Quel
sabato mattina Emily si rigirò a lungo nel letto. Le nove erano prossime ad
arrivare, ma lei non riusciva a trovare la voglia di mettere piede fuori dalle
morbide coperte che teneva tirate fin sopra alla testa. I rumori della Londra
mattutina entravano dalla finestra in modo ovattato, ma comunque incessante.
Alla fine la ragazza riaffiorò da sotto le coperte e lanciò un’occhiata alla
parete alla sua sinistra, dove era solita appendere i suoi acquerelli. Ne aveva
fatti altri e aveva ulteriormente incrementato la parte di muro coperta dai
suoi lavori. Fece scorrere gli occhi su di essi, dopodiché si decise ad
alzarsi.
Il
sabato mattina Sherlock era quasi sempre a casa, principalmente per il fatto
che Molly non era mai al St. Bartholomew's Hospital e
quindi non poteva autoinvitarsi al suo laboratorio per svolgere delle analisi
su cose che sapeva solo lui. Emily decise quindi di trascorrere quelle ore
insieme al detective, nel tentativo di ampliare ancora un po’ il suo lavoro di
ricerca che, nelle ultime settimane, stava cominciando a prendere una forma
maggiormente definita – sebbene rimanesse un’accozzaglia di appunti, note,
post-it e indicazioni. Si vestì con una delle sue abituali camicette e un paio
di jeans, si legò i capelli in un improvvisato chignon, e, infilate le proprio sneakers, uscì dalla camera. Appena fu all’inizio della
rampa di scale, però, si accorse che in soggiorno Sherlock non era solo. Stava
parlando con qualcuno, qualcuno che non ne aveva intenzione di alzare il
proprio tono di voce. Quella che si stava svolgendo al piano di sotto era una
delle conversazioni più mormorate che la ragazza avesse mai sentito,
soprattutto perché non riusciva a comprendere una sola parola. Scese le scale
cercando di fare abbastanza rumore, nel caso i due presenti stessero parlando
di argomenti di cui lei avrebbe fatto meglio a rimanere all’oscuro e,
sull’ultimo gradino, fu in grado di vedere chi aveva raggiunto il 221B quella
mattina.
Mycroft
Holmes era in piedi, in linea d’aria, proprio davanti alla porta. Era vestito
con l’impeccabile eleganza riconducibile ai membri della sua famiglia e stava rivolgendo
il suo sguardo al camino dove, immaginò Emily, si trovava di sicuro il fratello
minore. L’uomo la sentì e si voltò verso di lei. Le fece un cenno con il capo e
le diede il buongiorno.
«Salve,
Mr. Holmes» lo salutò di risposta lei, entrando nella stanza.
Sherlock
la stava già guardando e la ragazza gli rivolse un saluto. Mycroft aveva come
suo solito la consueta aura di sicurezza e superiorità a rivestirlo e a Emily
non servì molto tempo per intuire che in quel momento vigeva un’atmosfera
piuttosto tesa nella casa. Sperò di poterla alleviare in qualche modo.
«Posso
offrirle del tè?» domandò al più grande dei fratelli Holmes.
Quest’ultimo
declinò l’offerta con un elegante gesto. «No, ti ringrazio. Mrs. Hudson ha già
provveduto» rispose, per poi rivolgersi a Sherlock: «Per fortuna in questa casa
continua a esserci qualcuno che sa cosa sono le buone maniere, a differenza di
te, fratellino.»
La
ragazza notò Sherlock irrigidire la mascella, lo sguardo fisso su Mycroft. A
ben pensarci lei non era mai stata a contatto con entrambi contemporaneamente e
le fu evidente la poca simpatia reciproca che provavano l’uno per l’altro –
come John le aveva già detto tempo addietro. Eppure era certa che Mycroft
volesse bene a Sherlock, altrimenti non sarebbe stata in grado di spiegarsi
perché qualcuno fosse disposto a spendere soldi con l’intenzione di chiedere a
una sconosciuta – lei, in quel caso – di sorvegliare il proprio fratello.
