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Autore: Kary91    19/02/2017    2 recensioni
[Long Fiction | Jace!centric | Jace & Alec (bromance) | What-if? di "Città delle Anime Perdute"]
Ci troviamo verso la fine di Città di Anime Perdute e qualcosa di sostanziale cambia, durante la battaglia fra Shadowhunters e Ottenebrati: Alec viene ucciso da Sebastian, sotto lo sguardo impassibile di un Jace schiavo della volontà di quest'ultimo.
Sei mesi dopo, Jace è finalmente libero dal condizionamento di Sebastian, ma non è più se stesso. Devastato dai sensi di colpa e dal dolore per la perdita del suo parabatai , è ossessionato dall’idea di riportare in vita Alec.
Troverà un modo: una strada che nessuno ha mai nemmeno pensato di intraprendere e che probabilmente gli costerà la vita. Un viaggio che rischia di scardinare l’equilibrio dei Regni Celesti – dove vivono gli angeli e le anime di chi non c'è più.
Ma quando Jace Herondale vuole qualcosa nemmeno Raziel in persona può impedirgli di ottenerla. Soprattutto se quel qualcosa è la vita di suo fratello.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Alec Lightwood, Jace Lightwood, James Carstairs, Kieran, Magnus Bane
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'A thousand times over;'
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4 | I’m coming for You;

 

«Mi sembrava di avere un uncino piantato sotto le costole, con qualcosa che tirava in senso opposto. Come se fossi fisicamente legato a te, a prescindere dalla distanza.»

Julian BlackthornSignora della Mezzanotte. Cassandra Clare

 

 

 

Jace sfiorò ammirato il manubrio della moto.

Ne aveva visti tanti di quegli aggeggi, e l’anno prima ne aveva perfino guidato uno, ma non si era mai sentito tanto eccitato al pensiero di possedere un mezzo come quello.

Il suo sguardo passò in rassegna la figura snella e lucida della moto e i tubi sporchi di qualcosa che sembrava grasso, ma che Jace supponeva fosse icore: dopotutto, le moto dei vampiri erano state truccate per funzionare con motori demoniaci.

Era per quello che Jace se n’era procurata una, soffiandola a un imbecille dall’aria assonnata del clan di Raphael. Nessun altro mezzo facilmente reperibile era in grado di volare così in alto. E poi, aveva sentito dire che alcuni membri della caccia volassero con delle motociclette anch’esse impregnate di magia nera. Probabilmente il mezzo dei vampiri non avrebbe retto il confronto: presto o tardi Jace non sarebbe più riuscito a stare al passo e sarebbe stato costretto a rivelarsi, nella speranza che la Caccia lo prendesse con sé. Per il momento, tuttavia, quella moto era più che sufficiente.

Sorrise fra sé, prima di alzare la testa: la finestra della camera di Clary era socchiusa.

La tristezza imperlò il volto del ragazzo, mentre le sue mani correvano a cercare degli appigli: la sinistra accarezzò l’anello degli Herondale, mentre quella destra si richiuse attorno a un foglietto piegato in quattro.

Era un disegno che aveva trovato nell’album di Clary, la runa che lei aveva tentato di nascondergli per giorni, senza tuttavia trovare il coraggio di sbarazzarsene.

A Jace era bastata una breve occhiata per intuirne il significato, per percepire la forza e il pericolo sprigionati da quei tratti.

Non avrebbe voluto rubarle qualcosa. Non era così che Clary avrebbe dovuto ricordarlo: come qualcuno che aveva tradito la sua fiducia.

Ma Jace sapeva che se gliene avesse parlato, se le avesse spiegato i suoi piani, Clary non gli avrebbe mai permesso di andarsene. Una parte di lui era certa che sarebbe comunque riuscito a partire, ma l’altra non aveva dubbi sul contrario. In fondo, Clary era tanto cocciuta quanto lui. Probabilmente avrebbero trovato il solito compromesso, pensò con un lieve sorriso: sarebbero andati assieme. E Jace aveva già abbastanza colpe sulle spalle, senza doversi addossare anche il rischio di perdere l’unica che persona che fosse mai riuscita ad appropriarsi del suo cuore per intero.

