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Autore: Sapphire_    20/02/2017    1 recensioni
Se una donna fissata con il rosso incontra un uomo dai capelli rossi che ha paura del sesso opposto, cosa pensate che possa succedere?
April Montgomery è quella donna, Aaron Marlowe quell'uomo, ed entrambi vivono la propria vita in quel pulsante nucleo sempre vivo di New York, che in seguito a un fortuito evento tra i due - un vero e proprio cliché - farà da sfondo anche ai loro successivi incontri.
In fondo, il modo migliore per eliminare una fobia è affrontarla, no? Forse non tutti sarebbero dello stesso avviso...
Dal testo:
«Ma sei un idiota?» furente, alzò lo sguardo verso l'idiota che le aveva appena fatto fare una figuraccia di fronte a tutti. Gli occhiali le erano scivolati sul naso e in un primo momento non vide niente, ma li tirò su e una visione la colpì.
Alto, bell'aspetto, sguardo freddo e dagli occhi scuri, piercing al labbro e un importantissimo dettaglio.
«Che bellissimi capelli rossi!»
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Ed eccomi di nuovo qua dopo appena due settimane!
Certo, questo capitolo è più breve dell'altro, ma quando scrivo più non penso alla lunghezza del capitolo, quando a ciò che voglio inserire in esso. Dato che aggiungere altro mi sarebbe sembrato superfluo ho preferito terminarlo qui.
Come (spero) noterete, c'è una sorpresa: il banner! Ovviamente, non sono io l'autrice di questo - non ho un minimo di capacità in queste cose - ma una mia amica, che ha molta più manualità di me, è stata così gentile da crearlo apposta per me. I due attori, non so se li riconoscete, sono Emma Stone e Gaspard Ulliel. Ovviamente, io dico sempre di prendere i due prestavolto con le pinze: ognuno di voi può immaginarseli come meglio vuole, io ho scelto loro due perché riscontravano i miei gusti e poi mi servivano per creare il banner della storia.
Che altro dire, spero vi piaccia questo capitolo e spero anche di ricere qualche commento - bello o brutto che sia, mi sembra ovvio, accetterò anche le critiche.
Dopo questo non farò che augurarvi buona lettura, ci vediamo alla prossima!
Un abbraccio,

~Sapphire_



           
 

 

 

 

 

~It's too cliché

 

 

 

 