«Ha
un incarico per Sherlock o è qui per una semplice rimpatriata» tentò poi Emily,
respirando perfettamente il clima presente e chiedendosi se non fosse meglio
scappare finché ne aveva il tempo.
«Nessuna
delle due cose» intervenne il detective, lanciando un’occhiata torva in
direzione di Mycroft. «Ho già detto al mio adorato
fratello che può andarsene perché non ho alcuna intenzione di accettare il
caso.»
L’interesse
della ragazza esplose sentendo quelle parole. Un caso, non poteva chiedere di
meglio. Considerando poi il ruolo ricoperto da Mycroft e le sue capacità
deduttive – sempre John l’aveva informata della cosa – era certa che si
trattasse sicuramente di qualcosa che valeva la pena approfondire. Un caso
certamente delicato e complesso per Sherlock Holmes significava anche una
raccolta di quante più nozioni aggiuntive possibili sul modo pensare del
detective. D’improvviso il caso Horvat – come lei e Sherlock lo avevano
denominato – che le aveva tenuto impegnata la mente per giorni passò in secondo
piano.
«Un
caso?» chiese, l’eccitazione palpabile nella voce.
Entrambi
i fratelli Holmes la guardarono, le loro espressioni erano una l’opposto
dell’altra. Mycroft sorrise a quell’improvviso interesse da parte della
ragazza, mentre Sherlock si irrigidì ulteriormente.
«Emily,
per favore, evita di porre domande a riguardo. Come ho già detto a Mycroft non
sono interessato» la rimbeccò quest’ultimo, prendendo parola per primo.
«Suvvia,
Sherlock, è solo curiosa. Cosa c’è di male a darle qualche informazione
aggiuntiva sulla questione?»
Il
detective guardò suo fratello esterrefatto; l’unico motivo per cui poteva
comprendere che Mycroft raccontasse di cose che definiva egli stesso “top
secret” era solo per via del fatto che Emily poteva, in qualche modo,
convincerlo ad agire. A quanto pare al fratello importava relativamente poco
dell’incolumità della giovane ragazza. A ogni modo Sherlock non aveva
intenzione di accettare, non si sarebbe mosso da Baker Street per risolvere un
caso che proprio il fratello stava cercando di propinargli.
«Quindi
posso saperlo?» incalzò Emily, sempre più esaltata.
Sherlock
alzò gli occhi al cielo di fronte all’improvvisa stupidità della sua
coinquilina. Mycroft era sempre stato bravo a manipolare le persone, gli
bastavano poche parole e una gestualità ben calibrata per riuscire a
conquistare il proprio interlocutore. Nel caso della ragazza, invece, era
bastato attirare la sua attenzione con qualcosa che bramava – nel suo caso uno
Sherlock Holmes alle prese con delle indagini – per catturarla per bene.
«Si
tratta del Vice Primo Ministro. Ha ricevuto una busta anonima contenente una
minaccia di morte. Come comprensibile Scotland Yard brancola nel buio e io
vorrei che il colpevole, chiunque esso sia, uscisse di scena il più in fretta
possibile» disse Mycroft, rivolgendosi solo a Emily.
«Perché
le stai dicendo queste cose?» intervenne Sherlock.
«Perché
me lo ha chiesto.»
«No,
non è vero. Tu glielo vuoi dire perché sei convinto che possa indurmi ad
accettare» sibilò il detective.
La
ragazza si chiese se aveva capito correttamente ciò che Sherlock aveva appena
detto. Non aveva mai pensato di poter essere in grado di convincere l’uomo a
fare qualcosa e quello che aveva sentito, in un certo senso, la lusingava.
«Vuoi
veramente farmi credere che una ragazza come Emily può riuscire a farti fare
cose che non vuoi?» domandò Mycroft, con finta sorpresa. Sherlock strinse gli
occhi.