Così avevano dormito insieme un’ultima volta, mano nella mano, come i bambini delle favole[1]. Senza toccarsi troppo, per non stuzzicare il fuoco celeste. Jace l’aveva guardata a lungo, impegnandosi per mandare a memoria ogni dettaglio di quel viso addormentato: il naso puntellato di lentiggini, le labbra sottili e un po’ screpolate, le ciocche di capelli appiccicate al volto per via del caldo.

Era così minuta; così ordinaria. Eppure, mentre le diceva addio, era certo di non aver mai visto nulla di più bello.

Era la cosa più importante – l’unica in grado di giustificare ogni suo gesto più avventato, gli sbagli commessi, i rischi che aveva preso.

L’amava così tanto che il pensiero di perderla di nuovo gli lacerava il cuore – proprio come la perdita di Alec gli aveva strappato via metà dell’anima – ma ormai aveva preso la sua decisione.

Così le aveva baciato la fronte un’ultima volta, e poi le labbra, soffermandosi a sfiorarle una guancia.

Al suo risveglio Clary avrebbe trovato una lettera sul comodino, proprio come quella volta ad Alicante, quando l’aveva cercato per ore, temendo di averlo perso.

Solo che, questa volta, avrebbe dovuto aspettato in eterno: Jace non sarebbe più tornato.

Inspirò con forza, prima di appoggiarsi al fianco della moto. Notò che qualcuno vi aveva dipinto sopra una scritta: NOX INVICTUS.

“Notte vittoriosa” tradusse, ricordando di aver letto la stessa frase su un’altra moto, un anno prima. Sorrise, ricordando la faccia furibonda del proprietario quando aveva scoperto il suo scherzetto dell’acqua santa nel serbatoio. Jace l’aveva resa inutilizzabile, quindi quella doveva essere un’altra moto, ma l’idea che potesse appartenere sempre allo stesso vampiro lo fece ridere.

Nox Invictus, ripeté fra sé, salendo sulla moto. Sarebbe stata una lunga notte.

Estrasse lo stilo e lo infilò nell’avviamento: il motore rombò con furia e la vettura incominciò a vibrare.

Un brivido di esaltazione gli percorse la schiena. Sotto pagamento era riuscito a farsi dare alcune coordinate dal sommo stregone del Bronx – un hippie sulla quarantina che ricordava più un barbone che non un Nascosto – ma quello gli aveva solo permesso di restringere il campo di ricerca. Avrebbe dovuto setacciare ogni campo di battaglia di quella zona, ogni villaggio che si preparava a combattere, ogni regione che puzzava di sangue ancora da spargere. Per rintracciare la Caccia avrebbe impiegato diversi giorni, ma non gli importava.

Si sentiva addosso l’adrenalina che precedeva ogni scontro e, quando diede gas e la moto schizzò in avanti, il suo stomaco fece una capriola.

La vettura prese velocità, alimentando il frastuono del motore e delle ruote, mescolati al frullio dell’aria.

Un urlo selvaggio sfuggì alle labbra di Jace nel momento in cui le ruote si staccarono da terra: la moto prese quota, accelerando. Ormai Jace era praticamente in verticale, così fu costretto a rinsaldare la presa sul manubrio, piegandosi in avanti.

 

“Manca poco, Alec” gridò al vento, le orecchie tese nella speranza di captare uno scalpitare di zoccoli e il suono dei corni da caccia il prima possibile.

 

La runa parabataiormai ridotta a una cicatrice vibrava al contatto con l’aria fredda, insinuatasi attraverso giubbotto di pelle: per un attimo, fu come se fosse tornata in funzione. Come se Alec fosse ancora lì da qualche parte, ancorato a lui attraverso il marchio. Come se potesse sentirlo.

 

“Sto arrivando.”

 

 

*

 

 

 «Ero nel buio, aveva detto. Non c’erano che ombre, io stesso ero un’ombra, e sapevo che ero morto e tutto era finito, tutto quanto. Poi ho sentito la tua voce.»

Jace Herondale - Città delle Anime Perdute; Cassandra Clare

 

Alec sbatté le palpebre più volte, confuso e frastornato da tutto quel buio.