Capitolo otto

Quando alle sette del pomeriggio April uscì dall'ufficio, un bel sorriso illuminava il suo volto.
La giornata non era andata così malaccio alla fine, considerava mentre si dirigeva verso un taxi che cercava di richiamare con una mano – non le piaceva prendere la metro, era troppo affollata; certo, sopportare Gwen per tutto il giorno non era stato un divertimento, e pensare che avrebbe dovuto subirla per il resto dello stage in quelle condizioni non la esaltava. Sperava che, tempo qualche settimana, le passasse; ma cercava di non pensarci troppo e di prepararsi al peggio.
Il resto della giornata era volato grazie al lavoro da fare; quando si concentrava, il tempo scorreva che era una meraviglia, perciò non le era pesato tanto.
Insomma, alla fine la brutta sensazione si era rivelata tutta nella sua testa.
Sorrise pensando al prezioso aiuto che le aveva dato May a ricompattare la sua bolla di felicità: se non ci fosse stata lei, sarebbe rimasta depressa per tutto il giorno crogiolandosi nella frase che le aveva rivolto Gwen, e ciò non avrebbe giovato per niente al suo umore.
Lasciò scorrere il suo sguardo lungo le strade di New York che già si illuminavano delle prime luci artificiali, dando nuova vita alla città che non dorme mai.
Adorava New York. Aveva passato tutta la sua adolescenza a sognarla, a immaginare la sua vita in quella enorme e movimentata città come donna in carriera dalla vita perfetta, al buon lavoro che avrebbe trovato, alla sua indipendenza, alle serate passate a divertirsi con May, all'amore.
Con quei pensieri, il suo sorriso si fece più malinconico.
Aveva vissuto in una bolla dorata fino ai primi mesi del suo arrivo, poi si era resa conto che non era così tutto rose e fiori come immaginava. Il lavoro era più difficile da trovare di quello che pensava, l'indipendenza era dura da raggiungere con uno scarso stipendio, May aveva comunque il suo ragazzo con cui passare del tempo e lei era spesso sola nel suo bilocale che, più tempo passava, più si faceva soffocante. E parlare di amore era più tragico che altro.
Smettila April!, si rimproverò nella sua testa, cancellando tutti quei pensieri dalla mente e concentrandosi solo sulle luci della città.
Rimase così ad osservare fuori, come una turista che vede la Grande Mela per la prima volta, fino a quando il tassista non si fermò nella strada piuttosto buia dove era situata casa sua.
Lo ringraziò, pagò e scese, quasi dimenticandosi la borsa al suo interno – era sempre così una svampita – e in un primo momento non notò i vigili del fuoco di fronte a casa sua, presa com'era a inseguire fantomatiche farfalle come suo solito.
Come notò l'imponente veicolo che sostava lì di fronte, si immobilizzò.
Che sta succedendo?, pensò confusa.
Si avvicinò lentamente, quasi timorosa di ciò che avrebbe potuto scoprire. Fuori dal condominio di casa sua c'erano anche altre persone che parlottavano tra loro; riconobbe la signora Davis, sua vicina, che parlava con un'altra signora che però non riconobbe.
«Signora Davis, che sta succedendo?»
La donna sobbalzò – non si era resa conto della sua presenza – e April poté notare come indossasse solo la vestaglia di casa e delle ciabatte. La donna la fissava con i penetranti occhi azzurri, parzialmente nascosti dietro le spesse lenti degli occhiali.
«April! Finalmente sei arrivata!» esclamò la donna.
Finalmente?