«A
malapena John ci riusciva. Ma è pur vero che lui non ha mai scritto una tesi
intera su di te» concluse poi il maggiore dei fratelli, sorridendo sornione.
«Mr.
Holmes» prese infine parola Emily. Aveva visto abbastanza di quel bizzarro
teatrino e non ne aveva capito molto. L’unica cosa di cui era sicura era che
non voleva vedere i due fratelli battibeccare ancora, ne tantomeno rimanere in silenzio
mentre il più grande umiliava il più piccolo. «Se Sherlock non vuole accettare
il caso credo di essere l’ultima persona in grado di dissuaderlo, mi creda.»
L'uomo
la guardò, facendosi improvvisamente serio. Il silenzio che si formò nella
stanza durò diversi secondi e smise pochi attimi prima che Emily potesse
convincersi di aver detto la cosa sbagliata.
Alla
fine Mycroft sospirò. Guardò il fratello che, di tutta risposta, lo fissò con
uno dei suoi sguardi più fermi.
«C'è
in gioco la vita di un uomo, Sherlock» mormorò.
«Allora
risolvi tu il caso dato che ti piace vantarti di essere più intelligente di me
nel fare deduzioni» replicò gelido l'altro.
«Sai
che non ho tempo.»
«Trovalo.
Oppure cerca di indirizzare Scotland Yard nella direzione giusta.»
Si
zittirono entrambi. Emily rimase a guardare i due studiarsi, impassibili e
imperscrutabili. Si sentì in mezzo a uno scontro silenzioso, mentale, e proprio
per quello ben più spaventoso.
Con
tutta probabilità fu Mycroft il primo a cedere. Ispirò a fondo e distolse lo
sguardo da Sherlock, infine recuperò il proprio cappotto, infilandolo senza
dire nulla.
«Se
dovessi cambiare idea sai dove trovarmi. Nel caso non volessi contattarmi
direttamente anche Emily ha il mio numero» disse infine, avvicinandosi alla
porta d'ingresso. Si fermò a un passo dalla ragazza e le sorrise. «Tu fammi
sapere se dovesse cacciarsi nei guai, mi raccomando.»
«Conti
su di me.»
L'uomo
salutò i presenti avviandosi lungo le scale. Sherlock rimase in attesa di
sentire la porta chiudersi, guardando Emily. Alla ragazza parve di trovare una
leggera nota d'intesa in quello sguardo, ma cercò di non illudersi più del
dovuto.
«Preparo
un caffè» disse lei, decidendo anche di fare colazione.
Anche
quel giorno la cucina era un disastro, tuttavia in quei mesi di convivenza la
giovane aveva imparato bene a ritagliarsi un angolo salubre sul tavolo in cui poter
inzuppare i biscotti in tutta tranquillità. Davanti ai fornelli, però, decise
di prepararsi un tè. Mise sul fuoco il bollitore e rimase a guardarlo
distrattamente, pensando. Sapeva che in soggiorno Sherlock si era sistemato sulla
poltrona, con tutta probabilità intento a leggere il giornale del giorno.
Appena il tè fu pronto Emily se ne versò una tazza fumante, lo zuccherò e prese
dalla sua metà di credenza la confezione di biscotti, ben più sgonfia del
giorno prima – probabilmente per opera del coinquilino.
Aveva
appena addentato il primo biscotto quando Sherlock si presentò nella stanza.
Rimase sulla soglia, a osservare Emily come se davanti a sé ci fosse un
bizzarro, ma quanto mai interessante, animale. La ragazza sopportò quella
situazione più a lungo che poté, poi, sull'orlo dell'esasperazione, sbuffò: «Cosa?»
L'uomo
non si scompose. «Tu volevi che io accettassi il caso. Perché non hai dato
manforte a Mycroft? Siete quasi amici dopotutto.»