L’oscurità aveva tolto peso e identità al suo corpo a adesso giaceva nel nulla, leggero, come se non fosse altro che una proiezione.

Non c’erano indizi, intorno a lui. Non c’erano luci, né colori.

Ogni tanto intravedeva qualche ombra – lui stesso ne era una – ma svanivano in fretta, così come i pensieri.

Era come emergere da un lungo sonno, come avere l’impressione di cadere nel vuoto e svegliarsi di soprassalto, sfuggendo al torpore dell’incoscienza.

Poi arrivava la confusione, lo stordimento di chi si trova a metà fra il sogno e la veglia.

Infine, si giungeva alla consapevolezza: era stato tutto un sogno, una reazione involontaria del proprio corpo.

A poco a poco, Alec realizzò cosa gli stava capitando: se lo sentì fluire dentro con la morbidezza di un fruscio d’ali.

Era tutto finito, tutto quanto. Il buio era la sua nuova casa.

E in quanto a lui… lui era morto.

Il suo corpo – o l’ombra di quello che un tempo era stato un corpo – trasalì, ma questa fu l’unica reazione che riuscì a ottenere.

Cercò di spaventarsi, di ricordare, di provare tristezza per ciò che gli era capitato, ma era come se le normali funzioni che l’avevano caratterizzato da vivo fossero fuori uso.

Rimase nel buio – solo ed immobile – per quelli che gli parvero secondi, o forse ore: aveva perso anche la concezione del tempo.

E poi udì una voce.

Sembrava giovane e chiaramente maschile: lo stava chiamando, e più parlava più il buio intorno ad Alec incominciava a svanire e il suo corpo prendeva consistenza.

Jace?” mormorò, strizzando gli occhi.

Fu come se, tutto a un tratto, l’alba si fosse ricordata di spuntare.

Perfino il silenzio si attenuò, lasciando spazio ai primi rumori di sottofondo: il fruscio dei vestiti, lo strisciare dei suoi talloni contro il pavimento, un rumore di passi in lontananza.

Jace, sei tu?”[2]

Un’ombra emerse dalla semi-oscurità, avvicinandosi fino a raggiungere sembianze umane: era la figura di un ragazzo, in apparenza poco più grande di lui.

Gli assomigliava perfino, si sorprese a pensare non appena il giovane lo raggiunse. Aveva i suoi colori – capelli neri un po’ arruffati e vivaci occhi azzurri – ma c’era qualcosa di completamente diverso nella sua espressione. Aveva un sorriso allegro e canzonatorio, zigomi alti e ciglia lunghe. Come se tutto questo non bastasse, gli aleggiava attorno un’aura di distratta eleganza che lo rendeva incredibilmente attraente – e, a giudicare dalla sua espressione, sembrava esserne consapevole.

“Sbagliato” esclamò il ragazzo, rivolgendogli un sorriso sghembo. “Ma ci sei andato vicino.”

Alec aggrottò le sopracciglia, studiandolo circospetto. C’era qualcosa di lui che gli era familiare, ma non riusciva a ricondurlo a nessuna persona di sua conoscenza. Forse erano gli occhi: avevano la stessa tonalità dei suoi.

Magari il ragazzo era un antenato dei Trueblood, oppure un Lightwood: dopotutto, anche i suoi genitori avevano gli occhi azzurri.

“Sei in vena di insulti, ragazzino?”

La voce dello sconosciuto s’inasprì.

“Certo che non sono un Lightworm!”

Alec trasalì.

“Puoi leggermi nella mente?” farfugliò, prima di rivolgergli un’occhiata confusa. “Aspetta, hai detto Lightworm?”

“Chiunque potrebbe farlo” ribatté il giovane, le labbra increspate in un sorrisetto beffardo. “I tuoi pensieri sono di pubblico dominio, adesso: le anime non hanno un corpo, quindi i loro pensieri svolazzano qua e là.”

“Perché allora io non posso leggere i tuoi?” osservò Alec, un po’ seccato.

