Be careful making wishes in the dark
~ Can’t be sure when they hit
their mark ~
07. Runnin’ deep inside my veins
La porta degli spogliatoi si aprì tanto inaspettatamente e
rumorosamente da far sussultare Kentin, impegnato a frizionarsi i
capelli con un asciugamano. Ambra stava sulla soglia, aggrappata alla
maniglia che stringeva tra le mani come se ne dipendesse la vita. I
suoi occhi azzurri parlarono e agirono per lei senza che articolasse
alcun suono o alzasse un solo dito. Tremava di rabbia: ne era certo,
non poteva essere altrimenti.
Buttò l’asciugamano dentro il borsone utilizzato
per gli allenamenti e gli incontri del club di basket e tirò
fuori la maglietta pulita.
«Si bussa prima di entrare» la salutò
saccente, lanciandole uno sguardo veloce mentre si rivestiva.
«Questi sono gli spogliatoi maschili».
Imperterrita, Ambra strinse i pugni continuando a scagliargli contro il
proprio disprezzo.
Il ragazzo sospirò, chiuse la cerniera del borsone e si
incamminò verso di lei che, stando ferma proprio innanzi
all’uscita, gli impedì di avanzare oltre.
«Ambra» la chiamò per attirare la sua
attenzione. «La partita è finita, sono
già tutti fuori e i ragazzi mi stanno aspettando».
Quel tono fastidiosamente conciliante riuscì a scuoterla
abbastanza da gettarglisi contro: Ambra artigliò la sua
t-shirt con la disperazione di un condannato a morte, mentre gli occhi
ancora promettevano l’inferno.
Kentin sospirò pesantemente e con gentilezza
cercò di allontanarla. «Non fare la
bambina».
«Tu…» esalò lei.
«Ti rendi conto di cosa hai fatto?!» gli
urlò.
Il ragazzo sbuffò, annoiato. «Chi è
gelosa, adesso?»
«Siamo uguali! Uguali! Non puoi essere-».
«Cosa? Finalmente felice?» la interruppe lui con
sarcasmo. «È così, allora: ti
crogiolavi nel mio dolore».
«No! No! Io-» balbettò, agitata.
«Cosa stai dicendo? Non… Non sono io la cattiva in
questa storia!»
«Hai proprio voglia di farmi ridere stasera, eh?»
replicò, cinico. «Mi hai sbattuto la cruda
verità in faccia e quanto io sia stato solo uno stupido, mi
hai usato a tuo piacimento – facendomi sentire ancora
più stupido –, ti ho lasciata in pace come avevi
chiesto… e adesso cosa pretendi, Ambra? Ho fatto tutto
quello che volevi. Dovresti saltare di gioia».
Ambra sbarrò gli occhi, irrimediabilmente lucidi.
«No… No, io-», non riuscì a
concludere per il nodo alla gola che deglutì senza successo.
Quelle parole contenevano una verità che si era sempre
rifiutata di vedere, a cui non voleva credere. Una verità
che faceva troppo male, più male della consapevolezza che
Castiel non l’avrebbe amata, mai.
Per cosa continuava a darsi così tanta pena? Cosa cercava
che non trovava? Cosa desiderava così tanto da fare di tutto
– farsi del male, farlo agli altri? Cosa?
Ironia della sorte: Kentin pareva saperlo e questo la mandava su tutte
le furie. Lui l’accusava a ragione e allo stesso tempo
s’incolpava, ma – tanto – era un caso
perso, un ingenuo che si era fatto abbindolare con fin troppa
facilità. O probabilmente, l’aveva asseconda per
pietà e adesso fingeva di essere lui la vittima.
Ambra rise tra sé freddamente: no, quello sarebbe stato
troppo anche per lui – un po’ aveva imparato a
conoscerlo. La verità era che stava impazzendo e
lui… Lui aveva fatto tutto – tutto –
quello che lei aveva voluto facesse. E non esisteva alcun motivo per
cui fossero lì a discutere, a scrutarsi negli occhi tentando
una comunicazione impossibile.
Impossibili erano loro due insieme, ma insieme avevano dato il via a
quella partita, a quella guerra che mal aveva tollerato
l’armistizio impostole, scalpitando per
un’insaziabile sete di sangue, sudore e polvere. Non ci
sarebbe mai stata pace, né lei in fondo l’aveva
mai chiesta – altrimenti perché precipitarsi
lì? Perché correre da lui alla voce di corridoio
che lo voleva interessato ad Iris?
Iris! Cosa avesse Iris più di lei, poi! Nulla!
Ambra abbassò lo sguardo, vinta dalla consapevolezza: non
poteva muovergli contro nulla, eppure prepotentemente voleva qualcosa.
Aveva tessuto una ragnatela in cui era rimasta intrappolata, soffocata.
«Va’ a casa». Kentin la spinse dalle
spalle, ma lei non mollò la presa.
Ambra prese un profondo respiro, sopraffatta e stanca.
«Quanto mi trovi patetica adesso?»
mormorò.
«Abbastanza da permetterti di rovinarmi la maglietta con le
tue unghie» sbottò lui, sincero.
Scoppiò a ridere amaramente sorprendendo entrambi, e,
raccogliendo i pezzi del proprio orgoglio, alzò lo sguardo.
Qualcosa scattò tra loro: Kentin seppe in anticipo
ciò che lei stava per fare, ma quando accadde non si oppose.
Lasciò cadere il borsone a terra, con un calcio chiuse la
porta e la schiacciò contro di essa.
Ambra si premette contro il suo corpo, contro le sue labbra che non la
lasciavano respirare in quella lotta di baci voraci, di denti che
mordevano e tiravano e di lingue che duellavano per avere la meglio.