Lei
si strinse nelle spalle. «Non mi piace insistere con qualcuno quando ha già
preso una scelta» disse, afferrando un altro biscotto.
Il
detective le si avvicinò, calmo. Si sedette di fronte a lei e la guardò, un
misto di divertimento e interesse negli occhi.
«Tu
vuoi che io accetti» rivelò poi, consapevole.
Nuovamente
Emily cercò mostrarsi indifferente. «Ovvio che vorrei tu accettassi. Sto
scrivendo di te. Più casi risolvi e più vari sono questi, più informazioni
articolate raccolgo io per il mio lavoro.»
Sherlock
sorrise lievemente, stringendo appena gli occhi chiari.
«No,
non è solo per questo» disse sicuro. «Una minaccia di morte anonima, Scotland
Yard che brancola nel buio. Questo caso ti intriga come pochi altri. Tu
vorresti che io accettassi anche perché vorresti indagare sulla situazione, non
solo perché vuoi vedere come opero in una simile circostanza.»
La
ragazza si sentì colta in flagrante. Forse un po' era così, anzi no, lo era.
Non aveva affrontato mai direttamente un simile caso e nel momento in cui se lo
era trovato davanti subito ne era rimasta rapita. Tuttavia era compito di
Sherlock accettare, lei non aveva parola in merito e ne era consapevole. Si
sforzò di fingere indifferenza alle parole del detective ma sapeva di non riuscirci.
Lui la capiva troppo in fretta. Emily allora si concentrò sul biscotto, che
inzuppò nel tè.
«Perché
non svolgi tu l'indagine al posto mio?» domandò poi l'uomo, di punto in bianco.
Il
plop del biscotto troppo imbevuto che
cadeva nel tè fu piuttosto esaustivo per descrivere l'atmosfera del momento.
Curiosità e consapevolezza per Sherlock e incredulità, pura e semplice, per
Emily.
Quest'ultima
imprecò sottovoce appena vide dove era finita la metà del suo biscotto e cercò
di recuperarla con il cucchiaino. Appena fu riuscita nel suo intento guardò
Sherlock, che aveva dipinta in volto ancora quella stessa, pacata, espressione
di poco prima.
«N-non
posso accettare un caso io, Sherlock. Con che scusa Mycroft me lo affiderebbe?
E poi lui non mi conosce affatto, dubito che si fidi di me a tal punto.»
Il
detective sbuffò un po' d'aria. «Mi deludi. Rinunciare così.»
«No,
ehi» scattò subito lei «Non ho rinunciato, ti ho solo fatto notare che è
impossibile che possa essermi affidato un caso. Quello, in particolare.
Parliamo del Vice Primo Ministro, non può occuparsi di qualcosa che riguarda la
sua incolumità l'ultima ragazza appena giunta da Newport. Non scherzare.»
L'uomo
rimase a guardarla. Notò il leggero rossore affiorato alle sue gote,
l'improvviso e debole tremolio che aveva colpito le mani e il suo sguardo che
aveva cominciato a fissare con insistenza il contenuto della tazza. Emily si
era innervosita, anche se, per lui, era ben più corretto dire che si era
agitata. Aveva colto nel segno per l'ennesima volta e, oltretutto, era riuscito
a farle dire ciò che si aspettava.
Alla
fine si alzò da tavola. «Non lo dare così per scontato» le disse, tornando in
soggiorno.
*
Nel
pomeriggio, intorno alle diciassette, sia Emily che Sherlock erano in
soggiorno, ognuno intento a trascorrere il tempo a modo proprio. L'uomo, seduto
alla poltrona, alternava suonate al violino a momenti di assoluto silenzio
mentre la ragazza, accoccolata sul divano, era concentrata su uno dei suoi
voluminosi libri di psicologia, che aveva aperto dopo aver terminato di
schizzare l'ennesimo ritratto di Sherlock sul retro di un vecchio foglio
stampato.