“Per poterlo fare dovresti trovarti dove mi trovo io” spiegò il ragazzo, indicandosi. “Quello che stai vedendo – e apprezzando, senz’altro – in realtà non è altro che una proiezione. La mia anima si trova in una delle Dimensioni Celesti più interne, ma quelle come la tua non possono superare i confini di Annwn, che è il cerchio più esterno del Paradiso.”

Alec si portò le mani alle tempie, sempre più confuso. Era davvero a un passo dal Paradiso? E dove diamine si trovava Annwn? Forse non aveva più un cervello, ma lo sentiva comunque sovraccarico.

“Le anime come la mia?”

Lo sconosciuto annuì.

“Quelle che non sono libere di andare avanti.”

Alec scosse la testa.

“Chi sei?” scelse di domandare, mettendo da parte gli interrogativi più complicati.

Il ragazzo tornò a sorridere compiaciuto.

“Mi chiamo Will” rivelò, mettendosi le mani in tasca. “Will Herondale: suppongo che tu abbia sentito parlare di me. Tutte cose belle, ovviamente.”

Alec avvertì un fiotto di calore all’altezza delle guance. E così era quello, il famoso Will. Con tutte le persone che avrebbe potuto incontrare da morto, proprio lui doveva capitargli?

“Un Herondale” ripeté, rimuginando sul suo cognome: lui e Jace erano parenti, seppur distanziati da diverse generazioni.

Will allargò le braccia.

“Certo, non si vede?” esclamò, sistemandosi il colletto della camicia. “Bellezza illegale, capelli perfetti…

 

Alec sbuffò; un moto di rabbia, mista a invidia lo attraversò, mentre lo esaminava con maggiore attenzione: di certo non poteva negare che fosse bello.

Il sorriso di Will si estese.

“Così mi lusinghi” lo beffeggiò, facendolo arrossire ulteriormente. “Immagino che competere con il fascino degli Herondale non sia facile.”

“Sei proprio come Jace” sbottò Alec, mettendosi a braccia conserte. Una fitta di dolore gli percorse il petto, nel momento in cui pronunciò quel nome. D’istinto si scoprì l’avambraccio, per cercare la runa parabatai: non c’era più. Era svanita, così come gli altri marchi.

Un vuoto improvviso gli echeggiò dentro, facendolo rabbrividire.

Jace…” mormorò ancora, premendosi l’avambraccio: fu come morire una seconda volta.

Jace non era più il suo parabatai.

Will lo studiò per qualche istante, lo sguardo insolitamente comprensivo.

“Lo vedrai ancora” promise, portandosi a sua volta una mano dietro la schiena. Alec non ebbe bisogno di leggergli la mente per intuire che in quel punto, un tempo, doveva esserci stata la sua runa parabatai. “Prima o poi, arriveranno tutti. Jem e Jace, la mia Tessa… E anche il tuo Magnus.”

Ancora una volta, il dolore travolse Alec. Le ginocchia gli cedettero, schiacciate dal peso improvviso dei ricordi.

“Magnus” ripeté in un sussurro, gli occhi umidi di lacrime.

Sentì mormorare il suo nome dal nulla che li circondava: erano i suoi pensieri che echeggiavano. Il dolore gli bruciò dentro ancora per qualche istante, poi si allontanò, così come avevano fatto i suoi ricordi.

Fu un sollievo realizzare di non poter provare nulla di troppo intenso troppo a lungo: non quando non aveva più un corpo, né una mente in cui contenerli.

Will lo fissò per qualche istante, le braccia conserte e l’aria pensosa.

“Se può farti stare meglio…” incominciò,“…Non credo che tu ti debba crucciare per chi ha occupato il suo cuore in passato. O per chi potrebbe occuparlo in futuro.”

Alec lo guardò con gratitudine: era sorpreso da quell’improvviso cambio di tono.

“Grazie” mormorò, abbozzando il primo sorriso.

Will minimizzò con una scrollata di spalle.

“Sei un Lightworm, ma hai gli occhi di Cecy” rispose, scrutandolo attento. “E il tuo parabatai è un Herondale: dubito che sarai mai alla nostra altezza… Ma non posso odiare più di tanto uno così.”