«Che sta succedendo?» ripeté la bionda, confusa.
Spostò poi lo sguardo verso il portone aperto che mostrava le scale illuminate del condominio, e spalancò gli occhi con orrore quando notò due vigili trasportare fuori un divano che riconobbe come il suo.
«Che sta succedendo?» quasi strillò.
Ma non aspettò la risposta della signora: si lanciò in direzione degli uomini, parandosi davanti e impedendo loro di passare.
«Che cosa è successo? Perché state portando via la mia roba?»
Gli uomini la guardarono sorpresi: due bei tipi, che in un'altra occasione April avrebbe senza alcun dubbio cercato di sedurre sbattendo gli occhioni.
«Lei è la proprietaria dell'appartamento 501?» domandò uno dei due, quello con la mascella più squadrata coperta da un'ombra di barba scura.
April annuì mentre il suo volto si faceva terreo – beh, non era proprio la proprietaria a essere precisi, ma ci abitava.
L'uomo lanciò una veloce occhiata al suo collega e lasciò poi la presa del divano che si appoggiò con un tonfo a terra.
«C'è stata una perdita dal bagno non bene identificata, l'appartamento è interamente allagato. Ci hanno chiamato gli inquilini dell'appartamento sottostante quando l'acqua ha iniziato a infiltrarsi anche da loro, e siamo stati costretti a spostare tutti i mobili» spiegò l'uomo.
April divenne ancora più cerea.
No... No, no no!
«Ditemi che è uno scherzo» alitò appena.
«Mi dispiace, signorina»
April, sentendo quelle parole, udì anche il rintocco delle campane a morte mentre per un attimo le gambe le cedettero, e fu costretta a tenersi all'uomo che le afferrò in tempo il braccio.
«Si sente bene? Vuole che chiami un'ambulanza?» chiese sempre l'uomo.
April, aggrappata a lui, riuscì poi a recuperare l'equilibrio e lasciò la presa.
«Chiami un'agenzia di pompe funebri» fece lugubre.
Così è già pronto tutto per il mio funerale, pensò tragica.
I due pompieri la guardarono dubbiosi, mentre April fissava il vuoto in maniera assente; all'improvviso però il suo sguardo si illuminò di nuova vita.
«I miei vestiti. Dove sono? Posso prenderli?» fece poi, quasi saltando addosso a colui che le aveva spiegato la situazione.
«Più o meno. Abbiamo portato tutto giù, ma molte cose sono zuppe»
L'acqua si può asciugare, spero solo che non si sia rovinato nulla, pensò.
«E in quanto potrò tornare ad abitare qui?» fece speranzosa.
Vedendo quei grandi occhi ricchi di speranza l'uomo spostò lo sguardo imbarazzato.
«Mi dispiace, signorina, ma di questo non ho idea. Dipende dal tipo e dalla gravità del guasto, ma dovrà occuparsene lei di chiamare un tecnico» rispose.
April sbiancò di nuovo.
Dovrò chiamare la proprietaria..., pensò funerea. Già se la temeva quella arpia.
«Capito. Grazie» mugulò.
«Abbiamo quasi finito di portare le cose giù, comunque. Poi si avvicini per prendere quello che le serve» aggiunse l'uomo, fermando April che già se ne stava andando.
La ragazza non rispose, fece solo un cenno con la testa mentre andava a sedersi sul bordo del marciapiede, fregandosene alla grande della sporcizia per terra e prendendo a fissare la strada con aria assente.
E ora? Che faccio? Non posso tornare a casa e mollare lo stage e tutto il resto... Ma dove potrei andare? Da May? La disturberei, pensava.
Ma, in fondo, May era la sua unica speranza. Per questo motivo prese il cellulare e, dopo aver composto il numero, attese la risposta dell'amica.
Ok, ritiro tutto. Oggi è proprio una giornata di merda.