Entrambi
si misero sull'attenti quando sentirono l'ingresso del 221B aprirsi, ma
Sherlock ignorò il tutto praticamente subito. Emily, invece, ascoltò
felicemente i passi farsi strada lungo le scale e le voci dei nuovi arrivati
farsi sempre più vicine. Con il suo caloroso e tipico sorriso, Mrs. Hudson
entrò in casa, dietro di lei i coniugi Watson e la loro piccola bambina.
La
ragazza chiuse immediatamente il libro quando li vide e sorrise verso di loro,
salutandoli. John e Mary salutarono di rimando, provando anche a coinvolgere in
quello scambio di convenevoli Sherlock. Quest’ultimo, come prevedibile, si
rivelò piuttosto restio ai saluti, ma per Emily fu palese che la comparsa di
John e Mary – e, perché no, anche di Mrs. Hudson – lo aveva ravvivato. Come
prevedibile la signora Hudson si spostò in cucina, borbottò un paio di mezze
preghiere una volta vista la situazione che vi aleggiava dentro e mise sul
fuoco il bollitore per preparare del tè. Mary si sedette sulla poltrona che era
sempre stata di John, la bambina fra le braccia e il marito in piedi dietro di
lei.
«Allora
Sherlock, ci sono novità?» domandò lei all’uomo che aveva di fronte.
Il
detective la guardò aggrottando leggermente la fronte. «Sii più precisa, per
favore» la invitò.
La
donna si strinse nelle spalle. «In generale. Hai accettato nuovi casi, hai incontrato
qualche possibile cliente? Cose del genere» disse. Non attese però una
risposta, si voltò verso Emily, rivolgendosi a lei: «Ti sta facendo impazzire?
Sai che, nel caso, a noi puoi dirlo.»
La
giovane di risposta sorrise allegramente. «Sarete i primi a cui lo dirò, se
dovesse succedere.»
Sherlock
sbuffò leggermente dopo quel rapido botta e risposta e, alla fine, si decise a
parlare. Da lì la conversazione si snodò in fretta, coinvolgendo tutti i
presenti e arricchita dall’Earl Gray preparato da
Mrs. Hudson.
Il
gruppo continuò a chiacchierare per tutto il resto del pomeriggio, finché la
sera non si affacciò alla finestra e Londra venne illuminata dalle migliaia di
luci colorate che la caratterizzavano nelle ore notturne. Erano quasi le
diciannove quando John e Mary annunciarono di dover andare. La donna si alzò
dalla poltrona, stiracchiandosi per bene e andò a recuperare la figlia che
dormiva tranquilla fra le braccia di Emily, la quale aveva chiesto di poterla
tenere in braccio per un po’ e aveva finito per non volerla più lasciare.
«Penso
che tu le piaccia molto» disse Mary alla ragazza, appena riprese la figlia.
Emily
le sorrise, dolcemente.
«Chissà
se lo stesso si può dire di Sherlock» ipotizzò John, guardando l’amico.
Quest’ultimo sorrise ironico, senza rispondere, ma salutò sinceramente i
coniugi Watson quando questi si vestirono e si avviarono lungo le scale.
Il
silenzio che si formò subito dopo, piuttosto tipico al 221B, fu improvvisamente
triste per Emily. Si avvicinò alla finestra, scostò le tendine e osservo la
coppia avviarsi lungo la strada, John a sospingere il passeggino lungo il
marciapiede, Mary accanto a lui, stretta al suo braccio. La ragazza li guardò
allontanarsi finché non sparirono, sentendo una strana fitta dentro di sé; era
un misto di amarezza e desiderio, qualcosa che non provava da mesi ma che,
ripresentandosi così d’improvviso, non le lasciò scampo. Tornò a tirare le
tende sulla finestra e si avvicinò al divano; lì prese il proprio libro di
psicologia e il foglio di carta dove aveva abbozzato un ritratto di Sherlock e
su cui, nelle ore precedenti, era anche comparso un disegno di Mary e della
bambina. Emily non era riuscita a resistere al desiderio di disegnarla. Il
ritratto raffigurava Mary intenta a osservare davanti a lei, la figlia stretta
in braccio che la guardava con gli occhi luminosi di chi è profondamente
innamorato e, alle spalle della donna, la sagoma di John era appena abbozzata.
