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Autore: CaptainKonny    21/02/2017    5 recensioni
"Quando hai accettato la tua vita e sei pronta ad affrontare il tuo futuro.
Quando ti senti abbastanza forte, credendo che il passato non potrà mai tornare a farti del male.
...E poi arriva uno psicopatico a smontare il tutto."
***
Mi chiamo Serena Brooks e Aaron Hotchner è mio padre...e si è appena fatto rapire dal mio prossimo S.I.
Il vero problema è che io non voglio avere niente a che fare con mio padre.
***
[Dal testo della canzone "Daddy's little girl": Daddy, daddy, don't leave/I'll do anything to keep you right here with me/I'll clean my room, try hard in school/I'll be good, I promise you/Father, Father, I pray to you]
***
Un ringraziamento speciale ad una persona molto importante che ha contribuito alla revisione della storia una volta ultimata.
Genere: Azione, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Aaron Hotchner, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: Missing Moments, Movieverse, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 9

 
“Ma griderai, sul silenzio della pioggia
È rancore e mal di testa, su una base un po’ distorta
Ti dirò, siamo uguali come vedi
Perché senza piedistalli, non riusciamo a stare in piedi”
 
POV. SERENA

Nel momento in cui l’S.I. iniziò a pormi le domande un brivido freddo mi percorse da capo a piedi. Ero terrorizzata. Dovevo dire la verità o mentire? Rossi aveva detto di tenerlo al telefono il più a lungo possibile. Optai per la verità, senza scendere troppo nel dettaglio, dandogli qualcosa di cui parlare; in fin dei conti non poteva sapere cosa fosse vero e cosa no. Quello che non avevo messo in conto era l’effetto che quella discussione avrebbe avuto su di me. La sua voce mi ricordava il moto oscillatorio del serpente e ne ebbi paura. Più tentavo di essere forte e più mi sentivo vacillare. Quando poi mi permise di parlare insieme a mio padre mi sembrò di tornare con i piedi per terra, era la mia roccia. Quella voce così conosciuta, così familiare, così rassicurante, che per molto tempo mi era stata vietata, che avevo persino avuto paura di dimenticare, ora era lì. Non sembravano passati anni ma minuti dall’ultima volta che l’avevo sentita. Se avevo avuto paura di dovermi confrontare con lui, in quel momento mi resi conto che era proprio questo riavvicinamento a ridarmi il controllo che avevo rischiato di perdere. Andò tutto bene, finchè non iniziarono le domande. Gli scheletri nell’armadio rivelati, i ricordi riesumati. Non mentii, non sarebbe servito a nulla. Il problema è che la verità fa male. Fu lui a parlare, io dovetti soltanto rispondere e il primo “sì” che pronunciai fu la mia discesa nel baratro. Tutto quello che aveva detto prima era stata solo la premessa, in modo tale da coinvolgermi nella conversazione, quello che un agente non dovrebbe mai fare; ma come avrei non potuto farlo? Ero ancora sua figlia. Io ero la mosca intrappolata nella ragnatela del ragno. Se ero arrabbiata con mio padre? Certo che lo ero. Se avessi voluto che lui sapesse come mi ero sentita in quegli anni? Certo che lo volevo. Ero sempre stata convinta che se lui avesse saputo come mi sentivo realmente, non sarebbe andato via, mai più. L’S.I. questo doveva averlo calcolato, chiunque con un briciolo di intelligenza ci sarebbe arrivato. Sentii mio padre in sottofondo che mi urlava di non ascoltarlo, che chiamava il mio nome. Avevo un masso legato alla caviglia che mi stava portando a fondo. Questa era una sorta di resa dei conti in cui eravamo coinvolti tutti e tre: mio padre, l’S.I. e io. McGrant ci stava obbligando a rivivere il nostro passato per distruggerci, io in fondo volevo questo confronto perché avevo bisogno una volta per tutte che le cose venissero messe in chiaro. Per questo non potei dar retta a mio padre a prescindere, ignorando le parole del rapitore.

