamente per John.
Finita la settimana, consegnai la macchinetta a John e la prima parte della mia tortura fu conclusa.
La seconda parte coinvolgeva, ovviamente, la festa, parte da cui non riuscii a esimermi nemmeno con suppliche perché, nonostante intuissi che John mi avesse già perdonato, avevo anche capito che avrebbe ricominciato a parlarmi poco se solo mi fossi assentato, per cui presi me e la mia poca voglia di mescolarmi ai bassi individui della normalità e li trascinai fino a casa di Molly.
L’evento era esattamente come l’avevo immaginato: musica, patatine, pochi amici e qualche cugino, tutto dentro un giardino piccolo ma estremamente curato, con un bel gazebo fiorito sotto il quale erano stati sistemati cibo e bevande e sotto il quale si erano anche collocati John e Sarah, in una sorta di speranza che non li vedessi.
Fortunatamente furono le prime persone che notai, prima ancora di Molly; John, intercettando il mio sguardo, si staccò dall’abbraccio della ragazza e venne verso di me, sorridente e soddisfatto di aver sortito l’effetto sperato.
A quella vista la mia espressione s’incupì talmente tanto che solo l’ombra del portico riuscì a nasconderla, e fu effettivamente lì che mi nascosi dalle forzate effusioni verbali che sarei stato costretto a emettere in caso avessi incontrato qualcuno come Mike, Lestrade o Molly stessa.
Ad attirare il mio sguardo, però, fu un ragazzo che non avevo mai visto, e che somaticamente era troppo differente da Molly per essere un parente: non era troppo alto, forse anche troppo smilzo, con i capelli corti e un accenno di adolescenziale peluria sul labbro superiore, segno o di poca cura o di disperata ricerca di virilità. Data la sua stazza poco minacciosa e ai suoi movimenti nervosi e scattosi, spesso esitanti, dedussi che fosse la seconda piuttosto che la prima.
Era probabile che fosse un amico di Molly esterno alla scuola, perché un tipo così peculiare lo avrei immediatamente notato, vagando per i corridoi dell’edificio che tanto odiavo, probabilmente del vicinato, o un figlio di un amico dei genitori che non sapeva dove parcheggiare la propria prole per quel pomeriggio.
Distolsi lo sguardo quando lui, sentendosi osservato, si volse verso di me e mi sorrise timidamente, agitando la mano.
Per occupare tempo, mi diressi verso il tavolo delle cibarie per prendere un po’ di patatine e versarmi dell’acqua, ma fui accidentalmente intercettato da Molly che, vestita di tutto punto con un abito con la gonna a campana color pesca e una volta tanto con i capelli sciolti, mi si presentò davanti con l’espressione più raggiante che le avessi mai visto in viso: “Sherlock, sei venuto!” esclamò, come se nemmeno ci credesse lei stessa: “Sono davvero felice che tu sia qui!”
“Lo vedo” grugnii, cercando di essere il più secco possibile, anche se tutta quella contentezza improvvisa a causa mia aveva smorzato il mio intento.
“Alla fine sei un po’ allegro anche tu, ammettilo” scherzò John, che nel frattempo mi aveva raggiunto e mi aveva porto un piattino con dei popcorn e dell’aranciata. Bevetti tutto d’un sorso e trangugiai il più velocemente possibile ciò che mi era stato dato, anche perché Molly era tornata alla carica, portandosi appresso il tipo che prima aveva attirato la mia attenzione: “Ragazzi, lui è un mio… amico!” lo presentò, anche se la titubanza nel dire “amico” mi fece supporre immediatamente che non solo non si trattasse di una semplice cotta, ma che stessero anche insieme.
Lui sorrise di nuovo timidamente, quasi tremante, e mi porse la mano: “Piacere, Jim”.
“Sherlock Holmes” dissi, per qualche motivo rapito dal suo modo di fare. Poi capii dal suo sguardo che le sue movenze erano fatte esattamente per attirare la mia attenzione, soprattutto quando esordì: “Ho sentito molto parlare di te!” per cui, capendo le sue ambigue attenzioni verso di me, mi ritrassi: “Senza dubbio.” Lo ghiacciai, tanto che John intervenne immediatamente per migliorare la situazione: “Vuol dire che ne è lusingato!” proruppe improvvisamente, con un sorriso tiratissimo e poco naturale.
Il ragazzo parve spaventato da quello scambio di battute, per cui si allontanò rapidamente, sfiorando le dita di Molly che, timida, si ritrasse, per paura che qualcuno la vedesse.
A parte quel particolare evento, nulla della festa fu da ricordare, a parte il momento della consegna del regalo al quale io stesso avevo partecipato.
Prima Lestrade e Mike le consegnarono una catenina sottile alla quale era appesa una M in una calligrafia elegante e ricercata, anche se dall’apparenza poco costosa dal pacchetto un po’ acciaccato, ma la festeggiata non disse nulla, semplicemente indossò la collana. Dal continuo tastarla, però, intuii che le fosse piaciuta assai. Inoltre, continuava ad ammiccare dalla parte di Jim per fargli vedere quanto fosse felice e soddisfatta.
Data la bassa statura, John fu superato e ignorato da tutti gli altri invitati, per cui, prima che potesse mettere le mani sul nostro regalo, Molly ricevette anche un set di cinque magliette colorate, un bloc-notes dalla carta pregiata, una bella penna a sfera e un astuccio colorato per le matite, e John riuscì a consegnarle il suo pacchetto solo alla fine, quando qualcuno se n’era già andato. Lei s’incuriosì moltissimo nel vedere la macchinetta, ma si commosse definitivamente quando vide tutte e trenta le foto che avevo scattato in incognito. Certe volte rideva, certe volte si asciugava una lacrima, ma avvampò completamente quando vide l’ultima.
La trentesima era quella con il cartello, quindi non capii davvero perché si sarebbe dovuta imbarazzare: incuriosito, mi avvicinai a lei, e mi accorsi a malincuore che era stata aggiunta un’altra foto, e il soggetto di quell’ultima era ciò che aveva eluso l’obiettivo fin dall’inizio.
Me.
Mi prendeva di tre quarti, con lo sguardo perso nel vuoto, dopo aver controllato per l’ennesima volta il cellulare che stavo riponendo nella tasca dei pantaloni, anche se, più che la realtà mi sembrava di guardare una foto dei modelli da rivista che ogni tanto mia madre sfogliava, sia per la posa, sia per la peculiare trasparenza che la luce aveva dato ai miei occhi in quel momento.
Mi sentii imbarazzato, poi infastidito, poi arrabbiato che qualcuno si permettesse di scattarmi foto a tradimento, soprattutto perché era di sicuro stato qualcuno come John, che aveva la mia fiducia.
Vedendo la mia espressione, John mi diede una gomitata: “Oh, dai, Sherlock, è solo una foto!” poi abbassò la voce, tirandomi alla sua altezza: “E per te potrà anche significare nulla, ma per lei tu sei importante, quindi è giusto che ci sia.”
Mi voltai verso Molly, e il suo sorriso smagliante e felice. Alla fine, non era stato così male, trascinarsi a quella festa, mi sentivo molto più sollevato che, nonostante le mie parole rudi, lei riuscisse a sentirsi felice per così poco, e qualsiasi cosa avessi potuto dire in precedenza svanì rapidamente quando lei mi guardò, ringraziandomi silenziosamente.
Alla fine, non era così male affatto.
  
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Sherlock (BBC) / Vai alla pagina dell'autore: LarcheeX