La ragazza non capì per quale motivo le riuscisse così semplice raffigurare
quella purezza di sentimenti che caratterizzava la famiglia Watson, eppure era
così. Le bastavano pochi tratti e un chiaroscuro accennato per caricare di
amore i disegni che faceva su di loro perché di quello, fra loro, ce n’era molto
ed era perfettamente percepibile. Si rese conto solo in quel momento che i suoi
disegni di Mary e Sherlock erano stati fatti uno di fronte all’altro e sembrava
quasi che la cosa fosse voluta. Senza farlo apposta Emily aveva disegnato una
scena ben più ampia, sebbene lo avesse fatto involontariamente.
Sapeva
di essere ferma in piedi a osservare il suo disegno da troppo, così, prima che
Sherlock potesse definitivamente insospettirsi, disse: «Vado in camera mia.»
Salì
le scale e subito si chiuse la porta alle spalle, cercando di ricomporsi in
fretta. La spiacevole sensazione che l’aveva aggredita al piano di sotto
sembrava non volersene andare, al contrario, con tutta probabilità stava
crescendo. Raggiunse l’armadio, lo aprì e vi si inginocchiò davanti, afferrando
dal fondo di esso la sua valigetta. Era una vecchia valigetta in cuoio,
appartenuta a suo nonno. Le piaceva particolarmente e fin da quando l’aveva
ricevuta – a tredici anni – vi aveva sempre riposto dentro alcune delle sue
cose più preziose, tenendola ben chiusa a chiave. Aveva deciso di portarla con
sé a Londra con l’intenzione di raccogliervi dentro le cose più rilevanti della
sua presenza nella capitale ed era proprio lì dentro che aveva riposto tutti i
documenti che lei e Sherlock avevano accumulato nella speranza di scoprire
l’assassino di Walker; quello che l’uomo non aveva gettato via era ancora
custodito lì.
Si
sfilò dal collo la catenina a cui era legata la chiave che serviva per aprire
la valigetta e che portava sempre con sé. Fece scattare la serratura e l’aprì,
lanciando un’occhiata ai fogli ammucchiati dentro e alla consueta stoffa
damascata che rivestiva l’interno. Vi posò il disegno che aveva fatto quel
pomeriggio, sentendo dentro di sé che per quei ritratti il posto giusto non era
la parete, ma quello e infine richiuse tutto.
Fu
proprio mentre chiudeva la valigetta e la spingeva sul fondo dell'armadio che
si rese conto di cos'era quella sensazione che l'aveva colpita: malinconia.
Aveva
lasciato tutto a Newport, lontano da Londra, tuttavia in quel momento si chiese
cosa, esattamente, ci avesse
lasciato. A parte la sua famiglia, che per quanto le volesse bene non aveva mai
nascosto di considerarla la pecora nera, c'era poco altro in quella città per
lei. Di amici ne aveva sempre avuti pochi e nessuno di loro la considerava
preziosa o insostituibile, lo aveva sempre saputo. La sua vita sentimentale,
inoltre, era intralciata proprio perché lei era sempre, ed esclusivamente, se
stessa. Delle volte, pensando a tutto ciò la sua innata gioia veniva spazzata
via, proprio come in quel momento. Le si formò un nodo alla gola mentre
infilava la collana al collo e nascondeva la chiave sotto alla camicia, come
sempre. Intorno a lei il buio che entrava dalla finestra, per quanto
sopraffatto dalla luce della camera, la costrinse, come sempre faceva, a
pensare, pensare e basta, scavare nelle proprie profondità e cercare delle
risposte. Sebbene lo facesse spesso e le sue ambizioni riuscissero sempre a
vincere sulle incertezze e i dubbi, in quel momento non ci riuscì affatto.