I profiler capirono subito che qualcosa non andava nel momento in cui l’S.I. si concentrò su di me. Divennero tesi e nervosi e questo non mi aiutò. L’ultima domanda fu la goccia che fece traboccare il vaso: il mio cervello era in panne, ero completamente estranea a tutto ciò che mi circondava. Quando risposi mi sentii più leggera, libera di esprimere una verità taciuta troppo a lungo. All’ultima domanda fui bruscamente riportata alla realtà, con il saluto del rapitore ancora nelle orecchie. L’agente Morgan mi strappò il telefono di mano, il suo sguardo mi squadrava come se li avessi traditi tutti. Beh, forse in un certo senso aveva ragione. Subito quel senso di vuoto e leggerezza venne sostituito da un lancinante dolore allo sterno, come se mi stessero strizzando il cuore dall’interno. Non riuscivo a concentrarmi su nient’altro ad eccezione di quel dolore.

-Ma che ti dice il cervello? Eh, si può sapere? Mi stai ascoltando?- le grida di Morgan mi giungevano distorte e lontane, cercavo di metterle a fuoco, ma non ci riuscivo. A malapena mi accorsi di avere le mani arpionate al bordo della scrivania con tanta forza da far sbiancare le nocche.
-Hai intenzione di consegnare Hotch nelle mani del rapitore? È questo quello che vuoi?- la testa mi girava pericolosamente.

-Garcia, hai rintracciato la telefonata?- persino Rossi che parlava con Penelope, sembravano lontani anni luce. Lo stomaco iniziò a fare le capriole.

-Serena? Mi senti?- spostai con fatica lo sguardo oltre il mio attuale campo visivo; JJ mi guardava con aria estremamente preoccupata –Ti senti bene? Serena?- mi fiondai in bagno.

Le mie gambe si mossero da sole, senza aspettare ulteriori incentivi. Mi ritrovai inginocchiata davanti al water, tirando su tutto quello che avevo nello stomaco, il che non era molto. La nausea e i conati continuarono a lungo, sebbene la sostanza fosse sempre di meno. Forse la verità era che quello che realmente avrei voluto espellere non poteva abbandonarmi.
Lo stomaco aveva cessato di fare capriole, ma la testa faceva così male che temetti stesse per esplodermi, il petto doleva a tal punto che faticavo a respirare, il mondo che continuava a oscillarmi davanti agli occhi sebbene con minor intensità. Presi un po’ di carta igienica e mi diedi una pulita prima di tirare lo sciacquone. Fu allora che mi accorsi di avere le guance tutte bagnate; avevo iniziato a piangere senza rendermene conto. Adesso tutto acquistava un significato diverso, la telefonata mi si ripresentò nuda e cruda, proprio come io poco prima non ero stata in grado di interpretarla. L’agente Morgan aveva ragione. Non mi ero mai sentita così male in tutta la mia vita. Per la prima volta mi lasciai andare, facendomi travolgere dal dolore, abbandonandomi ad un pianto liberatorio. C’ero solo io.

Non sentii l’agente Jereau aprire la porta della toilette, non la vidi in piedi davanti a me.
-Come stai?- non sembrava un tono d’accusa, ma avvertii una certa spigolosità in quella domanda; cercava di essere gentile perché in quel momento dovevamo assolutamente restare uniti se volevamo vincere, malgrado quello che era successo. Quello che avevo combinato. Non sollevai lo sguardo per incontrare il suo, sapevo che sotto sotto anche lei era irata con me, tutti lo erano, anche io e la colpa di tutto era solamente mia. Buffo, eppure non riuscivo a riderne.

-Secondo lei?- non potrò mai cambiare il mio carattere, cercando di sembrare forte quando anche un cieco capirebbe che di forte in me non è rimasto nulla. Dentro di me c’era ancora una bambina che faceva i capricci per riavere suo padre indietro, ma era veramente uno sciocco capriccio come tutti continuavano a volermi far credere? Non ne ero mai stata tanto sicura.
JJ si spostò per il bagno tirato a lucido e poco dopo mi porse un panno bagnato. I suoi occhi erano fermi, ma non di cattiveria. Era una donna forte, che ne aveva viste tante, irritata per quello che era successo, ma ancora convinta di potercela fare; Jennifer Jereau non avrebbe mai mollato. Accettai il suo muto invito, prendendo la salvietta per ripulirmi un poco il viso e alzandomi dal pavimento per spostarci nella zona lavandini. Mi appoggiai al ripiano in marmo, evitando di guardarmi allo specchio. Avevo visto una fugace immagine di me stessa e non mi era piaciuta. I minuti che seguirono parvero eterni, un momento di stallo in tutta quella tempesta; avrei voluto durasse per sempre.