Un po’ più rilassato, Alec incominciò a guardarsi intorno: si trovava in una stanza piuttosto ampia, decorata in stile gotico. Il soffitto era intervallato da archi e una serie di travi era stata affissa ad almeno sei metri dal pavimento. Un sorriso accarezzò le labbra di Alec: era una delle tante sale di addestramento dell’Istituto. Che si trovasse ancora a New York, in fin dei conti?

“Dici che non posso andare avanti” ricordò, voltandosi verso Will. “Significa che sono un fantasma?”

Tutto a un tratto si sentì speranzoso.

“Non esattamente” rispose Will, tornando a mettersi le mani in tasca. “I fantasmi sono quelle anime che rimangono sulla Terra, a volte per via di faccende in sospeso, altre perché sono terrorizzate dall’idea di andare oltre. Ma tu sei uno Shadowhunter: ti hanno cresciuto insegnandoti che la morte va affrontata con onore. No, se sei bloccato ad Annwn è perché qualcuno ti sta trattenendo: un vivente che non è pronto a lasciarti andare e che sta cercando in tutti i modi di riportarti indietro.”

 

“Magnus?” azzardò istintivamente Alec.

 

Will gli sorrise.

 

“Magnus è immortale: ha vissuto a lungo ed è più saggio di quanto lui stesso non creda” spiegò, con un’improvvisa sfumatura di dolcezza nella voce. “Sa quanto dannoso potrebbe essere per la tua anima, se si ostinasse a trattenerti. No, si è imposto di lasciarti andare” rivelò, la tristezza a coprire un po’ della vivacità nei suoi occhi. “Non è stato facile e di certo non posso dire che stia bene… Ma non è lui che ti tiene bloccato.”

 

Alec esitò, il dolore improvvisamente presente mentre ricordava i volti elle persone a lui care.

 

Pensò a Isabelle, a come perdere Max l’avesse distrutta: non poteva nemmeno immaginare quanto stesse soffrendo.

 

Tuttavia, non fu il suo nome a sgorgargli dalle labbra.

 

Jace” mormorò, senza più incertezza. Non aveva bisogno di conferme: non poteva essere che lui.

 

Solo Jace non si rassegnava mai di fronte all’evidenza; specialmente quando si sentiva responsabile per qualcosa.

 

Will annuì.

 

“I tuoi pensieri nei suoi confronti non sono particolarmente lusinghieri” osservò poi, inclinando appena la testa.

 

Ancora una volta, Alec si sentì arrossire. Si chiese se fosse normale, per i morti: non erano sempre pallidi e freddi?

 

“Forse sono un po’ arrabbiato con lui” ammise, sfiorandosi l’avambraccio: non si era ancora abituato all’assenza della runa parabatai. “Mi rendo conto di essere ingiusto e so che non è stata colpa sua, però…

 

Un dolore sordo gli pervase il petto: aveva provato la stessa sensazione poco prima di morire. Era come se qualcuno lo stesse strattonando dall’interno, come se Jace stesse cercando di strappargli via la parte di anima che gli aveva affidato.

 

“Quando sono morto lui era lì” ricordò, vergognandosi del risentimento che avvertiva. “Ha cercato di uccidermi.”

 

“È una conseguenza del legame parabatai” spiegò Will, sedendosi su una delle panche. “La confusione che provi. Sai perfettamente che Jace non aveva scelta, quando ti ha attaccato: la sua volontà era legata a quella di Sebastian. Ma due parabatai non dovrebbero mai combattere su due fronti opposti, ed è per questo che la tua anima si sente tradita.”


Jace non mi ha tradito” ribatté risoluto Alec, prima di indirizzargli un’occhiata sorpresa. “Aspetta… Hai detto era?”


Will annuì.

 

“È tornato se stesso” rivelò, guardandosi le dita affusolate. “La Gloriosa ha reciso il loro legame e Sebastian è morto per via del fuoco celeste.”

 

Il sollievo cancellò le poche tracce di risentimento rimaste in Alec, incuneandosi fra gli spazi lasciati vuoti dalla confusione. Immaginare i suoi fratelli insieme e al sicuro da Sebastian riuscì a rincuorarlo almeno in parte.