Semplicemente si sentì sola.
Il
nodo alla gola le si strinse ulteriormente mentre lei, ancora inginocchiata in
terra, fissava ostinatamente davanti a sé con gli occhi che le bruciavano. Non
appena la prima lacrima riuscì a liberarsi, Emily non fu più in grado di
frenare le altre. Si lasciò andare a un pianto silenzioso, raggomitolata contro
al letto, le ginocchia strette al petto, per minuti interi, finché non si sentì
svuotata di ogni possibile emozione. Soltanto allora prese una lunga boccata
d’aria e si alzò da terra, sistemandosi meglio che poté i vestiti e decidendo
di uscire dalla propria camera nonostante tutto, pur di non rimanere sola.
Arrivata
al piano di sotto fece una deviazione in bagno, passando dalla cucina, così da
evitare di incrociare Sherlock. Non voleva vedesse che aveva pianto,
soprattutto perché non aveva voglia di rispondere a possibili domande o di
dover resistere al silenzio consapevole di chi sa qualcosa ma a cui non
importa.
In
bagno si lavò il viso con acqua ghiacciata nella speranza di ridurre il rossore
degli occhi. Quando questo le sembrò sufficientemente diminuito decise di
tornare in soggiorno per riprendere a leggere il suo libro nella speranza che
lo studio e la presenza di Sherlock – l’uomo che racchiudeva le sue ambizioni –
potessero aiutarla a farla sentire meglio.
Era
sulla soglia della cucina quando il detective la fermò. «Hai pianto» disse
semplicemente.
Aveva
il viso coperto dal giornale che ancora non aveva finito di leggere e non degnò
la ragazza di uno sguardo. Eppure la sua era stata un’affermazione, non certo
una domanda e per Emily fu inevitabile chiedersi come ci fosse riuscito ancora
una volta. Tuttavia, in quel caso, la ragazza non aveva voglia di dirgli la
verità e ripiegò su una delle scuse più efficaci in casi del genere. «No, mi
sono solo data un collirio.»
«Uhm,
beh, in tal caso ti consiglio di cambiare marca. Potresti esserne allergica
dato che non solo ti ha fatto arrossare gli occhi ma te li ha anche fatti
gonfiare» replicò lui, in tono piatto.
Emily
non fu in grado di rispondere prontamente. Si zittì e rimase a guardare il
profilo dell’uomo davanti a lei, concentrato sul suo quotidiano. Alla fine
distolse lo sguardo, sospirando leggermente.
«Come
lo hai capito?» chiese, anche se sospettava di conoscere la risposta.
Sherlock
abbassò il giornale e si voltò verso di lei, un mezzo sorriso in volto. «Capire quando una persona ha appena pianto è
fin troppo semplice. Spesso, poi, lo si intuisce più facilmente dal naso che
dagli occhi.»
Sentendo
quelle parole la ragazza si toccò istintivamente la punta del naso,
smascherandosi definitivamente. Nuovamente nella stanza cadde il silenzio e
alla fine Emily si avviò verso il divano, con l’intenzione di riprendere la
lettura. Sherlock l’aveva scoperta, d’accordo, ma sperò con tutta se stessa che
non volesse approfondire ulteriormente la cosa.
Prima
che potesse sedersi, però, la voce del detective si sollevò di nuovo: «Perché?»
«Cosa?»
domandò in risposta lei.
Sherlock
sollevò impercettibilmente gli occhi al cielo. «Perché hai pianto» scandì.
«Non
ti interessa saperlo veramente» gli rispose la ragazza, in tono piatto.