-Perché hai detto quelle cose?- ovvio volesse saperlo, ma ero pronta a darle le risposte che disperatamente stava cercando di capire solo guardandomi?

-Ha importanza?- non riconobbi la mia voce, non mi ero mai ridotta in uno stato simile.

-Molta e lo sai anche tu.- mantenne la calma, se i toni si fossero surriscaldati non saremmo mai venuti a capo di questa conversazione. Altro silenzio. –Era la verità?-

Sapevo a cosa si riferiva: quello che aveva detto l’S.I., le risposte che gli avevo dato. L’avevo sempre saputo, dal momento che Prentiss e Reid avevano varcato la soglia del mio rifugio, che questa storia mi avrebbe portato a questo punto, era inevitabile. Ora JJ doveva sapere, tutti loro dovevano. Basta tirarsi indietro e scappare, aspettando che Jack, la mamma…o il papà mi venissero a salvare.

-Sai, la prima volta che litigai con mio padre avevo quattro anni.-
 

(FLASHBACK)

Era in camera sua a giocare con i pastelli colorati, le piaceva disegnare. L’albero fuori dalla finestra si muoveva con la brezza leggera, creando ombre con i raggi del sole sulla moquette. Jack era alla festa di compleanno di un suo amichetto, lei e la mamma sarebbero andate a prenderlo più tardi. Fu un tonfo sul pavimento, oltre la porta della cameretta, ad attirare la sua attenzione. Appoggiò la matita rossa sul libro, in modo da non perdere il segno e si alzò, andando ad affacciarsi sul pianerottolo. C’era qualcuno nella camera dei genitori. Guidata dall’istinto entrò, guardandosi in giro; raramente lei e Jack vi entravano, era un posto speciale in cui si entrava pochissime volte e quando questo accadeva di solito c’erano coccole in abbondanza per entrambi i fratellini. Quel momento però era diverso, Serena lo capì subito. Il papà non si era ancora accorto di lei, aveva il viso corrucciato come quando lo vedeva in televisione mentre era via per lavoro. Con loro non usava mai quell’espressione, anzi sorrideva molto spesso; il suo papà aveva un sorriso bellissimo. Lo osservò preparare i vestiti con cura dentro il borsone appoggiato sopra il letto.
Aaron Hotchner si stava preparando per partire un’altra volta verso un nuovo caso. Nella sua mente esperta informazioni e metodi su come gestire la cosa andavano accavallandosi uno sull’altro. Fu la voce di sua figlia a riportarlo nella camera da letto.

-Cosa stai facendo papino?-

Aaron si bloccò un istante, sollevando lo sguardo sulla sua bambina dall’altra parte del lettone e la sua espressione mutò un poco; non riusciva a restare così serio davanti al suo piccolo angelo. Qualcosa di mosse dentro di lui facendolo sentire in colpa. Come ogni volta aveva agito d’istinto, andando a colpo sicuro, dimenticando che adesso doveva fornire le giuste spiegazioni a quella creaturina dai grandi occhi verdi. Che ancora una volta lo avrebbe visto partire. Che ancora una volta non avrebbe capito. Serena aspettava, paziente. A lei piaceva guardare il suo papà, era il suo eroe. Il suo album da disegno era pieno di omini stilizzati a pennarello che rappresentavano il suo papà: alcuni con un mantello come Superman, altri con macchine e pistole come Batman.

-Ascolta tesoro, papà deve andare al lavoro adesso.-

-Ma Jack non è ancora tornato.- Aaron sospirò, non era mai facile. Quegli occhioni lo mettevano a dura prova, ogni volta.

-Pensi che potrai salutarlo tu da parte mia?- di solito Serena era molto accondiscendente nei suoi confronti, tuttavia quel giorno il suo sguardo si rabbuiò e al profiler questo non passò inosservato.

-Jack si arrabbia se non lo saluti.- il padre la guardò con occhio critico; cosa stava macchinando quell’astuto cervellino?

-Davvero?- la bimba annuì con il capo, occhi negli occhi con il genitore –E’ Jack che si arrabbia o sei tu che sei arrabbiata?-

Aaron osservò Serena avvicinarsi e toccare distrattamente il suo borsone.