Quando Aaron mise piede in casa sua, quella sera, si sentiva veramente esausto.
Si tolse subito le scarpe, lasciandole all'ingresso, poi si trascinò in cucina senza ancora accendere le luci; poggiò le chiavi e la borsa sul tavolo poi si diresse verso il frigo. Tirò fuori una birra, uscì fuori nel piccolo terrazzo e si accese una sigaretta.
Non era sua abitudine fumare, gli capitava giusto qualche volta, per alleviare lo stress. Aveva avuto la fortuna di non essere una di quelle persone che prendono subito il vizio, quindi se ne lasciava giusto qualcuna per i momenti di particolare tensione.
Ovviamente, sua madre non lo sapeva, altrimenti gli avrebbe fatto una testa enorme e non ne aveva la minima voglia. Era solo una debolezza innocente che si permetteva qualche volta.
Rimase appoggiato al davanzale, nella mano destra la sigaretta e in quella sinistra la bottiglia di birra, lo sguardo che scivolava lungo il panorama newyorkese, con tutte le sue luci che si inoltravano per chilometri e chilometri.
Aveva avuto la fortuna di trovare una buona casa a buon prezzo, e inoltre adorava la vista che gli offriva quel balcone. Il suo stipendio era buono, gli permetteva di vivere dignitosamente e concedersi anche qualche sfizio – certo, un aumento non gli avrebbe fatto schifo, questo è ovvio. Ma per il momento gli andava bene il suo lavoro, era quello che gli era sempre piaciuto fare, d'altronde.
Non aveva mai avuto problemi con esso, fino a quel giorno.
Aaron sbuffò e fece un altro tiro dalla sigaretta.
Alla fine, durante il resto della giornata, aveva pensato a centinaia di motivi e di scuse per cui avrebbe potuto tirarsi indietro senza che sembrasse chiaramente che aveva semplicemente paura di quella ragazza; ovviamente, non era arrivato a nulla. O, perlomeno, a nulla di sufficiente. Erano tutte cose troppo chiare che gli avrebbero causato non solo rimproveri da parte di Tom – di cui gli importava relativamente – ma anche problemi con Nevil; e non era il caso, per niente.
Si doveva semplicemente mettere in testa che così sarebbe andata: doveva stringere i denti e sopportare quella tizia, chiunque essa fosse. E, soprattutto, cercare di non avere paura di lei e di non farsi venire attacchi isterici durante il lavoro – quello sì che sarebbe stato poco piacevole.
Terminò la sigaretta e spense la cicca, lasciandola cadere nel vuoto in un comportamento molto poco da buon cittadino; rientrò dentro, accendendo la tv e continuando a bersi la birra.
Il brontolare del suo stomaco gli ricordò che non aveva cenato e, senza nemmeno controllare se ci fosse qualcosa di commestibile nel frigo – cosa che comunque dubitava considerando che si era dimenticato anche quella volta di fare la spesa – si risolse a chiamare per una pizza a domicilio.
Mentre telefonava distrattamente, dando le varie indicazioni, la sua mente correva in altri lidi.
Improvvisamente e senza alcun apparente motivo, gli era tornata in mente quella April.
Dopo l'evento di due giorni prima non ci aveva ancora pensato – cosa strana, dato che solitamente era uno di quei tipi che si crogiolava nelle proprie disgrazie.
Si ritrovò a riflettere come il destino fosse stato beffardo con lui: la stessa ragazza era quella a cui aveva “rubato” (per mantenere i suoi termini) la biancheria e anche colei che lo avrebbe dovuto intervistare per quella rivista dove, alla fine, non era riuscito a presentarsi.
Sembrava ridicolo.
A distrarlo da quei pensieri fu il telefono che prese a squillare.
Non controllò il nome e rispose direttamente.
«Pronto?»
«Oh, sei ancora vivo, perfetto»
La voce di Tom lo accolse con un tono di finto sollievo. Alzò gli occhi al cielo.
«Perché dovrei essere morto?» chiese, allungando una mano verso la tv per abbassare il volume.
«Ho pensato che ti fossi suicidato dalla disperazione» ironizzò Tom.
Aaron sbuffò.
«Non sono ancora arrivato a questo punto, ma continuando così non credo mi ci vorrà molto tempo» fece funereo.
Sentì Tom dapprima ridere divertito, poi la risata sfumò.
«Avanti, Aaron, non puoi far sì che questo problema condizioni anche il tuo lavoro! Vuoi mandare all'aria tanti sforzi per una cosa del genere?»
Tom aveva perfettamente ragione, e Aaron era conscio di questo. Infatti non lo nascose.
«Credi che non lo sappia? Come ho già ripetuto milioni di volte, non diverte nemmeno me questa situazione. Solo che non ce la faccio. Non riesco a non aver paura di loro, è una cosa incondizionata. Sai che significa “incondizionata”, Tom?» terminò con sarcasmo.
«Lo so che non te la crei tu. Ma io, ti giuro, non capisco perché non fai nulla per trovare una soluzione. Potresti andare da uno psicologo, ci hai mai pensato? Il fatto che tu vada lì non significherebbe che tu sia pazzo, ci vanno un sacco di persone»
Aaron si passò una mano tra i capelli, esausto. Ecco, aveva bisogno di una sigaretta.
«Non voglio andarci, semplice. Non voglio mettermi a parlare dei miei problemi con degli sconosciuti che mi tratterebbero con uno dei loro mille pazienti, archiviando informazioni su di me e sulla mia vita privata. È tanto difficile da capire?» spiegò.
Sentì il silenzio dall'altra parte del telefono.
«Capisco. Beh, allora non so proprio come aiutarti. L'unica cosa che potrei fare è costringerti ad una terapia d'urto, ma credo mi odieresti»
Aaron pensò per un attimo all'idea di “terapia d'urto” dell'amico; rabbrividì al solo pensiero.
«Sì, ti odierei» rispose categorico.
Tom rise divertito.
«Non preoccuparti, non sarò così bastardo»
«Grazie» rispose sarcastico Aaron.
«Comunque sia, ripensa a quello che ti ho detto; dovresti trovare qualcuno in grado di aiutarti. Provaci, ok?» concluse Tom.
«Va bene» disse solo Aaron.
«Ci vediamo domani, allora!»
«A domani»
Chiuse la telefonata con lo sguardo perso nel vuoto, la bottiglia di birra sempre in mano che si era un poco riscaldata.
Sospirò.
Sapeva che Tom l'avrebbe chiamato, tentando – inutilmente – di aiutarlo in quel suo problema. Aveva ragione però: doveva trovare qualcuno in grado di aiutarlo. Ma non voleva assolutamente andare da uno psicologo, non voleva raccontare i suoi problemi a uno sconosciuto; sarebbe stato più semplice se ad aiutarlo fosse stato qualcuno di cui lui si fidava, no? Qualcuno che magari non l'avrebbe giudicato, abbastanza forte da riuscire a coinvolgerlo ma non troppo da forzarlo.
Sospirò ancora.
Tutto ciò sarà molto difficile.
Il campanello suonò: era arrivata la pizza.