«No,
infatti» disse l’uomo, sospirando e ripiegando il giornale. «Ma Mary e John vogliono
che sia più... gentile con te. Ho detto loro di pensare prima alla propria
vita, ma a quanto pare ne faccio parte anche io e trovano opportuno darmi
"consigli". A ogni modo, se non vuoi dirmi niente, fa' pure» concluse
con sufficienza.
Emily
rimase a guardarlo a lungo, pensando. Alla fine si decise a dirgli cosa le era
appena accaduto, aprendosi così a Sherlock. Puntò lo sguardo fuori dalla
finestra prima di prendere parola, osservando la sera.
«Quello
che hanno John e Mary... Lo vorrei anche io» ammise alla fine.
«Una
figlia?» domandò l’uomo, sollevando un sopracciglio confuso.
Sentendo
quella risposta Emily si lasciò sfuggire una leggera risata e tornò a guardare
Sherlock.
«No,
o meglio, non solo. Parlo dei sentimenti che ci sono fra loro, sono quelli che
vorrei poter vivere anche io. Il loro legame, il loro conoscersi così bene. È
questo che vorrei. Riuscire a trovare qualcuno che mi faccia sentire davvero
speciale.»
Sherlock
rimase a guardarla, in silenzio. Per un istante si pentì di aver chiesto a
Emily per quale motivo avesse pianto. Lui non era pratico di queste cose, dei
sentimenti. Li considerava solo dei difetti chimici e non aveva certo voglia di
approfondirli o cercare di comprenderli. Tuttavia si rese conto che non poteva
più tirarsi indietro in quel momento. «Credo
ti convenga solo avere un po' di pazienza. Anche John ha impiegato diversi anni
prima di incontrare Mary» disse infine, sperando fosse sufficiente per
consolare la ragazza.
Lei
si strinse nelle spalle, scuotendo debolmente la testa. «Non è questo,
Sherlock. Gli uomini tendono a evitarmi quando capiscono come sono fatta. Hanno
paura di me» informò Sherlock, sentendosi nuovamente triste come lo era nella
sua stanza poco prima.
Fra
di loro calò un nuovo silenzio, ben più pesante dei precedenti. Emily decise di
riempirlo finendo di raccontare al detective quella che era la verità sui suoi
rapporti umani: «Io sono in grado di capire quando qualcuno mi sta mentendo.
Riesco a intuire con chi ho che fare in fretta. Questa cosa non va bene per
nessuno, in pratica. All'inizio di una relazione si tende sempre a nascondere
una parte di sé all'altro, per preoccupazione, per ansia. Ma se l'altro sono
io, che riesco a intuire se il ragazzo che mi ha chiesto di uscire è sincero
oppure no, allora la cosa diventa un problema e tutto finisce.»
Aveva
alzato la voce sul finire della frase, ma tornò ad abbassarla subito. «Sono
andata oltre il primo appuntamento solo due volte e solo in un caso mi sono
innamorata» rivelò infine a Sherlock, senza sapere esattamente perché lo stesse
facendo. Abbassò lo sguardo sulle sue mani e ripercorse la linea della vita
della mano sinistra con l’indice destro. «Di solito riesco a non pensarci, ma
stasera è andata così» concluse. Tornò a guardare il detective e gli dedicò un
sorriso abbozzato. «Scusa se ti ho fatto perdere tempo dicendoti queste cose, di
certo avevi di meglio da fare. Però grazie per avermi ascoltata. Ti lascio
finire di leggere il giornale.»
Si
avviò verso la sua stanza senza aggiungere altro. Sherlock la sentì chiudere la
porta e rimase a fissare l’inizio delle scale in silenzio, ripensando a quello
che Emily gli aveva appena rivelato. In quel momento si sentì strano ed era
certo di provare dispiacere per la ragazza. Cominciò a pensare ad altro abbandonando
completamente il giornale.