 

 “Non tormentarti per quello che ha fatto quando non era in sé” proseguì Will, intrecciando le dita dietro la nuca. “Piuttosto, pensa a ciò che sta facendo ora: le sta provando davvero tutte per riportarti indietro.”

 

“Ma non si può” osservò Alec, aggrottando le sopracciglia. “Voglio dire, a lui è successo, ma era una cosa diversa: Raziel l’ha riportato in vita. Non è una cosa che può succedere una seconda volta.”

 

“Mai dubitare di un Herondale, Lightworm” commentò Will, un sorriso compiaciuto ad arricciargli gli angoli delle labbra.

 


“Smettila di chiamarmi Lightworm!” sbottò Alec, prima di scivolare giù dalla panca, gli occhi improvvisamente serrati: si aggrappò al braccio destro, travolto dal dolore.

 

“Fa male…” gemette, curvandosi su se stesso.

 

Will si accovacciò al suo fianco.

 

“Adesso passa” mormorò, con lo un tono di voce morbido che ricordava quello con cui ci si rivolge ai bambini. Solo che, sulle sue labbra, suonava quasi di scherno.

 

Aveva ragione, tuttavia: il dolore attanagliante sparì nel giro di pochi secondi.

 

Lentamente, Alec si tirò a sedere, inspirando a fatica.

 

“Dove l’hai sentito?” domandò incuriosito Will. “Ogni anima sente male in un punto diverso.”

 

Alec gli rivolse un’occhiata cauta, prima di tastarsi l’avambraccio destro.

 

“È dove avevo la runa” mormorò, senza specificare a quale marchio si stesse riferendo; Will sembrò capire lo stesso.

 

“Ha senso” replicò, tornando ad alzarsi. “Quello che hai provato non è altro che il tentativo disperato di un vivente di ancorarsi a te. Qualcuno, là sotto, sta cercando di riportarti in vita.”

 

Jace” chiamò apprensivo Alec, la mano ancora avvolta intorno all’avambraccio. D’istinto si guardò intorno, come se sperasse di vederlo spuntare fuori da un momento all’altro. “Quello che sta facendo è pericoloso?” chiese, tornando a fissare Will. “Rischia di farsi del male?”

 

“Tutto quello che ha a che fare con la morte è pericoloso” rispose lui, stringendosi nelle spalle.

 

Alec tornò a inspirare con forza, le ginocchia strette al petto.

 

“Voglio tornare a casa” pronunciò con un filo di voce, scuotendo la testa. “Voglio la mia famiglia al sicuro.”

“Non hai più una casa” gli ricordò Will.

“Allora voglio andare da mio fratello” replicò Alec, alzando il tono di voce. “Voglio vedere Max. Anche lui è qui, no?”

Ancora una volta, Will scosse la testa.

“Il piccoletto è andato avanti” rivelò, sorridendo appena. “Tu non puoi raggiungerlo, ma lui può venire da te, così come ho fatto io.”

Un barlume di speranza tornò a illuminare lo sguardo di Alec.

“Quando posso vederlo?”

Will indicò il corridoio con un cenno del capo. Da quella parte – Alec lo sapeva – l’Istituto ospitava le camere dei Lightwood.

“Anche adesso” rivelò il giovane Herondale, guidandolo verso la porta. “Vieni con me: ti sta aspettando.”

 

*

 

Il rombo del motore accompagnava le sue orecchie ormai da qualche giorno, abbracciato dal turbinio dell’aria.

Jace volava senza sosta, interrompendosi solo per mangiare e, di tanto in tanto, per dare un’occhiata alle coordinate lasciategli dallo stregone.

Aveva attraversato vari continenti, inseguendo la scia della battaglia e della devastazione. Nel corso degli ultimi giorni aveva osservato la morte in ogni sua sfaccettatura: soldati sporchi di sangue nemico e di quello dei compagni di squadra, civili indifesi, attentati, clan di Nascosti in combutta gli uni con gli altri.

Nulla lo scalfì a tal punto da spingerlo a cambiare idea: l’adrenalina della ricerca, la velocità, la sensazione di non appartenere più a nulla e a nessuno se non alla missione che si era scelto… Ogni dettaglio di quei momenti aveva il potere di azzerare i pensieri, aiutandolo a focalizzarsi sull’unica cosa veramente degna della sua concentrazione.