-Non è giusto.-

-Cosa non è giusto?-

-Che vai via sempre.- il padre sospirò dal naso.

-Tesoro te l’ho già detto, questo è il mio lavoro. Ci sono persone che hanno bisogno di aiuto.-

-Può aiutarli qualcun altro.-

-Non è così semplice.-

-Sì, invece!- alzò la voce la figlia, picchiando con un piede sul pavimento mentre lo gridava, truce in volto.

-Ehi, signorina! Che modi sono?-

-Non è giusto. Non sei mai a casa. Vai sempre via.- il suo tono era smorzato, le lacrime non doveva essere molto lontane.

-Vedrò di tornare presto.-

-No!- urlò ancora pestando i piedi.

-Ehi ehi! Cos’è tutto questo baccano? Aaron hanno chiamato i tuoi colleghi, volevano sapere dov’eri.- in quel momento Haley entrò nella stanza, attirata dalle grida della figlia di solito tranquilla; a parte quando litigava con il fratello.

-Adesso vado, grazie.- le rispose il marito in tono calmo, caricandosi il borsone in spalla.

-No! Mamma diglielo tu che non deve andare! Diglielo!- diceva ad alta voce la bambina. I due genitori si guardarono, cercando di comunicare quello che a parole non potevano dire. Haley si inginocchiò all’altezza della figlia.

-Serena, lo sai che il papà per lavoro deve andare via spesso.-

-Sì, ma lui è sempre via.-

-Credimi tesoro, anche lui vorrebbe restare sempre a casa con noi.-

-Davvero?- Serena si voltò verso il padre, gli occhi gonfi di lacrime.

-Certo piccola.- le rispose lui.

-E allora resta. Ti prego papino, non andare.- e gli afferrò una mano tra le proprie minuscole, con fare implorante.

-Non posso piccola, non è così che funziona.- le disse mentre le stringeva le manine in quella che voleva essere una stretta rassicurante.

-Ho fatto qualcosa di sbagliato? Sono stata cattiva?-

-Certo che no, amore.- rispose Haley.

Il telefonino di Hotch prese a suonare, era la squadra.

-Non litigherò più con Jack te lo prometto, ma resta qui.-

-Chi era?- domandò Haley. Serena si sentiva inutile, ignorata, nessuno la ascoltava. Perché non la ascoltavano? Perché il suo papà non le dava retta? Perché i suoi colleghi continuavano a chiamarlo? Era lei la sua principessa non loro.

-I ragazzi, devo andare.- tagliò corto Aaron, attraversando la stanza.

-Noo! Papà non andare! NON ANDARE!- ma nessuno sembrava volerla ascoltare.

Lo seguì fino alle scale, il padre scese, lei rimase in cima mentre lui faceva finta di niente. Se era arrabbiata? Eccome se lo era. Mai stata così tanto arrabbiata con il suo papà come in quel momento.

-TI ODIO! Vai via! Non ti voglio più vedere! Non ti voglio più vedere!- poi scappò in camera sua sbattendo la porta.

Haley ed Aaron si scambiarono uno sguardo carico di comprensione e rammarico, sapevano che prima o poi sarebbe dovuto accadere, non era stato piacevole ma un giorno avrebbe capito.
Serena era seduta in parte alla finestra ancora arrabbiata, le lacrime continuavano a scendere senza più fermarsi. Come aveva potuto suo padre andare al lavoro anziché restare con lei? Non capiva quanto lei avesse bisogno di lui? Osservò la sua macchina allontanarsi, pensando a quando sarebbe tornato. Aveva detto che avrebbe fatto presto, lo aveva promesso. Il tempo di vedere la macchina sparire oltre la curva e la porta della sua camera si aprì. Serena portò lo sguardo sul viso della madre.

-Perché è andato via?-

-Perché ci sono delle persone che hanno bisogno di lui.-

-E noi? Anche noi abbiamo bisogno di lui. Non ci vuole più bene?-

-No tesoro, quello no. Papà ci vuole un mondo di bene, a tutti noi. Il fatto è che il suo lavoro è complicato. Ma non devi mai dubitare del bene che ci vuole.-

Serena tornò a guardare fuori dalla finestra senza dire nulla. Haley si avviò verso la porta, felice almeno che le acque si fossero calmate. Ma prima che potesse uscire…

-Mamma?- tornò a voltarsi a guardare la figlia –Non è vero che lo odio.- Haley sorrise, nascondendo le lacrime che anche lei si era lasciata sfuggire.