«Attenta quando entri, c'è uno-»
«Cazzo!»
Un tonfo.
«...dicevo, uno scatolone in mezzo»
April rise in maniera isterica mentre May accendeva la luce del soggiorno; era caduta a terra e con sé anche le due valige che tentava di trascinare.
Vide l'amica che la guardava dubbiosa – dubbiosa della sua sanità mentale evidentemente. E senza tutti i torti: April sembrava nel pieno di un principio di crisi isterica.
Ma proprio non riusciva a smettere di ridere: la situazione le sembrava così assurda e tragicomica che non sapeva se ridere o piangere. Nel dubbio, rideva.
«April, tesoro, andiamo. Alzati, e aiutami a portare questa valigie in camera» disse May paziente.
Ma April non smetteva di ridere.
«April?» insistette May, fino a quando la bionda non smise spontaneamente di ridere.
Mentre il petto le si alzava e abbassava velocemente in cerca di respiro, April si alzò faticosamente.
Era stanca e depressa, e anche molto stressata; ecco come sfogava tutto ciò: ridendo per una stupidaggine.
«Scusa, va tutto bene» disse alla fine; si chinò a prendere le valige che le erano scivolate e le tirò su con un po' di fatica.
Notò May che le lanciava un'occhiata dubbiosa – non ci credeva nessuna delle due al suo “va tutto bene” - e la guidò verso la piccola stanza per gli ospiti che l'appartamento di May possedeva.
Ecco, April inividiava l'amica anche per questo – con affetto, ovvio – lei aveva un buon lavoro fisso che le consentiva di affitare un appartamento degno di questo nome, anche con una stanza per gli ospiti. Inoltre, per come stavano andando le cose tra lei e Matthew, c'era anche qualche speranza che in un futuro non troppo lontano si potessero trovare anche una casa più grande insieme.
Alla vita dell'amica non mancava proprio niente – e, di certo, April non la odiava per questo. Semplicemente, si limitava a invidiarla in silenzio ma a essere felice per lei di quello che aveva.
La stanza per gli ospiti non era tanto grande, ma andava più che bene per le necessità che si ritrovava ad avere in quel momento April: era sempre meglio di doversi cercare un hotel a basso prezzo per dormire con un tetto sopra la notte.
Nell'angolo in fondo a sinistra c'era un letto a una piazza e mezzo con un copriletto verde scuro, affianco, nella parete opposta all'entrata, una finestra piuttosto grande che faceva entrare una buona luce, appena coperta da una semplice tenda bianca. Nell'angolo a destra, invece, un armadio a tre ante bianco era praticamente vuoto, se non per alcune coperte in uno scompartimento in alto.
L'unico altro elemento presente era un comodino affianco al letto, anch'esso bianco e abbinato all'armadio.
April si trascinò dentro con le valige.
«Beh, conosci perfettamente questa stanza e anche la casa, quindi ovviamente fai come se fossi a casa tua. Sposterò alcune delle mie cose nel mobiletto in bagno per lasciarti dello spazio, va bene?» May la guardò sorridente mentre diceva quelle parole.
April, senza dire una parola, si sedette sul letto.
Ecco, lo sentiva, il fastidioso nodo alla gola che le impediva di parlare, gli occhi umidi che cercò di nascondere chianando la testa e coprendoseli con la frangia.
Una goccia d'acqua cadde sui suoi occhiali, e da lì in poi non riuscì più a fermare tutte le altre. Iniziò a piangere mentre i singhiozzi le scuotevano il petto.
«Tesoro...»
La voce di May le giunse quasi lontana presa com'era dalla sua disperazione personale.
Sentì l'amica che le si sedeva affianco nel letto, poi le sue mani che le cingevano la schiena e il familiare profumo dell'amica che le invadeva le narici. Sentendosi protetta da quelle braccia familiari, i singhiozzi diminuirono.
«Dai, non c'è bisogno di piangere. Non è successo niente, è solo un po' di sfortuna. Vedrai che in poco tempo metteranno a posto la casa e potrai tornarci subito» la consolava May.
No, no, non è solo questo, pensava in preda alle lacrime April.
La verità era che stava sfogando tutta la tensione e il malumore di quegli ultimi giorni nell'unico modo che lei conosceva: il pianto. Poi, ovviamente, il problema della casa non aveva giovato proprio per niente: era stata la cosiddetta goccia che fa traboccare il vaso.