Avvolse le braccia attorno al suo collo e le gambe ai suoi fianchi,
quando lui l’afferrò dalle cosce per spostarsi
senza interruzioni.
La schiena toccò piano il freddo metallo di una panchina:
l’impeto iniziale aveva lasciato il posto alla gentilezza che
solo in quel momento si era resa conto mancarle più di
quanto avesse mai creduto possibile.
Quel calore. Quelle mani che l’accarezzavano, inarrestabili.
Quelle labbra che le torturavano il collo e la bocca. Quei capelli che
stringeva tra le dita.
Il respiro accelerò adeguandosi al battito cardiaco che
tuonava dentro il proprio petto, mentre infilava le dita fredde sotto
la sua maglietta e passava le unghie sul petto solido e gli addominali
scolpiti, lasciando scie bianche a marchiarlo. Lo sentì
tremare e trattenere il fiato tra i denti stretti su un lembo di pelle
della spalla – le avrebbe lasciato un bel segno che per
fortuna poteva nascondere sotto i vestiti.
Fu la sensazione di suscitargli quell’effetto, nonostante
tutto, ad appagarla più dei vestiti nuovi, più
dell’ennesimo paio di scarpe, più di un
trattamento completo dall’estetista, più di una
perfetta messa in piega, più dei ridicoli dispetti che amava
architettare ai danni di poveri innocenti o della sua vittima
preferita. Forse, in fondo, in un posto molto molto polveroso, umido,
freddo ed oscuro, chiuso a doppia mandata, Kentin le apparteneva
– lo sentiva a pelle, nel sangue, in
quell’attrazione che li aveva nuovamente piegati al suo
volere.
Ambra armeggiò con la cerniera del vestito indossato in occasione della partita di basket del liceo, ma non fece in tempo ad abbassarla che lo sentì allontanarsi bruscamente.
«Oh, no. No. No!» ansimò lui a corto di
fiato nel riprendere lucidità. «Non ci sto
cascando di nuovo!» Rise di se stesso con isterico sarcasmo,
passandosi una mano tra i capelli arruffati.
Ambra sorrise con malizia, compiaciuta per
quell’inconsapevole confessione, quella conferma che le
serviva. Si mise seduta e gli prese il viso tra i palmi, premendo poi
con fermezza le labbra sulle sue.
«È questo che vuoi. È questo che
voglio» gli sussurrò, sicura e finalmente sincera.
Socchiuse gli occhi, perdendosi nel verde liquido dei suoi.
«Adesso torniamo a quello che hai interrotto», si
morse il labbro inferiore ancora sorridente e salì a
cavalcioni sulle sue gambe.
Kentin la lasciò libera di prendere l’iniziativa,
addolcito dalla pioggia di baci che gli stava lasciando ovunque sul
volto. Il pensiero corse subito a quel pettegolo di Alexy che aveva
escogitato quel folle piano – a cui non aveva creduto neppure
per un secondo – di scatenare in Ambra un moto di gelosia e
tanto bastò a renderlo consapevole di un piccolo, non tanto
trascurabile, dettaglio.
«Gli altri mi staranno cercando»
brontolò con frustrazione.
Ambra aggrottò la fronte, incenerendolo con lo sguardo.
«Certo, Castiel si starà disperando»
ironizzò inviperita.
Kentin le lanciò uno sguardo di fuoco per quella triste
uscita, ma lei non ritrattò.
«A quello non fregherà un cazzo di me, ma Alexy
è un vero rompipalle» replicò lui.
La ragazza sbuffò di esasperazione e agì: dalla
tasca dei suoi pantaloni tirò fuori il cellulare –
tanto, presto gli sarebbe toccata quella sorte – e davanti i
suoi occhi increduli lo spense, gettandolo poi a terra con noncuranza.
Kentin la guardò a bocca aperta e fece per protestare, ma
lei fu svelta a distrarlo e zittire l’imprecazione sul
nascere. Il pensiero corse per l’ultima volta al povero
cellulare e all’amico – a cui doveva purtroppo una
pizza – e poi si lasciò travolgere dal suo
personale tornado biondo.
E questa è la fine, che ovviamente è solo l’inizio… Ancora ne hanno di strada da fare, ma per il momento è tutto ^^
Tirando un po’ le somme, è venuta fuori più come una raccolta che una long, ma vabbè! È stato più comodo e agevole per me strutturarla così. Magari al prossimo giro sarà una long long davvero, chissà ;)
E adesso è il momento dei RINGRAZIAMENTI!
Grazie a tutti per le letture (che non sono numeracci, ma ci sono e be’… per com'è questa storiella, per me è davvero wow), a chi l’ha messa tra i preferiti, a chi l’ha messa tra le ricordate, a chi l’ha messa tra le seguite e… per ultimi ma non ultimi, a chi ha speso il suo tempo per riempirmi di gioia con una recensione! Grazie infinite ♥♥♥
Passiamo ai credits. Come già qualcuno ha notato, il titolo è preso da My Songs Know What You Did In The Dark dei Fall Out Boy e, invece, i titoli dei capitoli provengono da Poison di Alice Cooper. Sia sempre ringraziata e venerata la musica nei secoli dei secoli.
Ed è finalmente svelato il mistero dell’introduzione! Non so se vi stavate chiedendo da dove fosse uscita fuori la citazione, ma… sì, dall’ultimo capitolo. Sì, sono strana. Sì, l’ho fatto apposta per accalappiarvi tutti e tenervi qui a leggere fino all’ultimo capitolo!! Muahahahahah… Sì, sto scherzando… Be’, semplicemente ho deciso così ;)
Un abbraccio a tutti e ancora grazie ♥
Calime