-Lo so tesoro, lo so.-

(FINE FLASHBACK)

 
-Mi dispiace.- la voce di JJ mi giunse nitida e chiara, mentre ancora i miei occhi rivivevano quella scena.

-Quella fu la prima volta in cui credetti veramente che mio padre volesse più bene a voi che alla sua vera famiglia.- dissi di rimando, incrociando finalmente lo sguardo con quello cristallino della mia collega.

-Sai Serena, conosco Hotch da prima che tu e Jack nasceste. È vero, è stato un punto di riferimento per tutti noi, me compresa. Forse il paragone ti sembrerà un po’ ortodosso, ma è stato più di un semplice capo, si è comportato come un padre con la propria famiglia. Con gli anni questo lavoro ha obbligato ciascuno di noi a uscire allo scoperto, a fare i conti con il proprio passato. E Hotch era lì, a darci una mano, lo è sempre stato. Ma non ha mai, e dico mai, confuso l’affetto per i colleghi con l’amore per la propria famiglia.- ed eccola, la leonessa che tirava fuori gli artigli –Io c’ero quando tua madre è morta e tu e Jack eravate solo dei bambini. Io c’ero quando è morto Jack e tu ancora non riuscivi a capire cosa fosse successo. Io c’ero quando tuo padre ha preso la difficile decisione di non averti accanto ogni giorno della sua vita. E credimi se ti dico che neanche per lui è stato facile.- un sorriso triste e comprensivo mi si disegnò sulle labbra.

-Provi a spiegarlo ad una bambina di quattro anni.- anche JJ vacillò, di certo non si era aspettata che entrando con me in quel bagno sarebbe stata catapultata insieme a me nel mio passato. Presi un lungo respiro.

-Quando quella volta mio padre tornò a casa ebbi paura della sua reazione, che potesse ancora avercela con me. Ma lui era contento, come sempre. Ed io ero felice che lui fosse tornato; aveva mantenuto la promessa.-…-Non gli chiesi mai scusa per quello che agli avevo detto il giorno della partenza. Non ne facemmo più parola.-

-Ma tu non te lo sei mai perdonato.- concluse JJ. Mi sfuggì un sorriso ironico.

-Già. Sai JJ, non è mai…stato facile, per nessuno di noi. Dopo tutti i litigi che ebbe con mia madre, dopo tutte le volte che l’ho visto uscire da quella porta per rientrare dopo giorni…o settimane. Avrei dovuto capirlo, ma ero troppo piccola.-

-Eri solo una bambina, nessuno avrebbe potuto aspettarsi nulla di diverso da te.- altro sorriso amaro.

-Non hai idea di quante volte abbia sentito queste parole: da mia madre, da mio padre, mia zia, gli agenti…tutti. Chiunque conosca anche in minima parte il mio passato ha sempre detto la stessa cosa. Eppure, per un qualche assurdo motivo, non mi è sufficiente. Non riesce a farmi star meglio in alcun modo.-

-Probabilmente per te non è abbastanza come sicurezza. Vorresti una qualche prova in più.-

-E’ quello che ho sempre pensato. Sono andata avanti con la speranza che sarei riuscita a trovare le risposte che mi servivano. Il fatto è che quelle risposte non le ho mai trovate, neanche adesso. Mi era rimasto solo un padre sempre più assente.-

Il silenzio tra noi fu decisivo, eravamo giunti alla conclusione di quella discussione; e a me spettava l’ultima parola.

-Mi hai chiesto se penso davvero quello che ho detto. In parte. Era anche ciò che l’S.I. voleva sentirsi dire. Se voglio vedere mio padre morto? Questo non glielo permetterò. Nessuno farà del male a mio padre.-

Non ero mai stata decisa come in quel momento.
 
“Comunque andare perché ferma non so
Stare
In piedi a notte fonda sai che mi farò
Trovare
Non mi importa se brucio i secondi le ore.
E voglio sperare quando non c’è più niente da fare
Voglio esser migliore finchè ci sei tu
E perché ci sei tu da amare.
Dimmi se mi vedi e cosa vedi
Mentre ti sorrido io coi miei difetti ho
Radunato paure e desideri”

 
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