«Non è solo questo...» iniziò, tirando su con il naso in maniera molto poco da lei. Sollevò gli occhi verso l'amica mentre, per un attimo, il pensiero di come si dovesse essere sciolto il trucco la sfiorava.
«E cosa, allora?»
«Tutto questo periodo mi sembra che vada malissimo. Il lavoro che non migliora mai – non so neanche se riuscirò a vincere lo stage, con la fortuna che mi ritrovo prenderanno loro due ed escluderanno solo me. Questo, inoltre, insieme alla paura di non trovare mai più un lavoro; e tu sai che io non posso tornara a casa... Non posso andare da mia mamma e chiederle aiuto» balbettò quest'ultima frase, lanciando uno sguardo all'amica con una strana sfumatura disperata.
May sospirò.
«Lo so, lo so. Ma vedrai che andrà tutto bene. Ti stai impegnando e stai ottenendo risultati. Vedrai che il posto sarà tuo» le disse.
«E se non è così?»
Lanciò un'occhiata preoccupata alla mora.
«E se non è così – cosa che dubito, comunque – troverai lavoro in una rivista anche migliore» le rispose convinta l'amica.
April fece un debole sorriso che si adombrò subito.
«Ma non va male solo il lavoro... Anche la mia vita sociale va a rotoli. Non sono in grado di tenermi un uomo!» piagnucolò.
«Oh, avanti April! Per stare bene non hai bisogno di avere un uomo al tuo fianco! Se loro fuggono da te non è colpa tua, sono semplicemente loro delle teste di cazzo. E tu sei fantastica così come sei, di certo non devi cambiare solo perché vuoi stare con qualcuno. La persona giusta è quella proprio che sta con te per come sei, non per come vorrebbe che fossi. E, ripeto, capisco che per te possa essere importante stare insieme a qualcuno e avere una relazione stabile ma hai solo ventitre anni, non puoi pretendere di trovare l'amore della tua vita ora! Pensa a divertirti!» si infervorò May.
April sapeva che aveva ragione. Insomma, aveva appunto solo ventitre anni, non avrebbe dovuto pensare ad avere una relazione stabile che avrebbe potuto portare anche a qualcosa di più serio, le sarebbero dovute andare bene le occasioni così come le capitavano – eppure attorno a lei vedeva solo coppie stabili, e per lei che non aveva mai vissuto una cosa del genere tutto ciò bruciava fin troppo.
Insomma, era normale desiderare un ragazzo – un uomo con cui telefonarsi la sera, con cui uscire a cena, con cui dormire insieme e non solo finire a letto come le capitava sempre. Non chiedeva la relazione della sua intera vita, solo qualcosa di più serio di tutto quello che aveva avuto fino a quello momento, che di serio aveva in comune solo la “s” di “sesso”.
Ma non disse tutto quello a May, anche perché ne avevano già parlato ed era futile ripetere tutti i suoi pensieri. Sapeva che l'amica era a conoscenza di ciò che le frullava nella testa, ma in qualità di amica doveva farle vedere i lati positivi della sua situazione, che iniziavano e terminavano solo nell'indipendenza e nel divertimento che tutto ciò procurava.
«Lo so» disse solo.
Rimasero per un po' in silenzio, semplicemente una vicina all'altra, perché tra amiche in certe situazioni non servono parole. La presenza una dell'altra era sufficiente per stare meglio.
«Ora riprenditi. Vai in bagno, sciacquati la faccia, mettiti il pigiama e, se hai voglia, dai una sistemata alle valige. Io inizio a preparare la cena» disse May, alzandosi in piedi e accarezzandole un'ultima volta la testa «E non preoccuparti. Ho il vino» le disse infine con un sorriso ammiccante.
April le sorrise divertita.
«Spero che tu abbia più di una bottiglia, perché una non sarà minimamente sufficiente per togliermi questa depressione» replicò.
May rise.
«Ho quanto basta!» le rispose, poi uscì dalla stanza lasciandola sola.
Mentra la sentiva entrare in cucina e iniziare a tirare fuori piatti e pentole – e, soprattutto, bicchieri – si lasciò cadere nel letto.
Aveva ragione May, come sempre. Non doveva deprimersi in questo modo, e tanto meno aveva bisogno di un uomo per sentirsi completa.
Ma, ovviamente, non era così semplice.

  
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