Dopo cinque giorni di ricerca, quelle scorribande sul filo della morte diedero finalmente i loro frutti.

Jace, che si era concesso un paio d’ore di riposo, era stato svegliato da uno scalpitare di zoccolo: Era lontano e ricordava più un lento scrosciare, come il suono di una cascata.

Pochi secondi più tardi era già in piedi, lo sguardo rivolto verso il cielo annerito: un esercito di puntini luminosi cavalcava tra le nuvole, accompagnati da grida esultanti. Il suono di un corno annunciò l’avvicinarsi dei Segugi di Gabriel, mentre le stelle impallidivano e il cielo sembrava contorcersi, deformato dall’irruenza delle figure a cavallo.

Si muovevano in fretta, ma Jace non se ne preoccupò: era certo di poterli raggiungere.

Un sorriso appagato si arrampicò sulle sue labbra, mentre tornava in sella e tirava fuori lo stilo.

Infine mise in moto, l’adrenalina che gli bruciava in corpo.

Presto avrebbe cavalcato il vento fino a raggiungere i confini del mondo.

Presto si sarebbe unito alla Caccia Selvaggia.

 

 

 

Note Finali.

Buongiorno e buona domenica! Con il ritardo che mi caratterizza arrivo finalmente a pubblicare il nuovo capitolo! In questa parte ho un sacco di cose da dire, in particolare per quanto riguarda il dialogo fra Alec e Will! Will qui ha l’aspetto di un giovane, anche se noi sappiamo che in realtà è morto da anziano. Mi piaceva l’idea che la sua anima avesse assunto le sembianze del Will giovane anche perché mi sembra di ricordare che Tessa diceva che, pur invecchiando, lei lo vedeva sempre come un ventenne o giù di lì. Per quanto riguarda il signorino Herondale, so che lo troviamo un po’ diverso – e fin troppo gentile con Alec xD – rispetto a come abbiamo imparato a conoscerlo nei libri, ma mi sono basata un po’ di più sul Will adulto che ci viene mostrato nelle Cronache dell’Accademia piuttosto che su quello delle Origini. Inoltre, confido che la morte e queste centinaia di anni trascorse a sbirciare le vite di chi è rimasto lo abbiano cambiato almeno un tantino!

Un’altra cosa che ci tengo a sottolineare è la questione del legame parabatai: Alec non è davvero arrabbiato con Jace. Tuttavia, poiché le loro anime sono vincolate assieme dal giuramento di morire l’uno per l’altro, quella di Alec si è sentita in un certo senso tradita nel momento in cui Jace si è schierato contro di lui, nel momento in cui Sebastian l’ha attaccato. Il risentimento provato da Alec, è irrazionale ed è una conseguenza del meccanismo parabatai, ma ha vita breve: già dal prossimo capitolo verrà sottolineato quanto il legame fra Alec e Jace sia ancora forte, nonostante la morte li abbia separati.

Il prossimo capitolo è un altro di quelli a cui tengo di più e avrà parecchi riferimenti a Lady Midnight. Si parlerà molto della Caccia Selvaggia Di nuovo, come nel capitolo scorso, ci saranno parecchi parallelismi con la trama originale. Faranno comparsa alcuni personaggi che conosciamo già e rivedremo ancora Alec!

Volevo ringraziare infinitamente le tre persone che hanno recensito lo scorso capitolo! Mi avete resa felicissima, non so come ringraziarti! Questa storia significa tanto per me e sono davvero contenta che qualcuno la stia condividendo con me! Grazie ancora! A breve passerò a rispondervi!

A fra due settimane per il prossimo capitolo!


Laura



[1] Riferimento a Città di Vetro e alla prima volta che Jace e Clary dormono vicini, mano nella mano, a casa di Amatis.

[2] Questo è un parallelismo sia al “Alec, Alec sei tu?” di Jace in “Città di Ossa” che al “Jem? Jem, sei tu?” di Will nel primo libro delle Origini.

   
 
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